Pelagio I
P., figlio di un certo Giovanni "uicarianus", senz'altro funzionario del Vicariato di Roma, era originario di questa città. Non si hanno notizie sul suo conto, prima di trovarlo diacono, insieme a Teofane, nella legazione che accompagnò papa Agapito a Costantinopoli nell'inverno del 535-536. Dunque P. fu almeno testimone del conflitto fra Agapito e Antimo, vescovo di Costantinopoli, accusato di monofisismo. Poiché Antimo era già vescovo di Trebisonda in Palestina prima che Teodora lo chiamasse alla sede costantinopolitana, fu deposto dalla sua carica in forza dei canoni che proibivano i trasferimenti da una sede episcopale ad un'altra e il papa consacrò in sua vece il presbitero Menas. In questa circostanza venne alla luce il monofisismo di Antimo, il quale si diede alla clandestinità sotto la protezione di Teodora. Prima del 22 aprile 536 il papa conferì a P. la carica di apocrisario presso l'imperatore. Dopo la morte di Agapito, il 22 aprile, P. partecipò con cinque rappresentanti romani al concilio presieduto dal patriarca di Costantinopoli Menas, svoltosi dal 2 al 4 giugno di quell'anno per confermare la condanna contro i monofisiti. Il concilio condannò in contumacia Antimo, deposto dalla sua sede di Trebisonda, e rinnovò le condanne contro Severo di Antiochia, capo dei monofisiti, e i suoi discepoli Pietro, già vescovo di Apamea, e il monaco Zora. Quando la legazione ripartì alla volta di Roma per accompagnare le spoglie di Agapito, P. si trattenne a Costantinopoli. Secondo il resoconto del cronista Liberato, quando il vescovo di Patara in Licia, dove era stato esiliato papa Silverio, successore di Agapito, dopo essere stato deposto da Belisario nel marzo 537, chiese a Giustiniano di intervenire in favore del pontefice trattato ingiustamente, P. si rivolse all'imperatore per sostenere la legittimità di questa deposizione e dell'elezione al soglio del nuovo papa, Vigilio, succeduto a Silverio. Malgrado le proteste dell'apocrisario, Silverio fu rimandato a Roma per essere sottoposto ad un processo equo. Nel 537 P., su richiesta dell'imperatore, intervenne nelle questioni alessandrine. Nel febbraio 535 ad Alessandria erano stati eletti due vescovi, uno dei quali era Teodosio, successore giulianista (ossia sostenitore di Giuliano di Alicarnasso) di Timoteo IV. Nel 535, allorché Antimo di Trebisonda era stato elevato alla sede di Costantinopoli, Teodosio aveva scambiato lettere di comunione con il nuovo patriarca e con il vescovo monofisita di Antiochia. Nel novembre 536 era stato scacciato dalla sua sede dai monofisiti severiani e faceva propaganda in Egitto. Richiamato a Costantinopoli dall'imperatore, alla fine del 536 o all'inizio del 537, fu deposto dalla carica. P. intervenne nella scelta del suo successore, il monaco Paolo, calcedonese ortodosso, a proposito del quale Liberato dichiara che fu ordinato vescovo "Pelagio interueniente apocrisario romano". La cerimonia di consacrazione di Paolo, officiata da Menas, ebbe luogo a Costantinopoli in presenza di P. e dei patriarchi Pietro di Gerusalemme ed Efrem di Antiochia. Quando il nuovo vescovo di Alessandria fu esiliato a Gaza, essendosi dimostrato inetto a governare in Egitto, Giustiniano mandò P. in Palestina, munito di lettere imperiali, per pronunciarne la deposizione, di concerto con Efrem di Antiochia e Pietro di Gerusalemme, e ordinare il suo successore Zoilo. A detta di Liberato, allora P. fu causa della condanna di Origene. Secondo il racconto del cronista, sulla via del ritorno verso Costantinopoli, alcuni monaci di Mar-Saba e il loro abate Gelasio consegnarono a P. "capitula" tratti dalle opere del dottore alessandrino, chiedendogli di ottenerne la condanna. Una volta rientrato nella città imperiale, P., convinto della pertinenza della condanna di Origene, guadagnò alla causa Menas e l'imperatore. Sarebbe questa l'origine dell'editto pubblicato nel 543, approvato dal sinodo ordinario, di cui si conserva il testo inviato a Menas (Acta Conciliorum Oecumenicorum, III, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1940, pp. 189-214). Secondo Liberato l'editto fu mandato anche agli altri patriarchi, Vigilio di Roma, Efrem di Antiochia, Zoilo di Alessandria e Pietro di Gerusalemme. La condanna di Origene suscitò lo sdegno di Teodoro Askidas, vescovo di Cesarea di Cappadocia, e dei suoi colleghi monofisiti. Facondo di Ermiane, ripreso in seguito dai cronisti africani, sostiene che il progetto di condannare i Tre Capitoli prese forma dal desiderio di vendetta degli origeniani, ansiosi di punire l'abate Gelasio e il rappresentante della Sede romana caldeggiando la condanna di Teodoro di Mopsuestia. Per Liberato, che conclude la sua cronaca con quest'episodio, fu a causa di P. e Teodoro Askidas che lo scandalo della condanna dei Tre Capitoli si profilò all'orizzonte della Chiesa. P. non era più apocrisario quando Giustiniano pubblicò l'editto contro i Tre Capitoli, tra il 543 e la fine del 545. Fu il suo successore Stefano a prendere l'iniziativa di proclamare il