petrolio
Una fonte di energia importante e contesa
Il petrolio è una miscela liquida di idrocarburi. Di origine organica, è presente nel sottosuolo di alcune regioni del globo, che hanno così assunto grande importanza economica nel Ventesimo secolo. Il petrolio è estratto, trasportato e raffinato in enormi quantità. Queste operazioni comportano un notevole rischio per l’ambiente. I suoi derivati comprendono i combustibili più comuni, come la benzina, e alimentano gran parte dell’industria chimica. Il petrolio è destinato a esaurirsi; per questo il suo sfruttamento è al centro della politica mondiale dell’energia
Il petrolio greggio, così come viene estratto dal sottosuolo, è un liquido denso, abbastanza puzzolente, di colore dal giallo-bruno al nerastro. Il petrolio è una miscela di composizione molto variabile, a seconda delle impurezze e degli idrocarburi presenti in maggiore percentuale. Gli idrocarburi sono composti da idrogeno e carbonio, con gli atomi di carbonio uniti in catene di diversa lunghezza; talvolta queste catene sono chiuse in anelli di sei atomi, e in questo caso si parla di composti aromatici, fra i quali il più importante è il benzene.
La composizione del petrolio è uno degli aspetti economici più rilevanti perché è da essa che dipendono il tipo di lavorazione a cui sarà sottoposto il greggio e la qualità dei prodotti che se ne potranno ottenere.
La densità del petrolio è un dato di notevole significato tecnologico perché è un indice grossolano, ma significativo, della sua composizione. Gli idrocarburi più leggeri, cioè meno densi, hanno maggiore valore economico perché sono i principali componenti della benzina. Così, in generale, il petrolio greggio meno denso costa di più, in base a una particolare scala di densità ideata dall’American petroleum institute (API). In questa scala i petroli leggeri hanno valori alti e i petroli pesanti valori bassi. In altri termini, i tecnici americani hanno costruito una scala che rispecchia il valore commerciale del greggio, inversamente proporzionale al dato fisico della densità.
Il ruolo di protagonista del petrolio nell’economia mondiale deriva da due fatti diversi e strettamente connessi: il petrolio è una delle più importanti fonti di energia ed è anche la materia prima fondamentale per buona parte dell’industria chimica. Il petrolio copre per il 40% il consumo mondiale di energia, superando di gran lunga tutte le altre fonti primarie; è infatti seguito a distanza dal carbone (23%) e dal gas naturale (23%), mentre l’energia idroelettrica o prodotta con le centrali non arriva al 14%.
Va subito detto che il petrolio non è utilizzato tal quale per ottenere energia dalla sua combustione, ma poiché è una miscela di molte sostanze differenti viene prima lavorato, ottenendo oli combustibili, nafta, gasolio, benzina. Questi prodotti hanno un destino energetico finale diverso – per riscaldare o per muovere i mezzi di trasporto – ma vengono tutti comunque bruciati.
L’industria chimica utilizza il petrolio e i suoi derivati in tutt’altro modo. Infatti non li brucia, ma ne ricava sostanze ben definite che a loro volta serviranno come punto di partenza per ottenere prodotti più utili, dai medicinali ai coloranti, o altri materiali dagli impieghi più vari, dalle fibre sintetiche alle plastiche.
La connessione fra i due settori è economica e tecnologica. Se aumenta la domanda di derivati del petrolio per i mezzi di trasposto, inevitabilmente aumentano i prezzi del petrolio, e ciò danneggia l’industria chimica. A livello tecnologico si parla addirittura di una industria petrolchimica, in grado di produrre sia combustibili sia enormi quantità di materiali sintetici.
