Piemonte
Il riferimento più esteso a questa regione si trova nel De vulg. Eloq. dove, al termine dell'esame dei volgari italiani, è giudicato ‛ turpissimo ' il volgare delle città poste ai confini d'Italia, ad esempio delle città di Torino (v.) e Alessandria (v.: I XV 8); ma il fatto stesso che anche Trento sia citata accanto alle due città piemontesi dimostra che il P. non costituiva per D. nemmeno un'area linguistica precisata, potendosi considerarla genericamente di confine rispetto a quella italiana. Di conseguenza, poiché non possedere un volgare degno di menzione comporta il non entrare a far parte della tradizione culturale ed espressiva da cui deve scaturire il volgare illustre della nuova poesia, il giudizio espresso sul piemontese nel De vulg. Eloq. rischiava di condizionare ogni altro interesse di D. per il P., nella misura in cui non consentiva se non dei riferimenti occasionali o delle citazioni prive di problematica.
Basterebbe pensare, per rimanere nell'ambito delle determinazioni geografiche, al frequente riferirsi al Po come se fosse un fiume lombardo, mentre una sola volta (Pd VI 51) è sottolineata implicitamente l'origine piemontese di questo corso d'acqua, dal momento che l'altra allusione al Monviso (If XVI 95) è tuttora messa in discussione, potendo il Monte Viso di questo verso essere identificato col Monte Avane, nei pressi di San Benedetto in Alpe. Non solo, ma la stessa determinazione della pianura padana come del dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina (If XXVIII 74-75) trova il suo centro prospettico nella Lombardia, sì che Vercelli, a ben vedere, è solo l'estremo punto di confine, quasi la linea dell'orizzonte di una piana che si protende tutta in zona lombarda e veneta (del resto, responsabile di questa determinazione è Pier da Medicina, un romagnolo).
Se poi dalla geografia si passa alla storia, l'attenzione di D. alle cose piemontesi non si fa certo più impegnata; di una sola famiglia di signori locali, quella dei marchesi di Monferrato, egli dovette essere abbastanza informato, se in Cv IV XI 14 ricorda Bonifazio I, che regnò tra il 1192 e il 1207, in Pg VII 133-136 Guglielmo VII, che morì nel 1292, in VE I XII 5 il figlio di costui, Giovanni I, morto nel 1305.
Ricordi diversi, naturalmente, addirittura antitetici, in quanto, ad esempio, oppongono al buono Bonifazio, esempio insigne di liberalità (già celebrato dal trovatore Rambaut de Vaqueiras, ben noto a D.), l'ipocrita e ambiguo Giovanni, esempio del disonore di cui si macchiano i regnanti contemporanei, secondo quell'alternativa fra passato e presente che sempre nella Commedia si risolve in un'alternativa fra onestà e corruttela. In questo senso riesce forse meno esemplare e più problematica la menzione di Guglielmo VII, presentato nell'Antipurgatorio fra i principi negligenti con particolare rilievo (è l'ultimo di una serie illustre), forse perché ricoprì la carica di vicario dell'imperatore e divenne, quindi, capo della Parte ghibellina in Italia; sta di fatto, però, che i connotati storici attribuiti a Guglielmo (per cui e Alessandria e la sua guerra / fa pianger Monferrato e Canavese, Pg VII 135-136), proprio in quanto additano i luoghi in cui si svolse la guerra condotta dal figlio, Giovanni I, per vendicarlo della morte subita in prigionia ad Alessandria, collocano la sua figura in uno scorcio di paesaggio piemontese, partecipe integralmente di una condizione nazionale, se pure sia quella dolorosa dei conflitti intestini tra le opposte fazioni dei guelfi e dei ghibellini. E abbastanza caratterizzato, in un'analoga direzione di memoria storica e di descrizione geografica, deve pure ritenersi il solo cenno a un episodio piemontese contenuto nella Commedia al di fuori delle vicende dei marchesi di Monferrato: l'episodio della resa dell'eretico Dolcino alle forze dei crociati mandategli contro da Clemente V sulle montagne novaresi (If XXVIII 55-60). Quella stretta di neve che, nelle parole profetiche del più illustre degli scismatici, di Maometto, già appare come l'elemento in grado di vincere la resistenza disperata di Dolcino, evoca, infatti, un altro tratto di paesaggio inconfondibilmente piemontese, ma che nello stesso tempo è teatro di un'azione tipica della politica attuale e per di più intrapresa per volontà di un pontefice assai inviso a Dante. Anche in P., dunque, sebbene non con l'evidenza offertagli da altre regioni italiane, D. poteva scorgere i segni e le riprove della lacerazione ideologica e spirituale che ai primi del Trecento aveva come dissipato la storia nazionale. Ma allora, se la determinazione geografica della regione ne aveva in qualche modo sottolineata l'estraneità rispetto al resto della penisola, la considerazione storica, per quanto saltuaria, ne confermava la partecipazione al processo di crisi dei valori che si stava allora verificando.