rifiuto di Roma e interrompere la comunione con Menas, che aveva accettato di sottoscrivere l'editto. Ma fin dalle prime fasi del dibattito P., insieme al diacono romano Anatolio, si rivolse a Ferrando, diacono di Cartagine e discepolo di Fulgenzio di Ruspe, per conoscere la sua opinione sulla legittimità della condanna. Ferrando inviò ai "santi fratelli e colleghi Pelagio e Anatolio" una lettera in cui esponeva la sua dottrina. Il responso era categorico: il concilio di Calcedonia formava un tutto inscindibile e, di conseguenza, condannare i Tre Capitoli equivaleva a contestarne l'autorità. "Ecco, interrogato da voi, non ho potuto tacere a causa dell'obbedienza, rispondendo da discepolo ai maestri, da ignorante ai sapienti, da piccolo ai più grandi. Giudicate, per carità, ve lo chiedo, se questa modesta risposta ha saputo cogliere la verità". Quest'iniziativa non può che essere stata presa prima dell'arrivo di P. a Roma, sia che fosse ancora a Costantinopoli o sulla strada del ritorno o in compagnia di Vigilio in Sicilia. In effetti egli giunse a Roma poco prima che Totila ponesse l'assedio alla città, nel dicembre 545, in una congiuntura politica poco propizia a questo genere di carteggi. Secondo lo storico Procopio, dal quale provengono tutte le informazioni sopravvissute sul soggiorno romano del diacono, P. disponeva di una grande fortuna accumulata a Costantinopoli grazie all'amicizia dell'imperatore. Durante l'assedio, particolarmente gravoso, attinse a questo patrimonio personale per soccorrere i suoi concittadini, guadagnandosi in tal modo una solida reputazione di filantropo. Poiché la situazione appariva disperata, i Romani gli chiesero di avviare negoziati con Totila. Il re goto ricevette P. con amicizia e rispetto, ma pose tre condizioni preliminari a qualsiasi negoziato con i Romani: era inutile perorare la causa dei Siciliani, che avevano tradito i Goti; le mura di Roma dovevano essere abbattute; gli schiavi emancipati dai Goti non sarebbero tornati ai loro proprietari. P. respinse le richieste e rientrò in città, dove imperversava una terribile carestia aggravata dall'accaparramento delle ultime risorse da parte dei soldati bizantini. Quando alla fine Totila fece il suo ingresso a Roma, il 17 dicembre 546, fu di nuovo P. ad affrontarlo. Il re giunse a S. Pietro, dopo che le sue truppe ebbero ucciso ventisei soldati e venti civili, e P., andandogli incontro con le Sacre Scritture, chiese a Totila di risparmiare ciò che ormai gli apparteneva. Il re ordinò ai suoi uomini di non uccidere i Romani, ma autorizzò i saccheggi. Procopio racconta che allora in città erano rimasti solo cinquecento abitanti. Alcuni giorni dopo, quando Totila tenne di fronte ai senatori riuniti un discorso in cui deplorò la loro slealtà nei confronti della monarchia gota, che li aveva sempre trattati onorevolmente, fu di nuovo P. ad intercedere in loro favore ottenendo dal re la rinuncia a qualsiasi punizione. In seguito Totila mandò P. in veste di ambasciatore da Giustiniano, insieme ad un retore di nome Teodoro, per negoziare le condizioni della pace: dovettero entrambi giurare di servirlo fedelmente, al fine di ottenere una pace che avrebbe evitato alla città di Roma di essere rasa al suolo, ai membri del Senato di essere giustiziati e all'Illiria di scendere in guerra contro i Goti. Dopo aver compiuto la loro missione, gli ambasciatori tornarono a Roma per riferire la risposta negativa dell'imperatore. L'11 aprile 548 papa Vigilio, che si trovava a Costantinopoli dall'inizio del 547, pubblicò lo Iudicatum, in cui anatemizzava esplicitamente Teodoro di Mopsuestia e i suoi scritti empi, la lettera blasfema indirizzata a Mari il persiano, che si diceva fosse opera di Ibas, nonché gli scritti di Teodoreto di Ciro contro la vera fede e i dodici "capitula" di Cirillo. A giudicare da quanto sostiene lo stesso Vigilio, che rievoca gli eventi nella lettera a Rustico e Sebastiano, il papa esprimeva anche con forza il suo rispetto per tutte le decisioni in materia di fede prese dal concilio di Calcedonia. In questo periodo P. si trovava in Sicilia, dove ricevette tramite il diacono Vincenzo, che rientrava da Costantinopoli, uno dei quattro esemplari clandestini copiati dal diacono Rustico in lettere minuscole per diffonderli all'insaputa di Vigilio. P. ne informò il papa, smascherando così la doppiezza di Rustico e Sebastiano. A partire dall'estate 551, al più tardi, P. entrò a far parte della cerchia di Vigilio a Costantinopoli, e si dimostrò un solido sostegno nella resistenza romana alla politica imperiale. Quando Vigilio, il 23 dicembre 551, abbandonò la sua residenza attraverso una finestra per rifugiarsi nella chiesa di S. Eufemia di Calcedonia, P. lo raggiunse con Dazio di Milano, il vescovo della Bizacena Verecondo e altri chierici occidentali. P. era ancora a fianco del pontefice alla vigilia dell'apertura del concilio. Vigilio lo mandò dai Padri per trasmettere la richiesta papale di una proroga di venti giorni per esprimere il suo parere definitivo sui