Pesi e misure
Gran parte della tradizione metrologica medioevale proviene dal mondo antico e se "è ragionevole accettare la definizione secondo la quale l'uomo è 'un animale che costruisce strumenti' proposta da Benjamin Franklin" (Turner, 1990, p. 15), è pur vero che nella civiltà mediterranea la varietà dei sistemi di riferimento a pesi e distanze fu rilevante. Si calcola che in Francia sotto l'Ancien Régime vi fossero ben duecentocinquantamila diverse unità di peso e di misura (Adler, 2002, p. 9). L'impressionante confusione era di ostacolo alla scienza, ma anche all'amministrazione dello stato e il problema era stato già rilevato dalle Costituzioni di Melfi. Questa diversità perdurò sino al 1790, quando si affermò il sistema metrico decimale, la cui portata innovativa distolse l'attenzione degli storici dallo studio dei metodi di misurazione del passato antico e medievale. Tanto che per 'interpretare' la supposta magia di Castel del Monte sono state proposte analisi esoteriche fondate sul sistema metrico decimale (Licinio, 2002). Il problema storiografico delle unità di misura nella storia è estremamente importante e già con gli studi di Galileo Galilei, quando le esperienze sulla caduta dei gravi furono tutte misurate in 'piede romano', insorse una questione di corrispondenza tra unità di misura che portò Girolamo Francesco Cristiani a raccogliere le diverse definizioni di 'piede' e ad approntare una tabella di raffronto con il 'piede reale parigino' (Cristiani, 1760, p. 14). La necessità di un'unità di misura valida per tutti era stata già avvertita da Federico II. In generale si può dire che prima dell'adozione in quasi tutti i paesi europei del sistema metrico, l'unità di misura del peso era la libbra in Italia, suddivisa in once o nei suoi equivalenti, il pound in Inghilterra, la livre in Francia. L'unità più piccola era il 'grano', che si basava sul peso di un chicco di grano. Inoltre le unità di misura erano distinte in pesi commerciali e pesi Troy (dalla fiera di Troyes), più precisi per la pesatura dei metalli preziosi e delle medicine (Turner, 1990, pp. 192-193). Anche Andrea Alciato (1492-1550) nel De ponderibus et mensuris assegnò al pensiero medico di Dioscoride una maggiore precisione nel sistema di pesi (1530, c. A iiir). La complessiva riorganizzazione amministrativa e scolastica del Regno di Sicilia nonché la ricezione dei trattati scientifici arabi spinsero la corte sveva a cercare una maggiore precisione nel campo delle misurazioni geometriche e di peso, in un contesto scientifico connotato da un approccio 'qualitativo' e ancora lontano dalla 'matematizzazione' della natura, tipica di un metodo 'quantitativo'.
In questo quadro si racconta che Federico II abbia chiesto a Michele Scoto di misurare l'altezza della sfera delle stelle fisse dalla sommità di una torre. Per verificare l'abilità del suo scienziato, l'imperatore fece abbassare la torre e ripetere la misurazione. In quell'occasione Michele Scoto avrebbe esclamato: "o il cielo si è alzato o la torre si è abbassata" (Thorndike, 1965, p. 19). L'episodio testimonia chiaramente l'uso delle misurazioni attraverso l'astrolabio, che poteva essere utilizzato come un predecessore del teodolite. Infatti l'astrolabio era adoperato non solo per il calcolo del moto degli astri, ma anche come strumento da utilizzare quando si doveva misurare l'altezza di un oggetto di cui non era possibile raggiungere la base, come, ad esempio, la vetta di una montagna. In questo caso, ricordando che ogni intervallo delle tacche sul lato orizzontale dell'astrolabio corrisponde ad altrettanti dodicesimi del lato verticale, era sufficiente osservare la sommità dell'oggetto da due punti tali che la differenza di distanza corrispondesse a due intervalli scelti a piacere. Cosicché per misurare l'altezza di una torre si puntava lo strumento verso la sommità in modo che l'alidada (o barra delle mire) segnasse 7 e poi avvicinandosi all'oggetto indicasse 4. I punti corrispondenti ai luoghi di rilevazione venivano marcati e se ne misurava la distanza (base) in una qualsiasi unità di misura (piedi, pertiche); questa risultava essere i 3/12 (7 meno 4) dell'altezza, la quale a sua volta era pari a 12/3, ovvero quattro volte la misura della base che indicava così con buona approssimazione l'altezza della torre (il che corrisponde al calcolo di un'altezza che deriva dal conoscere due angoli e un lato di un triangolo o che risulta dal prodotto della distanza A-C dalla torre per la tangente dell'angolo noto). Proprio Leonardo Fibonacci, in contatto con la corte sveva, illustrò nella sua Practica geometriae l'utilizzazione dell'astrolabio per la misurazione delle altezze e delle distanze sfruttando la proporzionalità dei lati omologhi nei triangoli simili (Boffitto, 1929, p. 16); Fibonacci riferisce ampiamente di questi sistemi presentando anche il metodo che consiste nel lanciare una freccia legata a un filo verso la base e un'altra verso la sommità, in modo tale da costituire un triangolo (Scritti, 1856-1862, II, pp. 202-206; Boffitto, 1929, in appendice tav. 94).