Non stupisce perciò se, nominando nel Paradiso alcuni scrittori religiosi nati in P., D. li inserisce di preferenza nel contesto morale e culturale determinato da questa crisi. La rassegna di questi nomi, tutti contenuti nel cielo degli spiriti sapienti, si apre con la presentazione del novarese Pietro Lombardo, vissuto nel XII secolo e autore di un testo di dogmatica, i Sententiarum libri quattuor che, sebbene confutato per un'opinione riguardante i poteri carismatici del papa in un luogo di Mn III VII 6, rimaneva per D. opera ispirata dall'amore di Dio, amore purissimo e disinteressato. Difatti, quando s. Tommaso indica Pietro Lombardo come quel Pietro... che con la poverella / offerse a Santa Chiesa suo tesoro (Pd X 107-108), accetta in pieno quanto si era auspicato lo stesso Pietro nel proemio della sua opera, e cioè di collocare " in gazophylacium Domini " qualcosa della sua povertà e pochezza (la sua opera, s'intende) così come insegnava il Vangelo di Luca (21, 1-4), " cum paupercula " cioè. Quando poi, due canti dopo, s. Bonaventura, nel tessere l'elogio di s. Domenico, riprende per simmetria le parole che nell'elogio di s. Francesco s. Tommaso aveva pronunciato contro le varie forme dell'insensata cura de' mortali (XI 1), l'esempio più probante dei cultori del diritto canonico (dei iura, insomma) è offerto dalla Summa super titulis Decretalium del cardinale Enrico di Susa, vissuto nel XIII secolo e noto come l'Ostiense (Pd XII 83). Nell'ambito di una stessa zona geografica, il . P., ma a distanza di un secolo, Pietro Lombardo e l'Ostiense forniscono così due conferme esemplari della degenerazione progressiva della cultura religiosa, che da documento di un amore di Dio nutrito di povertà si è fatta, invece, strumento di ricchezza. Un altro riferimento polemico del panegirico domenicano di s. Bonaventura coinvolge poco dopo la citazione dell'Ostiense; un altro religioso piemontese contemporaneo di D., il francescano Ubertino da Casale, il principale esponente della frazione estremistica dell'ordine che si diceva degli spirituali; ebbene, per quanto l'opera più importante di Ubertino, l'Arbor vitae crucifixae, sia servita molto probabilmente a D. per stendere il panegirico di s. Francesco nell'XI del Paradiso, le sue pretese di riportare l'ordine francescano a norme disciplinari assai rigide, in vista di una pratica rigorosa dell'ideale di povertà, dovettero sembrargli contrarie allo spirito di umiltà e di pazienza che aveva animato la condotta nel mondo del santo di Assisi, se s. Bonaventura, generale dell'ordine, rimprovera Ubertino di, ‛ coartare ', cioè d'irrigidire, la regola (scrittura) stabilita dallo stesso santo (Pd XII 121-126). E non si tratta solo di una riserva dettata dal buon senso, in quanto dimostra come l'anticurialismo di D. non lo spingeva ad accettare, di contraccolpo, le posizioni di chi, muovendo dalla situazione del proprio ordine, contestava non solo la situazione morale della Chiesa contemporanea, ma anche la sua impostazione culturale e teologica (Ubertino era decisamente contrario all'aristotelismo che impregnava la filosofia tomistica). L'ultimo Piemontese, infine, citato da s. Bonaventura (e l'ultimo, perciò, che compare nell'opera di D.) è il più illustre degli scrittori medievali della regione: s. Anselmo d'Aosta, vissuto sul finire dell'XI secolo; ma purtroppo la semplice citazione del nome non permette di cavarne spunti per conoscere l'atteggiamento di D. nei suoi confronti (Pd XII 137).
