partiti socialisti
Organizzazioni politiche del movimento operaio, comparse a partire dall’ultimo quarto del 19° sec. e tuttora operanti in molti Paesi del mondo.
Il massiccio sviluppo dell’industria, la crescita quantitativa della classe operaia e il formarsi di movimenti sindacali e politici organizzati, accanto alla diffusione internazionale del marxismo e allo stesso aggravarsi della situazione economica a seguito della depressione iniziata nel 1873, sono i fattori che, a partire dall’ultimo quarto del 19° sec., furono alla base della nascita dei p.s. in molti Paesi europei. Il primo a essere fondato, nel 1875, fu la SPD, ossia il Partito socialdemocratico tedesco, che ben presto divenne anche la forza egemone nel movimento operaio del Vecchio continente. Di lì a poco nacquero il Partito socialista danese (1876) e poi formazioni simili in Belgio (1885), Norvegia (1887), Svizzera (1888), Svezia (1889; ➔ Partito socialdemocratico svedese), Austria (1889; ➔ Partito socialdemocratico austriaco), Italia (1892; ➔ Partito socialista italiano), Olanda (1894), Finlandia (1899), Francia (1905). In Gran Bretagna le organizzazioni che si richiamavano al socialismo fondarono invece il Labour party (1906), che diede vita a una tradizione peculiare nell’ambito del movimento operaio e socialista (➔ ). La SPD intanto fungeva quasi da modello per la maggior parte dei p.s. e il suo Programma di Erfurt, redatto da K. Kautsky ed E. Bernstein nel 1891, costituì la principale ispirazione delle loro piattaforme politiche, mentre il dibattito avviato dallo stesso Bernstein nel 1896 sulla possibilità di un superamento graduale e pacifico della società capitalistica sistematizzò sul piano teorico quell’approccio evoluzionistico che di fatto già caratterizzava vari p.s., sebbene la Conferenza di Amsterdam (1904) condannasse tali teorie; il «Bernstein-Debatte» apriva comunque la strada a quella revisione del marxismo in senso evoluzionistico che sarebbe stata egemone nel movimento socialista. Peraltro la graduale estensione del diritto di voto favoriva i p.s., e in particolare la SPD, che nonostante le varie leggi antisocialiste varate dal governo, divenne il primo partito tedesco e poi anche il gruppo parlamentare più numeroso al Reichstag (1912), giungendo a un milione di iscritti nel 1914. Fuori dall’Europa, la crescita dei p.s. non fu così rilevante; negli Stati Uniti il Partito socialista raggiunse l’apice dei consensi nel 1912 quando il suo candidato alla Casa Bianca, Eugene Debs, ottenne il 6% del voto popolare. Il carattere di partito di massa dei p.s. europei, oltre che da una lunga tradizione politica, era favorito anche dalla rete di organizzazioni collaterali a cui essi erano collegati, dai sindacati alle cooperative, dalle leghe contadine alle società di mutuo soccorso, fino alle associazioni ricreative e sportive. Questa rete di organismi di massa, gravitanti attorno ai p.s., configurava una sorta di universo alternativo e autonomo o, se si vuole, di «Stato nello Stato», coi suoi riti, i suoi simboli, la sua «subcultura»; al tempo stesso i p.s. fungevano da straordinario fattore di integrazione delle masse popolari all’interno di Stati fino ad allora dominati totalmente dalle oligarchie economiche e dai notabilati liberali sul piano politico. I successi elettorali e la crescita organizzativa dei p.s. crearono dunque un certo allarme nelle classi dominanti. Intanto la gran parte dei p.s. aveva aderito a quella seconda Internazionale (➔ Internazionale) che era nata nel 1889 e che garantiva un coordinamento delle forze, quanto meno a livello europeo. Tuttavia lo scoppio della Prima guerra mondiale e il voto favorevole ai crediti di guerra da parte della quasi totalità dei p.s. (fatta eccezione per quello italiano e per vivaci minoranze interne ai vari partiti) provocarono dibattiti accesi e gravi crisi in molti p.s., da cui si staccarono consistenti minoranze che in seguito, sull’esempio del Partito bolscevico e della Rivoluzione d’ottobre, si sarebbero costituite in .
