PARADISO
Al p. perduto delle origini (v. Adamo ed Eva), risponde, per il cristianesimo, la promessa di un p. celeste nel quale gli eletti saranno riuniti a Dio per una vita eterna.Nel latino biblico, il termine paradisus designa essenzialmente il giardino dell'Eden, mentre il destino celeste annunciato da Cristo è definito come Regnum Dei o Regnum coelorum (Mt. 25, 1-46), oppure sancta civitas Ierusalem nova (Ap. 21, 2) o sinus Abrahae (Lc. 16, 22). In seguito, progressivamente, presso i teologi e i predicatori, paradisus divenne un equivalente frequente di queste espressioni per designare il luogo opposto al destino infernale dei peccatori. Se il p. celeste si definisce essenzialmente come luogo divino e angelico (v. Angelo), evocato talvolta in modo ornamentale (v. Cielo), in questa sede si tratterà soprattutto del p. inteso come luogo di ricompensa degli eletti.Nell'iconografia possono essere distinti due tipi di contesti tematici. Le immagini del Giudizio universale o dell'eternità che con questo si inaugura mostrano gli eletti nell'atto di accedere, nei loro corpi risuscitati, allo stato di completa perfezione. D'altra parte il p., anche senza parlare della sua configurazione originaria sconvolta dalla Caduta degli angeli ribelli (v. Diavolo), può evocare il destino degli eletti tra il momento della morte e il Giudizio universale (parabola di Lazzaro; raffigurazioni non escatologiche dell'aldilà, illustrazioni dell'Apocalisse, in particolare l'Adorazione dei ventiquattro vegliardi, o ancora Ap. 7, 4-12; 14, 1-5; v. Apocalisse). Il destino paradisiaco dell'anima trova per primo una sua espressione visiva nella seconda metà del sec. 12°, giacché i dipinti delle catacombe o i sarcofagi paleocristiani mostrano l'anima raffigurata come un'orante nel giardino paradisiaco o anche in presenza di una figura divina. Comunque, già all'inizio del sec. 9°, in conformità a una cronologia che vale per l'insieme delle figurazioni dell'aldilà, l'immagine del p. conobbe un sensibile sviluppo, concernente anche il p. eterno dei risuscitati. Si possono allora distinguere quattro tipi principali di raffigurazioni del p., tra loro differenziate, anche se sovente associate.
Legato al senso originario del termine paradisus 'recinto', 'giardino' o, seguendo Agostino, nemorosus locus, ossia 'luogo pieno di alberi' (De Genesi ad litt., XII, 34, 65), la raffigurazione del p. celeste come luogo di vegetazione manifesta una relazione essenziale tra p. celeste e p. terrestre. Per gli esegeti, il p. di Adamo è figura del p. celeste degli eletti (Grimm, 1977): la storia dell'umanità è destinata a chiudersi a cerchio, in maniera che la speranza del p. che anima gli uomini in terra si nutra del desiderio di un ritorno alla perduta felicità delle origini. Il p.-giardino degli eletti può venire rappresentato nell'immagine della parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte - per es. nell'Evangeliario di Rossano, del sec. 6° (Rossano Calabro, Mus. Diocesano, c. 2v) - o più spesso in occasione del Giudizio universale: gli alberi sono talvolta i soli elementi di connotazione paradisiaca - così nell'affresco della fine del sec. 11° in Sant'Angelo in Formis (prov. Caserta) o nel libro di preghiere di Ildegarda di Bingen, della fine del sec. 12° (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 935, c. 72r) -, ma gli ambienti vegetali sono più spesso associati a un altro motivo paradisiaco, in particolare il seno d'Abramo, come nel mosaico della cattedrale di S. Maria Assunta a Torcello e, più in generale, nella tradizione bizantina, attestata per es. in un evangeliario della metà del sec. 11° (Parigi, BN, gr. 74, c. 145v). Nelle scene del Giudizio universale di ispirazione bizantina la presenza della porta del giardino dell'Eden, cui monta la guardia un serafino, conferma l'associazione dei due p.; allo stesso modo, nelle Cantigas de Santa María di Alfonso X il Saggio, re di Castiglia e di León (1252-1284), della fine del sec. 13°, la Vergine apre la porta del p., chiusa da Adamo ed Eva (Escorial, Bibl., T.I.1, c. 88v). Lo stesso accade per i quattro fiumi paradisiaci, talvolta associati al p. degli eletti, come nel perduto Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg, eseguito intorno al 1180 (già Strasburgo, Bibl. Mun.; una copia a Parigi, BN, Cab. Estampes, Fonds Bastard, A d 144 a; The Hortus Deliciarum, 1979, c. 263v): il loro uso celeste si giustifica sia grazie all'esegesi che li leggeva come figura simbolica dei quattro evangelisti che procedono da Cristo sia per un avvicinamento tipologico con il fiume di vita che irriga la Nuova Gerusalemme (Ap. 22, 1).