Quanto alla circolazione delle opere di D. in P., ha scritto il Mazzoni che " fu assai ristretta, almeno fino all'invenzione della stampa "; e difatti la biblioteca Nazionale di Torino contiene solo quattro codici danteschi (un Inferno con la più antica traduzione francese, una Commedia miniata e i commenti del Lana e di Benvenuto), mentre altri due codici quattrocenteschi del poema sono nella biblioteca Civica e Negroni di Novara. Si aggiunga poi, come fa ancora notare il Mazzoni, " che nessuno di questi manoscritti " può ritenersi " esemplato in Piemonte " da copisti piemontesi, dovendosi riservare questa definizione impegnativa soltanto al manoscritto che contiene la trascrizione del commento di Benvenuto ad opera di Stefano Talice da Ricaldone e al codice del poema copiato nel 1454 a Ginevra da Bonifacio di Gualdengi da Vercelli. Nondimeno, malgrado " la scarsa fortuna documentata dai manoscritti " (sono ancora parole del Mazzoni), nel XV secolo D. - magari fuori del Piemonte - " veniva letto e talora commentato ad opera di volenterosi letterati piemontesi "; tra i quali meritano di essere segnalati Giovanni Bertoldi da Serravalle, che stese un commento in latino della Commedia tra il 1414 e il 1418, e gli umanisti Marziano da Tortona e Giorgio Merula da Alessandria, che diffusero la conoscenza del poema a Milano, presso i Visconti, l'uno con un commento in volgare, l'altro con una difesa dell'autore stesso inserita nella sua Historia Vicecomitum.
Né l'invenzione della stampa favorì una maggiore diffusione dell'opera di D. in P., ché anzi gli stampatori piemontesi del Cinquecento operarono tutti a Venezia (si ricordino, ad esempio, il Giolitto da Trino e il Giolito de' Ferrari); e un discorso non diverso si deve fare per il Seicento, secolo in cui si registrano solo tre edizioni della Commedia, nessuna delle quali stampata in Piemonte. Né la situazione editoriale migliora di molto nel Settecento, sebbene sia questo il periodo in cui il nome di D. comincia a suscitare attorno a sé delle polemiche critiche di larga eco; polemiche, com'è logico attendersi, che trovano eco anche nella " Frusta letteraria " del torinese Baretti, dove la Commedia è giudicata, sulla scia di un celebre giudizio del Bettinelli, " oscura, noiosa e seccantissima " (n. 20, luglio 1764). Durante il precedente soggiorno in Inghilterra, è vero, il Baretti aveva sempre presentato con parole lusinghiere la poesia di D. ai lettori stranieri, difendendola anche contro le celebri riserve voltairiane nella Dissertation upon the italian poetry, ma il giudizio sulla " Frusta " finisce per essere quello conclusivo; e nella misura in cui conferma l'allineamento dell'autore sulle posizioni più rigide della mentalità illuministica, spiega anche, in qualche modo, l'eclissi editoriale della Commedia in Piemonte. Pochi anni dopo però (nel '75), nel ritiro di Cesana, in val di Susa, incomincia a leggere la Commedia, a sceglierne i luoghi più suggestivi e a mandarli a mente Vittorio Alfieri; e sebbene egli in seguito proclamerà solennemente la sua volontà di " spiemontesizzarsi ", cioè di rescindere ogni legame con la terra di origine, è ammissibile pensare che il culto da lui sempre tributato a D., non solo sul piano dell'elogio formale (più di un componimento delle Rime lo ha per soggetto) ma anche su quello dell'imitazione linguistica, finirà per influenzare profondamente la generazione successiva di scrittori piemontesi.
Sarà sufficiente citare la Vita di D. di Cesare Balbo e le Chiose alla Commedia di Vincenzo Gioberti a testimonianza di quest'ipotesi, trattandosi di due opere (biografica l'una, esegetica l'altra) che rilanciano in piena atmosfera risorgimentale la funzione di D. come poeta civile e morale, già intuita dall'Alfieri, ma ora soltanto prossima ad attuarsi, proprio grazie alla dinastia che governava allora il P. e di cui i piemontesi Balbo e Gioberti erano in qualche misura sostenitori. Un D. neoguelfo, dunque, quello finalmente affermatosi in P.; e perciò un D. risorgimentale e patriottico, come testimoniano il numero relativamente alto delle edizioni ottocentesche della Commedia (una decina circa) e la prima edizione piemontese della Monarchia (Torino 1853). A questa tradizione il dantismo piemontese è rimasto fedele fino ai tempi della prima guerra mondiale (cfr. la voce CIAN, Vittorio); dopo si è sciolto, attraverso i suoi esponenti più significativi (Momigliano, Terracini, Fubini, Sapegno, Contini, Getto), nella storia della maggiore critica dantesca nazionale.
Bibl. - D. e il P., Torino 1922; F. Mazzoni, D. e il P., Alpignano 1965.