PIEMONTE
(Pedemontium, Pedemontis, Piemont nei docc. medievali)
Regione dell'Italia settentrionale i cui confini amministrativi odierni, che corrispondono per grandi linee a quelli del regno sabaudo, estesosi dal 1738 fino al Ticino - ma con alcune importanti variazioni otto-novecentesche relative per es. alla Savoia, passata alla Francia, e alla Valle d'Aosta -, delimitano una regione che nel Medioevo non fu né storicamente né culturalmente unitaria.Le demarcazioni geomorfologiche delle Alpi, del crinale appenninico e degli affluenti del Po, diaframma con la Francia e l'antica Borgogna o con la Liguria e la Lombardia, non hanno mai impedito aggregazioni politiche che le travalicassero e hanno invece costituito un tramite per lo scambio fra civiltà figurative diverse. Lo stesso toponimo latino, attestato solo dal sec. 13°, definisce sia il dominio dei Savoia sia un'area più vasta, comprendente il marchesato di Saluzzo, il Canavese, il Monferrato, il Vercellese e Novarase (Sergi, 1993).Al tramonto dell'impero bizantino, intorno a Susa (prov. Torino) e lungo l'arco alpino si era strutturato un dominio ostrogoto di confine (Sergi, 1993), ma il territorio piemontese accoglieva anche altri presidi fortificati e insediamenti, come quelli di Tortona (prov. Alessandria) o di Desana, a S di Vercelli. La suppellettile da tavola e gli ornamenti in metalli preziosi ritrovati a Desana e datati tra la fine del sec. 5° e l'inizio del 6° (Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica) provano una diversificazione culturale dei nuovi gruppi, che mantenevano tuttavia familiarità con le tecniche classiche e i motivi decorativi naturalistici del Tardo Antico (Bierbrauer, 1975); tale orientamento risulta anche dal sigillo tombale con croce latina del presbitero Gudiris (Savigliano, Mus. Civ. e Gipsoteca), proveniente da Santa Croce a Savigliano (prov. Cuneo), segnato dal magister marmorarius Gennarius (Casartelli Novelli, 1974; 1983; Romano, 1994a).L'avvento dei Longobardi nel 568 e la fondazione dei ducati di Torino, Ivrea, Asti, e forse Orta San Giulio, ruppero l'isolamento della regione e ne ridussero la marginalità in forza della rinnovata funzione strategico-militare e della vicinanza alla capitale Pavia (Sergi, 1993). La carta degli insediamenti sembra rivelare il potenziamento dei centri posti alla confluenza delle valli o in punti chiave lungo le maggiori vie di comunicazione per Torino e i valichi alpini dalla via Emilia e dalla Postumia. Ai dati già noti da scavi ottocenteschi, le recenti prospezioni ne hanno aggiunti di nuovi sulla distribuzione delle necropoli e sui pertinenti corredi funerari. Nel settore metallurgico si è approfondito lo studio delle tecniche di lavorazione (Rotili, 1987), mentre per la ceramica si è venuta precisando meglio la diffusione dei tipi assimilabili alla produzione della fornace di Testona (prov. Torino); da questa località e dall'area del duomo di Biella provengono due fiasche da pellegrino fittili, invetriate e figurate (Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica), pezzi unici datati fra la fine del sec. 6° e la fine del 7° (Essen, 1968; Pantò, 1993a).Le testimonianze architettoniche si riducono a scarni frammenti di difficile lettura, assorbiti o sostituiti da strutture successive. I reperti scultorei, reimpiegati o di scavo, permettono di seguire meglio, soprattutto per il sec. 8°, il rinnovamento edilizio promosso dagli ultimi dominatori.Se a Torino è documentata nel 662 una nuova cattedrale ariana con dedica a s. Giovanni Battista (Paolo Diacono, Hist. Lang., IV, 51; Casartelli Novelli, 1970), a S. Massimo a Collegno (prov. Torino) i reperti (Torino, Mus. Civ. d'Arte Antica) documentano che l'intervento longobardo si stratifica invece al di sopra di una fase paleocristiana. Arredi architettonici scolpiti di epoca longobarda rimangono a S. Pietro a Pianezza (prov. Torino), sulla strada per Susa, a San Ponso (prov. Torino), verso Ivrea e il Gran San Bernardo, e a Pollenzo (prov. Cuneo; Bra, Mus. Civ. di Archeologia Storia e Arte), sulla direttrice per la Liguria, che dubitativamente può essere collegata alle prime filiazioni monastiche di S. Colombano a Bobbio (Casartelli Novelli, 1974). La penetrazione dei monaci bobbiesi arrivò peraltro fino alle Alpi Marittime, a Villar San Costanzo (prov. Cuneo), a S. Lorenzo di Caraglio (prov. Cuneo), all'abbazia