La concezione del soggiorno dei giusti dopo la morte come una riunione al patriarca Abramo, in qualche caso accompagnato da Isacco e da Giacobbe, compare negli apocrifi ebraici come il IV Libro dei Maccabei, ma soprattutto in tre passi dei vangeli, il più importante dei quali è la parabola di Lazzaro (Lc. 16, 19-31; anche Mt. 8, 11 e Lc. 13, 28). Dopo la morte, Lazzaro è condotto dagli angeli nel seno d'Abramo (in sinum Abrahae), ove riceve la sua consolazione, mentre il ricco, precipitato all'inferno, implora invano la misericordia del patriarca. Il seno d'Abramo divenne un'evocazione privilegiata del destino paradisiaco dei giusti, in particolare nella liturgia dei defunti: nei più antichi rituali funerari (secc. 7°-8°) e durante tutto il Medioevo si pregava perché l'anima dei defunti avesse accesso al riposo nel seno del patriarca o dei patriarchi. Se alcune espressioni legate al seno d'Abramo (refrigerium, requies) suggeriscono una beatitudine inferiore a quella di cui sono destinati a beneficiare gli eletti al Giudizio universale (v.), i teologi si adoperarono generalmente per sottolineare il valore celeste e propriamente paradisiaco del seno d'Abramo; se esso designa prevalentemente un luogo per le anime, è anche spesso assimilato al p. supremo, in particolare nelle meditazioni monastiche dei secc. 11°-12° e più ancora nei testi della Scolastica del 13° secolo. La trasposizione in immagine del seno d'Abramo, in un primo momento legata alla parabola di Lazzaro, fece la sua comparsa in area bizantina, come attesta un codice delle Omelie di Gregorio Nazianzeno, intorno all'886 (Parigi, BN, gr. 510, c. 149r), e un secolo più tardi in Occidente, nei Vangeli di Liuthar, intorno al 990 (Aquisgrana, Domschatzkammer, c. 364v). A partire dal sec. 11° il motivo conobbe un grande sviluppo e si affermò, da solo o associato ad altri, come il principale modo di rappresentazione del p., almeno fino agli inizi del 14° secolo. Se in ambito orientale il suo successo fu duraturo, in Occidente conobbe invece un declino dovuto alla concorrenza di altre forme di rappresentazione; pur senza scomparire completamente, venne relegato in contesti più specifici (illustrazioni della parabola nei libri d'ore, lastre tombali).Le scelte figurative confermano la forte valorizzazione del seno d'Abramo. Nel contesto della parabola, frequente nella miniatura (Wolf, 1989), ma anche nell'arte monumentale soprattutto in epoca romanica, il seno d'Abramo è nettamente separato dall'ambito infernale, come nei dipinti, databili intorno al 1130, di Saint-Martin a Vicq (dip. Indre), e il carattere celeste del luogo è spesso indicato da segnali quali l'arcobaleno su cui troneggia Abramo o i nembi che lo circondano, come alla fine del sec. 12° nella Bibbia di Manerius (Parigi, Bibl. Sainte-Geneviève, 10, c. 128v) o negli anni 1215-1225 nelle vetrate della cattedrale di Saint-Etienne a Bourges. Altrove, il seno d'Abramo evoca la sorte collettiva delle anime, senza essere legato al contesto della parabola - per es. nel timpano del sec. 12° della Grote Kerk, dedicata a s. Michele, a Zwolle nei Paesi Bassi; negli affreschi della lunetta interna della porta d'ingresso del S. Pietro al Monte a Civate, databili agli ultimi anni del sec. 11° o agli inizi del successivo, e in quelli del 1263 nell'oratorio di S. Pellegrino a Bominaco -, e beneficia talvolta di un modello che evoca la Maiestas Domini, come mostrano il Salterio di Bury St Edmunds, del 1040 ca. (Roma, BAV, Reg. lat. 12, c. 72r), e il necrologio di Obermünster, del 1180 ca. (Monaco, Bayer. Haupstaatsarch., Oberm. 