La superficie terrestre ha una storia lunghissima e complicata, ed è oggetto di studio di discipline scientifiche molto diverse, dalla geologia alla mineralogia, dalla geofisica alla geochimica. I loro contributi sono fondamentali non solo per la conoscenza del nostro Pianeta, ma anche per l’utilizzo economico delle ricchezze nascoste nel sottosuolo. Infatti, quasi sempre i minerali utili non affiorano sulla superficie terrestre, e il geologo deve ricavare da altri indizi l’opportunità di sondare il sottosuolo alla ricerca di un giacimento di un certo minerale (per esempio di ferro) o di un combustibile fossile come il carbone o il petrolio. Per di più i minerali non hanno una distribuzione territoriale omogenea, e il petrolio non fa eccezione.
Guidati dai risultati della geologia e dalle teorie sull’origine del petrolio, i tecnici hanno ricercato il cosiddetto oro nero in tutti i continenti e sotto la superficie dei mari, individuando oltre 40.000 giacimenti. Di questi, solo un numero molto limitato (circa il 3%) ha una reale importanza economica, perché questi pochi contengono oltre il 90% delle riserve conosciute.
Molti giacimenti importanti si trovano in zone vicine al mare, o addirittura sotto i fondali marini, come nelle aree del Golfo del Messico, del Golfo Persico e sul fondo del Mare del Nord. La produzione mondiale di petrolio ha raggiunto nel 2004 l’enorme cifra di 3.888 milioni di tonnellate.
L’argomento dell’origine del petrolio ha appassionato e diviso a lungo gli scienziati. Attualmente la stragrande maggioranza dei geologi fa risalire l’origine del petrolio a mutamenti profondi della superficie terrestre avvenuti molti milioni di anni fa, mutamenti che coinvolsero grandi masse di materiali organici di origine marina. Tra i 125 e i 120 milioni di anni fa, in un periodo che i geologi chiamano Cretaceo, il fondo del Pacifico fu sconvolto dall’affioramento di una colossale quantità di lava e di gas metano. La temperatura della Terra aumentò di molti gradi, anche in seguito alla rapida trasformazione del metano in anidride carbonica e allo scatenamento di un pesante effetto serra. Gli organismi microscopici del plancton si svilupparono a dismisura negli oceani, depositandosi dopo la morte in spessi strati, mescolati ai detriti sedimentari.
Nel corso di milioni di anni si formò così una roccia madre che, ricoperta in epoche successive da altri detriti, sprofondò. Sottoposte ad alte pressioni e temperature le sostanze organiche che componevano gli organismi viventi si trasformarono in kerogene, un complesso materiale polimerico che è il vero precursore del petrolio. L’azione continua della pressione e del calore decompose il kerogene, sviluppando idrocarburi liquidi e gassosi che, essendo molto meno densi, risalirono verso la superficie e si trasferirono in zone anche piuttosto lontane da quelle di formazione delle rocce madri. Quando l’ulteriore risalita degli idrocarburi fu impedita dalla presenza di strati di rocce impermeabili, si formarono vere e proprie trappole sedimentarie, dove il petrolio si accumulò formando i giacimenti attuali.
L’estrazione del petrolio con metodi simili agli attuali iniziò negli Stati Uniti nel 1859, quando furono perforati i primi pozzi in Pennsylvania. Si stima che da allora siano stati perforati in tutto il mondo non meno di 700.000 pozzi. In linea di principio la tecnica è semplice: si tratta di affondare nel sottosuolo, in direzione del giacimento, le tubature che permetteranno il pompaggio del liquido verso la superficie. Il primo pozzo storico diede petrolio quando raggiunse i 20 m di profondità il 27 agosto 1859; attualmente sono operativi moltissimi pozzi che pompano petrolio da oltre 3.500 m di profondità. È ovvio che sono impiegate tecnologie straordinarie, dato che si deve operare a temperature superiori ai 200 °C e a pressioni di oltre 1.000 atm.
Sono certamente diventate familiari le immagini delle gigantesche piattaforme petrolifere che permettono lo sfruttamento di giacimenti petroliferi situati sotto il fondale marino.
In questi casi le tecniche di perforazione si sposano con quelle delle costruzioni navali per permettere alle piattaforme di resistere a qualsiasi tempesta, e per poter perforare e sfruttare pozzi in mare aperto, sotto una coltre di 243 km di acqua.