L'astrolabio come strumento di rilievo topografico (Boffitto, 1929, pp. 14-15) si accompagnava all'uso delle pertiche e delle corde quali mezzi per la determinazione delle lunghezze. Tuttavia, le testimonianze in proposito pubblicate finora dagli storici del rilevamento sono estremamente labili: si è fatto riferimento alla possibilità che esistesse "il disegno di opere rimpicciolite in una scala il più possibile praticabile in piedi e in pollici che allora variavano molto da regione a regione e addirittura nello stesso luogo" (Kimpel, 1995, p. 42), o addirittura si è ipotizzata la responsabilità totale di un capomastro che dirigeva il cantiere in base all'esperienza (Negri Arnoldi, 1980, p. 219). Quest'ultima interpretazione riposa sulla prevalenza storiografica dell'ideale estetico sull'importanza del metodo della misurazione; eppure lo stesso Matteo Paris (Goldstream, 1991, p. 11) offre un'immagine di un re che accompagna il capomastro che reca con sé una squadra e un compasso (Dublino, Trinity College, ms. 177, c. 59v). Dell'esistenza di accurati sistemi di misura presso la Curia federiciana abbiamo notizia dal Liber Introductorius di Michele Scoto che menziona: l'abaco, la pertica suddivisa in 10 piedi, l'astrolabio, le bilance per gli speziali (Oxford, Bodleian Library, ms. 266, c. 24rA); nel Liber Particularis si fa inoltre riferimento esplicito alla bussola: "per calamitam scitur ubi est tramontana cum acu" (ivi, Canon. Misc. 555, c. 48vB). Spetterà poi a Pietro Peregrino di Maricourt di scrivere il Tractatus de magnete […] Actum in castris in obsidione Luceriae anno Domini 1269 (Pietro Peregrino di Maricourt, 1995, p. 89).
Fu in particolare nel sec. XIII che si svilupparono, con Giordano Nemorario, la scientia de ponderibus e gli studi sulle bilance a bracci eguali e sulle variazioni della gravitas a seconda della distanza orizzontale dal fulcro (Moody-Clagett, 1960, pp. 135-150). I trattati di Nemorario testimoniano una riflessione teorica su un fondamentale problema pratico. In questo contesto vengono importate dal mondo arabo le osservazioni sulle bilance a due piatti, chiamate qarastun, o bilancia del cambiavalute. In questo caso il giogo della bilancia era suddiviso in dodici sezioni in un rapporto di 10/7 che riproduceva il rapporto tra il dinar d'oro e il dirham d'argento (Djebbar, 2002, p. 224).
