pesca
Il cibo da mari e da fiumi
Il ritrovamento di fiocine e reti e di cumuli di lische di pesce avvenuto nei pressi di villaggi preistorici testimonia che il pesce è stato da sempre parte integrante dell’alimentazione dei popoli. I primi luoghi della pesca furono sicuramente specchi d’acqua dolce, stagni e torrenti dove uomini inesperti potevano cimentarsi nella cattura dei pesci senza dover affrontare le acque profonde. Da secoli, però, il luogo di pesca per eccellenza è diventato il mare, perché fornisce il maggior quantitativo di pesce, sia in termini di volume del pescato sia di varietà di specie ittiche. Oggi la pesca è una industria su scala mondiale, spesso caratterizzata da alta tecnologia e al centro di problemi ambientali
La pesca nella preistoria. I reperti archeologici hanno permesso agli studiosi di elaborare alcune teorie sulla pesca nel Paleolitico. Le donne, probabilmente, perlustravano le spiagge alla ricerca di piccoli crostacei e molluschi, facili da prendere a mani nude, mentre gli uomini, invece, cacciavano i pesci con strumenti rudimentali ma ancora oggi in uso: le canne, bastoni da cui pende un filo, in passato formato da fibre vegetali intrecciate, chiamato lenza. A questo filo è appeso un amo (v. fig.) – una sorta di uncino, oggi in acciaio, all’epoca in osso, selce o corno – a cui viene attaccata un’esca (solitamente insetti) che il pesce ingoia. Una volta che l’amo è conficcato nella bocca della preda, il pescatore può tirarla su e catturarla con facilità. Altri strumenti di pesca erano i bastoni con punta d’osso o di pietra, che venivano usati per infilzare i pesci, e l’arco e le frecce.
Nel Neolitico, l’aumento della popolazione impose la ricerca di nuovi metodi per incrementare la quantità del pescato. Le prime reti, fatte di rametti, foglie e radici, venivano collocate nell’acqua in luoghi stretti e poco profondi per sbarrare la via di fuga ai pesci e poterli catturare più facilmente. Seguirono poi le reti da lancio e i cesti, sempre fatti di erbe intrecciate. Nel frattempo, la lavorazione dei metalli permise di costruire ami più resistenti e frecce con la punta più affilata.
Dall’antichità all’epoca moderna. Numerosi reperti storici danno testimonianza della diffusione
della pesca tra le popolazioni antiche. Per le civiltà sorte intorno a grandi fiumi, come in Mesopotamia e nella Valle del Nilo, il pesce costituiva una delle principali fonti di alimentazione, e la pesca in mare era molto praticata sia in Grecia sia nell’antica Roma: il garum, una salsa fatta a base di interiora di pesce macerate, era comune nella cucina romana dell’epoca.
Dopo un periodo di stasi, dovuto al declino dell’Impero Romano e alla decadenza di molte città costiere, la pesca ebbe una nuova fioritura nell’Europa settentrionale – ricchissima di banchi di merluzzi e aringhe –, dove nel Quattrocento si sviluppò una nuova tecnica di conservazione del pesce, l’affumicatura, che si aggiungeva alla salagione e all’essiccazione. Le tecniche di conservazione permisero la diffusione della pesca estensiva, cioè la cattura di un gran numero di esemplari e il loro commercio su larga scala, in posti molto distanti dal luogo della cattura. Questo rivoluzionò il sistema di pesca, perché i lauti guadagni consentivano di investire grossi capitali nell’ammodernamento degli strumenti del mestiere e delle imbarcazioni.
A fine Ottocento il motore sostituì la vela e, accanto ai pescherecci in legno, comparvero i primi modelli in ferro e acciaio.
Oggi la figura del pescatore, così come le tecniche di pesca, è in parte cambiata rispetto ai secoli passati. La pesca costiera è ancora molto comune, sia nei paesi avanzati sia – soprattutto – in quelli in via di sviluppo: ogni giorno piccole imbarcazioni a conduzione familiare prendono il largo per ritornare la sera cariche di pesce.
