Parlamento
di Augusto Barbera
Il termine 'parlamento' comprende realtà spesso fra loro non coincidenti, che variano sia nel corso delle diverse epoche storiche sia, in una stessa epoca storica, nei diversi regimi politici. Alcuni elementi appaiono ricorrenti: un'assemblea permanente, più o meno ristretta, di rappresentanti; la sua collocazione intermedia fra la società e il vertice delle istituzioni; la progressiva specializzazione nella funzione legislativa; il metodo del dibattito e della conseguente deliberazione collegiale; la pubblicità dei dibattiti stessi; una tendenziale ma sempre contrastata autonomia da altri organi costituzionali nell'organizzazione e conduzione dei lavori dell'assemblea.
Nonostante questi elementi comuni la realtà si configura variamente per quanto riguarda sia la funzione dei parlamenti, sia la loro composizione. La stessa funzione rappresentativa, cui si ricollegano oggi comunemente le assemblee parlamentari, non è mai stata univoca: si può infatti sedere nell'assemblea a titolo personale o sulla base di un titolo rappresentativo. Il titolo personale può derivare sia da una trasmissione ereditaria (molti seggi della Camera dei lord nel Regno Unito), sia da meriti acquisiti (ad esempio i senatori a vita nel Senato italiano o i componenti la Camera alta di molti paesi del Commonwealth), sia in ragione delle funzioni svolte (i senatori di diritto sempre nel Senato italiano).
Il titolo rappresentativo, a sua volta, può essere espressione di una rappresentanza di interessi generali (le Camere basse), o di una rappresentanza di interessi territoriali (le Camere degli Stati: ad esempio il Bundesrat tedesco formato dai rappresentanti dei governi dei Länder), o di una rappresentanza di interessi settoriali (le Camere corporative del primo dopoguerra: ad esempio la Camera dei fasci e delle corporazioni dell'Italia fascista; alcune Camere alte in questo dopoguerra: il Senato della Baviera; e, per una parte, il Senato dell'Irlanda). Sono di difficile collocazione, se nelle camere politiche o in quelle corporative, le Camere degli ultimi paesi socialisti (per esempio l'Assemblea popolare cinese) elette in rappresentanza "di operai e contadini", ma in quanto appartenenti a classi ritenute portatrici di interessi generali.
Il riferimento agli interessi generali può essere poi variamente espresso facendo richiamo, come oggi è più frequente, al 'popolo', o, come nelle vecchie costituzioni liberali, alla 'nazione', vale a dire a una entità che può trascendere i soggetti chiamati a esprimere il voto (così, tra l'altro, giustificando l'esclusione dal voto di chi non appartenga alle classi possidenti).
Il mandato rappresentativo può essere 'libero' ovvero 'imperativo', con il conseguente vincolo dei parlamentari alle istruzioni ricevute dagli elettori.
Varie, parimenti, sono le funzioni che il parlamento, nel corso dei secoli e in vari paesi, può assumere: può svolgere funzioni solo legislative (nei sistemi presidenziali o direttoriali) o anche di indirizzo politico (nei sistemi parlamentari). Ma v'è di più: può svolgere funzioni deliberative o limitarsi a funzioni essenzialmente consultive, com'è stato in passato per i parlamenti i cui atti erano sottoposti alla 'sanzione regia', e come tuttora avviene per qualche camera alta nei confronti della rispettiva camera bassa, o per le deliberazioni del Parlamento europeo, delle quali le principali sono sottoposte all'approvazione del Consiglio dei ministri dell'Unione Europea.
In realtà sul parlamento, forse più che su ogni altro organo costituzionale, si riflettono le caratteristiche complessive del sistema politico e costituzionale in cui esso è inserito (v. Manzella, 1991); e a loro volta sono le funzioni, i poteri e le prerogative del parlamento che danno una specifica connotazione al sistema costituzionale. Dalla libertà dei parlamentari si deduce se trattasi di regime libero o autoritario, dalla collocazione del parlamento rispetto al governo se, sempre nell'ambito di regimi liberi, si avrà una forma di governo presidenziale, parlamentare o assembleare.
Decisivo altresì il collegamento che si instaura con altri soggetti, quali i partiti e i sindacati, che pur collocati sul versante della società svolgono anch'essi funzioni di rappresentanza.
Determinate forme di presenza di questi ultimi possono portare a pratiche neocorporative in grado di incidere sui poteri del parlamento. Poiché tali politiche rendono lo Stato non solo arbitro ma anche 'parte contraente', ne deriva che il potere decisionale in talune importanti materie, persino in quella tributaria, tende a spostarsi sull'esecutivo.
Ma sono soprattutto il sistema dei partiti, la natura degli stessi (a 'disciplina coesa', come in Gran Bretagna, o a 'vincolo debole', come negli Stati Uniti) e le loro relazioni reciproche che possono modellare la struttura della rappresentanza parlamentare e i compiti del parlamento. A sua volta il tipo di sistema elettorale adottato per l'elezione del parlamento influenza i lineamenti di fondo del sistema dei partiti (v. Duverger, 1951; v. Sartori, 1976). Del resto, sotto un profilo storico, gli stessi partiti tendono a distinguersi a seconda che trovino origine o alimento nelle lotte e nelle divisioni in parlamento (prevalentemente i partiti di opinione) ovvero nelle lotte sociali (i partiti di massa). Tuttora diverse, poi, appaiono le caratteristiche dei partiti a seconda che la loro leadership trovi legittimazione nei gruppi parlamentari ovvero nella base degli iscritti (v. Panebianco, 1982). I partiti di quest'ultimo tipo, a loro volta, si caratterizzano per i loro obiettivi come partiti parlamentari o come movimenti extraparlamentari, in relazione alla loro maggiore o minore capacità di integrazione nella democrazia rappresentativa.
Del parlamento è dunque difficile parlare isolatamente: esso è parte di un sistema, è il punto d'incrocio di altri sottosistemi (rapporto partiti-elettori; relazione parlamento-governo) e di altri sistemi di relazioni (Stato-società; centro-periferia; comunità sovranazionali e Stato).
Per queste ragioni una storia dei parlamenti come anche una loro analisi comparata, ove prive di riferimenti a un 'tipo ideale' attorno a cui polarizzare i vari modelli di parlamento, per usare una ancora valida categoria weberiana (v. Weber, 1922), rischiano di essere poco significative.
Non è certamente significativo, intanto, collegare i parlamenti dell'era moderna alle antiche assemblee. E infatti ben pochi autori risalgono alle assemblee delle città greche, variamente denominate (l''ecclesia', la 'bulé', l''areopago', ad esempio), pur rappresentando esse istituzioni importanti dei primi modelli di democrazia politica. E sebbene nel XVII secolo il rump Parliament inglese, il 'Parlamento monco', uscito vittorioso dalle lotte per le libertà parlamentari, ambisse ad avere come modello le assemblee della Repubblica romana, appare ugualmente poco significativo il riferimento sia alla sovranità dei comitia sia alla patrum auctoritas da cui si sviluppa il Senato romano.
Più frequente in dottrina, ma altrettanto privo di significato, il riferimento alle assemblee germaniche (o, per l'Inghilterra, al witenagemot sassone); lo stesso Montesquieu (v., 1748; tr. it., p. 291) riconduce a esse le origini del parlamento inglese, così confondendo le assemblee popolari - se mai strumento di democrazia diretta - con ciò che sono state nei secoli le assemblee inglesi, vale a dire assemblee o di notabili o di rappresentanti (come subito gli fece notare con ironia Voltaire). Montesquieu sottolineava anche che "poiché in uno Stato libero ogni uomo [...] deve guidarsi da sé, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse direttamente il potere legislativo; ma poiché ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può compiere direttamente. [...] Il grande vantaggio di avere dei rappresentanti è che essi sono capaci di discutere i pubblici affari. Il popolo non ne è affatto in grado, e questo costituisce uno degli inconvenienti principali della democrazia" (ibid., p. 280).
La stessa natura di assemblea popolare sembra avere quello che ha fama di essere il più antico parlamento del mondo: l'Althing dell'Islanda in cui il popolo cominciò ad adunarsi nel giugno 930, nella località di Thingviller, poco distante da Reykjavik, per ascoltare il sacerdote che ispirato dallo spirito degli antenati proclamava la 'voce delle leggi' o per assistere all'esecuzione di quanti avessero infranto le leggi eterne (v. Mancini, 1991).
Né appare un punto di riferimento sicuro l'uso del termine 'parlamento'. Publicum parlamentum o parliamentum, sinonimo spesso di colloquium, consilium regis, magnum concilium, consistorium, tractatus, curia regis, si ritrova in documenti vari fin dal XII secolo: dai documenti inglesi a quelli del Regno di Sicilia, ai documenti pontifici e prima ancora nella stessa anglo-normanna Chanson de Roland (per un'ampia documentazione v. Marongiu, 1962; v. Pasquet, 1964).
È anche una forzatura voler individuare una continuità fra i parlamenti moderni e le assemblee dei cortigiani (cui talvolta sono associati grandi feudatari laici ed ecclesiastici) che si riuniscono nella curia regis per dare solennità con la loro presenza alle principali decisioni del sovrano, per lo più atti di amministrazione della giustizia. Erano quindi decisioni volte non a creare ma ad applicare e interpretare un diritto che non era né nella disponibilità del sovrano né tanto meno nella disponibilità del consesso da lui riunito. Più che un corpo organizzato il parlamento era allora un'occasione di incontro: così può dirsi per le Cortes castigliane (o quelle della Corona d'Aragona o della Catalogna) del XII secolo; così per la 'Curia generale e solenne' che nel 1194 si riunisce in Sicilia sotto gli Svevi e ha un precedente nella 'curia' introdotta dai re normanni.
Appartiene alla leggenda che il Parlamento siciliano sia stato il primo d'Europa dopo quello islandese e avrebbe addirittura dato il nome, parliament, a quello inglese (v. Palmieri, 1847; v. Orlando, 1951; v. Hermens, 1964). È invece meno contestato che detto Parlamento (che fu convocato nel 1232-1240 a Foggia da Federico II chiamando a parteciparvi per le prime volte anche le città) sia stato fra i primi ad assumere le caratteristiche di una vera e propria istituzione. È quanto sembra confermare la Costituzione del 25 marzo 1296, De curia semel in anno facienda, che prevedeva che l'assemblea venisse convocata periodicamente per discutere del bene e della felicità del re e dei siciliani, degli abusi di giustizieri e notai, della nomina dei giudici per le pene capitali. Un secolo dopo, nel 1397, essa si sarebbe divisa nei tre bracci, 'militare' (ovvero della feudalità), 'ecclesiastico', 'demaniale' (ovvero delle città libere).
Appartiene anche alla leggenda che Edoardo I (1272-1307) abbia trasformato la massima di diritto privato quod omnes tangit, ab omnibus probari debet in principio di diritto pubblico (v. Stubbs, 1880), ma è invece documentato (v. Fischel, 1866, p. 155) che nel 1255 si era riunito a Westminster un magnum Parliamentum di abati, conti e baroni che respinse la richiesta di un sussidio avanzata da Enrico III (1216-1272). Qualche anno dopo, nel 1258, il sovrano ottiene il sussidio ma alle condizioni dettate dai baroni guidati dal siniscalco Simone di Montfort, e contenute nelle Provisions of Oxford. Fra queste condizioni è prevista la convocazione regolare del Parlamento (tre volte l'anno) per esaminare lo stato del reame e i comuni bisogni del re e del reame. Nel 1265 lo stesso Simone di Montfort ottenne che alle riunioni partecipassero anche i rappresentanti delle città e dei borghi. Ma è nel 1295, sotto il citato Edoardo I, che si riunisce quello che passerà alla storia (peraltro su questo punto messa in dubbio) come the great and model Parliament, che unisce rappresentanti di città e borghi, baroni, vescovi e arcivescovi.
Da allora lo sviluppo delle istituzioni parlamentari inglesi si fa veloce: nel 1334 un funzionario (clerc) viene posto stabilmente al servizio del Parlamento; nel 1376 si registra il primo impeachment nei confronti del gran ciambellano e del gran siniscalco; nel 1383 si sancisce che le spedizioni militari siano decise dal re con l'accordo dei lord.
Diviene progressivamente comune a tutti i parlamenti quanto era stato conquistato a Runningmead il 15 giugno 1215, allorché i baroni strapparono a Giovanni Senzaterra la Magna Charta libertatum: da allora in poi non si sarebbero pagati sussidi o imposte senza il consenso dei baroni. È opinione diffusa che il principio no taxation without representation su cui si baserà anche la Costituzione degli Stati Uniti d'America prenda le mosse da quella data, ma soltanto dal XV secolo in poi il Parlamento acquisterà la consuetudine di esaminare le richieste di sussidi dopo la risposta del sovrano alle petitiones dei parlamentari.
C'è tuttavia una linea di demarcazione che distingue queste assemblee dalle assemblee di 'stati' (detti anche 'stamenti', Stände, stati provinciali o generali) che cominciano a riunirsi nei principati germanici, nelle Fiandre, in Svezia, in Francia, alle quali partecipano gli appartenenti a ordini che vigilano sulla difesa dei propri privilegi. E del resto, in questi paesi, lo stesso sovrano più che titolare di un potere superiore appariva titolare di un ulteriore e più forte privilegio.Mentre per le citate assemblee vale la definizione di parlamenti 'prerappresentativi' (v. Cam e Marongiu, s.d.), da annoverarsi più nella storia del corporatisme che del parlamentarisme, in Inghilterra, più decisamente e con maggiore rapidità che in altre nazioni, tenderà progressivamente ad affermarsi il concetto di 'rappresentanza'. Già nel 1565 (ma la pubblicazione avverrà nel 1583) sir Thomas Smith potrà enunciare quella che anche oggi appare come una definizione moderna di parlamento: "Il Parlamento rappresenta e detiene il potere dell'intero reame [...] giacché si reputa che ogni inglese sia in esso presente, sia di persona sia per via di procura e mandato, di qualsivoglia eminenza, stato, dignità o qualità egli sia, dal monarca [...] alla più infima persona d'Inghilterra. E il consenso del Parlamento è considerato rappresentare quello di tutti i cittadini" (v. Smith, 1583; tr. it., p. 44).
Questa evoluzione dallo scambio corporativo alla rappresentanza politica ha potuto prendere le mosse dall'Inghilterra perché mai essa accettò la divisione in 'stati': la Camera dei lord non sarà formata né dall'intero ceto ecclesiastico né dall'intero ceto nobiliare, in quanto la nobiltà delle contee, i cavalieri e i dignitari ecclesiastici minori troveranno spazio nella Camera dei comuni, saldando i propri interessi con quelli dei rappresentanti dei borghi.
È questa la ragione per la quale occorre rifarsi alla storia del Parlamento inglese per cogliere con più coerenza il delinearsi dei tratti dei moderni parlamenti, e quindi dello stesso nucleo forte del costituzionalismo contemporaneo. Ed è per questo che assumiamo come 'tipo ideale', nel senso weberiano, il parlamento dei moderni Stati liberaldemocratici, quale risulta dalla lenta evoluzione del Parlamento inglese nonché dalle accelerazioni impresse dalla Rivoluzione francese e, in parte, da quella americana (soprattutto per ciò che riguarda il rapporto fra legge e costituzione). Non si può certo sottovalutare la differenza fra il parlamento che amministra la giustizia, che esamina petitiones giudiziarie, quali erano quei Parlamenti inglesi, e i parlamenti che producono leggi e indirizzo politico (v. Mc Ilwain, 1940): tuttavia, come ha sottolineato nel secolo scorso William Stubbs nella sua importante Constitutional history (v. Stubbs, 1880), la storia inglese coincide per tanta parte con la storia del suo Parlamento, e il costituzionalismo moderno deve tanta parte di sé alla storia inglese.
Nel 1641 e nel 1649 avvengono due passaggi cruciali per il delinearsi dei parlamenti moderni: nella prima data il Triennial act regolamenta la convocazione periodica del Parlamento, nella seconda un Parlamento decimato, ma indomito, condanna alla decapitazione Carlo I Stuart che lo aveva sfidato tentando di trarre in arresto numerosi membri della Camera dei comuni (Pride's purge). Con la decapitazione a Whitehall di fronte a una grande folla la supremazia del Parlamento, e in particolare della Camera dei comuni che aveva contemporaneamente soppresso la Camera dei lord, si sarebbe affermata nella storia inglese sopravvivendo anche dopo la parentesi repubblicana e la restaurazione monarchica.