Per comprendere i sistemi di misurazione in età sveva è utile il De mensuris et ponderibus di Georg Agricola (1494-1555), ove si legge che le unità di peso furono calibrate sugli usi della farmacopea. In particolare seguirono questo indirizzo Nicola Salernitano (sec. XIII), i veneti e i napoletani, anche se presentano alcuni livelli di distinzione. Infatti "hi omnes libram veterum partiuntur in duodecim uncias, et drachmam in tria scripula; verum de numero dracmarum, quas complectitur uncia, dissentiunt", giacché Nicola e i salernitani dicono che sia costituita da 9 dracme, i veneti da 8, i napoletani da 10 (Georg Agricola, 1550, p. 236). Questa diversità dell'unità di peso 'napoletana' viene sottolineata anche nel De mensuris di Luca Paeto, che l'attribuisce all'azione dei medici che non riconoscono la partizione dell'oncia in 24 scrupoli (Luca Paeto, 1583, pp. 81-82). Effettivamente fino al sec. XIX tra i farmacisti la divisione dell'oncia napoletana sarà in 10 dracme corrispondenti a 30 scrupoli, questi ultimi divisi in 2 oboli fatti di 20 acini (Tacchini, 1895, pp. 195-196).
Nel Regno di Sicilia l'oncia fu un peso, ma fu anche unità monetaria di conto, nel sistema once, tarì e grani (1 oncia = 30 tarì; 1 tarì = 20 grani), ma non fu mai una moneta effettiva, e così il grano. Il tarì invece fino al XIII sec. era una moneta effettiva ma allo stesso tempo anche una unità teorica del valore di 1/30 di oncia, e del peso di 0,89 g (ma 1,05 g in età normanna): i tarì effettivi erano infatti di peso irregolare e quindi erano spesi a peso e non a numero. La somma di 10 tarì, ad esempio, indicava 10 tarì-peso, realizzabili in un numero di esemplari variabile che doveva comunque raggiungere quel peso, e in caso di necessità si aggiungevano tarì spezzati; secondo la testimonianza di Giovanni Villani (Cronica, 1823, lib. VII, cap. X, p. 155), quando Carlo d'Angiò giunse a Napoli vi trovò "il tesoro di Manfredi quasi tutto in oro di teri spezzato" e per poterlo spartire "fece venire bilance" (Travaini, 1994, p. 158 n. 32). Dopo il 1278, anno della riforma monetaria di Carlo I d'Angiò che istituì la zecca di Napoli, i tarì non furono più coniati, sostituiti dai carlini d'oro e d'argento. Ecco come Jacopo da Firenze spiega il sistema del Regno dopo il 1278 nel suo trattato di aritmetica del 1307: "In Cicilia e nel Regno di Puglia si è tutt'uno peso e una misura et uno conto. Et dovete sapere che'n Cicilia et in Puglia si fanno tutti pagamenti a oncie et a teri et a grani et 30 teri sono una oncia e 20 grani sono uno teri. Et questo s'intende a conto, ma non a peso. E 'l fiorino d'oro di Firenze si conta teri 6 al conto e 5 fiorino d'oro sono una oncia a conto et 4 carlini d'oro sono una oncia di conto e 'l carlino d'oro si conta teri 7 e due carlini d'argento si contano uno teri d'oro di conto et di pagamento" (Ead., 2003, p. 22).
L'unità ponderale qui documentata sia in Sicilia che in Puglia fu realizzata verosimilmente da Federico II nel 1231, quando introdusse il pondus generale Regni; in età normanna sono documentati pesi diversi per le monete, e una fonte importante, il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci, ci informa che intorno al 1202 (anno in cui fu composto il Liber) l'oncia di Messina era già divisa in 30 tarì di 20 grani ciascuno (v. Monetazione) mentre l'oncia di Palermo valeva 27 tarì e 1/3: se l'oncia era la stessa di quella di Messina il tarì-peso di Palermo era maggiore, ma è bene precisare che i tarì-moneta erano gli stessi in uso in tutto il Regno; ciò che variava era lo standard al quale erano pesati, e sul quale verosimilmente anche i prezzi erano calcolati (Ead., 1995, pp. 133-141). In tutte le carte della cancelleria angioina l'oncia risulta essere suddivisa in 30 tarì (Licinio, 1994, p. 272 n. 124).
È possibile calcolare il peso della libbra monetale nel 1221: il formulario di Marsiglia ci informa che i denari imperiali emessi in quell'anno erano tagliati in numero di 30 soldi per libbra; dato che un soldo era 12 denari, si hanno 360 denari del peso di 0,885 g, ottenendo una libbra di 318,6 g (v. Monetazione).