1, c. 74v). Infine, il seno d'Abramo compare nel contesto del Giudizio universale, nelle prime rappresentazioni orientali - quali le pitture della cappella nr. 2b della necropoli di Göreme in Cappadocia, della metà del sec. 10°, o quelle della Panaghia ton Chalkeon a Salonicco, del 1028, o ancora di un evangeliario (Parigi, BN, gr. 74, cc. 51v, 93v) -, ma solamente a partire dalla fine del sec. 11° in Occidente (affresco della metà del sec. 12° della controfacciata del S. Michele a Oleggio; mosaico della cattedrale di Torcello; timpano del portale occidentale della prima metà del sec. 12° dell'abbaziale di Sainte-Foy a Conques). In questo caso si trova allora frequentemente associato con Isacco e Giacobbe, principalmente in Oriente, ma anche in Italia e in qualche caso nelle zone vicine, come nel portale del sec. 12° del Saint-Trophime ad Arles, o nell'affresco del nartece dell'abbaziale di Payerne nel cantone svizzero di Vaud, intorno al 1200. Il suo sviluppo accompagna l'affermarsi del tema del Giudizio universale nell'arte romanica e soprattutto in quella gotica, dove si impose nei timpani della maggior parte delle grandi cattedrali dei secc. 13° e 14° (a partire da quello del transetto meridionale della cattedrale di Notre-Dame a Chartres, fino al Fürstenportal del duomo di Bamberga e al protiro di facciata della cattedrale di Ferrara). Esso costituisce allora, come attesta la teologia e come suggerisce in immagine la sua frequente associazione con un'architettura che richiama alla mente la Gerusalemme celeste (portali delle cattedrali di Bourges e di Notre-Dame a Parigi), un equivalente del Regno celeste, al quale la sentenza di Cristo-giudice permette ai giusti di accedere. In un tale contesto Abramo accoglie nel suo seno non le anime separate, ma gli eletti, i cui corpi e le cui anime sono stati riuniti al momento della risurrezione (Baschet, 1996).Le opere più notevoli esprimono la protezione di cui beneficiano gli eletti, mostrando la loro intima unione con il patriarca e il loro inserimento in un tessuto talvolta pressoché inscindibile dal suo corpo, come si può osservare in una miniatura della Bibbia di Pamplona, del 1197 (Amiens, Bibl. Mun., 108, c. 255v) e nel portale della cattedrale di Fidenza, datato intorno al 1215, della bottega di Benedetto Antelami. D'altro canto, il seno d'Abramo fa vedere il p. come una riunione con una figura paterna: Abramo è in effetti pater omnium credentium (Rm. 4, 11), padre spirituale di tutti i cristiani, secondo la reinterpretazione paolina della paternità del patriarca. Spesso considerato come figura di Dio Padre, Abramo è anche il doppio visibile del Padre invisibile, prima di cedere nel sec. 15° il passo alla rappresentazione di un rapporto più diretto con Dio, attraverso l'inclusione degli eletti nel sinus Dei o nel sinus Trinitatis, per es. in alabastri inglesi (Sheingorn, 1987). Infine, la filiazione nei confronti di Abramo spinge a raffigurare gli eletti come bambini, cosicché l'osservatore è incline a vedervi delle anime, anche quando il contesto dimostra che si tratta di risuscitati. L'ingresso nel Regno dei cieli presuppone questo ritorno all'infanzia (Mt. 18, 3), tanto più pertinente dal momento che l'uniformazione degli eletti permette di cancellare tutte le distinzioni terrene. Così il seno d'Abramo propone un'immagine perfetta della Ecclesia celeste, fraternità spirituale di tutti i cristiani, riuniti al padre in una comunità armoniosa.