Nel 1689, con il Bill of rights, Guglielmo d'Orange riconosce il potere del Parlamento non più solo come privilegio del corpo ma come diritto dei cittadini: il re assume l'impegno di non reclutare truppe e di non adottare provvedimenti finanziari senza il consenso del Parlamento, di non operare alcuna ingerenza nelle elezioni, di convocare frequentemente le due Camere. Ma soprattutto Guglielmo assume l'impegno a non esercitare lo ius dispensandi, cioè a non dispensare chicchessia dall'osservanza delle deliberazioni del Parlamento. Si apriva così la strada a una significativa affermazione del principio di legalità. Ed è proprio dal riconoscimento dei poteri del Parlamento che deriverà la legittimazione dello stesso sovrano, facendo così emergere una funzione tipicamente costituente del Parlamento (lo noterà nel 1736 di ritorno da un viaggio in Inghilterra Scipione Maffei). Nel 1701 l'Act of settlement non solo stabilirà che la successione regale spetta ai discendenti di casa Hannover ma prevederà altresì l'incompatibilità fra l'ufficio di deputato e la condizione di stipendiato dal re, delineando con più nitidezza l'autonomia del Parlamento.
Negli anni fra il 1721 e il 1742, con il risalto assunto dalla posizione ministeriale di sir Robert Walpole, comincia a delinearsi la figura del premier. Con essa si rafforza l'influenza del Parlamento sulla composizione del governo del re e si incominciano a delineare gli attuali tratti del governo parlamentare. Se nei secoli precedenti era stato vieppiù difficile per il re governare senza il consenso del Parlamento, dal XVIII secolo in poi sarebbe stato consentito governare solo a un governo che godesse la fiducia del Parlamento. Il governo rimane un governo regio: il re conserva tutti i poteri di governo ma è obbligato a esercitarli per mezzo di ministri che hanno la fiducia del Parlamento: mentre prima il re governava per mezzo dei ministri da allora in poi vieppiù "i ministri governano per mezzo del re" (v. Schmitt, 1928, p. 423). Le dimissioni del gabinetto di lord North nel marzo del 1782, in seguito a una mozione della Camera dei comuni contro la continuazione della guerra in America, sottolineeranno in modo significativo il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra governo e Camera dei comuni (v. Trevelyan, 1960, p. 637).
Allorché Pitt il giovane diverrà nel 1784 primo ministro proprio in quanto leader del partito tory vincitore delle elezioni e divenuto maggioranza in Parlamento, si delineerà in maniera sicura quell'alternative government, che aveva iniziato già a configurarsi un secolo prima allorché Guglielmo III aveva sostituito ministri whig con ministri tratti dal partito dei tories.
Con la riforma elettorale del 1832 si fa un passo verso il suffragio universale. Esso accrescerà la rappresentatività della Camera dei comuni e favorirà l'affermarsi di un più moderno bipartitismo che rafforzerà il sistema parlamentare di governo. Si rafforzerà così ancora più la figura del premier, insieme capo del governo e leader della maggioranza parlamentare. In quanto leader del partito vincitore delle elezioni, in un sistema tendenzialmente bipartitico, la sua investitura a premier trarrà, il più delle volte, legittimazione politica direttamente dal corpo elettorale.
Mentre il Parlamento inglese, per la capacità di adattamento dimostrata, reggerà alle sfide del XIX e del XX secolo conservando antichi poteri e solenni liturgie ma aprendosi alle innovazioni con molta flessibilità, altrettanto non avverrà per gli altri parlamenti sopra indicati.
Le assemblee germaniche di 'stati', legate com'erano alle libertà degli individui non in quanto uomini o cittadini ma solo in quanto membri di un ceto, di una corporazione o di una città, non saranno in grado di resistere all'assolutismo regio e alla fine cederanno il passo a parlamenti senza una significativa storia alle spalle, divisi in fazioni e incapaci di adattarsi alla nuova realtà del suffragio universale (fino al 1918 la Dieta prussiana fu eletta con un sistema elettorale distinto per tre classi). Il momento dello scontro decisivo si ebbe in Prussia prima sotto il regno di Federico Guglielmo I e, dal 1740, sotto Federico II: la necessità di alimentare onerosi eserciti permanenti (che non ebbero né la monarchia inglese né la confederazione americana né la stessa Francia) diventava incompatibile con i privilegi fino ad allora riconosciuti alle assemblee degli 'stati'. Ecco perché mentre negli altri paesi europei si affermeranno nella seconda metà del secolo XIX forme di governo parlamentare, nella Germania di Bismarck il Parlamento, pressato dall'azione incisiva dei gruppi di interessi (Interessenverbände), e reso debole dall'assenza di forti partiti politici, non sarà in grado di sottoporre a controllo fiduciario l'azione dei cancellieri che risponderanno soltanto all'Imperatore (v. Weber 1918; tr. it., pp. 64 ss.). La vittoria di Guglielmo I sul Parlamento prussiano nel conflitto apertosi sulle spese statali e il consolidarsi della forma di 'governo costituzionale' porranno le premesse per l'affermarsi di un abnorme potere militare e per il fallimento del gracile 'governo parlamentare' tentato con la sfortunata Repubblica di Weimar (v. Eyck, 1954; tr. it., p. 10).
Gli Stati Generali della Francia, che saranno riconvocati nel 1789 dopo aver tenuto la loro ultima riunione nel 1614, saranno travolti dalla ventata rivoluzionaria lasciando spazio a un'Assemblea Nazionale, che oscillerà fra tentativi di prevaricazione ('la dittatura della Convenzione') e forme di subordinazione ad altri poteri.
Eppure la storia del Parlamento francese, almeno fino alle guerre della 'fronda' vinte dalla monarchia contro il popolo di Parigi (nello stesso periodo in cui invece il Parlamento inglese condannava Carlo I alla decapitazione) scorre parallela a quella del Parlamento inglese: il Parlamento convocato da Filippo il Bello nel 1302 presenta caratteristiche non dissimili da quelle del Great Parliament convocato da Edoardo I. A tale debolezza non fu estraneo l'istituto del 'mandato imperativo', che percorre fino a Rousseau la storia francese: i deputati vincolati ai cahiers de doleance dei propri elettori, dove erano indicate talvolta minuziosamente le richieste da avanzare e le concessioni oltre cui non spingersi, non riusciranno a conservare il ruolo di autorevoli interlocutori del potere regio (v. Hermens, 1964; tr. it., p. 352).
Solo il Congresso americano avrà una vita fortunata. Anche se dovrà cedere i più rilevanti poteri di indirizzo politico al vertice dell'esecutivo manterrà una forte incidenza sull'attività legislativa e svilupperà una significativa capacità di controllo nell'amministrazione. D'altro canto i costituenti americani nel delineare le loro istituzioni ebbero presenti le istituzioni della madrepatria (si era nell'epoca di Giorgio III, prima delle nuove tendenze emerse alla fine del XVIII secolo) basate su un bicameralismo allora tendenzialmente paritario e sulla separazione dei poteri fra il governo del re e le due Camere: ebbero la fantasia necessaria per sostituire ai lord i rappresentanti degli Stati federati e al sovrano il presidente eletto e investito direttamente dalla sovranità popolare.
Non è agevole individuare la data della divisione definitiva in due Camere del Parlamento inglese. Secondo alcuni documenti la prima riunione di due Camere distinte sarebbe avvenuta già nel 1332, ma è più prudente collocare attorno al 1377, sotto Riccardo II, la divisione fra Camera alta e Camera bassa (v. Fischel, 1866, vol. II, p. 157): da una parte i conti, i vescovi, i titolari di antiche baronie, dall'altra i rappresentanti delle città (che da una certa data in poi, non definita, presero a riunirsi anche con i cavalieri e la piccola nobiltà).
Nello stesso periodo prende gradualmente consistenza l'idea che "solo i comuni rappresentano la nazione mentre i pari non rappresentano che diritti personali" (ibid., p. 169), e già nel XV secolo (forse dal 1408) sotto Enrico IV la Camera dei comuni acquista il diritto di priorità nell'esame dei provvedimenti finanziari.
A partire dal 1832, con l'estensione del suffragio elettorale, l'ulteriore rafforzamento della borghesia e l'ampliamento della base democratica della Camera dei comuni, si divaricano decisamente i poteri di quest'ultima da quelli della Camera dei lord. Se agli inizi dello sviluppo delle istituzioni parlamentari il bicameralismo era 'ineguale' per la prevalenza dei lord, e nei secoli successivi si mantiene un bicameralismo tutto sommato paritario, dalla riforma elettorale del 1832 inizia un processo che porterà il bicameralismo a tornare 'ineguale' per la prevalenza, questa volta, della Camera dei comuni. Tale processo, avviatosi allorché si era andata affermando la competenza prevalente dei comuni in materia finanziaria, si concluderà (anche se sarà ulteriormente perfezionato in questo dopoguerra) con il Parliament act del 1911 che riconoscerà alla Camera dei lord solo un 'veto sospensivo' sull'approvazione delle leggi.
Quanti nell'Europa continentale, dopo le esperienze monocamerali rivoluzionarie, non vorranno limitarsi a restaurare l'assolutismo monarchico potranno richiamarsi all'esperienza britannica, pervenendo a un sistema di relazioni fra le due camere che, pur valorizzando la camera di diretta derivazione popolare, tenderà a mantenere il potere di freno e moderazione di una camera non elettiva. Le prime saranno genericamente definite Camere basse, le seconde Camere alte.
Come sottolineerà Montesquieu (v., 1748; tr. it., pp. 281-282), le Camere alte sono composte da "persone illustri per nascita, ricchezza o onori; se venissero confuse tra il popolo, e non avessero che una voce come quella degli altri, la libertà comune sarebbe la loro schiavitù e non avrebbero alcun interesse a difenderla, perché la maggior parte delle risoluzioni sarebbero contro di loro. La parte che essi hanno nella legislazione deve dunque essere proporzionata agli altri vantaggi che essi godono nello Stato; ciò accadrà se formeranno un corpo che abbia il diritto di arrestare le iniziative del popolo, come il popolo ha il diritto di arrestare le loro". Siamo in questo passo di fronte all'esaltazione del 'principio aristocratico' chiamato a fare da contrappeso al 'principio democratico', del principio della 'continuità' contrapposto a quello della 'mutevole opinione'.
Secondo i fautori della dottrina della forma di Stato mista (mixed government), che comprende, oltre a Montesquieu, autori quali Bolingbroke, Constant, Bagehot e tanti altri, una forma di governo ispirata a principî democratici sarebbe incline a degenerazioni demagogiche, così come una forma ispirata solo a principî monarchici inclinerebbe al dispotismo. Di qui la necessità che la Camera bassa sia temperata da una seconda camera in grado di bilanciarne i poteri. La raison della Camera alta deve potersi contrapporre alla immagination della Camera bassa: con questi termini si esprimerà Boissy d'Anglas, proponendo la Costituzione termidoriana del 1795, nel contrapporre la funzione moderatrice del 'Consiglio degli anziani' rispetto al 'Consiglio dei cinquecento' (v. Baguenard, 1990, p. 3).
Mentre alla Camera bassa viene riconosciuto un potere di iniziativa, e talvolta di decisione definitiva, alla Camera alta spetta il compito di 'ritardare', 'far riflettere' o quanto meno spingere al riesame (to controll, secondo la letteratura anglosassone). Se in una prima fase, in un quadro di bicameralismo tendenzialmente eguale, era stata funzione delle due Camere consentire la divisione del potere fra aristocrazia e borghesia, successivamente, consolidatasi l'egemonia dei ceti borghesi e in un quadro istituzionale di bicameralismo 'ineguale', sarà compito delle Camere alte frenare le Camere basse, rese più attive anche dal progressivo allargamento del suffragio. La funzione delle due Camere è riassunta in modo efficace da Stuart Mill, che pure non era particolarmente incline al governo misto: "È desiderabile che vi siano due camere per la ragione medesima che induceva i Romani a nominare due consoli" (v. Mill, 1861).
Per opposti motivi le correnti del radicalismo democratico punteranno a un sistema unicamerale. I loro argomenti possono così riassumersi: o le due camere sono entrambe espressione della sovranità popolare e in tal caso si ha un inutile doppione, ovvero esse hanno una legittimazione diversa e in tal caso una camera ha funzioni di freno rispetto all'altra ma si viene a contraddire il fondamentale principio democratico della sovranità popolare.
Le correnti democratiche, in particolare, si richiameranno più volte al modello francese della Convenzione del 1793 o a quello dell'Assemblea nazionale del 1848 (che a loro volta non mancarono di richiamarsi alla Camera unica del protettorato di Cromwell). Ma proprio il ricordo di queste ultime esperienze susciterà il timore di una possibile 'dittatura di assemblea', di quelle assemblee che nei primi periodi della Rivoluzione si erano erette ad interpreti assoluti, quasi ad 'oracoli', della nazione. Tale ricordo susciterà, soprattutto nella stessa Francia, forti diffidenze nell'opinione pubblica, portando gli elettori a respingere con referendum per ben due volte, nel 1946 e nel 1969, riforme che avrebbero avviato la Francia verso un sistema unicamerale o che, con la riforma proposta dal generale de Gaulle, sembravano spingere verso tale risultato (così come aveva suscitato non minore diffidenza nell'opinione pubblica moderata della Spagna il Parlamento monocamerale della Costituzione repubblicana del 1931).
Le dottrine del 'governo misto' appartengono ormai alla storia essendo legate al primo costituzionalismo, al periodo delle Chambres des pairs francesi, del Senato regio italiano e di altri consessi ereditari (la stessa Camera dei lord viene oggi giustificata più per la presenza dei membri di nomina governativa che per la pur massiccia componente aristocratica), ma il dibattito fra monocameralisti e bicameralisti è ancora vivo in diversi paesi.
I fautori della soluzione unicamerale adducono oggi per lo più considerazioni pratiche: lentezza e macchinosità del processo legislativo bicamerale, ripetitività, scarsa incisività e trasparenza nelle relazioni fra parlamento e governo. Gli argomenti dei bicameralisti sono di segno opposto, ritenendo essi positiva la funzione sia di arricchimento delle forme della rappresentanza sia di freno e moderazione che può essere svolta da una seconda camera. Senza mettere in discussione la prevalenza della camera di diretta derivazione popolare si tendono a valorizzare le Camere alte facendo assumere loro la funzione di 'camera di raffreddamento'. Ma nell'individuare i soggetti cui affidare tale funzione le posizioni dei bicameralisti divergono.
L'assegnazione alla Camera alta non avviene ormai più solo in base ai titoli ereditari ma in base ai titoli più vari: in alcuni casi sono titoli professionali, in particolare l'appartenenza all'alta burocrazia o alle università (quasi un quinto del Senato irlandese è espresso dalle università); in altri casi c'è l'elezione indiretta ad opera di appositi collegi elettorali (ad esempio il Senato francese eletto dai consiglieri municipali, in prevalenza espressione della Francia più conservatrice). Si avranno anche camere alte espresse mediante cooptazione da parte della stessa camera bassa (un sesto della seconda Camera nella Costituzione francese del 1946) o dalla nomina o designazione da parte del governo (il Senato del Canada e di altri paesi del Commonwealth e in parte la Camera dei lord o il vecchio Senato regio in Italia). In qualche caso si agirà sullo stesso elettorato attivo componendo le seconde Camere mediante il voto plurimo riconosciuto ad alcune categorie di cittadini (la Camera alta della Svezia fino alla riforma unicamerale) o, infine, partendo dal requisito dell'età più matura nell'elettorato attivo e passivo (il Senato repubblicano italiano, che però vede anche la presenza di senatori a vita e di diritto).
All'ormai acquisita omogeneità delle Camere basse si contrappone la varietà delle seconde Camere, ma sono differenziazioni, scriveva Carl Schmitt (v., 1928; tr. it., p. 392) "che non bastano a formare il presupposto ideale di un'istituzione autonoma e politicamente significativa".
Sono peraltro regrediti i tentativi di dare alle seconde Camere un fondamento meno empirico, ancorandole in tutto o in parte alla rappresentanza delle categorie economiche. Solo in qualche paese la Camera alta deriva ancora dall'appartenenza a categorie economiche (per esempio una parte del Senato irlandese o il Senato del Land della Baviera, formato dai rappresentanti 'dei corpi sociali economici, culturali e comunali') mentre in talune democrazie sono rimasti in piedi gracili Consigli economici (per esempio in Italia il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) con compiti puramente consultivi. E del resto erano già falliti i tentativi più radicali di superare del tutto la rappresentanza politica per affermare forme di rappresentanza di lavoratori e produttori nei regimi fascisti (ad esempio l'italiana Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Né sorte migliore hanno avuto in questo dopoguerra le Camere economiche sperimentate nelle democrazie popolari.