Spesso l’estrazione del greggio da un giacimento è valutata in migliaia di barili al giorno. Il barile (barrel in inglese) è un’unità commerciale di misura dei liquidi, che risale ai tempi della navigazione a vela, quando le navi inglesi dominavano i mari. Nel caso del petrolio il barile vale 35 galloni imperiali, ossia circa 159 litri, mentre un barile di alcool ne contiene 189 litri. È a questa bizzarra unità di misura che è tuttora riferito il prezzo del petrolio, ma è evidente che le enormi quantità di greggio che giungono nei paesi industrializzati non sono trasportate in barili, ma trasferite dai paesi più remoti in ben altri modi: con navi appositamente attrezzate, chiamate petroliere, e con oleodotti (gasdotti e oleodotti).
Il trasporto per mare del petrolio ha raggiunto cifre sbalorditive: tra greggio e prodotti raffinati sono più di 2.000 milioni le tonnellate di petrolio trasportate, pari a circa il 60% del consumo mondiale. Nel 2004 erano in esercizio in tutto il mondo oltre 7.500 petroliere, che costituiscono una classe di navi particolare, dato che una petroliera da 100.000 t di stazza lorda è considerata piccola! Il nostro Mediterraneo è solcato ogni giorno da almeno 300 petroliere.
Negli Stati Uniti ci sono 244.000 km di oleodotti, in Russia 75.000 km e in Italia 1.136 km; queste cifre impressionanti sono comunque superate da quelle della rete di trasporto del gas naturale: 548.000 km di gasdotti negli Stati Uniti, 150.000 km in Russia e 17.335 km in Italia.
Il greggio appena estratto è mescolato ad acqua e sabbia; prima di essere avviato al trasporto viene privato di queste impurezze, ma come si è detto il petrolio non è utilizzabile tal quale. Vi sono grandi impianti chiamati raffinerie dedicati all’ottenimento dal greggio di miscele adatte al consumo finale.
Il processo iniziale è di distillazione: il greggio è portato all’ebollizione e i vapori salgono in altissime colonne, dove condensano a diversa altezza le varie frazioni. Nella parte più alta condensa la benzina più leggera, sempre più in basso condensano benzine più pesanti, cherosene e gasolio. Dall’alto della colonna di distillazione si sviluppano gas e vapori che poi in gran parte sono utilizzati come gpl (gas di petrolio liquefatti). Sul fondo della colonna si raccoglie un residuo molto denso da cui si ricavano con ulteriori lavorazioni olio combustibile, lubrificanti, bitumi e cere.
In generale, per ottenere i prodotti finali le frazioni distillate sono sottoposte ad altri processi di raffinazione. Fra questi processi i più importanti sono quelli di cracking. Questa parola inglese deriva dal verbo to crack «spezzare», e il processo consiste appunto nel rompere con il calore o con i catalizzatori (catalisi) le molecole più grandi per ottenere quelle più piccole. Con questi processi si ottengono sia la benzina dei distributori, sia l’etilene e altri composti liquidi o gassosi dello stesso tipo utilizzati in enormi quantità dall’industria chimica.
Il rapporto fra il petrolio, i suoi derivati e l’ambiente è tra i più difficili e delicati. Le difficoltà nascono certamente dalla pericolosità della contaminazione ambientale da petrolio, ma prima ancora dalle dimensioni inimmaginabili raggiunte dal trasporto di questa fondamentale risorsa, sia con oleodotti sia con navi. La delicatezza del problema nasce dal fatto che i guasti ambientali, specialmente in ambienti marini, si prolungano e persistono nel tempo, con conseguenze non sempre prevedibili.
Alla mezzanotte del 24 marzo 1989, per un errore umano, la petroliera Exxon Valdez si incagliò su una scogliera vicino alla costa dell’Alasca. Si riversarono nell’oceano 38.800 t di petrolio, generando un inquinamento delle acque e delle spiagge per oltre 700 km di coste. Nel corso dei quattro anni successivi la compagnia Exxon, proprietaria della nave, spese 2,1 miliardi di dollari nell’opera di bonifica, ma nel frattempo erano morti 250.000 uccelli marini, 2.800 lontre e 300 foche.