Accanto alla pesca di piccolo cabotaggio, però, sono ampiamente diffuse anche la pesca d’alto mare e quella oceanica: flotte di pescherecci e navi-fattoria attraversano incessantemente gli oceani per battute di caccia che possono durare anche mesi.
Le nuove tecnologie hanno permesso di costruire imbarcazioni molto efficienti, in grado di spostarsi agevolmente in alto mare e di conservare il pesce per lungo tempo. I pescherecci sono oggi equipaggiati con congegni moderni: motore (elettrico, diesel o entrambi), radar (per orientarsi in mare con precisione) e sonar (per misurare la profondità del fondo e individuare i banchi di pesce). Le stive sono dotate di impianti di refrigerazione per la conservazione del pescato.
Le enormi navi-fattoria, oltre a smistare e a congelare il pesce – come fanno i moderni pescherecci –, lo salano e lo inscatolano, svolgendo mansioni prima affidate alle fabbriche sulla terraferma.
Parallelamente allo sviluppo della pesca industriale si è sviluppata anche l’acquicoltura, cioè l’allevamento intensivo di pesci o crostacei in vasche recintate nell’entroterra o nelle vicinanze delle coste.
Gli effetti nocivi dello sfruttamento intensivo delle risorse marine hanno cominciato da tempo a farsi sentire, allarmando studiosi e ambientalisti. A partire dagli anni Settanta del Novecento, l’incremento annuo della pesca – che per oltre un ventennio era stato intorno al 7% – subì un netto calo. Questa inversione di tendenza metteva in discussione la convinzione, ormai radicata da secoli, che le risorse marine fossero inesauribili.
Questa situazione allarmante dipende dal fatto che le notevoli quantità di pescato e gli ottimi guadagni hanno per anni incoraggiato gli imprenditori del mare a migliorare le infrastrutture terrestri (i porti, i magazzini per la vendita all’asta del pesce e gli impianti per la movimentazione, il congelamento e la lavorazione della merce). Questi forti investimenti a lungo termine avrebbero bisogno di altrettanta lungimiranza quando si tratta di sfruttare oculatamente quella ‘miniera di pesce’ che è il mare. Invece finora hanno prevalso considerazioni di breve periodo pescando di tutto, senza preoccuparsi della necessità di conservare l’equilibrio biologico, in modo che le diverse specie di pesci si possano riprodurre. Così, imbarcazioni altamente sofisticate dei paesi ricchi saccheggiano ogni giorno i mari, con effetti devastanti sia sulla piccola pesca locale – se navigano in acque territoriali – sia su quella di altri paesi – se navigano in acque internazionali.
Oltre ad avere inevitabili ripercussioni negative su occupazione e distribuzione delle materie prime, questa pesca senza limiti può compromettere il delicatissimo equilibrio che regola la vita marina. Un ulteriore problema è l’inquinamento delle acque che provoca una continua moria di pesci e della flora marina, riconducibile agli scarichi industriali, ai diserbanti impiegati in agricoltura, ai sistemi fognari urbani, alle scorie delle centrali nucleari e alle navi petrolifere, che lavano in acqua le loro stive.
La comunità internazionale ha varato una serie di misure per cercare di controbilanciare il fenomeno del saccheggio irresponsabile del mare.
Tra queste, la principale è stata l’introduzione – per molte specie ittiche – di quote massime di pescato, cioè di una quantità massima di pesci che si possono pescare in un determinato periodo dell’anno. L’esigenza, infatti, è di tenere sotto controllo il tasso di riproduzione, cioè la velocità con cui si riproduce una specie. Se questo tasso è minore del tasso di sfruttamento – vale a dire della velocità alla quale viene catturata – bisogna interrompere la pesca per assicurare la sopravvivenza della specie.
La comunità internazionale è intervenuta anche sugli strumenti utilizzati, fissando le dimensioni minime delle maglie delle reti da pesca – per evitare che queste imprigionino, oltre i pesci da vendere sul mercato, anche il novellame (prezioso per ripopolare i quantitativi di pesci) – e limitando l’utilizzo di reti nocive, in particolare quelle a strascico e quelle da traino per evitare la cattura di pesci che non hanno valore commerciale ma che sono indispensabili per l’equilibrio dell’ecosistema e delle specie protette (cetacei, tartarughe marine e mammiferi). Una moderna nave da pesca stende infatti reti che possono essere lunghe decine di chilometri.