Il bicameralismo oggi appare vitale solo negli Stati federali o negli Stati a forte decentramento regionale. Il primo modello di Senato federale nacque per l'esigenza dei costituenti americani di avere una camera che svolgesse, pur in assenza della nobiltà fondiaria, le stesse funzioni di freno e moderazione svolte dai lord. Le assemblee dei singoli Stati avrebbero inviato a Washington due senatori per ogni Stato a prescindere dall'ampiezza dello stesso (al momento del viaggio di Tocqueville lo Stato di New York inviava quaranta rappresentanti e due senatori, lo Stato del Delaware due senatori e un solo rappresentante). L'elezione non da parte del popolo dell'Unione ma da parte delle assemblee dei singoli Stati nonché una più lunga durata (sei anni rispetto ai due dell'altra Camera) e una maggiore età per l'elettorato passivo (30 anni contro 25) avrebbero assicurato un contrappeso alla rappresentanza popolare e una maggiore influenza degli Stati federati. Tale modello ebbe successo e fu adottato, con alcune varianti, dalla Costituzione svizzera nel 1848 e dalla Costituzione federale tedesca nel 1870. Nel 1913 un emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti ha sostituito all'elezione da parte delle assemblee degli Stati l'elezione diretta da parte dei cittadini, lasciando però intatti strutture, durata e poteri del Senato.
Accanto al Senato degli Stati Uniti (ma anche del Venezuela, della Colombia e altri ancora) si collocano il Consiglio degli Stati della Confederazione elvetica, il Bundesrat della Germania Federale, il Consiglio federale dell'Austria, il Senato della Spagna, il Senato francese e altri ancora. Si tratta di organismi fra loro assai diversi: per composizione (nella Confederazione elvetica sono i Cantoni che decidono, dopo la riforma del 1978, come eleggere la rappresentanza nel Consiglio degli Stati; in Spagna metà dei delegati sono eletti dalle comunità autonome, metà sono eletti dai cittadini); per prestigio (assai alta l'influenza del Senato americano, assai scarsa quella del Senato francese o di quello canadese); per poteri (il Bundesrat austriaco può presentare proposte per il tramite del Cancelliere mentre le altre seconde Camere lo fanno direttamente); per funzioni svolte (la funzione del Bundesrat tedesco, che dà voce ai governi regionali richiedendo il voto unitario delle delegazioni, è ben diversa da quella del Senato americano che rappresenta in modo paritario gli Stati ma senza un significativo collegamento con i governi degli stessi); per garanzie (in Australia lo scioglimento non può riguardare il solo Senato); ciononostante è comune l'intento di controllare e temperare i poteri della Federazione o dello Stato centrale con i poteri o gli interessi degli Stati membri o delle comunità regionali.
Ad analoga struttura possono corrispondere funzioni diverse anche in relazione alla presenza o meno di partiti regionali e ai rapporti di forza fra formazioni politiche alternative in centro e in periferia (per esempio negli anni novanta il Partito socialdemocratico era in maggioranza nel Bundesrat e in minoranza nel Bundestag). In ogni caso non sempre ai disegni normativi corrispondono le funzioni effettivamente svolte: in più di una circostanza, per esempio, il Senato degli Stati Uniti ha svolto nei confronti della Camera dei rappresentanti una funzione non di freno ma di stimolo. Infatti, essendo assai esteso il collegio elettorale dei senatori, diventa più importante nel Senato che nella Camera il peso delle grandi agglomerazioni urbane e delle minoranze che in esse sono concentrate (v. Krasner e Chaberski, 1982).
In modo diretto o indiretto anche in questi Stati la seconda Camera è espressione della sovranità popolare, sia pure articolata su diversi livelli territoriali, distinguendosi in ciò nettamente dalle altre seconde Camere pur sempre ispirate (a parte l'anomalo Senato italiano) a principî aristocratici (se non per nascita, per i titoli posseduti) o a principî corporativi.
La tendenza nei moderni ordinamenti è dunque duplice: o si passa al sistema unicamerale o, con un'ulteriore differenziazione delle due Camere, si riconosce nella seconda la sede per la partecipazione delle comunità regionali ai processi decisionali nazionali; tale tendenza accentua però la asimmetria delle seconde Camere nei poteri di indirizzo politico: non si hanno esempi, neanche in Stati a forte impronta federale, di Camere a rappresentanza territoriale chiamate a esprimere la fiducia ai governi.È comunque cresciuto in questo secondo dopoguerra il numero dei parlamenti unicamerali, sia per le scelte dei paesi di nuova indipendenza sia per il passaggio a questo sistema di alcuni paesi occidentali: per esempio nel 1975 la Svezia e la Grecia, nel 1976 il Portogallo, nel 1953 la Danimarca, nel 1950 la Nuova Zelanda.
Data la varietà delle forme ispirate al principio bicamerale, non è agevole individuare una tipologia delle relazioni fra le due Camere. Operando una sommaria sintesi si possono individuare le seguenti tendenze.
1. La 'fiducia' o 'sfiducia' al governo, là dove sono previste, sono sempre riservate alla Camera bassa (con l'eccezione dell'Italia) anche se qualche volta non viene esclusa la possibilità di forme limitate di sindacato politico da parte della Camera alta (Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Spagna, Austria, Australia, Irlanda e altri paesi ancora).
2. Il potere di iniziativa legislativa spetta ai parlamentari di entrambi i rami del parlamento (ma talvolta l'iniziativa che comporta una spesa è riservata alla Camera bassa, per esempio negli Stati Uniti).
3. La legge ordinaria tende a porsi quale 'atto complesso' per la cui approvazione si rende necessaria una doppia votazione delle due Camere (le cosiddette 'navette'). Tale concorso assai raramente è paritario (bicameralismo perfetto), spesso è asimmetrico (bicameralismo ineguale). La funzione legislativa, infatti, tende ad avere il proprio baricentro nella Camera bassa, seguendo così lo schema delle competenze delle Camere dei comuni e dei lord quale si è evoluto nei secoli e definitivamente fissato nei Parliament acts del 1911 e del 1949. Tale schema può essere così riassunto: i poteri della Camera alta sono in alcuni casi limitati alla presentazione di progetti in ordine ai quali però decide definitivamente la Camera bassa; in altri casi, più frequenti, a tale facoltà si aggiunge il potere di approvare emendamenti a progetti già approvati dalla Camera bassa, in ordine ai quali comunque la decisione definitiva spetta a quest'ultima. In altri casi ancora è data alla Camera alta anche la possibilità di porre un veto al progetto. Ma sarà sempre la Camera bassa ad adottare la decisione definitiva, cosa che a seconda delle materie avverrà o dopo un certo numero di mesi o in tempi più ristretti, ma con un innalzamento del quorum per la decisione.
4. Le leggi di revisione costituzionale sono invece approvate quasi sempre con il metodo della deliberazione paritaria.
5. Le Camere lavorano separatamente senza particolari forme di coordinamento dei loro lavori (se non per il tramite dell'iniziativa del governo), ma talvolta è prevista la loro riunione congiunta per svolgere funzioni elettive (Italia, Svizzera), per deliberazioni d'emergenza (Austria), per dirimere conflitti fra esse (Svizzera), o nell'ambito del procedimento di revisione costituzionale (Francia).
6. La differenza di posizione fra le due Camere si riflette anche nell'organizzazione della cosiddetta 'giustizia politica': la Camera bassa ha il compito di porre in stato d'accusa ministri e capi di Stato, la Camera alta, meno coinvolta nell'indirizzo politico, quello di giudicare e condannare.
I più rilevanti poteri di indirizzo politico, e in particolare il potere di concedere o negare la fiducia, sono dunque concentrati nella Camera di diretta derivazione popolare. E del resto la natura del rapporto fiduciario fra parlamento e governo mal tollererebbe un doppio circuito fra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e governo. Questo doppio circuito sarebbe espressione di un cattivo funzionamento delle procedure democratiche e fonte di instabilità governativa. Gli unici paesi che possono permettersi il riconoscimento di un bicameralismo 'meno ineguale' (come gli Stati Uniti, almeno per la politica estera) sono quelli retti da governi presidenziali (i cui vertici possono talvolta trovare utile il conflitto fra le due Camere).
Fa eccezione l'Italia, il cui bicameralismo ha potuto reggere proprio perché sono state progettate due Camere la cui composizione riduce le possibilità di maggioranze divaricate. È bastata però una ulteriore lieve differenziazione nei sistemi di elezione di Camera e Senato per fare emergere nelle elezioni politiche del marzo 1994 il pericolo di due diverse maggioranze parlamentari.
Il bicameralismo costituisce uno dei nodi irrisolti della Costituzione italiana: alla sua attuale configurazione si pervenne non sulla base di un disegno ma per effetto di veti reciproci: il no di liberali e cattolici ai progetti monocamerali, sostenuti dalle sinistre, fece da contrappeso al no delle sinistre al 'Senato delle Regioni' (che si sarebbe però voluto eletto sulla base di rappresentanze professionali e di categoria) sostenuto dal centro cattolico. Si finì per seguire la via dell'elezione popolare, affidando gli elementi di differenziazione alla diversa età dell'elettorato attivo e passivo e alla diversa durata delle rispettive legislature (secondo la Costituzione del 1948, corretta su questo punto nel 1963, la Camera si sarebbe rinnovata ogni 5 anni e il Senato ogni 6). Si affermò altresì che il Senato è eletto "su base regionale", ma si tratta di un'affermazione generica, peraltro interpretata dal legislatore in modo riduttivo, limitandosi a prevedere l'elezione dei senatori attraverso circoscrizioni a dimensione regionale. Contemporaneamente veniva raccomandato al legislatore ordinario un diverso sistema elettorale (proporzionale alla Camera e uninominale al Senato, secondo l'ordine del giorno Nitti). L'elezione popolare diretta finì tuttavia per determinare la parità delle funzioni, non potendosi stabilire la preminenza di una Camera sull'altra.
Il risultato si prestò a critiche: gli unicameralisti temevano che la differenziazione avrebbe potuto vanificare la possibilità di incidenza della sovranità popolare; i fautori del bicameralismo temevano che una differenziazione non marcata avrebbe potuto far scivolare verso forme di 'dittatura dell'assemblea'. In realtà l'esperienza maturata ha dimostrato che erano infondati i timori degli uni e degli altri: la forza unificante assunta dal sistema dei partiti ha ridotto a episodi marginali i conflitti politici fra l'una e l'altra Camera, temuti dai fautori della soluzione unicamerale (talmente temuti che era stato inizialmente previsto il ricorso al referendum per dirimere i possibili contrasti fra le due Camere); d'altra parte le scelte delle principali forze politiche, la discreta tenuta del principio dell'equilibrio fra i poteri assicurata dalla Corte costituzionale (che anzi talvolta interferisce attivamente nella produzione legislativa, comportandosi quasi da 'terza camera') e l'attivazione dell'istituto del referendum abrogativo hanno fugato i timori dei bicameralisti per possibili dittature della maggioranza (degenerazioni assemblearistiche sono state registrate nelle relazioni fra parlamento e governo, ma non per eccesso di forza bensì per debolezza delle maggioranze).
L'esperienza ha in realtà plasmato il bicameralismo italiano nella direzione di un 'monocameralismo imperfetto', che ha i difetti 'monisti' del monocameralismo e le procedure ripetitive del bicameralismo senza tuttavia avere i pregi né dell'uno, né dell'altro. È una situazione senza precedenti in altri ordinamenti; qualche affinità può essere forse trovata con i Parlamenti norvegese e islandese, i cui rappresentanti si dividono ogni anno in due Camere, ma in realtà l'elezione unitaria del medesimo corpo rappresentativo allontana in ogni caso, in quegli ordinamenti, i citati possibili pericoli di divaricazione delle maggioranze.
Le istituzioni parlamentari presentano caratteri ricorrenti con regolarità in tutti gli ordinamenti liberaldemocratici, alcuni dei quali appaiono come un necessario corollario della funzione stessa di rappresentanza politica, altri sono basati su comuni tradizioni.
Proviamo a indicare in forma necessariamente sintetica alcune di queste caratteristiche, la maggior parte delle quali, proprio perché riferite al 'tipo ideale' di parlamento indicato sopra, possono essere indifferentemente espresse sia sotto il profilo descrittivo che sotto quello prescrittivo.
I. Le istituzioni parlamentari presuppongono un complesso di condizioni che le mettano in grado di assicurare una comunicazione effettiva fra Stato e società. Decisiva al riguardo la presenza di procedure idonee a selezionare, per la composizione di quelle istituzioni, élites recettive e competitive. Perché le istituzioni parlamentari corrispondano, sia pure parzialmente, al citato modello liberaldemocratico, almeno una delle assemblee in cui tende ad articolarsi un parlamento deve essere: a) espressa da un elettorato corrispondente il più possibile alla cittadinanza attiva (sempre più si avverte come un limite in grado di alterare i caratteri di rappresentatività che devono possedere le assemblee parlamentari la preordinata emarginazione di intere etnie o di un intero genere, come per secoli è accaduto all'elettorato femminile); b) eletta in base a elezioni effettuate con tecniche tali da esprimere la libera volontà della comunità rappresentata (in primo luogo la pluralità delle candidature e il voto segreto); c) eletta, infine, sulla base di una competizione elettorale in cui sia stata assicurata un'adeguata eguaglianza di chances nella comunicazione politica (libertà di parola e di propaganda, libertà di associazione politica).
In assenza di queste condizioni il termine 'parlamento' è da ritenersi usato impropriamente. Altrettanto non si può dire per il passato, poiché alcuni di questi caratteri sono il frutto di conquiste relativamente recenti: il voto segreto e il suffragio universale maschile sono stati ottenuti tra la seconda metà dell'Ottocento e il primo dopoguerra.
Anche la traduzione dei voti in seggi deve essere tale da soddisfare alcune condizioni minime. È diffusa l'opinione che il massimo di efficacia rappresentativa (sotto il profilo dell'input) si ha con sistemi di tipo proporzionale, mentre il massimo di efficacia decisionale si ha con sistemi maggioritari (sotto il profilo dell'output). Ma tale affermazione non tiene conto di due elementi: da un lato che la rappresentanza non è solo 'specchio' del paese, ma è anche tecnica per trasformare gli orientamenti popolari in decisioni delle istituzioni (non "appareil photographique" ma "transformateur d'énergie", secondo Duverger: v., 1988); dall'altro che l'efficacia decisionale non può prescindere dalla necessità di assicurare alle istituzioni parlamentari tratti pluralistici tali da riflettere, sia pure in modo non necessariamente proporzionale, i caratteri del corpo politico rappresentato. Sotto questo profilo sono stati gravemente alterati i tratti che contraddistinguono le assemblee parlamentari in quei paesi ove queste sono state elette con sistemi maggioritari incardinati su circoscrizioni corrispondenti all'intero territorio nazionale (assicurando quindi tutti i seggi alla lista vincente senza alcuna rappresentanza delle minoranze) o in quei paesi in cui sono stati adottati sistemi proporzionali con clausole di sbarramento senza prevedere una esenzione per i partiti espressi da minoranze linguistiche.
II. Un'assemblea parlamentare, vale a dire composta di 'rappresentanti politici', si distingue da assemblee di altro tipo - per esempio da un'assemblea di 'portavoce', portatori di un mandato specifico - sulla base dei seguenti elementi: a) si tratta di un'assemblea a carattere permanente e non a carattere intermittente (anche se il suo lavoro può essere suddiviso in sessioni); b) l'elezione della parte prevalente dei componenti avviene sulla base di una legittimazione politica, di una legittimazione, cioè, conferita dalla polis (e non sulla base di altre forme di legittimazione, per esempio quella tecnica o professionale, come in taluni consigli economico-sociali che hanno talvolta l'ambizione di collocarsi fra le istituzioni parlamentari); c) il conferimento del mandato rappresentativo non è di norma soggetto a istruzioni vincolanti ('divieto del mandato imperativo') e, salvo casi eccezionalmente previsti in taluni ordinamenti, non è revocabile; d) l'esercizio del mandato da parte del numero prevalente dei parlamentari, o almeno da parte dei componenti di una delle due Camere, è personale e di norma non delegabile; e) deve essere possibile, attraverso strumenti adeguati (non rielezione, soggezione a critica politica e altro), far valere forme di responsabilità politica.
Sono invece rimaste ai margini impostazioni diverse, volte a privilegiare forme più dirette di democrazia. Queste ultime, elaborate soprattutto dalla dottrina marxista, partendo dalla riflessione di Marx sull'esperienza della Commune (v. Marx, 1871; tr. it., p. 114; cfr. anche l'Introduzione allo stesso volume, di F. Engels, p. 66) e da quella leninista (v. Lenin, 1918; tr. it., p. 108), sono giunte a teorizzare non solo il diritto di istruzione e revoca dei deputati, ma financo la delega di volta in volta a cittadini esperti nelle varie questioni. Successivamente queste posizioni sono state progressivamente ridimensionate (v. Kelsen, 1924; tr. it., p. 85) ma ne è rimasta l'impronta nelle costituzioni di alcuni paesi socialisti.