La Prima guerra mondiale divise dunque i p.s. al loro interno tra «socialisti patriottici», pacifisti e rivoluzionari. Se questi ultimi confluirono perlopiù nel movimento comunista, anche nei p.s. le tendenze favorevoli all’adesione alla terza Internazionale (➔ Comintern) erano molto forti. Dal canto suo, la SPD tentò di ricostituire l’Internazionale socialista, mentre i socialisti di sinistra – molto forti nel p.s. austriaco – davano vita alla cd. «Internazionale due e mezzo». Tuttavia ben presto i due tronconi si unificarono nella ricostituita Internazionale socialista (1923), anche se O. Bauer e gli altri marxisti austriaci continuarono a guardare con favore all’esperimento sovietico. Nei vari Paesi europei, intanto, i p.s. tornavano a crescere sul piano elettorale. Se in Italia tale ascesa fu stroncata dall’avvento del fascismo, altrove essa poté procedere, giungendo a risultati importanti: dal 37,9% dei voti della SPD e dal 38% del Partito socialista finlandese nel 1919 al 42,3% del Partito socialista austriaco nel 1927, per non parlare delle affermazioni del Partito laburista in Gran Bretagna (37,1% nel 1929) o della crescita impressionante dei p.s. del Nord Europa e dei Paesi scandinavi, giunti nel 1935-36 al 46,1% in Danimarca, al 42,5% in Norvegia e al 45,9% in Svezia. In vari Paesi, i p.s. entrarono anche nei governi nazionali: nel 1929 i laburisti tornavano al potere in Gran Bretagna; nel 1932 entrava in carica in Svezia il primo governo socialdemocratico forte di una solida maggioranza parlamentare. I p.s. dunque avanzavano, riprendendo vecchie battaglie come quella per la giornata lavorativa di otto ore, ma portando avanti anche istanze nuove che, in corrispondenza con la crisi capitalistica del 1929 e l’affermarsi delle teorie keynesiane, davano avvio a una nuova presenza dello Stato nell’economia e ai primi passi della costruzione dello stato sociale. Intanto, dopo che in Germania il nazismo aveva bloccato a sua volta l’avanzata di SPD e comunisti, nel 1934-36 i p.s., lasciandosi alle spalle anni di duri scontri, riavviavano un dialogo coi partiti comunisti, giungendo a patti di unità d’azione in Francia e in Italia (1935), e poi entrando a far parte con essi e con altre forze di quei che giunsero al governo in Francia e in Spagna. Tuttavia, mentre il pronunciamiento di Franco metteva in difficoltà il governo spagnolo, dando avvio alla guerra civile, il governo francese guidato dal socialista L. Blum, che pure aveva ottenuto aumenti salariali e contrattazione collettiva, finiva per deludere molte aspettative, anche per quanto riguardava il sostegno alla Repubblica spagnola. Il precipitare della situazione e lo scoppio della Seconda guerra mondiale aprivano intanto una nuova fase di crisi, e al tempo stesso ponevano le basi per un rilancio dei partiti socialisti.
Alla fine del 1942, con la guerra in pieno svolgimento, il «piano Beveridge» in Gran Bretagna, pur essendo l’opera di un liberale di sinistra, proponeva di estendere la protezione sociale da parte dello Stato a tutti i cittadini, indipendentemente dai contributi versati. Si ponevano così le basi per quella costruzione del che sarebbe stato il principale obiettivo dei p.s. nel secondo dopoguerra. I p.s., diventati a tutti gli effetti – compresi quelli della legittimazione e della piena accettazione della democrazia parlamentare – partiti socialdemocratici, sia pure con eccezioni rilevanti come il Partito socialista italiano (almeno fino al 1956), tornarono ad assumere responsabilità di governo su più vasta scala, spesso rompendo i legami con le forze comuniste. Sono emblematici, in questo senso, alcuni episodi maturati durante gli anni Cinquanta: la rottura del patto fra PSI e PCI in Italia dopo i fatti di Ungheria del 1956, cui seguì l’entrata del Partito socialista nel governo di centrosinistra (1962); la svolta di Bad Godesberg attuata nella Germania federale dalla SPD di W. Brandt, che decretò l’abbandono del marxismo e delle finalità socialiste; l’allontanamento dei socialisti francesi dall’orbita di influenza del Partito comunista. Senza contare il collaudato lealismo del Partito laburista in Gran Bretagna, delle socialdemocrazie scandinave e dell’Europa continentale, che si confermarono forze di governo, in taluni casi decisamente filoatlantiche, sebbene una corrente più neutralista e favorevole al superamento dei blocchi militari tornò a delinearsi negli anni Settanta proprio attorno alle figure di Brandt e dello svedese O. Palme. Frattanto p.s. come quelli spagnolo, portoghese e greco assumevano un ruolo centrale nei rispettivi Paesi, all’indomani della caduta delle dittature militari che li avevano oppressi. P.s. si consolidavano inoltre anche nei continenti extraeuropei, a partire dall’America Latina. Di particolare rilievo fu il ruolo del Partito socialista cileno, tra i principali animatori del cartello di Unidad popular che portò alla presidenza il socialista S. Allende (1970), avviando un tentativo di transizione democratica al socialismo che venne stroncato dal golpe del 1973; il Partito socialista tornò poi al governo nel 1999 dopo il ripristino della democrazia parlamentare. P.s. sono giunti poi al potere in Brasile e in altri Paesi latinoamericani negli stessi anni Novanta e all’inizio del sec. 21°. In Europa, intanto, dopo l’avanzata legata alla fase espansiva dell’economia del trentennio postbellico, che aveva consentito la costruzione e l’ampliamento dello stato sociale, anche in corrispondenza di grandi lotte operaie e sindacali, l’inizio della crisi economica negli anni Settanta ridusse i margini di tali politiche, aprendo una fase di ripensamento per molti p.s., che finirono per contribuire all’affermazione dell’ideologia e delle politiche neoliberiste degli anni Ottanta. Il tentativo del leader laburista T. Blair di sistematizzare tale approccio, delineando una sorta di «terza via» tra la tradizione socialdemocratica e quella liberale, finì per rivelarsi molto debole. Lo stesso crollo dei Paesi socialisti, nel 1989-91, oltre a colpire frontalmente il movimento comunista, finì per mettere in difficoltà gli stessi p.s., che pure negli anni Novanta furono al governo di gran parte dei Paesi europei. La crisi economica iniziata nel 2007 ha quindi visto i p.s. perlopiù sulla difensiva; in taluni Paesi, come in Grecia, costretti ad attuare politiche restrittive della spesa pubblica e di fatto antipopolari, e quindi a dover fronteggiare ampi movimenti di massa, sindacali e politici. Da più parti, quindi, all’interno degli stessi p.s., si pone l’esigenza di un ripensamento strategico in grado di delinearne una funzione rilevante dinanzi alle sfide attuali. A tal fine è stata costituita una Fondazione per gli studi progressisti europei (FEPS), di cui nel giugno 2010 è stato eletto presidente M. D’Alema.