Tre Capitoli. Alcuni autori moderni gli attribuiscono la paternità del Constitutum, pubblicato da Vigilio il 14 maggio. Ad ogni modo, P. sottoscrisse in diciannovesima posizione, dopo l'arcidiacono Teofanio, il testo che proibiva di attentare al concilio di Calcedonia, diffidava dall'oltraggiare la memoria di Teodoro di Mopsuestia, pur condannando le proposizioni che gli venivano attribuite nei testi imperiali e ribadendo la condanna di Nestorio e Eutiche, e infine esprimeva il divieto di condannare Teodoreto di Ciro e la lettera di Ibas letta al concilio. Dopo il concilio P., per qualche tempo, non volle desistere dalla sua opposizione alla condanna dei Tre Capitoli, e come il diacono Sapato venne internato per ordine dell'imperatore. Fu senz'altro in questo periodo, mentre Vigilio si riavvicinava alla comunione bizantina, che P. scrisse, su richiesta di Giustiniano, un "refutatorium" rivolto al papa che l'aveva condannato. Nei monasteri in cui trascorse le sue giornate da recluso, P. redasse anche una disamina dei passaggi incriminati della lettera di Ibas, su invito del suo compagno di cattività Sapato. I due testi sono entrambi perduti, ma P. scrisse anche In defensione Trium Capitulorum che è giunto fino a noi. In questo testo, ampiamente ispirato al Pro Defensione di Facondo d'Ermiane, P., facendo riferimento anche agli atti del concilio e al Constitutum, attaccava violentemente Vigilio, irridendo la sua volubilità e definendolo un prevaricatore della fede che aveva agito per motivi venali. Al contrario, parlava dell'imperatore con grande deferenza. Non è noto in che periodo P. abbia tradotto dal greco in latino il quinto libro e una parte del sesto delle Adhortationes sanctorum Patrum (Apoftegmi dei Padri, o anche Vitae Patrum). Continuò la sua traduzione un certo Giovanni suddiacono, nel quale alcuni credono di riconoscere papa Giovanni II a causa dell'omonimia. Quando la notizia della morte di Vigilio raggiunse Costantinopoli, nell'estate del 555, Giustiniano si adoperò per dare un successore alla Sede di Roma, dove la sua autorità era rappresentata da Narsete. Nell'Italia bizantina ormai completamente riunita all'Impero, la situazione presentava elementi di novità. Vigilio era già stato un candidato imperiale, ma le condizioni particolari della sua ascesa al pontificato erano tali da non poter costituire un precedente. Fino ai primi decenni del VI secolo, il candidato all'episcopato veniva tradizionalmente designato da un'assemblea composta da clero e da senatori. Questa procedura non era stata in grado né di impedire disordini (come le doppie elezioni di Simmaco e Lorenzo, o di Bonifacio e Dioscoro), né di proteggere dall'influenza del potere (ad esempio, in occasione dell'elezione di papa Silverio). Ma ancora non era accaduto che un candidato fosse nominato direttamente dall'imperatore, com'era nella prassi della sede costantinopolitana. Ora la situazione in cui versava Roma gli consentiva di farlo: il Senato era stato quasi interamente disperso, tra i morti e gli esiliati a Costantinopoli, e lo stesso clero, che aveva accompagnato numeroso papa Vigilio nella città imperiale, era rientrato in Italia decurtato. Il diacono Stefano, che aveva riscosso le entrate dell'indizione del 552-553, era stato sostituito dal vescovo Mauro di Palestrina, e il presbitero Mareas, celebrato nel suo epitaffio perché si era rivelato degno del pontificato, morì nel corso del 555. Giustiniano, perfettamente consapevole delle reticenze occidentali di fronte alla condanna dei Tre Capitoli, non poteva rischiare di perdere il vantaggio di una vittoria conseguita con tanta fatica rinunciando al controllo della Sede romana. Proponendo il pontificato a P., l'imperatore scelse una soluzione che non mancava di audacia. Quali che fossero gli argomenti usati da Giustiniano e i conflitti interiori di P., il diacono fu costretto a condannare i Tre Capitoli e ad approvare il concilio di Costantinopoli per poter accettare la proposta imperiale. Di quest'argomentazione "assai sottile, troppo sottile per poter essere recepita dalle menti dei contemporanei", ma "che un uomo intelligente e informato come Pelagio era in condizione di valutare", secondo le parole di L. Duchesne, non resta nulla salvo l'acquiescenza dell'interessato. P. lasciò a Costantinopoli il compagno Sapato, con la carica di apocrisario, e nella primavera del 556 sbarcò in Italia per essere consacrato vescovo di Roma. A dispetto del suo passato prestigioso e del ricordo del coraggio dimostrato durante l'assedio, P. non fu accolto con favore in Italia. I Romani, come i vescovi italiani, avevano sentito dire per anni che i Tre Capitoli non dovevano essere condannati e sapevano che papa Vigilio li aveva difesi. Nella stessa Roma le notizie non dovevano giungere né numerose né circostanziate. A detta del Liber pontificalis i Romani ignoravano perfino se Vigilio fosse vivo oppure morto. Videro arrivare un diacono che li informò simultaneamente della morte del pontefice, del voltafaccia della politica romana