Questa impostazione è tutt'oggi presente nell'art. 83 della Costituzione di Cuba del 1976 e nell'art. 29 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese del 1978. La formula è pressappoco quella contenuta nell'art. 107 della Costituzione dell'ex URSS che prevedeva la revoca e la sostituzione dei deputati che non si fossero mostrati "degni della fiducia degli elettori". L'ispirazione è alla democrazia diretta, l'effetto è il controllo degli apparati di partito e lo svilimento dell'autonomia del rappresentante.
Di tali ispirazioni alla democrazia diretta c'è ancora traccia anche nelle costituzioni di alcuni Stati membri degli Stati Uniti ove è previsto il recall, l'istituto del ritiro del deputato, e nelle costituzioni di alcuni paesi dell'Europa centrale ove è previsto l'Abberufungsrecht, lo scioglimento del Parlamento su iniziativa popolare (Svizzera e alcuni Länder tedeschi).Il mandato imperativo è tuttora presente in alcune seconde Camere formate da rappresentanti di Stati membri (per esempio nel Bundesrat tedesco), prive tuttavia di significativi poteri di indirizzo politico in ordine alla politica generale del governo. Il divieto del mandato imperativo non esclude tuttavia la presenza di vincoli rilevanti sul piano delle relazioni politiche (la disciplina di partito in primo luogo) ma comporta comunque la nullità di atti, accordi, negozi con cui elettori, partiti o altri soggetti tendano a vincolare il mandato degli eletti (v. Zanon, 1991). È escluso quindi che possano influire sul mandato i rapporti del parlamentare con il partito di appartenenza o con i gruppi che hanno promosso o sostenuto la sua candidatura.
III. Le assemblee politiche, per loro natura, si fondano sul principio di eguaglianza fra tutti i loro membri, riflesso dell'eguaglianza politica che le dottrine del parlamentarismo presumono nella comunità rappresentata (v. Canetti, 1960; tr. it., pp. 226 ss.). Ne discende che il voto all'interno delle assemblee parlamentari deve essere, salvo eccezioni, ispirato al principio di maggioranza. Le deliberazioni delle assemblee parlamentari non possono essere ispirate né al 'principio di saenioritas' (prevalgono i più saggi o chi è portatore di investiture di carattere religioso: è usato in talune assemblee rette dal diritto canonico o dal diritto islamico) né al 'principio di unanimità', tipico delle "conferenze" fra soggetti autonomi ed equiordinati. Quest'ultimo, proprio perché basato sul massimo rispetto dell'eguaglianza, non è idoneo a rappresentare la volontà di un'assemblea. In essa, infatti, l'eguaglianza si rivolterebbe contro se stessa attribuendo un peso diseguale a chi vuole esercitare il potere di interdizione (il voto unanime era richiesto nella Dieta polacca nei secoli scorsi, e tutt'oggi per talune deliberazioni dei consigli economico-sociali).
IV. La funzione parlamentare esige per sua natura la 'pubblicità', vale a dire la formazione delle decisioni mediante procedimenti che consentano il confronto dialettico fra le varie posizioni, assicurando a tal fine a ciascun componente l'assemblea - e, con particolari norme, alle minoranze - il rispetto del diritto di intervento, di iniziativa, di emendamento (government by discussion). Solo la trasparenza della discussione, e di norma delle stesse votazioni, consente il controllo da parte dei rappresentati e l'attivazione e imputazione della responsabilità politica da parte dell'opinione pubblica (v. Habermas, 1962; tr. it., pp. 79 ss.).
Sulla base dello stesso principio di pubblicità è stato possibile giustificare l'ammissibilità di forme di ostruzionismo (filibustering), se ragionevolmente volte a ritardare i lavori parlamentari e a evidenziare le ragioni dell'opposizione più che a impedire la decisione della maggioranza.
Dopo l'iniziale privilege della segretezza, volto ad assicurare la libertà di espressione dei parlamentari (consentiva di punire la pubblicazione di discussioni parlamentari), il Licensing act del 1695 apre vieppiù le assemblee di Westminster e i parlamenti moderni al principio di pubblicità. Ed è significativo che ciò avvenga sei anni dopo la conquista, con il Bill of rights, della piena libertà di parola. Da allora tutti i parlamenti prevedono forme di resocontazione dei lavori (sempre più facilitate dalle moderne tecnologie della comunicazione) e considerano un'eccezione il ricorso a sedute segrete.
Dal medesimo periodo i parlamenti prevedono come regola il 'voto palese', o 'voto pubblico', e come eccezione il ricorso allo scrutinio segreto, usato soprattutto se riferito a persone (con la riforma del regolamento del 1987 si è adeguato a tale orientamento anche il Parlamento italiano). Tuttavia soltanto dal 1853 per la Camera dei comuni e dal 1857 per la Camera dei lord sarà consentito al pubblico assistere alla parte delle sedute destinate al voto.
L'introduzione della disciplina di partito nelle aule parlamentari ha modificato le forme della discussione parlamentare, che tende a svilupparsi sempre meno come colloquio razionale per convincere gli altri componenti l'assemblea e sempre più come modo per esprimere posizioni politiche maturate all'interno dei gruppi parlamentari (quando non in organi di partito), ma sottratte al principio della pubblicità della discussione. Sarà un colpo inferto, dirà Schmitt (v., 1923) all'"etica del parlamentarismo", basata sull'ascolto reciproco, e farà diminuire l'interesse per la discussione parlamentare; nel frattempo però si accrescerà, presso i ceti popolari organizzati dai partiti moderni, la funzione di legittimazione propria dei parlamenti, svolta anche grazie ai partiti stessi.
V. Il libero esercizio della funzione parlamentare esige che siano fissate condizioni di ineleggibilità e incompatibilità. Le prime sono volte a evitare un'eccessiva influenza del candidato sulla libera formazione della volontà dell'elettore garantendo parità di chance nella competizione fra candidati. Le seconde sono volte talora a garantire l'autonomia fra poteri (in tutti gli ordinamenti non si può appartenere a entrambe le Camere o non si può contemporaneamente appartenere al parlamento e mantenere incarichi alle dipendenze del governo), talora a evitare conflitti di interessi per assicurare così un più libero esercizio del mandato parlamentare.
Il divieto si estende in alcuni ordinamenti fino all'incompatibilità fra mandato parlamentare e incarico di governo. Tale incompatibilità è propria dei governi presidenziali (Stati Uniti, Venezuela, ecc.) o di alcuni ordinamenti legati alla tradizione rivoluzionaria francese (oltre alla Francia anche Olanda, Svezia, Norvegia, Lussemburgo e altri). Per i primi ciò è accaduto per un'applicazione rigorosa del principio della separazione dei poteri; per i secondi l'intento originario era di affermare la supremazia dell'assemblea sul governo. Tale principio era stato infatti votato dall'Assemblea Costituente il 67 novembre del 1789 per vietare l'incarico ministeriale a Mirabeau, incarico che avrebbe rafforzato il governo di Luigi XVI e indebolito l'Assemblea Legislativa.
VI. Spetta al parlamento la verifica dei titoli di ammissione al parlamento stesso, la cosiddetta verifica dei poteri. La fase contenziosa che segue all'eventuale contestazione dell'elezione è tuttavia generalmente sottratta ai parlamenti e affidata ai giudici comuni (Australia, Nuova Zelanda, Islanda, e dal 1868 Gran Bretagna) o alle Corti costituzionali, talvolta in via diretta (Francia) talvolta in via d'appello (Germania Federale). In molti paesi invece anche la fase finale rimane affidata alle assemblee parlamentari (Italia, Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Danimarca, Israele).
VII. Spetta a ciascuna Camera darsi una propria presidenza, a cui compete decidere ordine del giorno, data, inizio, interruzione, chiusura delle sedute, nell'ambito di sessioni previste dalle costituzioni o decise dal parlamento stesso.
È un'eccezione, legata alla natura di quell'assemblea, la presidenza del Senato affidata al vicepresidente degli Stati Uniti.
Tradizionalmente le assemblee parlamentari erano convocate e presiedute dai sovrani ma dal XIV secolo, in Inghilterra, le stesse Camere esprimono uno speaker (o prolocutor) quale nuncius e garante dell'ordinato svolgimento dei lavori (fra i primi ad assumere questa veste furono Simone di Montfort e sir Thomas Hungerford).
Negli anni della Rivoluzione si afferma altresì in Francia, per estendersi poi a tutti i parlamenti, l'autonomia della presidenza di ciascuna camera per la polizia delle sedute e la sicurezza delle sedi (ma fin dai tempi di Edoardo III all'apertura del Parlamento inglese si leggeva un bando che proibiva di presentarsi armati). Tale autonomia si rafforzerà dopo le vicende del dicembre 1850 (ricordate da Marx: v., 1852; tr. it., p. 90), quando fu affermata l'immunità delle sedi parlamentari e addirittura si prospettò la costituzione di una speciale polizia parlamentare.
VIII. Spetta altresì alle Camere un'autonomia regolamentare, organizzativa e finanziaria. Conseguenza di tale autonomia è la insindacabilità da parte degli altri organi dello Stato dei cosiddetti interna corporis.
Dopo le vicende del 1789, che nella Francia rivoluzionaria avevano portato l'amministrazione reale a intralciare le sedute e le spese dell'Assemblea, nel 1790 ha modo di affermarsi, questa volta con più chiarezza in Francia che in Inghilterra, la prerogativa di un libero parlamento di darsi un regolamento autonomo, non solo per l'ordine dei lavori ma anche per l'amministrazione. In base a tale principio è altresì riconosciuta l'autonomia finanziaria per le spese di funzionamento delle Camere, nonché la piena autonomia nel reclutamento e nella gestione della burocrazia parlamentare (fino a giungere talora alla cosiddetta autodichia, sottraendo ai tribunali il contenzioso con i dipendenti).Sempre in base a tale principio spetterà alle Camere stesse il pagamento delle indennità ai parlamentari, considerate dall'inizio di questo secolo, dopo l'estensione del suffragio universale, condizione di eguaglianza nell'accesso al mandato rappresentativo e garanzia di indipendenza nell'esercizio dello stesso.
IX. Il libero esercizio della funzione parlamentare richiede la libertà di parola e di voto di ciascun rappresentante, assicurando a tale scopo specifiche garanzie non previste per i comuni cittadini. L'espressione più usata è quella di 'prerogative' (dalle centurie prae-rogatae, che nei comitia dell'età repubblicana, avevano il diritto di votare per prime), o di 'guarentigie', per sottolineare che esse sono a tutela del mandato parlamentare e quindi, a differenza dei privilegi, sono 'irrinunciabili e indisponibili' da parte del rappresentante. In forza di tali prerogative il membro del parlamento è esente da ogni responsabilità civile, penale e amministrativa per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle funzioni (cosiddetta insindacabilità).
È altresì prevista l''immunità dagli arresti' (la cosiddetta inviolabilità) nonché da ogni altro atto di coercizione, anch'essa volta alla tutela del mandato rappresentativo da possibili atti persecutori (in qualche ordinamento viene prevista anche l'autorizzazione a procedere in giudizio, come nella Costituzione italiana fino alla riforma operata nell'ottobre 1993 in seguito all'esplodere di fenomeni di corruzione politica). Mentre l'insindacabilità non può mai essere rimossa, l'inviolabilità può essere rimossa mediante apposita autorizzazione da parte della camera di appartenenza.
L'inviolabilità trova la sua origine in epoca recente, in particolare nell'art. 8 della Costituzione francese del 1791, e si è poi rapidamente estesa a gran parte dei parlamenti (ma non a tutti); l'insindacabilità è invece considerata da più tempo prerogativa essenziale in ogni istituzione parlamentare.
La sua fonte è ancora nel Parlamento inglese: le prime significative rivendicazioni risalgono al 1397, dopo le reazioni che seguirono alla condanna a morte del deputato Thomas Haxley, reo di avere censurato la Corte reale; nel 1523 lo speaker Tommaso Moro proclama la libertà di parola dei parlamentari (che sarà preziosa successivamente nella battaglia contro l'assolutismo regio, prima contro Elisabetta Tudor, poi contro gli Stuart) ma solo il Bill of rights sancirà definitivamente il 13 febbraio 1689, al punto 8, "The freedom of speech, and debates or proceedings in Parliament".
Queste guarentigie, come del resto quelle indicate al punto precedente, traggono origine dalle battaglie per l'indipendenza nei confronti del governo del re; oggi però, in presenza di un diffuso regime di supremazia della costituzione, lungi dall'essere superate (come si affermava qualche decennio fa) esse tendono ad assumere un significato più ampio. Possono essere volte a contrastare non solo i possibili abusi del governo ma altresì gli abusi di altri poteri, fra cui il potere giudiziario, la cui forza è molto cresciuta in tutti i regimi liberaldemocratici. Qualora non se ne abusi per precostituire privilegi a favore del ceto politico presente nelle assemblee, tali prerogative possono collocarsi fra i checks and balances del costituzionalismo contemporaneo in quanto garantiscono il principio stesso della separazione dei poteri (il richiamo a Montesquieu si trova del resto anche in Francia alle origini dell'istituto dell'immunità parlamentare).
X. I parlamentari si organizzano in genere in 'gruppi parlamentari', quasi sempre esplicitamente richiamati nei regolamenti o nella stessa costituzione (Italia, Portogallo). Nei vecchi parlamenti liberali tali gruppi sorgono per rispondere a esigenze di coordinamento fra parlamentari di opinioni affini; anzi i primi partiti di opinione, per lo più moderati, nascono, lo si accennava prima, come proiezione esterna di tali raggruppamenti. Il percorso inverso sarà invece effettuato dai partiti di massa che, sorti dal seno della società, cercano poi una proiezione nei gruppi parlamentari. In genere questi si sono costituiti con caratteristiche organizzative analoghe a quelle attuali dopo l'introduzione del sistema elettorale proporzionale: così in Italia solo dopo il 1919, anno in cui si svolgono le prime elezioni con questo sistema, si costituiscono veri e propri gruppi parlamentari corrispondenti ai partiti presentatisi in tutto il territorio nazionale con il medesimo simbolo e le medesime caratteristiche (v. Lotti, 1963).
I regolamenti parlamentari si avvalgono della presenza dei gruppi parlamentari per meglio regolare i lavori, realizzando apprezzabili economie negli stessi. La presenza dei gruppi incide sull'organizzazione e la promozione dei lavori parlamentari a seconda della forma di governo in cui si sono inseriti: l'incidenza sarà massima nei sistemi di democrazia consociativa, più ridotta nei sistemi che danno rilievo alle prerogative del 'governo in parlamento' (nei sistemi di derivazione anglosassone, tendenzialmente bipartitici, il gruppo di opposizione si costituisce in 'governo ombra', shadow cabinet, riconoscendo funzioni pubbliche al leader dell'opposizione).
A una maggiore influenza dei partiti nel sistema politico, e quindi dei gruppi nell'ordinamento parlamentare, corrisponde una possibile compressione dei diritti dei singoli parlamentari spesso non solo sottoposti a una disciplina rigida, ma talvolta, soprattutto nelle assemblee pletoriche, costretti a vedere limitati i loro poteri di intervento nella discussione.
XI. I parlamenti moderni si organizzano in commissioni con funzioni istruttorie o ausiliarie rispetto alle assemblee. Le commissioni possono essere permanenti o temporanee, articolate per competenze ordinarie (per lo più corrispondenti ai grandi settori della politica governativa) o per competenze speciali. Dall'inizio di questo secolo (in Italia dal luglio 1920) sono costituite in modo da riflettere, con criterio più o meno proporzionale, la stessa composizione politica delle assemblee.
Le commissioni di inchiesta sono dotate dei poteri di indagine e coercitivi propri dell'autorità giudiziaria, poteri che possono essere conferiti ad hoc o essere permanenti, come è ad esempio previsto per la Commissione Difesa del Bundestag o per gli Investigating committees del Congresso degli Stati Uniti.Allo scopo di coordinare il lavoro istruttorio di più assemblee possono essere previste commissioni bicamerali, il più delle volte con il compito di risolvere i conflitti fra le due camere (Stati Uniti, Australia, Giappone, Belgio, Austria, Spagna e soprattutto Germania, che prevede nella Costituzione una procedura molto analitica). Nell'ordinamento italiano le commissioni bicamerali (dalle commissioni di inchiesta a quelle di controllo su settori dell'amministrazione) sono state invece introdotte in misura crescente negli ultimi decenni allo scopo di rafforzare i poteri di controllo del Parlamento.