La prevenzione, tuttavia, non è indolore: comporta alti costi in termini di occupazione per chi lavora nell’industria della pesca. Ridurre o sospendere la pesca per un periodo implica minori guadagni nel settore, e quindi disoccupazione, estesa anche al reparto dell’indotto.
La soluzione potrebbe essere riconvertire parte dell’industria della pesca, riversando nell’acquicoltura tecnologie e risorse umane. L’acquicoltura, però, richiede investimenti molto elevati: presuppone un larghissimo uso di pesce pescato per nutrire quello allevato e un frequente rinnovo degli impianti – che si usurano in fretta – e causa impatto con l’ambiente; per esempio, l’acqua salina, in cui sono allevati i pesci, contamina i terreni agricoli circostanti, compromettendo i raccolti. Comunque, ormai l’acquicoltura fornisce più di un quarto dell’intero pescato mondiale.
Un’altra questione di grande rilevanza è la ‘proprietà’ del mare. Fino agli anni Ottanta i paesi più ricchi si spingevano con i loro pescherecci in gran parte delle acque esistenti, depauperando le risorse ittiche delle nazioni in via di sviluppo che non avevano i mezzi per praticare la pesca su larga scala.
Con gli accordi di Montego Bay del dicembre 1982 è stata istituita una maggiore regolamentazione, ponendo sotto la giurisdizione degli Stati costieri il 40% del mare. Entro il limite di 12 miglia nautiche dalla costa si parla di acque territoriali, cioè di acque equiparate al territorio dello Stato dove il paese esercita piena sovranità. C’è poi la zona contigua – fino a 24 miglia nautiche – e la zona economica estesa – fino a 200 miglia nautiche –, dove lo Stato dispone di una sovranità più limitata ma gode di determinati diritti sullo sfruttamento economico delle acque (oltre alla pesca, per esempio, anche l’estrazione di gas e minerali), purché nel rispetto e nella tutela dell’ecosistema.
Il restante 60% del mare è costituito dalle acque internazionali, affidate alla tutela di tutta la comunità internazionale.
I pesci che vivono allo stato brado dimorano in zone diverse: alcuni preferiscono le profondità degli oceani, altri le acque più tranquille e basse dei golfi e delle insenature.
I banchi di pesce sono abbondanti lungo le coste oceaniche, specialmente nei punti in cui le correnti calde della superficie – ricche di sostanze nutritive provenienti da terra – si incontrano con quelle fredde che vengono dalle profondità – ricche di sali minerali. In queste zone c’è una particolare proliferazione di fitoplancton – vale a dire di microrganismi vegetali sospesi nell’acqua –, che costituisce il nutrimento principale di pesci, uccelli e cetacei.
Un’alta concentrazione di pesci, in particolare crostacei e molluschi, si trova anche lungo gli estuari dei fiumi – ricchi di fertilizzanti, microrganismi e di altre sostanze nutritive – e sulle barriere coralline – dove diverse forme di vita convivono tra loro, originando complessi ecosistemi.
L’Emisfero Boreale fornisce il 40% del pescato, quello australe il 60%. L’Oceano Pacifico è il più ricco di fauna ittica (da qui proviene il 50% del pescato), seguito dall’Oceano Atlantico (40%) e dagli altri Mari (10%). I maggiori ‘produttori’ di pesce sono Cina, Perù, Giappone, Unione europea, Cile, India, USA, Russia e Indonesia.