Questo disastro avviò una nuova legislazione internazionale che imponeva un doppio scafo a tutte le navi addette a carichi pericolosi; la normativa entrata in vigore dal 2005 impedisce la navigazione alle petroliere con scafo singolo.
Incidenti drammatici si possono verificare anche mentre le petroliere sono ormeggiate. Poco dopo il mezzogiorno dell’11 aprile 1991, durante le normali operazioni di bilanciamento del carico, nel mare antistante Genova si incendiò la Haven, una superpetroliera da 250.000 t. Pur se immediatamente soccorsa, la nave prima si spezzò in diversi tronconi, e poi affondò, perdendo in mare 144.000 t di greggio. I danni ambientali furono gravissimi, valutati in almeno 600 milioni di euro e limitati soltanto dall’intelligente scelta dei Vigili del Fuoco, che adottarono la tattica di lasciar bruciare la maggior quantità possibile di petrolio. Allo Stato italiano giunsero come risarcimento soltanto 80 milioni di euro.
Il greggio, come già accennato, è una miscela molto complessa e di composizione variabile, spesso ricca di impurezze sulfuree. I chimici non sono in grado di riprodurla in laboratorio, e d’altra parte sarebbe inutile, dato che del petrolio si usano soltanto i derivati. È proprio sui derivati più pregiati, in particolare la benzina, che si è concentrata l’attenzione dei chimici. Infatti fin dal 1920 il chimico tedesco Friedrich Bergius riuscì a ottenere combustibili liquidi per motori diesel trattando carbone polverizzato con idrogeno ad alta pressione. Nello stesso periodo Franz Fischer e Hans Tropsch misero a punto un altro processo catalitico che trasformava una miscela di ossido di carbonio e idrogeno in una miscela di idrocarburi, utilizzabile come benzina.
I processi Bergius e Fischer-Tropsch furono largamente impiegati durante la Seconda guerra mondiale (a causa delle difficoltà nei rifornimenti petroliferi), e sono costantemente tenuti d’occhio come possibili alternative alla produzione di derivati del petrolio.
Nel 1956 il geofisico M. King Hubbert predisse che l’estrazione del petrolio negli Stati Uniti avrebbe raggiunto un picco massimo negli anni Settanta del Novecento e poi avrebbe cominciato a declinare. La previsione fu accolta con grande scetticismo, ma risultò poi notevolmente accurata. Da allora ci si chiede se è possibile prevedere un picco di Hubbert per la produzione mondiale del petrolio, e uno studio molto accurato del Servizio Geologico degli Stati Uniti pone la data più probabile del picco nel 2037. D’altra parte sono noti grandi giacimenti di oli pesanti e bitume naturale – per esempio in Venezuela – che possono essere sfruttati economicamente per dare prodotti energetici. In ogni caso non si tratta di riserve illimitate, e quindi anche queste nuove fonti sono destinate a esaurirsi.
La questione del futuro del petrolio è quindi molto seria. Per di più, le oscillazioni del prezzo del petrolio negli ultimi trent’anni sono state così forti e irregolari da ricordare la febbre di un malato grave, colpito da una malattia sconosciuta. Però, nel caso del petrolio la malattia è conosciuta e ha il nome preciso di potere economico. Se non si può prevedere quando sarà estratta l’ultima goccia di petrolio, tutti i cittadini del mondo hanno il compito di imporre ai loro governanti una politica dell’energia che si sviluppi nell’arco strategico di una generazione, e che nei prossimi 25 anni, in attesa del picco di Hubbert, limiti il potere delle grandi imprese petrolifere e favorisca lo sviluppo di fonti energetiche alternative, come quella inesauribile del Sole e quella pulita dell’idrogeno.