Il lavoro delle commissioni precede il lavoro legislativo e politico dell'assemblea, in tutto o in parte. Solo in due paesi (Italia e Spagna) è consentita nel procedimento legislativo l'attribuzione di poteri decisionali alle Commissioni, determinando così sia un indebolimento della funzione direttiva del governo, sia effetti negativi di settorializzazione, frantumazione e moltiplicazione della produzione legislativa (di qui in Italia il fenomeno delle cosiddette 'leggine'). L'esigenza di sottoporre ogni interesse a una discussione politica, che è uno degli elementi che distinguono il sistema parlamentare rispetto a quello corporativo (v. Schmitt, 1928; tr. it., p. 416), richiederebbe invece che fosse riconosciuta all'intera assemblea ogni decisione legislativa (ed infatti il sistema delle cosiddette Commissioni in sede legislativa è eredità, in Italia, della Camera dei fasci e delle Corporazioni).
In quasi tutti i sistemi costituzionali, e in modo più netto in quelli di orientamento liberaldemocratico, il parlamento assolve le seguenti quattro funzioni: di rappresentanza, legislazione, controllo, indirizzo politico. Quest'ultima funzione, presente solo nei sistemi parlamentari o di tipo semipresidenziale, è svolta in collaborazione con il governo e, nei sistemi semipresidenziali, anche con il presidente della Repubblica.
Questa classificazione non si discosta molto, nella sostanza, dalle cinque funzioni che Walter Bagehot individuava nel 1867 per la Camera dei comuni (di investitura del premier, rappresentativa, pedagogica, informativa, legislativa).
Alcune di tali funzioni trovano corrispondenza in procedimenti e atti tipici (per esempio la legge per la funzione legislativa), altre, in particolare la funzione di rappresentanza, si esprimono in forme libere e non sempre sono sussumibili entro schemi prescrittivi.
a. La funzione di rappresentanza
La rappresentatività del parlamento costituisce il presupposto necessario per l'esercizio di ogni funzione parlamentare, ma è tuttavia possibile individuare anche una funzione di rappresentanza come funzione a sé. Nei sistemi costituzionali moderni vari soggetti svolgono funzioni di rappresentanza di parti della società di fronte allo Stato, ma solo il parlamento ha una funzione costituzionale di rappresentanza della società nello Stato, di comunicazione fra governanti e governati (di re-ad-praesentare). Si tratta di una forma di rappresentanza 'politica', relativa non a parti o settori della società ma all'intera comunità politica, vale a dire di rappresentanza non di interessi particolari ma di tutti gli interessi generali che emergono nella comunità politica.
Di qui il duplice volto del parlamento, quasi Giano bifronte: volto dello Stato, di cui è organo, e volto della società, di cui è rappresentante. Di qui la funzione dei parlamenti moderni di essere, assieme ad altre assemblee elettive, oltre che tramite tra i cittadini e il potere pubblico, sede specifica, attraverso i gruppi parlamentari, dell'attività dei partiti politici, soggetti attraverso cui i cittadini in questo secolo partecipano in modo più diretto e continuo alla politica nazionale (v. Leibholz, 1973).
La funzione rappresentativa, in quanto funzione di rappresentanza politica, è volta alla tutela di interessi ma non è assimilabile né alle forme di rappresentanza proprie del diritto privato, né alle forme di espressione immediata degli interessi proprie degli istituti della democrazia diretta (v. Cotta, 1983, p. 955). Tali interessi sono valutati, come si è visto sopra, in autonomia dallo stesso rappresentante, senza vincolo di delega o di mandato. Al di là del riferimento alla dimensione territoriale, è questo il senso della legge votata dall'Assemblea nazionale francese il 22 dicembre 1789 in cui è sancito, in modo più netto che nella stessa Inghilterra, che "i rappresentanti [...] non potranno essere considerati come i rappresentanti di un Dipartimento particolare ma come i rappresentanti [...] della Nazione", così anticipando una analoga affermazione della Costituzione del 1791 che aggiungerà il divieto di conferire mandati specifici (e che farà da modello per le altre Costituzioni, fra cui l'art. 67 della Costituzione italiana). Analoga ispirazione si può trovare negli stessi anni nella Costituzione americana, pur condizionata dal difficile rapporto fra federalismo ed eguaglianza politica; come si legge nel Federalist, i rappresentanti dovranno formare "un corpo scelto di cittadini che per la loro saggezza possano meglio distinguere i reali interessi della loro patria [...] e sono meno tentati di sacrificare questi ultimi in nome di considerazioni contingenti e particolari" (cfr. The Federalist, n. 10 e n. 35).
La rappresentanza è stata definita una 'necessaria finzione' e si è tentato di ridurla ora ad una mera 'scelta di capacità' di persone investite per le loro virtù e competenze (v. Orlando, 1944) ora alla scelta di meri 'portavoce'. È significativo che, in questo secolo, le istituzioni parlamentari siano state contestate su un duplice fronte, da parte di regimi autoritari volti a fare regredire la funzione rappresentativa e da parte di movimenti volti ad affermare istanze di democrazia diretta (v. Kelsen, 1924).
La politicità della rappresentanza deriva dallo stesso processo di decisione politica su cui si fonda la costituzione e l'unità politica di uno Stato. Da qui trae origine la sovereignty of parliament, che non è quindi in contraddizione con la sovranità popolare, a cui va invece ricondotta costantemente. Contrapporre sovranità del parlamento a sovranità popolare, o viceversa, non significa solo dare spazio nel primo caso a restrizioni oligarchiche, o viceversa, nel secondo caso, a degenerazioni plebiscitarie. Significa anche porsi in contrasto con la sovereignty of constitution, da cui entrambe le sovranità debbono essere condizionate.
La politicità della rappresentanza ha fatto sì che il parlamento potesse svolgere nei secoli una funzione di integrazione nazionale e sociale. Proprio in ragione di ciò in gran parte degli ordinamenti costituzionali il parlamento è ancora attore, sia pure non esclusivo, del processo di revisione costituzionale, nonché titolare (eventualmente integrato nella composizione) dell'elezione del capo dello Stato (là dove esso non trae la propria legittimazione ex iure, come nelle monarchie, o dove questa decisione non è direttamente rimessa al corpo elettorale). Per le medesime ragioni compete al parlamento una funzione più o meno incisiva di indirizzo politico (connessa, anche se non coincidente, con la funzione di rappresentanza politica) a meno che questa non competa, come nei sistemi presidenziali o 'costituzionali puri', in via esclusiva al governo.
Sempre per le stesse ragioni la funzione di rappresentanza, ai confini con la più specifica funzione di controllo, ricomprende anche l'assunzione di compiti di garanzia. Essa "proviene al parlamento dal suo legame organico con la comunità popolare" (v. Manzella, 1991, p. 354) ed è diretta a impedire che da parte dei supremi organi e da parte di altri rilevanti poteri pubblici si abbia un esercizio non costituzionalmente corretto degli stessi. È una generale funzione di difesa della costituzione che copre l'intera attività di diritto costituzionale (o costituzionalmente rilevante), con il solo limite del rispetto dei singoli atti posti in essere da soggetti dotati di autonomia costituzionalmente garantita (per esempio i singoli giudici nell'esercizio delle loro funzioni).
Appartiene alla stessa funzione di difesa della costituzione l'istituto dell'impeachment nei confronti del capo dello Stato, istituto ricondotto al parlamento, nelle forme più diverse (talvolta solo l'accusa, talaltra l'accusa da parte della Camera bassa e il giudizio da parte della Camera alta). È funzione presente pressoché in ogni ordinamento (anche di tipo presidenziale), almeno dai tempi in cui il Parlamento inglese condannò Carlo I alla pena capitale. Rientra nella medesima funzione la nomina di una parte dei componenti i tribunali costituzionali (Italia, Germania, Austria, Olanda, Belgio, Israele) o di una parte dei componenti gli organi di garanzia della magistratura (Italia e Spagna).Pressoché in ogni ordinamento, e proprio in forza della sua funzione di rappresentanza popolare, la legittimazione ultima di ogni decisione compete dunque al parlamento. Un'eccezione è data dai regimi confessionali o a ideologia di Stato che ripongano la propria legittimazione o in autorità religiose o nel partito unico. Questa funzione di legittimazione è bene espressa nelle prime costituzioni liberali: così, per esempio, recitavano gli artt. 37 e 40 dello Statuto costituzionale del Regno di Sicilia del 1848: "Le questioni di successione saranno decise dal Parlamento"; "alla morte del re l'immediato successore dovrà farsi conoscere dal Parlamento". Il "farsi conoscere" indica chiaramente la funzione di legittimazione del parlamento, proprio in quanto 'forma' della sovranità nazionale o, con linguaggio più moderno, della sovranità popolare.
Non appare azzardato quindi ritenere, in base all'esperienza sia degli ordinamenti liberaldemocratici che di altri ordinamenti più fragili, che è il parlamento, in via di principio, "il sovrano che decide in regime d'eccezione" (tranne espresse disposizioni contrarie della costituzione: per esempio gli artt. 16 e 48 delle Costituzioni, rispettivamente, di Weimar e della V Repubblica francese). Se questa delicata funzione di difesa della costituzione non viene assunta dal parlamento, il vuoto è riempito da altri organi costituzionali, per lo più il capo dello Stato. Ma la storia dimostra che esso avvertirà pur sempre il bisogno della legittimazione popolare, o diretta, nella forma del plebiscito, o indiretta, nella forma della legittimazione parlamentare.
b. La funzione di indirizzo politico
La funzione di indirizzo politico, come anticipavamo, è propria dei parlamenti collocati all'interno delle forme di governo parlamentare o, in modo più ridotto, della forma di governo semipresidenziale. Nelle forme di governo presidenziale il parlamento ha vari strumenti, primo fra tutti l'approvazione del bilancio, con cui può far pesare una sia pur limitata capacità di indirizzo, condizionando l'esecutivo che di tale funzione è titolare esclusivo.
La funzione di indirizzo consiste nell'indicare gli obiettivi che il governo è tenuto a perseguire e che il parlamento fissa anche come propri. In tal modo si pongono i presupposti per attivare quelle forme di collaborazione che sono tipiche dei regimi di gabinetto e che trovano il loro momento iniziale nell'atto di investitura del governo.Tale collaborazione fra esecutivo e legislativo si realizza, in primo luogo, attraverso l'istituto della fiducia, che ne costituisce il momento iniziale. Talvolta può tuttavia mancare un iniziale atto espresso di fiducia, che può essere presunto (così ad esempio in Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Finlandia, Islanda, V Repubblica francese, Austria) ovvero sostituito dall'atto di elezione del capo del governo da parte del parlamento (ad esempio nella Costituzione di Bonn o del Giappone). La collaborazione trova il suo momento conclusivo nella sfiducia parlamentare e nel conseguente obbligo di dimissioni del governo. In taluni ordinamenti (per esempio nella Germania Federale) la sfiducia può essere votata solo se accompagnata dalla contestuale indicazione del nuovo governo: la cosiddetta sfiducia costruttiva. Il rapporto fiduciario è alimentato e verificato per tutta la durata del governo mediante l'approvazione di atti di indirizzo politico, non sempre tipizzabili come tali (mozioni, risoluzioni, voto del bilancio, autorizzazioni alla ratifica di trattati e accordi internazionali, e così via).
Nelle democrazie maggioritarie, cui corrisponde per lo più un sistema di partiti a dinamica bipolare o addirittura a struttura bipartitica, la funzione di investitura dei governi è tuttavia riconducibile allo stesso corpo elettorale, il quale eleggendo il parlamento ha modo di esprimersi sullo stesso leader di governo (per lo più il leader del partito che ha vinto le elezioni o del partito pivot di un'alleanza elettorale fra più partiti).
Ma anche in molte democrazie consociative (per la distinzione fra democrazie consociative e maggioritarie v. Lijphart, 1984), costrette a ricorrere a governi di coalizione, la funzione di esprimere i governi è in genere assunta di fatto dagli stessi partiti della coalizione. Viene da qui l'affermarsi - per esempio in Italia, Belgio, Danimarca, Francia della IV Repubblica - della prassi delle dimissioni del governo nel caso di dimissioni di ministri politicamente motivata (ormai le crisi extraparlamentari sono praticamente la norma un po' dovunque: v. Colliard, 1978). Tali prassi vanifica ogni tentativo di rendere più stabili i governi mediante congegni costituzionali di cosiddetta razionalizzazione (v. Mirkine-Guetzevitch, 1951), ivi compresa la 'sfiducia costruttiva'.
In entrambi i tipi di democrazia, in condizioni di normalità, l'atto di nomina da parte del capo dello Stato perde quei caratteri di discrezionalità che ancora possedeva nei vecchi regimi parlamentari e assume spesso i tratti propri degli atti dovuti, mentre il parlamento si limita a registrare la volontà o del corpo elettorale o dei partiti.
Nelle forme di governo parlamentare sottoposte a una dinamica bipolare (il 'modello Westminster') l'influenza del governo sulla maggioranza è tale che esso tende a porsi quale vero e proprio 'comitato direttivo della maggioranza'. Tale influenza deriva, oltre che dalla ricorrente identificazione di premier e leadership del partito al governo (v. Elia, 1970), dal riconoscimento al premier di particolari poteri, che possono giungere fino alla fissazione dello stesso ordine del giorno delle camere e alla determinazione dei tempi per l'approvazione dei progetti governativi. Tale materia, invece, riguarda le Camere stesse sia nei sistemi presidenziali (negli Stati Uniti è compito della Commissione per il regolamento), sia nei sistemi a tendenza assembleare (in essi tale potere viene riconosciuto alla maggioranza assembleare o affidato, come in Italia, alla competenza dei presidenti delle Camere in collaborazione con i gruppi parlamentari di maggioranza e opposizione).
c. La funzione legislativa
In base al principio della separazione dei poteri, al parlamento spetta essenzialmente la funzione legislativa: esso è anzi la sede per eccellenza del potere legislativo. A suo favore opera in quasi tutti gli ordinamenti una riserva di funzioni costituzionalmente garantita (riserva di legge) che non opera invece, in senso inverso, a favore delle amministrazioni (con la sola eccezione dell'attuale Costituzione francese, in cui opera una 'riserva di regolamento' a favore dell'esecutivo). Il sovrano, per lungo tempo considerato la 'terza Camera', ha visto regredire sempre più il suo potere nella legislazione. La sanzione regia, necessaria nelle monarchie costituzionali per rendere valida la manifestazione della volontà legislativa delle Camere, si è tramutata, per lo più nelle forme monarchico-parlamentari, in un atto formale (coincide con la 'promulgazione') o si è tradotta, per lo più nelle forme repubblicane, al massimo in un 'veto sospensivo', rimovibile con una nuova deliberazione parlamentare.
Alle origini la riserva di funzione legislativa al parlamento traeva alimento dalla 'divisione del potere sociale' fra il re - espressione della nobiltà fondiaria e militare - e il parlamento, in cui era sempre più forte il potere delle Camere di estrazione borghese, in rappresentanza di città, borghi, piccola nobiltà. In base a tale schema il potere esecutivo è riconosciuto al re, che però, nell'esercizio di tale potere, deve mantenersi entro il limite delle leggi approvate dal parlamento. E proprio tale funzione della legge, di limite e di cornice insieme, esalterà ancor di più le caratteristiche di 'generalità e astrattezza' che appartengono per vocazione alle disposizioni normative.
L'emergere della funzione legislativa del parlamento sarà ancora più netta allorché si accompagnerà al regresso delle funzioni giudiziarie svolte dallo stesso parlamento e all'affermarsi, quindi, di un potere giudiziario distinto sia dalla corona che dal parlamento. Mentre in Inghilterra il parlamento manterrà alcune funzioni giurisdizionali (soprattutto nella Camera dei lord), nell'Europa percorsa dai fremiti della Rivoluzione, dove era più radicale la separazione dei poteri, si avvertì subito che anche il potere dei giudici di 'interpretare le leggi' poteva determinare pericolose invasioni di campo: in Francia, con decreto del novembre-dicembre 1790, fu istituito, come organo ausiliare del Parlamento ("près du corps legislatif"), un Tribunal de cassation (la definizione inizialmente proposta era 'Conseil national pour la conservation des lois') con il compito di cassare quelle decisioni giudiziarie che, contravvenendo al principio di separazione dei poteri, pretendessero, scostandosi dalla legge, di legiferare per il caso singolo (v. Calamandrei, 1920).
Inizialmente si era addirittura stabilito il divieto per i giudici di interpretare la legge, riservando tale potere alle assemblee legislative e chiedendo ai giudici di rivolgersi alle stesse in caso di dubbio o in caso di contrasto fra diverse pronunce giudiziarie (il référé, facultatif nel primo caso, obligatoire nel secondo). È significativo che a favore del parlamento, il nuovo sovrano nell'Europa della Rivoluzione, si sia adottato un istituto, la demande en cassation, che nell'ancien régime provocava l'intervento del re contro le sentenze dei Parlements della periferia francese. Dopo appena qualche decennio, però, la cassazione sfuggirà all'orbita del parlamento ed entrerà a pieno titolo nel potere giudiziario, collocandosi al vertice dello stesso. Della sua iniziale funzione rimarrà alla cassazione solo il tradizionale divieto di entrare nel merito delle singole decisioni giudiziarie.