La città santa dell'Apocalisse (v. Gerusalemme celeste) ispirò abbondantemente l'immaginario religioso, la liturgia, l'architettura e la produzione di oggetti destinati al culto. L'accesso degli eletti all'architettura celeste conobbe le sue prime evocazioni nel sec. 9°, per es. nel Salterio di Stoccarda, intorno all'820-830 (Stoccarda, Württembergische Landesbibl., Bibl. fol. 23, c. 56r), nei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno, della metà del sec. 9° (Parigi, BN, gr. 923, c. 68v), e, più ampiamente, nel mosaico dell'arco trionfale di S. Prassede a Roma (817-824), nel quale, se la città celeste è occupata solamente da Cristo, dalla Vergine, da Prassede e dagli apostoli, alle due porte sono accolte le schiere degli eletti, richiamando alla mente al tempo stesso l'adventus dell'anima in cielo e la traslazione nella chiesa delle reliquie di numerosi martiri (Mauck, 1987). Due secoli dopo si ritrova un'immagine in parte confrontabile, integrata in una rappresentazione collettiva del giudizio delle anime, per es. nel Liber vitae del New Minster di Winchester, del 1031-1032 (Londra, BL, Stowe 944, cc. 6v-7r; Baschet, 1995): il corteo è accolto alla porta della città celeste, ma in questo caso alcuni degli eletti sono già all'interno e tendono gesti e sguardi verso Cristo in maestà. Una tale prossimità delle anime elette con la divinità, che non manca di richiamare alla mente la visione beatifica, appare del tutto eccezionale per quest'epoca e non trova equivalenti altrettanto espliciti prima degli ultimi secoli del Medioevo.Nel contesto del Giudizio universale l'architettura celeste subisce generalmente una contrazione, al punto che risulta difficile ricondurla a una definizione precisa, benché le sue connotazioni di bellezza e di ordine siano manifeste, così come avviene per es. in una delle prime immagini del Giudizio finale che includono l'inferno e il p., un avorio eseguito intorno all'800 (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Brenk, 1966). Talvolta l'architettura paradisiaca evoca maggiormente, benché liberamente, quella di una chiesa: così nel portale di Saint-Vincent a Mâcon (dip. Saône-et-Loire), della fine del sec. 11° o degli inizi del 12° (Christe, 1991), nel chiostro di NotreDame-la-Daurade a Tolosa (Tolosa, Mus. des Augustins, capitello inv. nr. 116, fine del sec. 11°); alla fine del Medioevo accade invece che essa ricalchi esplicitamente le ampie navate gotiche dell'epoca, per es. nel portale trecentesco della torre occidentale della Kapellenkirche, la chiesa di Mariä Himmelfahrt a Rottweil, nel Baden-Württemberg. A eccezione di questi esempi tardi l'ambiguità città-chiesa si verifica in larga misura, tanto più che essa permette di porre in gioco l'associazione esegetica tra la Gerusalemme celeste e la Chiesa, quest'ultima allo stesso tempo comunità degli eletti ed edificio ecclesiastico (Kühnel, 1987). Se la chiesa materiale è l'immagine della Gerusalemme celeste, il principio di reciprocità vuole che quest'ultima possa legittimamente assumere la forma di un edificio di culto.L'edificio paradisiaco può tuttavia anche distaccarsi da ogni riferimento a un'architettura reale; così accade nel caso della sua raffigurazione in forma di arcate allineate e sovrapposte, ove i busti degli eletti sono isolati come in un alveare. Traendo origine da numerosi precedenti formali, questo modello appare abbozzato nella Gerusalemme celeste dei