e della propria promozione alla carica episcopale. Il cronista del Liber pontificalis sostiene che P. fu accusato di aver fatto assassinare Vigilio per prenderne il posto. È impossibile distinguere tra le perplessità suscitate dalla procedura di nomina imperiale, i dubbi sollevati dalle voci che circolavano in città, l'opposizione provocata dalla condanna dei Tre Capitoli sottoscritta da P., o semplicemente la situazione di sfinimento di Roma e delle regioni limitrofe: comunque sia, P. fu consacrato da due soli vescovi (quelli di Ferentino e di Perugia) e da un presbitero di Ostia, contrariamente ai canoni che esigevano tre vescovi. La cerimonia si svolse il 16 aprile 556, nel giorno di Pasqua, in presenza di Narsete e di ufficiali bizantini. Ne seguì un'altra, più insolita: P. si recò nella chiesa di S. Pancrazio, sul Gianicolo, da dove si snodò una processione che raggiunse S. Pietro in Vaticano. Qui P., con Narsete al suo fianco, giurò solennemente di non essere colpevole dei tradimenti di cui lo si accusava, ossia la morte di Vigilio e l'abbandono del concilio di Calcedonia. Per finire P. pronunciò una professione di fede destinata a placare le inquietudini di chi dubitava della sua ortodossia. Questi provvedimenti si rivelarono sufficienti a dissipare i sospetti del clero e della popolazione di Roma. Non vi è traccia, né tra la corrispondenza di P., che si è conservata abbastanza integra, né in altre fonti, di iniziative che abbiano messo in discussione la sua autorità dopo le prime settimane di pontificato. Tuttavia, nelle altre Chiese, l'opera di persuasione richiese tempi più lunghi. Nei primi anni di pontificato P. cercò di convincere pacificamente gli oppositori alla riconciliazione, ma a partire dal 559 ricorse a mezzi più autoritari, ottenendo comunque in entrambi i casi modesti successi. Fuori d'Italia P. si scontrò con la diffidenza delle Chiese del Regno franco. Poté contare sull'appoggio di Sapaudo, vescovo di Arles, destinatario di una lettera scritta all'inizio del luglio 556, in cui P. annunciava la sua elevazione al soglio pontificio. La lettera si incrociò con il messaggio di felicitazioni del vescovo, il quale riferiva comunque al papa i sospetti che pesavano sulla sua ortodossia alla corte franca. P. ricevette anche un legato del re, il "uir magnificus" Rufino, giunto per chiedergli una professione di fede che rassicurasse il suo sovrano sulla fedeltà del pontefice al concilio di Calcedonia. In settembre P. comunicò a Sapaudo di essere impegnato nella preparazione di una professione di fede che avrebbe dissipato ogni dubbio del re Childeberto. In dicembre, approfittando del viaggio di un mercante diretto ad Arles, P. inviò in Gallia un duplice messaggio: al vescovo, una lettera che trattava di questioni amministrative e disciplinari, in cui gli chiedeva, in particolare, di usare le rendite derivanti dalle terre romane per acquistare indumenti da destinare ai poveri e di farli giungere a Porto via mare, un penoso indizio della situazione economica in cui versava l'Italia (ep. 4). Nella lettera al re il pontefice spiegava che sotto il regno di Giustiniano e Teodora nulla aveva minacciato la fede, e ribadiva la propria rigorosa fedeltà al concilio di Calcedonia e al Tomus di papa Leone (ep. 3). Ma il re non si accontentò di queste assicurazioni, perché nel febbraio 557 il papa scrisse a Childeberto una lettera in cui deplorava i sospetti nutriti nei suoi confronti ed enunciava una professione di fede di ortodossia strettamente calcedonese, proclamando la sua fedeltà ai quattro concili (ep. 7). Nondimeno, nell'inverno 558-559, P. fu costretto a tornare diffusamente sull'argomento in una lettera indirizzata a Sapaudo, nella quale riepilogava la storia recente del dibattito giustificando il suo mutamento d'opinione con l'errore commesso quand'era "incautus et ignarus". Affermò inoltre che la sentenza contro i Tre Capitoli era condivisa dai vescovi dell'Oriente, dell'Illiria e dell'Africa nella loro totalità (ep. 19). In Italia, parallelamente, alcuni vescovi si astenevano dall'includere il nome di P. nei dittici. Nella corrispondenza del papa viene segnalato un certo numero di prelati che adottò questa decisione. P. mandò il "defensor" Iordanes a svolgere una ricognizione nelle Chiese della penisola, con l'apparente scopo di effettuare un censimento a un tempo disciplinare e materiale delle Chiese. Nella "Tuscia Annonaria" alcuni vescovi avevano mancato di iscrivere nei dittici il nuovo papa. Il "defensor" romano se ne risentì, ma otto vescovi gli consegnarono una relazione in cui spiegavano la posizione assunta: non intendevano interrompere la comunione con l'intera Chiesa ("ab uniuersis orbis communione") separandosi dal vescovo di Roma e chiedevano garanzie in merito all'ortodossia di Pelagio. Nel 557 il papa rispose con una lettera dal tono particolarmente benevolo, che può stupire alla luce del contegno temerario dei suoi corrispondenti e dell'opposto atteggiamento assunto in seguito da P. nei confronti dei suoi