In Sicilia, la pesca dei tonni si svolge, ancora oggi, con un rituale antico e particolare, introdotto dagli Arabi. A primavera inoltrata, tra maggio e giugno, i tonni si avvicinano alle coste siciliane. Avvistati i primi banchi, i tonnaroti – così sono chiamati in gergo i pescatori di tonno – con le loro barche spingono i pesci verso la tonnara, un insieme di reti lunghe e robuste, tenute a galla con sugheri e proiettate verso il basso grazie al peso delle ancore. Le reti sono disposte in modo da formare camere che si aprono e si chiudono manualmente, una sorta di labirinto che impedisce la fuga dei tonni. Le reti vengono aperte e chiuse ripetutamente per spingere i tonni sempre più all’interno della trappola, fino a che il raìs – parola araba che significa «capo» e indica chi guida i tonnaroti – non reputa sufficiente la quantità di tonni entrati nella tonnara, ordina la chiusura definitiva delle reti. Ha così inizio l’operazione finale: i tonni vengono spinti nell’ultima camera, detta camera della morte (in gergo locale coppo). Bloccate tutte le vie di fuga viene alzata la rete di fondo; i tonni sono così costretti a venire in superficie, dove li aspettano gli arpioni e i bastoni dei pescatori. Non è uno spettacolo per persone delicate: l’acqua si tinge di rosso, ribolle sotto i disperati colpi di coda dei tonni, finché tutto si calma e i pesci morti o agonizzanti vengono tirati a riva.
Il pesce incide in percentuale non grande nella nostra dieta: a livello mondiale rappresenta soltanto il 2% del cibo che ingeriamo, ma fornisce il 14% delle proteine. Le specie ittiche più pescate possono essere distinte in vari gruppi. I pesci di superficie (aringhe, sgombri, acciughe, tonni, salmoni) sono i più comuni: superano i 30 milioni di tonnellate all’anno e, ridotti in polvere, sono molto usati come mangime per animali. I pesci di profondità (merluzzi, razze, platesse, sogliole) superano i 20 milioni di tonnellate l’anno. Meno diffuso è il consumo di crostacei (2,5 milioni di tonnellate) e di molluschi (1 milione di tonnellate).Più di un terzo del pesce viene consumato congelato o fresco, un terzo viene utilizzato per produrre oli, farine e fertilizzanti, un sesto viene inscatolato e un sesto sottoposto a salagione o affumicato. I più grandi consumatori di pesce sono Giappone e Russia, seguiti da Islanda, Norvegia, Danimarca, Spagna, Perù e Cile.
La balena, il più grande mammifero esistente sul nostro pianeta, è una preda ambita fin dall’antichità. Questi cetacei sono infatti da sempre fonte di numerose materie prime: grandi quantitativi di carne, il grasso (che viene utilizzato come combustibile e come lubrificante), le ossa (impiegate per costruire utensili) e i fanoni (adoperati nell’Ottocento sia come stecche per i bustini femminili sia per gli ombrelli).La ricchezza della posta in palio spingeva molte popolazioni a cimentarsi nell’impresa, nonostante i rischi che comportava a causa della grandezza della preda e della pericolosità delle acque alte in cui essa vive. Tra le popolazioni antiche che praticavano la caccia alla balena c’erano i Fenici, i Normanni e gli Scandinavi: questi ultimi inseguivano l’animale dirottandolo in un fiordo, al cui interno avevano precedentemente fissato una rete per impedirgli la fuga; una volta in trappola, l’animale veniva ucciso con le frecce. Nel 12° secolo i Baschi introdussero un metodo di caccia destinato a rimanere in voga per molto tempo: spostandosi su piccole barche i pescatori circondavano l’animale uccidendolo con gli arpioni. Con l’invenzione nell’Ottocento del cannone sparafiocine, che consentiva di lanciare l’arpione direttamente dalla nave, la caccia alla balena cessò di essere un’attività pericolosa e il massacro di questi animali aumentò ancora di più, portandoli vicini all’estinzione. Soltanto nel 1948 venne fondata la Convenzione internazionale per la regolamentazione della caccia alla balena (sigla inglese ICRW), che oltre a stabilire norme sulla caccia, istituì i cosiddetti santuari, aree protette dove le balene possono riprodursi in tranquillità. Attualmente, la Convenzione conta 52 Stati membri; non vi partecipano però i maggiori paesi balenieri, cioè la Norvegia, l’Islanda e il Giappone.