dipinti murali nell'abbaziale di Saint-Chef nel Delfinato (dip. Isère), della seconda metà del sec. 11° (Cahansky, 1966), poi più nettamente definito nella parte romanica delle pitture in Saint-Michel-d'Aiguilhe presso Le Puy (dip. Haute-Loire) e nel Giudizio universale del portale realizzato intorno al 1130 nella cattedrale di Saint-Lazare a Autun. A partire dal secondo quarto del sec. 12° - come mostrano esempi quali l'Evangeliario di Bury, intorno al 1130 (Cambridge, Pembroke College, 120, c. 6v), i dipinti di Saint-Martin a Vicq e il Giudizio universale nella controfacciata del Saint-Julien a Poncé-sur-le-Loir (dip. Sarthe), intorno al 1160-1170 - le arcate, pienamente regolari, ospitano eletti sprovvisti di qualsivoglia carattere distintivo. A dispetto delle differenze evidenti imposte dal suo carattere a compartimenti, questo sistema presenta numerose affinità con il seno d'Abramo: mostra eletti tra loro uniformati e racchiusi in un luogo omogeneo e protettivo; al pari della raffigurazione del seno d'Abramo, anche questa declinò a partire dal sec. 14° (appare tuttavia ancora nel Breviario di Carlo V, del 1364-1370, Parigi, BN, lat. 1052, c. 261r).Nelle versioni più condensate la città-chiesa può riassumersi nell'immagine della sua porta. Al ricordo della porta dell'Eden, che si conservò in Oriente, si sostituì in Occidente il simbolismo del passaggio, associato al Cristo-porta e più ancora al potere ecclesiale delle chiavi, come nel Giudizio universale di un evangeliario eseguito intorno al 1200 nella Germania meridionale (Wolfenbüttel, Herzog August Bibl., Helmst. 65, c. 13v). Spesso la porta è esplicitamente isolata, sprovvista di qualsivoglia prolungamento architettonico, poiché l'elemento essenziale è il valore simbolico della soglia stessa, che i giusti possono varcare (dipinti murali di Payerne, di Bominaco o del cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze, 1366-1368). Nelle rappresentazioni più antiche un angelo introduce gli eletti nel territorio celeste, per es. nel Giudizio universale di un avorio eseguito intorno all'800 (Londra, Vict. and Alb. Mus.), in quello di St. Michael a Burgfelden nel Baden-Württemberg, del terzo quarto del sec. 11°, e, più tardi ancora, nel portale di Conques, nell'Evangeliario di Wolfenbüttel e nei mosaici del battistero di S. Giovanni a Firenze, intorno al 1270. S. Pietro, munito delle chiavi del regno, acquisì progressivamente questo ruolo. Sebbene la citazione testuale di Pietro come ianitor coeli sia anteriore, al pari dell'uso delle chiavi come attributo figurativo, il Liber vitae del New Minster (di cui Pietro è il patrono) costituisce una delle prime opere che metta in scena questa funzione, che si sviluppò ampiamente a partire dagli inizi del sec. 12°, in particolare nelle scene del Giudizio universale (per es. a Torcello; nei dipinti murali nel St John Baptist di Clayton nell'Essex, intorno al 1100; nel portale di Autun; nelle cattedrali di Bourges e di León, intorno al 1270). Attraverso la figura di Pietro, investito da Cristo del potere delle chiavi, è l'istituzione ecclesiastica, e in particolare il suo capo, successore dell'apostolo, che controlla l'accesso al p.; non stupisce dunque che quest'immagine si sia sviluppata all'interno del movimento della riforma gregoriana, dato che attraverso la figura emblematica della sua più alta autorità essa faceva del clero il mediatore obbligato verso la salvezza.