avversari più irriducibili (ep. 10). Da questi eventi si può misurare la fragilità della posizione di P. a un anno dall'inizio del suo pontificato. Il papa chiamava "dilectissimi fratri" i vescovi della "Tuscia Annonaria", ma nella lettera esordiva richiamandosi all'istituzione per provare l'illegittimità dei loro sospetti: se i vescovi ritenevano di separarsi unicamente da P., si mostravano immemori dell'autorità apostolica grazie alla quale Roma si identificava con la Chiesa universale. Solo nel seguito della lettera, "affinché non dimori in voi, o tra il gregge che vi è affidato, alcun sospetto sulla nostra fede", P. formulava la sua professione di fede nei quattro concili ecumenici, tacendo del concilio di Costantinopoli del 553. Dopo aver invitato i vescovi a restaurare l'unità della Chiesa accettando la comunione con il papa, proponeva loro, nell'eventualità del sussistere di ulteriori dubbi, di recarsi a Roma per discutere direttamente con lui le questioni più spinose. Gli sforzi di P. non furono coronati da un successo incondizionato: infatti sei vescovi cedettero alle argomentazioni romane, mentre due, Massimiliano e Terenzio, rimasero separati dalla comunione almeno fino al 559. In questo contesto P. scrisse una lettera enciclica in cui esponeva la sua fede (ep. 11). Insieme alla professione indirizzata a Childeberto nel dicembre 556, è stata trasmessa con il titolo di "fides sancti Pelagii papae" da due manoscritti carolingi (Montepessulanus, H. 308; Leidensis Voss. Lat. Q. 122) e pubblicata nel 1851 dal cardinal Pitra, che erroneamente l'attribuì a Vigilio. In questo testo di teologia strettamente calcedonese il papa proclamava la sua fedeltà ai quattro concili ecumenici, precisava di accogliere le lettere dei suoi predecessori Celestino, Sisto, Leone, Ilaro, Simplicio, Felice, Gelasio, Anastasio, Simmaco, Ormisda, Giovanni, Felice, Bonifacio, Giovanni II e Agapito, affermava di essere in comunione con i vescovi d'Oriente, di Dardania e dell'Illiria e di considerare ortodossi "i venerabili vescovi Teodoreto e Ibas". Il papa evocava anche il dibattito sui Tre Capitoli scrivendo: "Noi potremmo spiegare le ragioni di tutto questo dibattito per far tacere le voci che corrono sul nostro conto e dimostrare con argomenti schiaccianti che mai nulla è stato intrapreso, fino ad oggi, contro i quattro concili; al contrario, tutto fu messo in atto affinché l'insegnamento saldo dei quattro concili persistesse con immutabile tenacia contro gli avversari. Ma non abbiamo ritenuto necessario farlo per chi ha più bisogno di latte che di cibo sostanzioso". Nell'Italia settentrionale la situazione era più deteriorata. L'opposizione alla condanna dei Tre Capitoli si era organizzata intorno ai due metropoliti di Milano e di Aquileia già prima che P. salisse al soglio pontificio. Nel 552-553 la successione del vescovo Dazio di Milano aveva innescato un primo conflitto tra il clero e il potere politico. Valeriano, l'ufficiale bizantino presente ad Aquileia nel 552-553, aveva voluto esercitare nelle Chiese dell'Italia settentrionale il consueto controllo delle autorità bizantine sulle elezioni episcopali, in previsione di una vittoria imminente nei territori ancora in mano ai Goti o ai Franchi. Dopo l'elezione di Vitale a Milano, quando il nuovo vescovo doveva essere consacrato ad Aquileia dal vescovo locale Macedonio, l'ufficiale pretese di rinviare la cerimonia in attesa della risposta dell'imperatore al quale aveva inviato il suo rapporto. Come P. raccontò in seguito, Valeriano "fra nemici ovunque impetuosi" ebbe l'ardire di portare a Ravenna, dove allora era vescovo Massimiano, "chi ordinava e chi doveva essere ordinato". Il pontificato di Vitale fu breve, ma il suo successore Auxano, come gli altri vescovi italiani, rifiutò la comunione con Pelagio. Ad Aquileia continuava ad essere vescovo Macedonio, che presumibilmente era altrettanto intransigente. Tuttavia, fino al 558, P. non intervenne in alcun modo negli affari delle Chiese italiane settentrionali. Ma dopo la morte di Macedonio la crisi esplose. L'elezione e la consacrazione del nuovo vescovo di Aquileia ispirò al papa una lettera pressante destinata alle autorità bizantine, dove per la prima volta accusava i suoi avversari di essere scismatici. La consacrazione del nuovo vescovo di Aquileia segnò quindi una fase del processo di rottura fra Roma e le Chiese dell'Italia settentrionale. Il nuovo vescovo era un monaco, la cui elezione agli occhi di P. era doppiamente priva di validità: "consacrato contro il costume e scismatico, non ha potuto ottenere l'episcopato". Paolo infatti era stato consacrato a Milano e non ad Aquileia. Il papa spiegò che secondo "un costume invalso qui dai tempi antichi, poiché per la lunghezza e le asperità della strada sarebbe stato gravoso essere ordinati dalla sede apostolica, i vescovi di Aquileia e di Milano dovevano ordinarsi reciprocamente; nondimeno, in modo tale che il pontefice dell'altra città si rechi nella città in cui vi è un vescovo da consacrare, affinché, da