Un segnale della persistenza delle unità di misura del Regno viene offerto da Cristiani, che nel 1760, dopo aver fissato il 'piede di Parigi' come costituito da 1.440 'parti parigine' (1 piede = 12 pollici a loro volta divisi in 12 linee ripartite in 10 parti), individua il 'piede di Napoli' corrispondente a 1.164 'parti parigine' e la 'canna di Napoli e Scicilie' composta da 6.167 'parti parigine' (Cristiani, 1760, pp. 23-27).
L'attenzione all'uniformità dei sistemi di pesi e misure si sviluppò proprio nel sec. XIII. A testimonianza di questo indirizzo c'è la Magna Charta del 1215, dove si afferma l'intenzione di utilizzare un sistema di pesi e misure standard: "(35). There shall be standard measures of wine, ale, and corn (the London quarter), throughout the kingdom. There shall also be a standard width of dyed cloth, russett, and haberject, namely two ells within the selvedges. Weights are to be standardised similarly" ("Una mensura vini sit per totum regnum nostrum, et una mensura cervisie, et una mensura bladi, scilicet quarterium Londoniense, et una latitudo pannorum tinctorum et russetorum et halbergettorum, scilicet due ulne infra listas; de ponderibus autem sit ut de mensuris"; Londra, British Library, ms. Cotton Augustus II. 106; cf. Breay, 2002). Successivamente ‒ nel 1266 ‒ durante il regno di Enrico III si stabilì che la moneta di un penny avrebbe dovuto avere il peso di 32 chicchi di grano, 20 pennies avrebbero costituito un'oncia, 12 once formavano una libbra, 8 libbre corrispondevano a un gallone di vino e quindi 240 pennies erano equivalenti a una libbra.
In questo quadro si inseriscono le Constitutiones di Melfi e le glosse a questo testo dei giuristi. Infatti Matteo d'Afflitto nel commentare la costituzione III, 50 annotava: "Omnes mercatores regni tam in rebus magnis quam in rebus minimis debent negotiari sub eisdem ponderibus et mensuris et sub eisdem cannis et ista pondera et cannas debent recipere a regia curia scilicet marcatas marco regie Curiae" (Constitutionum Regni Siciliorum, 1773, p. 408). A questo proposito Cesare de Perinis annotava che questa norma si applicava anche a pittori, scrittori e miniatori, e richiamava la glossa di Bartolo da Sassoferrato (ibid., Const. II, 7, p. 317) "de murilegulis et monetariis".
L'alterazione dei pesi e delle monete per Andrea d'Isernia che commentava la costituzione III, 52 (De cudentibus monetam adulterinam) appariva un'usurpazione dei diritti regali (ibid., pp. 416-417). Sul problema della falsificazione delle misurazioni le chiose di Matteo d'Afflitto sono drastiche: "Qui autem falsitatem aut fraudem aliam in mensuris aut ponderibus aut cannis commiserit vel pannos tiraverit per sententiam punietur" (ibid., p. 409). E la sanzione consisteva o nel versamento di una libbra d'oro o nella fustigazione pubblica con l'esposizione al collo della misura falsificata. In caso di recidiva era prevista l'amputazione della mano e, alla terza violazione, l'impiccagione (ibid.). E già a proposito di osti e orefici era stato di-sposto di non adulterare le merci (Const. III, 49); in particolare si stabiliva che "nullus in Regno nostro laboret aurum quod per libram de puro auro minus teneat quam octo uncias. Similiter argentum aliquis non laboret quod minus unciis undecim puri argenti per libram tenere noscatur" (ibid., p. 407). È in questo quadro che ‒ nel 1231 ‒ con la creazione dell'augustale, Federico II introdusse una riforma ponderale con la quale cercò di imporre in tutto il Regno pesi e misure uniformi: pondus generale Regni (Historia diplomatica, IV, 1, p. 265); si trattò di un atto che faceva intendere come l'uniformità dei sistemi di misurazione fosse indispensabile per garantire la solidità dell'amministrazione e le basi di un metodo scientifico coerente e verificabile; un'intuizione che per essere completamente realizzata dovette attendere altri seicento anni.
fonti e bibliografia
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