Altro spazio sarà tolto al parlamento e assunto dal potere giudiziario allorché si affermerà, nell'Europa continentale, il controllo di legittimità costituzionale come controllo dei limiti alla stessa funzione legislativa dei parlamenti. Da allora la funzione legislativa perderà le caratteristiche di potestà legislativa assoluta, propria di un parlamento espressione della 'volontà generale', che il costituente rivoluzionario aveva voluto, per reinserirsi progressivamente nella più equilibrata e consolidata tradizione anglosassone. La data dell'ottobre 1920, in cui viene varata la Costituzione austriaca che, su progetto di Hans Kelsen, aveva istituito il primo Tribunale costituzionale (Verfassungsgerichtshof) si collega idealmente all'altra data, il febbraio 1803, in cui viene decisa dal giudice John Marshall la sentenza nel caso Marbury contro Madison. Se con quest'ultimo caso si era determinato l'avvio di un sistema 'diffuso' di giustizia costituzionale (in cui cioè è riconosciuto ad ogni giudice il potere di disapplicare le norme incostituzionali) con il progetto di Kelsen prende l'avvio un sistema di giurisdizione 'accentrata' presso apposite Corti costituzionali. Si portava così a compimento nelle ex colonie britanniche prima e nell'Europa continentale poi una dura battaglia dei giudici inglesi, iniziata da lord Edward Coke, con il Bonham's case del 1610, sia contro gli arbitri di Giacomo I Stuart sia contro gli arbitri del Parlamento, per l'affermazione attraverso la judicial review del primato della common law sulla statute law (v. Cappelletti, 1968, pp. 43 ss.). La celebre affermazione di De Lolme (1776) secondo cui il parlamento può fare tutto ciò che non è impossibile in natura ("per esempio fare d'una donna un uomo, né d'un uomo una donna") era quanto di più lontano dalla realtà e veniva contraddetto ripetutamente dai giudici d'Inghilterra (massime in Fischel, II, p. 245). La Gran Bretagna non ha un sistema di giustizia costituzionale, che potrebbe scalfire la 'supremacy of the Parliament', ma, come sottolineerà Dicey (v., 1885), le leggi inglesi sono legate a un diritto superiore: esse non sono la fonte ma la conseguenza dei diritti soggettivi degli individui.
Fino ai primi decenni di questo secolo la legge tendeva soprattutto a porre le regole entro cui si sarebbero espresse le libertà dei cittadini nonché, come si diceva, a porre i limiti entro cui si sarebbe svolta l'azione del governo. Era caratteristica della legge, come già detto, porre norme effettivamente generali e astratte. Con l'intensificarsi, dal primo dopoguerra, dell'intervento pubblico e con l'avvento dello 'Stato sociale' la legge cambia i propri connotati: tende a diventare strumento di governo, 'provvedimento' più che 'norma' (Maßnahmegesetz secondo la dottrina tedesca, che ha analizzato più a fondo questo fenomeno). Oggi si governa non solo eseguendo leggi e non solo con il limite delle leggi ma anche attraverso le leggi.
L'intreccio fra politica ed economia che caratterizza le società contemporanee e il diverso rapporto fra legge e amministrazione che ne deriva (cui accenneremo nel paragrafo successivo), portano alla ricerca di una coerente collaborazione fra parlamento e governo nello svolgimento dell'attività legislativa. Ciò avviene più agevolmente nelle forme di governo parlamentare, meno in quelle assembleari e meno ancora nella forma di governo presidenziale. In quest'ultima il presidente non può influire sull'attività legislativa attraverso strumenti istituzionali (fino a giungere a forme di cosiddetto divided government) non disponendo né dell'iniziativa legislativa né di poteri di intervento sul procedimento legislativo (ma solo di poteri di veto, sia nella forma del pocket veto che del partial veto, quest'ultimo peraltro poco usato negli Stati Uniti). Può tuttavia esercitare un'indiretta influenza politica attraverso parlamentari politicamente vicini alla presidenza. Ancora minore influenza può avere il governo nelle forme assembleari, dove i governi sono poco stabili e politicamente poco influenti e si tendono a formare maggioranze diverse in riferimento a singole questioni.
Questo intreccio fra politica ed economia ha portato a un forte aumento della produzione legislativa (che ha raggiunto in alcuni paesi livelli abnormi: il Parlamento inglese approva circa 80 leggi l'anno ma il Parlamento italiano ben 250), al sostanziale indebolimento del parlamento ad opera delle sue commissioni o peggio ad opera di commissioni governative, nonché alla crescente influenza dei governi nell'attività legislativa. È a questo fenomeno che va ricondotto l'uso abnorme dei decreti legge soprattutto in Italia e nei paesi dell'America Latina (v. Sartori, 1995).
Da questa consapevolezza trae origine il tentativo, diffuso in vari paesi dell'Occidente, di ridare spazio ai parlamenti qualificandone l'attività in vario modo: ponendo mano a forme di 'delegificazione'; specializzando il parlamento nella 'legislazione per principî' o in 'leggi quadro' per i governi regionali; conferendo deleghe legislative al governo; riconoscendo poteri di regolazione ad autorità indipendenti o, in Europa, riconoscendo spazi normativi ad autorità sovranazionali.
d. La funzione di controllo
Attraverso la funzione di controllo il parlamento tende ad assolvere quella che Bagehot definiva "informing function": la funzione, cioè, volta a evidenziare di fronte all'opinione pubblica "fatti che le classi dirigenti non vogliono sentire" e ad attivare le responsabilità del governo (v. Bagehot, 1872; tr. it., p. 155).Sotto questo secondo profilo la funzione di controllo può assicurare un duplice risultato: in primo luogo che il governo e le amministrazioni nella loro azione non si discostino dai limiti normativi in vigore (ivi compresa la legge di bilancio), in secondo luogo che perseguano gli obiettivi indicati dal parlamento stesso con gli atti di indirizzo. Mentre la prima funzione è svolta in concorrenza con gli altri organi preposti al controllo di legalità, la seconda è tipica delle istituzioni parlamentari (v. Miceli, 1908).
La funzione di controllo tuttavia non si limita solo ai poteri pubblici, ma si allarga a tutti i soggetti, anche privati, che abbiano rilevanti poteri di influenza. La presenza di garanzie costituzionali per le autonomie pubbliche e private pone però limiti all'esercizio di detta funzione e la lega strettamente alla funzione di garanzia costituzionale. Rispetto al periodo in cui scriveva Bagehot è mutato più di quanto allora già si intravedesse l'interesse delle assemblee parlamentari per il controllo finanziario: da organi che, nell'interesse dei contribuenti, miravano a limitare le spese del governo, esse hanno progressivamente assunto, con l'ampliarsi della base sociale dell'elettorato attivo, la funzione opposta, lasciando ai governi la responsabilità maggiore nell'assicurare gli equilibri di bilancio, fino al punto che in molti ordinamenti è stato tolto ai parlamentari il potere di presentare senza il concerto governativo progetti o emendamenti che comportino un aumento della spesa o una diminuzione delle entrate.
La funzione di controllo si esercita tradizionalmente mediante l'uso di classici strumenti parlamentari (le interrogazioni, le interpellanze, le inchieste, gli hearings, l'approvazione dei bilanci, il controllo sulle nomine, l'autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, e così via), alcuni utilizzati anche per l'esercizio della funzione di indirizzo. Da qualche tempo si affianca a questi strumenti l'istituto del commissario parlamentare sulla scia della consolidata esperienza scandinava dell'ombudsman (Svezia dal 1809 e, più di recente, Finlandia, Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda, dal 1967 Gran Bretagna e, per il controllo sulla politica della difesa, dal 1949 la Germania).
Nei regimi presidenziali detta funzione si traduce, come si accennava, in limitate forme di indirizzo nei confronti dell'esecutivo (come avviene ad esempio attraverso l'advice and consent sulle nomine federali da parte del Senato degli Stati Uniti o in modo più consistente attraverso i controlli in materia finanziaria).
Il controllo parlamentare ha modo di affermarsi ormai in tutti i settori dell'attività di governo, ma rimangono ancora difficoltà nei due settori in cui tradizionalmente operavano le prerogative della corona, la politica estera e quella della difesa. Negli Stati Uniti, ove è forte il controllo del Congresso sulla politica estera, permangono difficoltà di controllo sugli executive agreements e su altri importanti accordi di politica estera, difficoltà non minori di quelle che incontra un sistema parlamentare come quello italiano (v. Barbera, 1991, pp. 151 ss.).
Mentre nei regimi presidenziali la funzione di controllo è generalmente svolta, con maggiore o minore intensità, da tutti i settori del parlamento, nelle forme di governo parlamentare questi strumenti sono utilizzati con più efficacia dall'opposizione. Quest'ultima, soprattutto nelle democrazie competitive, non animate da tendenze consociative, mira ad assumere quella funzione di garanzia e di balance che nelle concezioni classiche della dottrina della separazione dei poteri avrebbe dovuto essere connessa alla divisione fra potere legislativo e potere esecutivo.
Per tali motivi i tradizionali strumenti di controllo parlamentare, i più significativi dei quali sono attivabili da una maggioranza di parlamentari, non paiono adeguati alla nuova dimensione dei rapporti fra governo e assemblee parlamentari. A questa esigenza di strumenti adeguati risponde il tentativo di alcuni parlamenti di dar vita a nuovi strumenti di controllo, attivabili più agevolmente dalle opposizioni (tanto che si è parlato in qualche caso di un vero e proprio statuto dell'opposizione): per esempio l'attivazione di commissioni di inchiesta da parte di minoranze (così nella Costituzione di Bonn), il ricorso diretto alla corte costituzionale da parte di una frazione di parlamentari (così nella Costituzione della V Repubblica francese), la riserva di tempi di lavoro parlamentare per le iniziative dell'opposizione (supply days nei paesi del Commonwealth), la presidenza di commissioni strategiche per l'esercizio del controllo (il public accounts committee in Gran Bretagna), talvolta la stessa presidenza di un'assemblea parlamentare, con più frequenza della Camera alta ma qualche volta della stessa Camera politica (in Gran Bretagna negli anni novanta e in Italia negli anni ottanta).
In ogni caso l'efficacia dei controlli parlamentari è strettamente legata alla presenza di governi in grado di assumersi effettive responsabilità. La crisi della 'responsabilità governativa' si riflette alla fine sulla stessa capacità di controllo del parlamento: ciò è accaduto negli Stati Uniti con le Indipendent regulatory commissions e sta avvenendo in Europa, e in particolare in Italia, con il moltiplicarsi di 'agenzie', 'autorità' e 'garanti'. È un tema che va al di là del dibattito iniziato negli anni cinquanta in Gran Bretagna e in Italia circa i controlli parlamentari sulle public corporations, dibattito che in Italia favorì, tra l'altro, l'istituzione di un Ministero delle Partecipazioni statali e il varo di apposite commissioni bicamerali, mentre in Gran Bretagna portò alla nascita dei select committees.Ieri eravamo di fronte al passaggio di attività dalla sfera privata a quella pubblica; oggi siamo invece di fronte alla trasmissione di attività tradizionalmente governative ad autorità indipendenti, che sfuggono sia al controllo governativo che a quello parlamentare. Probabilmente il punto di equilibrio andrà trovato combinando insieme la rinuncia del parlamento alla tradizionale pretesa di controllare l'intera attività pubblica con la capacità del parlamento stesso di trovare nuove strade per un esercizio meno invadente della funzione di controllo.
Spettava al sovrano convocare il parlamento, e quindi sospenderne l'attività (anche attraverso l'apertura o la chiusura delle sessioni) o congedarlo quando avesse adempiuto ai compiti per il quale era stato convocato. Fissata la periodicità e la durata dei parlamenti, inizia a delinearsi l'istituto dello scioglimento anticipato. Agli albori del moderno costituzionalismo esso rappresenta lo strumento per affermare la supremazia del sovrano, per licenziare Camere che si fossero rese responsabili di offese alla corona o la cui attività fosse comunque non gradita alla corona stessa.
Nelle prime costituenti continentali il dibattito sulle sorti dell'istituto fu acceso: secondo il progetto di costituzione del 1791 il re avrebbe potuto sciogliere le assemblee per passare la parola al popolo "perché detentore della sovranità", ma tale idea, benché sostenuta da Mirabeau e Sieyès, non prevalse perché si ritenne che ciò avrebbe significato esaltare non la sovranità del popolo, ma quella del re. Al popolo andava riconosciuto il 'diritto all'insurrezione', anche nei confronti del parlamento stesso, come avrebbe specificato la Costituzione giacobina del 1793, ma nel titolo III della stessa Costituzione fu sancito che "le corps législatif ne pourra être dissous par le roi": questa impostazione sarà recepita in molte delle prime costituzioni liberali. In altre costituzioni ci si porrà il problema della fine anticipata delle legislature, ma non si andrà oltre la previsione di quell'autoscioglimento che il long parliament aveva rivendicato con il Triennal act del 1641 (istituto che sarà mantenuto anche in costituzioni più moderne e a cui per lo più, successivamente, si affiancherà lo scioglimento presidenziale).
Tale avversione per lo scioglimento rimarrà nelle costituzioni la cui forma di governo sarà improntata, come nelle forme costituzionali pure, presidenziali o direttoriali, a un principio più o meno rigido di separazione dei poteri: come il parlamento non può licenziare i governi, così l'esecutivo non può provocare il rinnovo dei parlamenti. Lo scioglimento sarà invece progressivamente considerato uno strumento per il buon funzionamento del governo parlamentare.
In una fase di passaggio fra l'avversione all'istituto dello scioglimento e la sua utilizzazione nelle forme di governo parlamentare si collocano varie e contrastanti esperienze del secolo scorso. Da richiamare, perché emblematiche, quella francese, quella britannica e quella italiana del periodo statutario.La legge relativa all'organizzazione dei pubblici poteri della III Repubblica francese prevedeva che il presidente della Repubblica potesse sciogliere la Camera dei deputati "sull'avviso conforme del Senato". Tale potere fu però subito condizionato dalle vicende che portano, nel 1876, a quello che fu definito il 'colpo di Stato del 16 maggio': il presidente della Repubblica, maresciallo MacMahon, licenzia il presidente del Consiglio Jules Simon, repubblicano moderato, e lo sostituisce con il monarchico duca di Broglie. La Camera nega la fiducia al nuovo governo e MacMahon, forte dell'appoggio del Senato, a maggioranza monarchica e clericale, indice elezioni che vedono di nuovo la vittoria dei repubblicani, la sconfessione dell'atto di scioglimento, e di lì a poco le dimissioni dello stesso MacMahon (costretto, secondo la celebre frase attribuita a Léon Gambetta, a "ou se soumettre ou se demettre").
La vittoria dei repubblicani su MacMahon segnerà la definitiva fondazione della Repubblica, ma la segnerà negativamente: da allora in poi nessun presidente della Repubblica avrà il coraggio di prospettare lo scioglimento della Camera. L'aver superato il pericolo derivante da un atto di dittatura del capo dello Stato favorirà in Francia l'avvento di un regime assembleare (di 'dittatura dell'assemblea') e impedirà la nascita di un regime autenticamente parlamentare. La sicurezza sulla durata delle legislature e il tipo di sistema elettorale favoriranno non la 'repubblica dei cittadini' ma la 'repubblica dei deputati' e contribuiranno a rendere non facile l'emergere di partiti in grado di assicurare quella disciplina che stava invece rafforzando, al di là della Manica, il regime di gabinetto.
In Gran Bretagna nel 1806 Giorgio III procede a quello che viene definito l'ultimo scioglimento nella storia inglese effettivamente deciso dal re, mentre nel 1868 si registra l'ultimo rifiuto ufficiale di un sovrano a una richiesta di scioglimento avanzata dal premier. La valvola di sicurezza del sistema britannico, potrà scrivere nel 1872 Walter Bagehot, è il potere di scioglimento della Camera dei comuni affidato al primo ministro (v. Bagehot, 1872; tr. it., p. 215). Il potere di scioglimento è formalmente nelle mani della Corona ma la proposta del premier è divenuta vincolante (salvo in some circumstances: v. Marshall, 1984, p. 7): se la Corona dovesse rifiutarsi di procedere allo scioglimento si renderebbe impossibile la formazione di ogni altro governo, stante la presumibile indisponibilità del partito di maggioranza a sconfessare il proprio leader.