una parte, l'elezione di chi dev'essere ordinato dal consacratore sia riconosciuta meglio e più facilmente, grazie all'accordo universale su colui che deve governare la Chiesa nella sua totalità, e, dall'altra, chi dev'essere elevato al pontificato non si trovi a dipendere dal suo consacratore". Come dimostra la durata dello scisma della "Venetia et Histria", è evidente che Paolo di Aquileia cercò non tanto di sottrarsi alla comunità cristiana della sua città, ma alle autorità bizantine che non avrebbero senz'altro tollerato la scelta di un vescovo ostile alla condanna dei Tre Capitoli. Al contrario, il vescovo di Aquileia poteva ritenere che, di fronte al fatto compiuto di un'elezione episcopale, gli ufficiali non si sarebbero arrischiati ad adottare misure repressive, che in una regione in cui il potere imperiale stentava ad imporsi sarebbero state avvertite come una provocazione. Il suo ragionamento si rivelò fondato, come testimoniano gli sforzi profusi da P. per spiegare al suo interlocutore che Paolo era "iure ergo execratus tantum, non consecratus poterit dici" (ep. 24). Il papa dovette intervenire successivamente, a consacrazione già avvenuta. I vescovi di Milano e di Aquileia avevano preparato quest'elezione come una prova di forza perché, contrariamente a quanto era accaduto nel 552-553, le autorità non erano intervenute. Dopo la consacrazione il nuovo vescovo di Aquileia, di propria iniziativa o a nome dei colleghi nella stessa situazione, forse in occasione di un concilio, espose in una pubblica dichiarazione le ragioni per cui questi vescovi rifiutavano la comunione romana: affermavano che il papa aveva agito da nemico del concilio e lo sospettavano di aver svolto un ruolo da prevaricatore. A prescindere dal presunto carattere collettivo di questo passo, P., pur designando i suoi avversari al plurale, non parlò esplicitamente di sinodo e non coinvolse il vescovo di Milano nella disputa. Invece definì Paolo "princeps" degli oppositori, lui che portava il titolo di "Venetiarum, [...] atque Histryae patriarca" (ep. 24). A partire dal 559 P. parlò apertamente di scisma e adottò una strategia nuova per riportare gli avversari alla comunione romana: sottraendosi definitivamente a qualsiasi argomentazione sul materiale relativo ai Tre Capitoli, si appellò alla forza pubblica per persuadere i recalcitranti. Mentre all'inizio dell'anno consigliava ancora ad Agnello di Ravenna grande moderazione nei confronti degli scismatici (ep. 37), nel mese di aprile gli chiese di non tollerare più alcuna dissidenza nella sua Chiesa e di condannare chi non si fosse riconciliato entro un lasso di tempo di dieci giorni (ep. 74). Domandò a Narsete, designato come patrizio, di procedere non solo contro Massimiliano e Terenzio nella "Tuscia Annonaria", ma anche contro Paolino di Fossombrone, nel "Picenum", che venne attaccato a tre riprese (epp. 35; 60; 65). La maniera forte non si dimostrò del tutto priva di efficacia, dato che un vescovo Giovanni, la cui sede è ignota, in questo periodo si ricongiunse alla comunione romana (ep. 39). Il papa ricevette anche una lettera, andata perduta, di due "illustres", Pancrazio e Viatore, della Chiesa di Fossombrone, che solo al momento della repressione si preoccuparono di sapere se dovevano astenersi dal partecipare alle celebrazioni presiedute da presbiteri separati da Roma. P. rispose con tono piuttosto asciutto, mostrando stupore per la domanda che gli veniva rivolta; comunque dichiarò che se entravano in comunione con cristiani separati da Roma, inevitabilmente sarebbero stati scismatici (ep. 35). Il papa aveva adottato una politica più risoluta perché la situazione era andata evolvendosi tra il 556 e il 559. Al principio del suo pontificato P. si era scontrato con un'opposizione quasi universalmente diffusa. I suoi avversari, in attesa che si chiarisse la situazione religiosa, si comportavano come se la Sede romana fosse vacante. Dall'esempio dei vescovi della "Tuscia Annonaria" si evince come interi concili potevano astenersi dalla comunione romana. Ma questi vescovi non rifiutarono di incontrare il "defensor" inviato da Roma, né giustificarono la loro posizione con argomentazioni realmente ponderate, limitandosi ad esprimere un'opinione condivisa quasi universalmente. Invece nel 559 quest'unanimità si era dissolta: nel "Picenum" P. aveva nominato nelle sedi vacanti vescovi che, a questo punto, potevano denunciare Paolino di Fossombrone e la sua intransigenza. Alcuni querelanti della "Tuscia Annonaria" si recarono a Roma per denunciare Massimiliano e Terenzio, accusandoli a ragione di compromettere l'unità della Chiesa: da quando il concilio dei vescovi di questa provincia non era più unanime, la comunione era doppiamente spezzata, con il papa e fra i vescovi di una stessa circoscrizione. La divisione diventava visibile e uomini come Viatore e Pancrazio non potevano più accampare la loro buona fede. Per riportare i vescovi dell'Italia suburbicaria alla comunione con Roma, P. si era avvalso in un primo