di S. Dalmazzo di Pedona a Borgo San Dalmazzo (prov. Cuneo), e all'abbazia dei Ss. Pietro e Colombano a Pagno (prov. Cuneo), in cui sono emerse strutture absidali fatte risalire ad Astolfo (749-756; Casartelli Novelli, 1974; Pejrani Baricco, 1979; Molli Boffa, 1982; Micheletto, 1995). Sul fronte meridionale, Asti offre una relativa abbondanza di materiali lapidei che hanno fatto supporre la presenza di cantieri locali, stilisticamente influenzati dalla plastica pavese (Crosetto, 1993-1995).Il corpus della scultura, puntualmente ricostruito finora per la sola diocesi di Torino, ha permesso di delineare dalla prima alla seconda metà del sec. 7° un'evoluzione formale caratterizzata da uno stile grafico su matrici tardoromane, influenzato in seguito più marcatamente da una cultura mediterranea-ravennate. Nella prima metà del sec. 8°, nell'area meridionale, si è invece riconosciuto il confluire di due correnti, una ispano-visigotica-merovingica, penetrata dalle Alpi Marittime e dalla Liguria, e una di modi ellenistici proveniente dalle province orientali (Casartelli Novelli, 1974). Combinazioni e scambi fra tradizione autoctona e apporti germanici si individuano, fra i secc. 7° e 8°, anche nelle arti suntuarie, documentate dai reperti di Testona e dai reliquiari a borsa di Vercelli (Tesoro del duomo), dove citazioni dalla numismatica antica si accompagnano a un formulario zoomorfo evoluto (Bierbrauer, 1984; Peroni, 1984).Non è possibile delineare con cesure nette la civiltà figurativa piemontese nel passaggio dall'età longobarda a quella carolingia, in conformità a una parallela sfocatura dei confini cronologici e geografici. I Franchi avevano infatti superato lo spartiacque alpino fondando già nel 726 il complesso monastico di Novalesa (prov. Torino), in cui rimangono tracce di strutture e decorazioni pittoriche della seconda metà del sec. 8° (Cantino Wataghin, 1988, p. 335; Segre Montel, 1994a), in anni prossimi dunque a quel 773 che segnò la vittoria di Carlo Magno alle Chiuse di Susa e l'inizio della presenza carolingia.Fra le conseguenze rilevanti per le arti figurative riconducibili a questo mutamento politico sono l'avvio di un durevole rapporto con l'Oltralpe e le premesse di una configurazione regionale più definita: dalla metà del sec. 9° al 10° si riunì infatti sotto l'influenza della dinastia anscarica di Ivrea anche l'area ligure, dall'825 già gravitante su Torino, in forza del capitolare di Corteolona di Lotario (Sergi, 1994). In quest'epoca sembra persistere una continuità fra antiche e rinnovate sedi ecclesiastiche, come farebbero credere i ritrovamenti di S. Giovanni a Montorfano (prov. Verbania) e di S. Martino a Roccapietra presso Varallo (prov. Vercelli), dove strutture del sec. 5°-6° furono ampliate o sostituite da aule triabsidate riferibili al gruppo carolingio dell'arco alpino centrale (Pejrani Baricco, 1984a; Pantò, 1993b). È in linea con quanto si è detto anche il battistero di San Ponso, in diocesi di Ivrea, zona di contatto con il regno di Borgogna. Sull'antico battistero, che recenti scavi confermerebbero paleocristiano o altomedievale, si imposta la base a cappelle rettangolari poste sugli assi principali alternate a nicchie semicircolari sugli assi diagonali della struttura, con apparecchio murario in ciottoli e materiali di spoglio; le aperture a spalle rette del tamburo indurrebbero a una datazione fra la metà del sec. 8° e il 9°, fatti salvi indiscussi interventi romanici di ripristino subito dopo il Mille. Il rinvenimento di tombe (secc. 7° e 8°) sotto le fondazioni dell'attigua chiesa plebana e alcuni capitelli ivi reimpiegati, attribuiti alla fine del sec. 7°, corroborano l'ipotesi di successive fasi altomedievali che anche la dedicazione a un santo carolingio parrebbe confermare (Verzone, 1942; Pejrani Baricco, 1979; 1988). Il fervore edilizio promosso dai Franchi dovette per altro avere il suo fulcro nella ricostruzione carolingia della cattedrale di S. Salvatore a Torino, impostata su pilastri quadrati poggianti sul piano della fase paleocristiana e arricchita da un cospicuo arredo architettonico scolpito (Verzone, 1942; Casartelli Novelli, 1970). Ivi si elaborò un nuovo stile durante l'episcopato di Claudio (818-827), iconoclasta tanto radicale da bandire il culto della croce e delle reliquie e favorire perciò una produzione rigorosamente aniconica, attestata