In posizione intermedia si colloca l'esperienza dell'Italia nel periodo statutario. Dopo i primi scioglimenti in cui è forte l'influenza della Corona, già con i governi Depretis, Crispi, Cairoli, Giolitti il ricorso allo scioglimento diviene uno strumento alternativo alle dimissioni, persino nel caso di sfiducia parlamentare (solo in qualche raro caso venne imposto dalle opposizioni con il ricorso all'ostruzionismo, nel 1886 con Depretis e nel 1899 con Pelloux). Il ricorso allo scioglimento rafforzerà momentaneamente questo o quel governo (anche con l'ausilio di metodi non ortodossi nelle campagne elettorali) ma non produrrà gli effetti positivi di lungo periodo che già stava producendo in Gran Bretagna. La motivazione va ricercata nelle diverse condizioni sociali e nella composizione delle élites dirigenti, che portavano al cosiddetto 'trasformismo parlamentare', ma non furono estranei la base elettorale inizialmente più ristretta e il sistema elettorale adottato, l'uninominale a doppio turno, che non favorirono la bipolarizzazione del sistema politico (v. Maranini, 1967).
Nelle costituzioni razionalizzate del primo dopoguerra lo scioglimento cambia dunque natura (v. Mirkine-Guetzevitch, 1951): non richiama più il conflitto fra capo dello Stato e parlamento ma diviene lo strumento attraverso cui il primo, privo ormai di poteri di governo, è chiamato a ristabilire, mediante nuove elezioni, il circuito democratico fra corpo elettorale, parlamento e governo. Circondato di particolari cautele (fra le tante previste da diverse costituzioni: l'obbligo della controfirma del premier; la consultazione con i presidenti delle Camere; il divieto di scioglimenti ripetuti per lo stesso motivo; un intervallo di tempo fra più scioglimenti; il divieto di scioglimento nei primi mesi di legislatura o nell'ultimo periodo del mandato del capo dello Stato; la presenza di un voto di sfiducia, ecc.), lo scioglimento diverrà una funzione costituzionale per così dire fisiologica, volta a bilanciare il potere di licenziare i governi che è in mano ai parlamenti. Tale bilanciamento opera in due modi: in via preventiva agendo da deterrente per evitare che si spezzino i legami fra i componenti una coalizione di governo, per contenere scissioni nei partiti di maggioranza, per mitigare un'opposizione non equilibrata; in via successiva consentendo di riportare al corpo elettorale la risoluzione del conflitto fra parlamento e governo, fra maggioranza e opposizione, fra partiti della stessa maggioranza, o comunque per rinnovare un mandato ritenuto invecchiato. Dal 1946 al 1983 in 21 paesi a regime liberaldemocratico sono stati registrati 134 scioglimenti anticipati (v. Volpi, 1983, p. 329).
Se lo scioglimento diviene, quindi, nelle forme più solide di governo parlamentare, una sorta di 'appello al popolo' per la verifica della maggioranza, più complessa si presenta la questione per le altre democrazie, soprattutto nei paesi a 'multipartitismo dissociato' (per esempio l'Italia o la Francia della IV Repubblica). In questi ultimi è diffuso il timore che lo scioglimento divenga un atto arbitrario del capo dello Stato, che venga utilizzato come strumento di lotta politica fra i partiti, in particolare per dar vita a gouvernements de combat, per favorire cioè un consenso elettorale di tipo plebiscitario attorno a governi che non riescano a ottenere il consenso del parlamento (contrapponendo la sovranità popolare alla sovranità parlamentare). Si viene così a determinare un paradosso: proprio nei sistemi di governo nei quali il potere del parlamento (o addirittura dei partiti, con le crisi extraparlamentari) di porre in crisi i governi è più demolitore, determinando gravi fenomeni di instabilità, appare più problematico esercitare quel potere di scioglimento che dovrebbe invece riequilibrare il potere del parlamento stesso. C'è da aggiungere tuttavia che ben difficilmente in tali sistemi le elezioni avrebbero un effetto risolutivo: i ripetuti scioglimenti del Reichstag effettuati dal presidente von Hindenburg, addirittura quattro nel giro di sedici mesi, ebbero solo il risultato di umiliare parlamenti già resi impotenti dalla legge elettorale proporzionale e favorirono la crescita elettorale del partito nazista.
Tre sono dunque gli elementi che caratterizzano un regime parlamentare, sia nella versione dualistica che in quella monistica: a) la distinzione e la collaborazione fra potere legislativo e potere esecutivo; b) la responsabilità politica del governo di fronte al parlamento, che può usare lo strumento della 'sfiducia' (può mancare, come si è visto, il momento iniziale della 'fiducia'); c) la facoltà di scioglimento anticipato delle Camere per decisione almeno formalmente imputabile al capo dello Stato. L'assenza del terzo elemento o la difficoltà di ricorrere allo scioglimento per i troppi vincoli che lo condizionano trasformerebbero la forma di governo da parlamentare ad assembleare.
Non solo lo scioglimento è ormai uno strumento per il buon funzionamento del sistema parlamentare, ma addirittura in alcuni ordinamenti ne può essere titolare lo stesso premier, o in modo formale o per effetto di prassi o di regole convenzionali.
Il ricorso anticipato alle urne compete al premier, da un secolo oramai, come si diceva, sotto forma di proposta normalmente vincolante alla Corona, nel Regno Unito o, sotto forma di proposta al Governatore generale, in altri paesi di tradizione britannica (in Canada e Nuova Zelanda: ma anche in Australia, sebbene nel 1975 si sia verificato uno scioglimento attribuito alla volontà del Governatore generale nonostante l'opposizione del premier). L'art. 28, c. 10, della Costituzione dell'Irlanda conferisce espressamente al Presidente del governo il potere di ottenere dal capo dello Stato lo scioglimento del Parlamento ma esclude tale potere nel caso in cui il governo da lui presieduto sia stato sfiduciato. Del tutto innovativo l'art. 4 (cap. III) della Costituzione della Svezia del 1974 che conferisce direttamente al governo il potere di 'indire elezioni straordinarie'. Altrettanto esplicitamente l'art. 69 della Costituzione del Giappone consente lo scioglimento per decisione del governo (anche se il relativo decreto è imputato all'Imperatore) anche entro dieci giorni dalla sfiducia. In Spagna sono previsti due tipi di scioglimento. Il primo, proprio di una funzione di arbitrato del capo dello Stato, interviene ove nessun candidato proposto dal re riesca ad ottenere, a partire da due mesi dalla prima votazione, il consenso del Congresso (art. 99, c. 5, della Costituzione). Il secondo si ricollega invece direttamente alla funzione del premier che "sotto la sua esclusiva responsabilità, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, può proporre lo scioglimento del Congresso, del Senato o delle Cortes generali che deve essere decretato dal Re" (art. 115), a meno che non sia in corso una mozione di censura o sia trascorso meno di un anno dal precedente scioglimento (art. 115). Analogamente l'art. 41 della Costituzione della Grecia, così emendata nel 1986.
La Costituzione della Germania federale, oltre ad altri casi di scioglimento, ivi compreso quello che può essere attivato in caso di elezione del cancelliere con la sola maggioranza relativa, prevede all'art. 68 la facoltà per il cancelliere federale di provocare lo scioglimento del Bundestag nel caso di mancata adesione del Bundestag stesso alla richiesta di esprimergli la fiducia. Non è privo di significato che, per ben due volte, Brandt nel 1972 e Kohl nel 1983, abbiano provocato lo scioglimento del Bundestag mediante la tecnica delle assenze dal voto di deputati della maggioranza, che hanno così favorito la reiezione di mozioni di fiducia al governo. Si è tentato attraverso questa via di realizzare anche in Germania quanto è già consentito al premier inglese, vale a dire la scelta del momento favorevole per il voto.
Diversi fattori hanno portato a ritenere che le istituzioni parlamentari abbiano subito in questo secondo dopoguerra (ma i sintomi sarebbero apparsi fin dal primo dopoguerra) un declino. Questi i principali fattori di crisi.
1. Le aule parlamentari non sono più l'unico o il principale centro di comunicazione e di dibattito politico essendo a esse affiancati altri strumenti di comunicazione, in particolare i mass media, che riescono a 'fare opinione' talvolta più di un dibattito parlamentare.
2. La stessa funzione di rappresentanza non è più monopolio parlamentare, essendo ormai svolta con maggiore incisività da altri soggetti o più legati alla società, come i partiti politici e le organizzazioni sindacali, o incardinati nello stesso Stato, come i vari organismi di rappresentanza di varie categorie sociali (consigli nazionali, conferenze di presidenti o ministri regionali, consigli superiori della magistratura).
3. Mentre il parlamento continua a rimanere la sede privilegiata per le decisioni riguardanti microinteressi (soprattutto attraverso l'attività delle commissioni parlamentari) assumono un crescente rilievo altre sedi istituzionali (comitati di ministri, autorithies, banche centrali e, soprattutto nei paesi dell'Unione Europea, organizzazioni sovranazionali) per le decisioni relative ai 'macrointeressi'.
4. L'affermarsi, con fasi alterne di successo, di pratiche neocorporative porta a privilegiare le forme consensuali degli agreements, del contratto, dell'intesa, rispetto a quelle imperative della legge, talvolta chiamata soltanto a dare veste formale ad accordi sottoscritti fra governi, organizzazioni sociali, rappresentanze di 'interessi forti'.
5. La stessa legge, anche nei paesi della tradizione continentale, tende a divenire, per effetto del sempre più spiccato attivismo dei tribunali costituzionali, non solo un atto sottoposto ai tradizionali limiti esterni sanciti dalle norme costituzionali, ma un atto altresì da valutare sotto il profilo della reasonableness e dell'uso corretto del potere legislativo. Da massima espressione della sovranità parlamentare la legge tende a trasformarsi in espressione di mera discrezionalità.
6. La complessità dei fenomeni da regolare richiede specializzazioni tecniche che accrescono il ruolo del governo nell'iniziativa legislativa e nell'attività regolamentare.
7. La stessa funzione di legittimazione dei governi, là dove appartiene ancora ai parlamenti, tende ad assumere caratteri solo formali, essendosi spostata, come si è visto, o sui partiti, nelle democrazie consociative, o direttamente sul corpo elettorale nelle democrazie competitive.
8. La necessità di adottare decisioni su beni cosiddetti irreversibili (in materia ambientale, in materia internazionale, in ordine a temi che toccano la coscienza individuale) ravviva il tentativo di contrapporre la "sovranità popolare" alla "sovranità parlamentare". Viene in tali materie contestata la libertà del parlamento di assumere decisioni in assenza di specifici mandati o di una previa consultazione referendaria.
A questi fattori di crisi si aggiungono in Italia quelli specifici indotti dal sistema politico e dal tipo del tutto anomalo, come si è detto, di assetto bicamerale: vale a dire paralisi decisionali o accentuate lentezze procedurali; ritualità e ripetitività dei dibattiti; ostruzionismi di maggioranze e minoranze; dispersione e frantumazione dell'attività legislativa, spesso anche tecnicamente inadeguata, con conseguente abnorme produzione di cosiddette 'leggine'; scarsa attenzione ai vincoli di bilancio. A ciò si aggiunga il trasferimento di decisioni reso necessario sia dall'integrazione dell'Italia nelle Comunità Europee, sia dal decentramento regionale.
Come causa ed effetto insieme di tale crisi si registrano in Italia due fenomeni preoccupanti: da una parte il ricorso frequente allo strumento referendario anche da parte di partiti presenti in parlamento (talvolta perfino facenti parte della maggioranza parlamentare); dall'altra l'abuso da parte del governo della cosiddetta decretazione d'urgenza, istituto diffuso, come si è visto, in alcuni regimi presidenziali dell'America Latina, ma senza riscontro nelle democrazie europee (ove sono per lo più previsti o eccezionali poteri di emergenza, cui si fa ricorso con notevole cautela, ovvero percorsi accelerati per i progetti di legge urgenti).
Nonostante questi segni di crisi, il parlamento rimane tuttora lo strumento principale a sostegno dei regimi liberaldemocratici. Lo dimostrano anche le diffuse forme di 'antiparlamentarismo' endemicamente ricorrenti, che sono rivolte non tanto contro il parlamento quanto contro le forme della democrazia rappresentativa. Rimane inoltre determinante la funzione di integrazione democratica svolta dai parlamenti: come nei secoli scorsi le istituzioni parlamentari avevano consentito il compromesso fra aristocrazia e borghesia, così in questo secolo hanno reso più agevole, dopo l'estensione del suffragio universale, il 'compromesso socialdemocratico' fra ceti borghesi e classi lavoratrici.
In realtà quanti parlano di declino del parlamento spesso compiono un errore metodologico (v. Cotta, 1983, p. 324), perché assumono un punto di partenza costruito sulla base di preferenze ideologiche più che sull'analisi dei dati empirici. Non si dimostra, cioè, se siano mai realmente esistiti parlamenti dotati di quella effettiva (e non solo declamata) 'centralità' che sarebbe oggi messa in crisi (a meno che non ci si voglia riferire a brevi periodi della storia britannica in cui, in regime censitario, praticamente tutta la classe dirigente era rappresentata in parlamento). Al contrario si possono oggi osservare fenomeni capaci di ridare fiato alle istituzioni parlamentari. V'è infatti da registrare sia il declino, in molte democrazie occidentali, del ruolo centrale assunto dai partiti di massa a detrimento delle istituzioni parlamentari, sia il declino delle pratiche neocorporative (almeno in quei paesi del Nordeuropa da cui esse avevano preso l'avvio). Il primo è dovuto alla crisi delle cosiddette 'appartenenze ideologiche'; il secondo è dovuto alla sempre maggiore difficoltà per le organizzazioni sociali di operare una decisa e continuativa sintesi fra gli interessi rappresentati. Accanto a questi fenomeni si colloca il definitivo abbandono delle suggestioni di democrazia diretta, non delegata, che hanno attraversato questo secolo dalle prime esperienze soviettiste in poi (suggestioni che non possono ritenersi ravvivate - poiché si tratta di fenomeni affatto diversi - dalle possibilità offerte all'espressione diretta dei cittadini dalle moderne tecnologie informatiche).
Le istituzioni parlamentari vivono un delicato equilibrio fra la rappresentanza della società e il governo della stessa, fra le ragioni della rappresentanza degli interessi e le ragioni del governo degli stessi. Quando tale equilibrio viene alterato esse vedono compromessa la loro funzione: non possono né diventare prevalentemente organo di governo (come nelle forme di governo assembleari) né luogo di mera rappresentanza degli interessi (siano essi di tipo lobbistico oppure espressione di lotte sociali). La funzione di mera rappresentanza presuppone un sovrano presso cui rappresentare e nei cui confronti rivendicare; la funzione di governo presuppone che l'assemblea presuma di erigersi essa stessa a sovrano. Il modello di parlamento con cui ci si dovrà confrontare negli anni a venire oscilla dunque fra due diversi tipi ideali: quello dell'assemblea antagonista, che rappresenta gli interessi di cittadini e corpi intermedi di fronte a presidenti della Repubblica, titolari di poteri di governo, eletti direttamente dai cittadini, recuperando così una più accentuata separazione di poteri legislativo ed esecutivo, ovvero quello di un'assemblea protagonista inserita in un tipo di governo neoparlamentare, in cui la divisione dei poteri si realizza, piuttosto, fra l'opposizione e il continuum maggioranza-premier (v. Barbera, 1991).
Sembra invece regredire l'idea di un parlamento collocato da solo al centro della dinamica politica, che - sia pure in modo episodico - ha rappresentato spesso una degenerazione assemblearistica del governo parlamentare. I modelli di parlamento che furono propri dell'Italia liberale o della Repubblica di Weimar nel primo dopoguerra, le vicende della III e della IV Repubblica francese, le difficoltà dei sistemi belga e danese, le difficoltà dell'Italia di oggi stanno a ricordarci che in un modello assembleare il parlamento è più un luogo di mediazione che una sede di decisione, quindi un'istituzione che tende a ratificare decisioni assunte fuori dalle aule parlamentari.
Il Parlamento inglese e quello americano rappresentano due diversi modelli cui guardano altri parlamenti. Diverse le relazioni governo-parlamento, diversa l'organizzazione del lavoro parlamentare (policentrico il secondo, bipolare il primo). Il Bundestag della Germania Federale, anche per effetto delle caratteristiche bipolari del sistema politico in cui è inserito, si muove nella direzione del primo modello. Il Parlamento francese non ha ancora trovato una strada sicura, costretto com'è a una logorante ambiguità dall'alternanza fra tratti presidenzialistici e tratti neoparlamentari, che sono propri del sistema della V Repubblica. Il Parlamento italiano è ancora in bilico fra il modello assembleare disegnato negli anni sessanta e settanta e le riforme regolamentari in senso maggioritario avviate con le riforme degli anni ottanta e le altre che saranno prevedibilmente sollecitate dalle riforme elettorali degli anni novanta.