tempo di mezzi esclusivamente ecclesiastici; si rivolse alla forza pubblica solo dopo essersi scontrato con l'ostinazione di alcune Chiese, chiedendo al potere politico di intervenire in quanto i vescovi scismatici turbavano l'ordine pubblico. Invece, nel caso dei vescovi dell'Italia settentrionale, il pontefice si appoggiò fin dall'inizio alle autorità politiche. Questa disparità si spiega con la diversità di statuto nelle varie province ecclesiastiche. L'assenza di un vincolo disciplinare tra quelle di Aquileia e Milano, da un lato, e Roma, dall'altro (fuorché in caso d'appello), rendeva difficile l'intervento dei "defensores" pontifici, se un vescovo suffraganeo non presentava istanza presso il papa. Nel febbraio 559 alcuni vescovi della "Venetia et Histria" sollecitarono la riunione di un nuovo concilio, forse rivolgendosi alle locali autorità bizantine. P., in una lettera inviata al patrizio Giovanni, si oppose alla rivendicazione dei vescovi con queste parole: "Sappiano che non solo non possono pretendere di essere la Chiesa universale, ma neppure possono chiamarsi una parte dell'insieme, né essere annoverati tra le membra del Cristo, se non riuniti all'assise delle sedi apostoliche [si noti il plurale], liberi dall'aridità della loro separazione". Rivolgendosi al patrizio, gli spiegava: "Sappi dunque che la Chiesa è una, e che non potrà perire finché poggerà sui fondamenti della Chiesa apostolica" (ep. 24). Nel marzo 559 la situazione si aggravò ulteriormente: il "comes patrimonii" Giovanni era in procinto di assumere il suo incarico e P. si era rallegrato della nomina in un periodo turbato dallo scisma (ep. 38), quando il vescovo di Aquileia scomunicò il patrizio (ep. 52). P. chiese allora al vescovo di Ravenna, Agnello, di scegliere un uomo fidato, di consacrarlo presbitero e di mandarlo a Giovanni (ep. 50); inoltre scrisse una lettera veemente al patrizio Valeriano, nella quale passava in rassegna tutti i motivi di risentimento nei confronti dei vescovi di Aquileia e chiedeva al suo interlocutore di prendere severi provvedimenti contro Paolo (ep. 52). Invece di intervenire contro gli scismatici, le autorità bizantine assunsero un atteggiamento ambiguo: Giovanni cercò di restaurare la comunione con il vescovo di Aquileia, come se la preferisse a quella con il pontefice, e inoltrò a Roma la richiesta dei vescovi dissidenti di organizzare un concilio per riprendere in esame la documentazione relativa ai Tre Capitoli. Sdegnato, P. scrisse una seconda lettera a Valeriano, dai toni ancora più intransigenti della precedente, nella quale definiva Paolo "pseudo episcopus". Chiese che i due vescovi fossero condotti sotto scorta a Costantinopoli, per esservi giudicati dall'imperatore (ep. 59). Inviò contemporaneamente in Liguria e "Venetia et Histria" un presbitero romano, Luminoso, che raccomandò al "comes patrimonii" (epp. 61 e 62). Negli ultimi anni del suo pontificato P. moltiplicò gli appelli alla repressione, sia nell'Italia suburbicaria che nel settentrione. A tre riprese cercò di fiaccare l'opposizione di Paolino di Fossombrone, ormai bollato come adultero, rivolgendosi al patrizio Narsete e al "magister militum" Giovanni (epp. 61, 69, 70, 71), nonché al "magister militum" Carellus, affinché vigilasse sul trasferimento a Roma dei vescovi Massimiliano e Terenzio, rei di compromettere l'unità della Chiesa (ep. 65). Ma gli sforzi di P. non furono coronati da successo. Vescovi dissidenti si rivolsero forse all'imperatore con risultati positivi, poiché P. inviò a Giovanni una lettera in cui denunciava il ricorso alla frode per far valere certe petizioni presso l'imperatore (ep. 75). Il pontefice doveva anche render conto di alcune lettere che circolavano a suo nome e facevano risaltare l'incoerenza delle sue opinioni. Scrisse ad un "uir illustris" di nome Simeo per protestare contro questi metodi, pur riconoscendo la paternità del "refutatorium" inviato a Vigilio e dei sei libri In defensione Trium Capitulorum (ep. 80). Se pure le conseguenze del concilio di Costantinopoli ebbero la priorità nelle preoccupazioni di P., egli si adoperò anche per assolvere i suoi compiti pontificali. Oltre agli sforzi profusi per ricondurre all'unità le Chiese disgregatesi in seguito alla condanna dei Tre Capitoli, P. fu anche consultato da Gaudenzio di Volterra, che si trovò a fronteggiare nella sua diocesi un'eresia di cui non conosceva bene la natura. Nell'inverno 558-559 il papa gli scrisse esortandolo a raccogliere notizie in Illiria, nella regione di Sirmio e di Singidunum, dove erano numerosi i sostenitori di quest'eresia; era necessario appurare se gli eretici avessero ricevuto il battesimo trinitario, nel qual caso una penitenza sarebbe stata sufficiente per la riconciliazione; diversamente, chi intendeva restaurare la comunione cattolica doveva essere di nuovo battezzato. P. raccomandò anche al vescovo di Volterra di cercare l'appoggio della forza pubblica per riportare gli eretici alla verità (ep. 21). Il papa si occupò anche della gestione del