L'immagine dei cori dei santi riuniti intorno alla figura divina rimase a lungo estremamente rara. Il Salterio di Aethelstan (Londra, BL, Cott. Galba A.XVIII), eseguito tra il 925 e il 939 a Winchester, mostra raffigurati su due carte (cc. 2v, 21r), i cori celesti intorno a Cristo, secondo una tipologia assai importante nella liturgia (angeli, patriarchi, profeti, apostoli, martiri, confessori, vergini); ma resta un caso eccezionale, preparato dal Sacramentario di Metz, dell'870 ca. (Parigi, BN, lat. 1141, cc. 5v-6r). I santi appaiono in relazione con la loro funzione di intercessori, come viene confermato dalla connessione con le formule delle litanie che si svilupparono nel sec. 10° (Deshman, 1974) o, ancora, nei Sacramentari di Fulda della fine del sec. 10°, dall'associazione dei cori celesti con la liturgia di Ognissanti (Bamberga, Staatsbibl., Lit. 1, c. 165r; Palazzo, 1994). I cori celesti sono talvolta legati più strettamente al contesto apocalittico: sono in questo caso collocati nella Gerusalemme celeste, in un'immagine che si riferisce all'Adorazione dell'Agnello (Ap. 7, 4-12; 14, 1-5), come agli inizi del sec. 12° in un salterio ora a Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Brev. 100) e nella Expositio in Apocalypsin di Aimone di Auxerre (Oxford, Bodl. Lib., 352, c. 13r; Christe, 1981). Le immagini della corte celeste rimangono però in questo caso rare, soprattutto quelle che si sviluppano intorno a una figurazione antropomorfa della divinità - e a maggior ragione della Trinità - come in un codice del De civitate Dei della seconda metà del sec. 12° (Praga, Kapitulní Knihovna, A. 7, c. 1v). Questa rappresentazione si affermò solo nel sec. 14° e più ancora nel successivo, tanto in rapporto con il Giudizio universale - per es. in S. Maria Novella a Firenze, negli affreschi della cappella Strozzi, opera di Nardo di Cione tra il 1351 e il 1357, ove i santi sono integrati ai cori angelici -, quanto nelle evocazioni della Chiesa celeste attuale raccolta intorno alla Maestà della Vergine o di Cristo (Russo, 1987) o intorno all'Incoronazione della Vergine. Senza scomparire del tutto, le classificazioni dei cori celesti appaiono messe in scena in maniera più fluida e lasciano il posto in primo luogo all'individualità dei santi e degli eletti che si afferma all'interno di un ordine ecclesiale solidamente gerarchizzato. Divenuto il principale modo di evocazione del p. a detrimento delle altre rappresentazioni, la corte celeste mostra l'immagine ordinata della Chiesa trionfante ed esalta la promessa di un'aggregazione alla comunità dei santi e di una riunione con Dio in un rapporto diretto suscettibile di evocare la visione beatifica.Pur attraverso forme storicamente e geograficamente variabili, va sottolineata la portata ecclesiologica di tutte le rappresentazioni del p., in virtù dell'equivalenza esegetica e iconografica tra p. ed Ecclesia. Tuttavia le evoluzioni suggeriscono uno slittamento da una società celeste egualitaria, ove le distinzioni terrene sono superate a vantaggio di una fraternità spirituale che unifica gli eletti, verso una corte ove la comune beatitudine non esclude né il riferimento a modelli politici né la legittimazione delle gerarchie e degli status terreni.
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