dalle numerose lastre incise della prima metà del sec. 9°, da mettere in relazione con lo scriptorium di Bobbio. In alcuni pezzi non mancano tuttavia echi della tipologia degli antichi amboni paleocristiani e ravennati e anche della vivace plastica longobarda (Casartelli Novelli, 1974; 1983; Peroni, 1984). Analoghe reminiscenze e influssi si rinvengono nei codici contenenti le Homiliae di s. Gregorio Magno e le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (Vercelli, Bibl. Capitolare, CXLIII, CCII), ascritti all'ambito di Nonantola fra 8° e 9° secolo.Un rapporto anche formale con la Tarda Antichità è stato parallelamente richiamato per l'architettura, nella chiarezza d'impianto e nella tecnica delle c.d. nicchie di rinforzo del battistero e della contigua chiesa di S. Lorenzo a Settimo Vittone (prov. Torino), dove una lapide indicherebbe sepolta la regina franca Ansgarda. La pianta a croce latina, con vani rettangolari coperti da volte a botte, e la spessa e rozza muratura hanno suggerito una datazione dell'aula alla metà del sec. 9°, contemporanea al battistero ottagono con volta cupoliforme e cappelle ricavate in spessore di muro; recenti dati di cantiere farebbero invece anticipare notevolmente la costruzione dell'edificio battesimale all'inizio del sec. 8° o alla fine del 7° (Verzone, 1942; Palmas, 1987).Ancora all'epoca carolingia sembrerebbe risalire la cripta di S. Giovanni ad Asti, con volte prive di nervature su archi oltrepassati e capitelli riutilizzati del sec. 8°; sempre ad Asti, verso la seconda metà o la fine del sec. 10° dovrebbe situarsi il nucleo originale della cripta di S. Secondo (Verzone, 1942; Bonardi Tomesani, 1971; Crosetto, 1993-1995) e intorno al Mille quella di S. Anastasio, a tre navatelle coperte da volte a crociera, con riuso di sostegni e capitelli tardoantichi e longobardi (Verzone, 1971b).Gli anni compresi fra la metà del sec. 10° e la metà dell'11° sono particolarmente decisivi per la storia della cultura e delle arti figurative piemontesi, poichè la ridefinizione della geografia politica e la penetrazione della riforma cluniacense concorsero a farne un laboratorio artistico singolare, in cui confluirono tradizioni autoctone, novità franche e borgognone, rinnovamento ottoniano e cultura lombarda. Una serie di circostanze portò infatti sulla scena cisalpina committenti di assoluto rilievo, partecipi, per via familiare o per ruolo, di una koinè culturale di respiro europeo, da Varmondo, vescovo di Ivrea (969-1005 ca.), a Guglielmo da Volpiano (962-1031), agli abati preposti alle fondazioni benedettine, ai vescovi di Vercelli, Acqui e Novara. Ciò è in parte dovuto all'intensificarsi delle relazioni tra membri di una medesima aristocrazia, al potere al di qua e al di là delle Alpi (Tabacco, 1988; Sergi, 1994); in seguito, dal 962 con Ottone I (962-973) fino alla riunificazione delle tre corone di Borgogna, d'Italia e di Germania nel 1038 sotto Corrado il Salico (1024-1039), l'allargamento dello scenario istituzionale verso l'area germanica incise sulle grandi opere mediante un fecondo rapporto dialettico con la cultura ottoniana e la sua ripresa in senso classicista.Politicamente, il sistema amministrativo carolingio andò evolvendosi con caratteri signorili nella grande marca anscarica d'Ivrea, in quelle aleramica del Monferrato e arduinica di Torino e nel comitato obertengo di Tortona, poli intorno a cui si fissò grosso modo il futuro assetto permanente del territorio (Sergi, 1994). Fra la fine del sec. 10° e l'inizio dell'11° ne dipese in qualche misura anche il fenomeno dell'incastellamento, sviluppatosi spesso intorno a fondazioni religiose più antiche. I numerosi documenti scritti che associano chiese e castra stanno via via beneficiando di puntuali riscontri archeologici: è il caso di Bric San Vito, presso Pecetto di Valenza (prov. Alessandria), con cortina muraria difensiva su un'area collinare di insediamento già longobardo (Pantò, 1994-1995), di Frugarolo (prov. Alessandria), che ha restituito segni dell'incastellamento sul sito di una curtis carolingia (Bougard, 1993), e di Trino (prov. Vercelli), dove sono state individuate le fondazioni di un recinto murato intorno a S. Michele in insula (Negroponzi, 1994). Insieme con strutture già conosciute, sono ulteriori conferme di quella fervida attività costruttiva di carattere civile e militare che