patrimonio fondiario della Chiesa di Roma, che affidò tanto a "defensores" quanto a vescovi (epp. 12-15; 76; 83-84), vigilò sulle elezioni episcopali in Sicilia, in Puglia e in Lucania (epp. 18, 23, 29, 33, 57-58) e intervenne in questioni relative alla disciplina ecclesiastica (epp. 15, 34, 41, 46, 47, 55, 57, 72, 78-79, 81). Inoltre si dedicò a problemi di giurisdizione ecclesiastica e a cause che coinvolgevano chierici (epp. 31, 48, 54, 63, 73, 91), ad ordinazioni di abati destinati ai monasteri (epp. 27, 28, 42, 89) e di presbiteri che prestavano servizio religioso in particolari luoghi di culto (epp. 36, 43, 86), e alla disciplina monastica (epp. 46, 49, 68, 87, 92). Si batté contro la corruzione del clero (epp. 17, 25, 26, 51, 82), opponendosi soprattutto alla vendita di beni ecclesiastici, un aspetto della sua politica segnalato dal cronista del Liber pontificalis. Ordinò un numero molto elevato di vescovi, in media più di cinque all'anno, in contrasto con le consuetudini dei suoi successori, una scelta forse connessa al calo causato dalla lunga assenza di Vigilio. Fuori d'Italia P. mantenne buoni rapporti con Eutichio di Costantinopoli, al quale nel 558-559 donò della limatura delle catene di s. Pietro e una tunica che, essendo rimasta distesa per tre giorni sulla tomba dell'apostolo, era impregnata delle sue virtù (ep. 20). Nell'aprile 559 richiamò a Roma Sapato, troppo anziano per continuare a svolgere le funzioni di apocrisario (ep. 77). Sul finire della sua vita, al più tardi nel 560, P. scrisse anche una lettera al prefetto dell'Africa, Boezio, di cui non rimane che un estratto, nel quale evocava lo stato miserevole dell'Italia stremata da venticinque anni di guerra (ep. 85). In effetti, durante l'intero corso del pontificato di P., nell'Italia settentrionale si susseguirono le battaglie contro i Goti. A Roma P. avviò la costruzione della basilica dei SS. Apostoli, intitolata a Filippo e Giacomo, sulla via Lata, un edificio oggi completamente ricostruito, e di cui si conservano tre iscrizioni ancora visibili alla metà del Quattrocento. Di queste, due, poste rispettivamente sull'architrave della porta maggiore e nell'abside, ricordavano l'opera iniziata da P. e completata dal suo successore Giovanni III (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, p. 139, nr. 27; p. 65, nr. 18). Alcuni studiosi hanno proposto di identificare la chiesa dei SS. Apostoli con la basilica fondata da papa Giulio I "iuxta forum Traiani" (Le Liber pontificalis, p. 9; v. G. De Spirito). P. morì prima della conclusione dei lavori, il 4 marzo 561, dopo quattro anni, dieci mesi e diciotto giorni di pontificato. Fu sepolto a S. Pietro in Vaticano "ante secretarium". Il suo epitaffio (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, nr. 4155) celebra il "rector apostolicae fidei", che in un secolo ferreo si è preso cura della Chiesa, si è adoperato per rendere chiare le decisioni dei Padri, ha consacrato un gran numero di ministri, ha riscattato i prigionieri e confortato i poveri: "Tristia participans, laeti moderator optimus / alterius gemitus credidit esse suos". L'epitaffio rileva, nella prima parte, la condizione di beatitudine di cui gode il pontefice (v. 3: "vivit in arce poli caelesti luce beatus"), il quale sopravvive anche nella dimensione temporale (v. 4: "vivit et hic cunctis […] locis") per aver lasciato traccia di un operato caritatevole e misericordioso ("[…] pia facta […]"). L'esaltazione della gloria postuma non è che il preludio allo svolgimento delle lodi relative all'operato apostolico che si elencano nella seconda parte dell'epitaffio. Nella veste di "rector apostolicae fidei" papa P. si adoperò per guidare la Chiesa secondo i principi dottrinali fissati dai padri conciliari nei quattro concili riconosciuti ecumenici (vv. 9-10: "[…] veneranda retexit / dogmata quae clari constituere patres") rivolgendo, in particolare, la propria attenzione alle comunità che si erano staccate dall'unità con Roma (v. 11: "eloquio curans errorum scismate lapsos") affinché sedassero le animosità e riconoscessero la retta dottrina (v. 12: "ut veram teneant corda pacata fidem"). Consacrò, come è noto, molti ministri ecclesiastici (v. 13: "sacravit multos […] ministros") senza lasciarsi corrompere (v. 14: "nil pretio faciens immaculata manus"), come programmaticamente aveva promesso all'inizio del suo pontificato. Si ricorda, inoltre, la sua solerzia verso gli ultimi (v. 15: "captivos redimens, miseris succurere promptus") e la sua generosità verso gli indigenti (v. 16: "pauperibus, […]") offrendo loro quanto disponeva delle sue sostanze ("[…] nunquam parta negare sibi"). Emerge dall'"elogium" una figura di alta levatura morale che condivise di ognuno i lutti (v. 17: "tristia participans […]") moderando la "gioia sfrenata" ("[…] laeti moderator opimus […]") e che fece sue, compenetrandosi, le altrui afflizioni (v. 18: "alterius gemitus credidit esse suos").
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(traduzione di Maria Paola Arena)