È opinione diffusa che quello americano sia un parlamento forte. Se l'assenza di poteri di indirizzo politico del Congresso rende più liberi i parlamentari da vincoli verso il governo, accentuandone i poteri di controllo, tuttavia ciò indebolisce, per i motivi indicati sopra, sia l'esecutivo sia il Congresso stesso, reso più permeabile agli interessi particolari, settoriali e territoriali, e afflitto - secondo la letteratura americana - da una endemic weakness (v. Sundqvist, 1981; v. Fabbrini, 1993). Se nel modello Westminster i parlamentari della maggioranza devono subire il controllo del comitato direttivo della stessa, che siede al governo, si tratta pur sempre di un parlamento che possiede un necessario sense of direction e che consente all'opposizione di porsi quale strumento di controllo e quale soggetto alternativo al governo in carica. Se non è lieve l'azione dei whips, le cosiddette 'fruste', nell'imporre la disciplina di gruppo, è anche vero che è possibile per molte materie il free vote sganciato dalla disciplina. E del resto nelle materie che investono la responsabilità del governo l'alternativa alla disciplina è offerta o dall'incoerenza dell'azione del governo o dall'emarginazione del parlamento dalle decisioni politiche più rilevanti.
La storia qui ripercorsa ci insegna che la capacità di incidenza delle istituzioni parlamentari è legata al tipo di rapporto che si è instaurato, dopo l'allargamento del suffragio, con i partiti politici. Essi sono stati talvolta canale di collegamento con la società ed elemento di arricchimento del parlamento stesso, talvolta hanno contribuito a depotenziare l'attività. Ogni fattore che indebolisce le forme e i luoghi dell'organizzazione politica della società incide negativamente sulle stesse istituzioni parlamentari.
(V. anche Democrazia; Elezioni; Liberalismo; Maggioranza, principio di; Partiti politici e sistemi di partito; Rappresentanza; Regimi politici).
Aimo, P., Bicameralismo e regioni, Milano 1977.
Ascheri, M., Istituzioni medievali, Bologna 1994.
Avril, P., Les français et leur Parlement, Paris-Tournai 1972 (tr. it.: Il Parlamento francese nella Quinta Repubblica, Milano 1976).
Bagehot, W., The English Constitution (1872), London 1993 (tr. it.: La Costituzione inglese, Bologna 1995).
Baguenard, J., Le Sénat, Paris 1990.
Barbera, A., Parlamento e Regioni, in Le istituzioni del pluralismo, Bari 1977.
Barbera, A., Una riforma per la Repubblica, Roma 1991.
Berger, S. (a cura di), Organizing interests in Western Europe, Cambridge 1981 (tr. it.: L'organizzazione degli interessi in Europa occidentale, Bologna 1983).
Beyme, K. von, Die parlamentarischen Regierungssysteme in Europa, München 1970.
Bobbio, N., Dove va il Parlamento, in La sinistra davanti alla crisi del Parlamento (a cura di L. Piccardi, N. Bobbio e F. Parri), Milano 1967.
Böchenförde, E.W., Democrazia e rappresentanza, in "Quaderni costituzionali", 1985, V, p. 227 ss.
Broglio, E., Delle riforme parlamentari (1865), Roma 1994.
Burdeau, G., Le régime parlamentaire dans les Costitutions d'après-guerre, Paris 1930 (tr. it.: Il regime parlamentare, Milano 1950).
Calamandrei, P., La Cassazione civile, vol. I, Torino 1920.
Calhoun, J.C., A disquisition on government and a discourse on the constitution and government of the United States (1845-1850), in The works, vol. I, New York 1968 (tr. it.: Disquisizioni sul governo e discorso sul governo e la Costituzione degli Stati Uniti, Roma 1986).
Califano Placci, L., Le commissioni parlamentari bicamerali nella crisi del bicameralismo italiano, Milano 1993.
Cam, H.M., Marongiu, A., Recent work and present views on the origins and development of representative assemblies, Atti del X congresso di scienze storiche, Firenze s.d.
Canetti, E., Masse und Macht, Hamburg 1960 (tr. it.: Masse e potere, Milano 1981).
Cappelletti, M., Il controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi nel diritto comparato, Milano 1968.
Cazzola, F., Governo ed opposizione nel Parlamento italiano, Milano 1974.
Ceccanti, S., Prove di razionalizzazione. La forma di governo parlamentare fra passato e futuro, Roma 1995.
Cheli, E., Il bicameralismo, in Digesto (Discipline pubblicistiche), Torino 1987, s.v.
Chimenti, C., Gli organi bicamerali nel Parlamento italiano, Milano 1979.
Colliard, J.C., Les régimes parlementaires contemporains, Paris 1978.
Cotta, M., Il Parlamento, in Dizionario di politica (a cura di N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino), Torino 1983, pp. 774-784.
Cotta, M., Parlamenti e rappresentanza, in Manuale di scienza della politica (a cura di G. Pasquino), Bologna 1986.
Crick, B., The reform of Parliament, London 1968.
Crosa, E., La sovranità popolare, Torino 1915.
D'Agostino, G. (a cura di), Le istituzioni parlamentari nell'ancien régime, Napoli 1980.
De Lolme, I.L., Constitution de l'Angleterre ou état du governement anglais comparé avec la forme republicaine et avec les autres monarchies de l'Europe, Amsterdam 1771.
De Vergottini, G., Lo shadow cabinet, Milano 1973.
De Vergottini, G., Opposizione parlamentare, in Enciclopedia del diritto, Milano 1980, s.v.
Dicey, A.V., An introduction to the study of the law of the constitution, London 1885.
Duverger, M., Les partis politiques, Paris 1951 (tr. it.: I partiti politici, Milano 1970).
Duverger, M., La nostalgie de l'impuissance, Paris 1988.
Elia, L., Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, Milano 1970, s.v.
Erskine, M.T., Treatise on the law, privileges, proceedings and usage of Parliament, London 1950 (tr. it.: Leggi, privilegi, procedura e consuetudini del Parlamento inglese, in Biblioteca di scienze politiche, a cura di A. Brunialti, vol. IV, Torino 1988).
Eyck, E., Geschichte der Weimarer Republik, Erlenbach-Zürich 1954 (tr. it.: Storia della repubblica di Weimar, Torino 1966).
Fabbrini, S., Il presidenzialismo degli Stati Uniti, Roma-Bari 1993.
Fabbrini, S., Quale democrazia, Roma-Bari 1995.
Ferrara, G., Il presidente di assemblea parlamentare, Milano 1965.
Finzi, C., L'autonomia amministrativa ed economica delle assemblee legislative, Roma 1980.
Fischel, E., Storia della costituzione inglese, 2 voll., Milano 1866.
Fisichella, D. (a cura di), La rappresentanza politica, Milano 1983.
Fränkel, E., Demokratie und öffentliche Meinung, in Deutschland und die westlichen Demokratien, Frankfurt a.M. 1991.
Fusaro, C., Principio maggioritario e forma di governo, Firenze 1990.
Galeotti, S., La debolezza del Governo nel meccanismo costituzionale, in Verso una nuova Costituzione (a cura di G. Miglio), I, Milano 1983.
Guarino, G., Lo scioglimento delle assemblee parlamentari, Napoli 1948.
Häberle, P., Verfassung als öffentlichen Prozess, Berlin 1978.
Habermas, J., Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied 1962 (tr. it.: Storia e critica dell'opinione pubblica, Roma-Bari 1971).
Hayek, F.A. von, Law, legislation and liberty, London 1982² (tr. it.: Legge, legislazione e libertà, Milano 1986).
Herman, V., Mendel, F., Les parlements dans le monde. Recueil des données comparatives, Paris 1977.
Hermens, F., Verfassungslehre, Köln n. Oplanden 1964 (tr. it.: La democrazia rappresentativa, Firenze 1968).
Jellinek, G., System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tübingen 1905² (tr. it.: Sistema dei diritti pubblici subiettivi, Milano 1911).
Jennings, W.I., Cabinet government (1936), Cambridge 1969³.
Jennings, W.I., Parliament (1939), Cambridge 1957².
Kaiser, J., Die Repräsentation organisierter Interessen, Berlin 1956 (tr. it.: La rappresentanza degli interessi organizzati, Milano 1993).
Kantorowicz, E.H., The king's two bodies. A study in medieval political theology, Princeton, N.J., 1957 (tr. it.: I due corpi del re, Torino 1989).
Kelsen, H., Das Problem des Parlamentarismus, Wien-Leipzig 1924 (tr. it.: Il problema del parlamentarismo, in Il primato del Parlamento, Milano 1982).
Krasner, M., Chaberski, S., American government. Structure and process, London 1982 (tr. it.: Il sistema di governo degli USA, Torino 1994).
Labriola, S., Storia della Costituzione italiana, Napoli 1995.
Lanchester, F., Alle origini di Weimar, Milano 1985.
Lanciotti, M.E., La riforma impossibile. Idee, discussioni e progetti sulla modifica del Senato regio e vitalizio (1848-1922), Bologna 1993.
Lauricella, G., Il monocameralismo. Premesse per un'indagine di diritto comparato, Palermo 1990.
Lehmbruch, G., Proporzdemokratie. Politisches System und politische Kultur in der Schweiz und in Österreich, Tübingen 1967.
Lehmbruch, G., Schmitter, P. (a cura di), Patterns of corporatist policy-making, London 1982 (tr. it.: La politica degli interessi organizzati, Bologna 1984).
Leibholz, G., Die Repräsentation in der Demokratie, Berlin 1973 (tr. it.: La rappresentazione nella democrazia, Milano 1989).
Lenin, V.I., Gosudarstvo i revoljucija, Petrograd 1918 (tr. it.: Stato e rivoluzione, Roma 1954).
Lijphart, A., Democracies. Patterns of majoritarian and consensus government in twenty-one countries, London 1984 (tr. it.: Le democrazie contemporanee, Bologna 1988).
Loewenberg, G., Patterson, S.C., Comparing legislatures, Boston 1979.
Lotti, L., Il Parlamento italiano, 1909-1963. Raffronto storico, in AA.VV., Il Parlamento italiano, 1946-1963, Napoli 1963.
Maccormack, J.R., Revolutionary politics in the Long Parliament, Cambridge 1973.
Mc Ilwain, C.H., Constitutionalism: ancient and modern, New York 1940 (tr. it.: Costituzionalismo antico e moderno, Bologna 1990).
Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Roma-Bari 1994³.
Maffei, S., Il Consiglio politico, Venezia 1797.
Maitland, F.W., The constitutional history of England (1908), Cambridge 1961.
Mancini, M., Galeotti, U., Norme e usi del Parlamento italiano, Roma 1987.
Mancini, S., La Costituzione islandese. Sviluppi e tendenze, tesi discussa presso l'Università di Bologna, 1991.
Manzella, A., Il parlamento, Bologna 1991.
Maranini, G., Storia del potere in Italia (1848-1967), Firenze 1967.
Marongiu, A., Il Parlamento in Italia nel Medioevo e nell'età moderna, Milano 1962.
Marongiu, A., Parlamento (Storia), in Enciclopedia del diritto, Milano 1981, s.v.
Marshall, G., Constitutional conventions, Oxford 1984.
Marx, K., Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte, in "Die Revolution", 1852, n. 1 (tr. it.: Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma 1991).
Marx, K., Der Bürgerkrieg in Frankreich (1871) (tr. it.: La guerra civile in Francia, Roma 1973).
Massari, O., Come le istituzioni regolano i partiti. Modello Westminster e partito laburista, Bologna 1994.
Mastias, J., Grangé, J. (a cura di), Les secondes chambres du parlement en Europe occidentale, Paris 1987.
Mattarella, S., Il bicameralismo, in "Rivista trimestrale di diritto pubblico", 1983, XXXIII, pp. 1161 ss.
Matteucci, N., Concezioni storiografiche e politiche sull'origine del costituzionalismo inglese, in "Terzo programma", 1961, n. 4.
Maurras, C., Enquîte sur la monarchie, Paris 1911.
Mezzetti, L., Opposizione politica, in Digesto, Torino 1995, s.v.
Miceli, V., Il diritto di interpellanza, Milano 1908.
Mill, J.S., Considerations on representative government, London 1861 (tr. it.: Il governo rappresentativo, in Biblioteca di scienze politiche, a cura di A. Brunialti, vol. II, Torino 1986).
Mirkine-Guetzevitch, B., Les Constitutions européennes, Paris 1951 (tr. it.: Le Costituzioni europee, Milano 1954).
Montesquieu, C.-L., De l'esprit des lois, Genèves 1748 (tr. it.: Lo spirito delle leggi, 2 voll., Torino 1952).
Morisi, M., Le leggi del consenso. Partiti e interessi nei primi Parlamenti della repubblica, Messina 1992.
Mosca, G., Teorica dei governi e governo parlamentare, Milano 1968.
Negri, G., Il bicameralismo, in Enciclopedia del diritto, Milano 1959, s.v.
Norton, P., Dissension in the House of Commons, 1974-1979, Oxford 1980.
Occhiocupo, N., La Camera delle Regioni, Milano 1975.
Orlando, V.E., Del fondamento giuridico della rappresentanza politica, in Diritto pubblico generale, Milano 1944.
Orlando, V.E., Studio intorno alla forma di governo vigente in Italia, in "Rivista trimestrale di diritto pubblico", 1951, I, pp. 5 ss.
Paladin, L., Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo, in "Quaderni costituzionali", 1984, IV, pp. 219 ss.
Palmieri, N., Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, Lausanne 1847.
Panebianco, A., Modelli di partito, Bologna 1982.
Pasquet, D., An essay on the origins of the House of Commons (1925), London 1964.
Pasquino, G., Partecipazione politica, gruppi e movimenti, in Manuale di scienza della politica (a cura di G. Pasquino), Bologna 1986.
Plumb, J.H., The growth of political stability in England (1675-1725), London 1967.
Pombeni, P. (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, Bologna 1992.
Predieri, A. (a cura di), Il Parlamento nel sistema politico italiano, Milano 1975.
Rescigno, F., Disfunzioni e prospettive di riforma del bicameralismo italiano: la Camera delle Regioni, Milano 1995.
Richardson, H., Sayles, G. (a cura di), The provisions of Oxford, in "Bulletin of John Raylands Library", 1933, XVII.
Roellecke, G., Der Begriff des positiven Gesetzes und das Grundgesetz, Mainz 1969.
Rokkan, S., Citizens, elections, parties, Oslo 1970 (tr. it.: Cittadini, elezioni, partiti, Bologna 1982).
Sartori, G., Dove va il Parlamento, in L. Lotti, A. Predieri, G. Sartori, S. Somogyi, Il Parlamento italiano 1946-1963, Napoli 1963.
Sartori, G., Parties and party systems, New York 1976.
Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, Bologna 1995.
Schmitt, C., Die geistgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, München 1923.
Schmitt, C., Verfassungslehre, Berlin 1928 (tr. it.: Dottrina della costituzione, Milano 1984).
Shugart, M., Carey, J., Presidents and assemblies: constitutional design and electoral dynamics, Cambridge 1992 (tr. it.: Presidenti e assemblee, Bologna 1995).
Siccardi, S., Parlamenti (organizzazioni e funzionamento), in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino 1995.
Smith, T., De Republica Anglorum (1583), Alston 1906 (tr. it. parziale in: Antologia dei costituzionalisti inglesi, a cura di N. Matteucci, Bologna 1962).
Spadolini, G., La riforma del Senato. Nell'Italia unita fra Depretis e Giolitti, Firenze 1987.
Spagna Musso, E., Bicameralismo e riforma del parlamento, in Parlamento, istituzioni, democrazia, Milano 1980.
Stephenson, C., Taxation and representation in the Middle Ages, Boston, Mass., 1929.
Stubbs, W., The constitutional history of England, 3 voll., Oxford 1880.
Sturlese, L., I re e i lords nel Parlamento medievale inglese, Milano 1963.
Sturlese, L., La crisi del bicameralismo in Inghilterra, Milano 1966.
Sundqvist, J.L., Endemic weakness of the Congress, in The decline and resurgence of Congress, Washington 1981, pp. 155 ss.
Trevelyan, G.M., History of England, London 1960 (tr. it.: Storia d'Inghilterra, Milano 1981).
Ullmann, W., Principles of government and politics in the Middle Ages, London 1966 (tr. it.: Principî di governo e politica nel Medioevo, Bologna 1972).
Vassallo, S., Il governo di partito in Italia, Bologna 1994.
Volpi, M., Lo scioglimento anticipato del parlamento e la classificazione dei regimi contemporanei, Rimini 1983.
Weber, M., Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, München-Leipzig 1918 (tr. it.: Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e altri scritti politici, Torino 1982).
Weber, M., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922 (tr. it.: Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958).
Zangara, V., Le prerogative costituzionali (rilievi e prospettive), Padova 1972.
Zanon, N., Il libero mandato parlamentare, Milano 1991.