le carte indicano sul territorio pedemontano e appenninico o anche del bassopiano (Settia, 1991). Sul fronte ecclesiastico dovette appartenere a questo momento di sviluppo la chiesa abbaziale di S. Quintino a Spigno Monferrato (prov. Alessandria), di impianto cruciforme con piccoli vani rettangolari estroflessi, in funzione di sacelli più che di cappelle per l'officiatura. Fondata nel 991 dal marchese Anselmo, essa affianca ai transetti due campanili forniti di piccole camere sotterranee laterali a una cripta, uno dei più antichi esempi di cripta presbiteriale a sala, con volte a botte e crociere cilindriche (Verzone, 1942).Nello stesso periodo, su un piano diverso, le alleanze dell'impero con i vescovi-conti e la nuova forza che ne derivò alle diocesi agevolarono la riforma della rete plebana e la diffusione capillare e costante sul territorio rurale di nuove chiese, ma favorirono anche un profondo rinnovamento delle città; il caso di Ivrea e di Varmondo ne è esempio palmare. Alla committenza di Varmondo si fa risalire la sistemazione religioso-liturgica della Chiesa eporediese, della sua sede, degli arredi e dello scriptorium. Le parti rimaste della cattedrale varmondiana lasciano intuire una precoce visitazione di fonti del Nord nel blocco occidentale di cripta-abside con corridoio di ronda e torri laterali impostate alla base già alla fine del 10° secolo. Ma soprattutto la parte interna primitiva della cripta ad anello, voltata a botti intersecantisi su colonnette, intorno a un sacrario aperto con fenestellae verso il deambulatorio superiore, esplicita, insieme con Spigno Monferrato, la sapienza costruttiva all'origine delle numerose cripte piemontesi (Verzone, 1942; De Bernardi Ferrero, 1971; Magni, 1979; Peroni, 1992). Una cosciente attenzione all'Antico, stimolata e favorita da contatti e viaggi verso il Medio Oriente, è segnalata anche dagli acquisti o recuperi di oggetti di pregio, come la lipsanoteca di Ivrea (tesoro della cattedrale) e i dittici episcopali di Novara (cattedrale).Anche lo sviluppo della biblioteca e il nucleo di codici di cultura lombardo-ottoniana ascritti alla committenza di Varmondo non sono fatti isolati: nonostante le perdite che rendono frammentario il quadro complessivo piemontese, i manoscritti miniati fra il sec. 10° e gli inizi dell'11° nelle scuole cattedrali, come a Vercelli o a Novara, o negli scriptoria monastici della Sacra di San Michele (prov. Torino) e della Novalesa (Segre Montel, 1977; 1994a; 1994b; Castronovo, Quazza, Segre Montel, 1994) illustrano un'analoga rinascita conformata su matrici decorative carolinge e gallicane rinvigorite da una cultura bizantina mediata talora da Milano (Bertelli, 1987; Peroni, 1992; Castronovo, Quazza, Segre Montel, 1994).Milano e il Milanese d'altro canto sembrano in quel momento un riferimento ineludibile per qualità e novità nel campo dell'oreficeria, della plastica e della pittura ottoniana piemontese. Vi è stata riallacciata infatti la maggior parte delle pitture murali a O del Ticino, come i resti del Giudizio universale a S. Quintino a Spigno Monferrato (post 991), il velario nel campanile di S. Giusto a Susa (ca. 1029) e il frammento di affresco staccato con la Natività di S. Giovanni ad Asti (Segre Montel, 1994a; 1994b). A Novara, invece, sotto l'episcopato di Pietro III (993-1032), si staglia a un livello più alto il Maestro dell'Apocalisse del battistero, che mostra una nuova consapevolezza del rapporto fra pittura e struttura architettonica; in tema è da ricordare la perduta decorazione architettonica del S. Pietro ad Acqui, a ridosso dell'episcopato di Primo (989-1018), e quella del 1030 di S. Giustina a Sezzadio (prov. Alessandria; Gabrielli, 1944; Segre Montel, 1994a).Nell'estremo nordoccidentale, ad Aosta, dal 1020 al 1030 ca. in S. Orso e un decennio dopo nella cattedrale, opera un maestro di singolare livello e autonomia, che si ritrova fuori dalla valle solo in un frammento già nella cripta di S. Pietro a Villar San Costanzo, ma che si riconosce ispiratore degli apostoli dipinti nell'abside di S. Tommaso a Briga Novarese (prov. Novara), per altri versi tributaria della vicina pittura lombarda (Segre Montel, 1994a; 1994b; Autenrieth, Autenrieth, in corso di stampa).Le vicende della pittura sono cadenzate con il diffuso rinnovamento architettonico, testimoniato in particolare dalle cripte, conservate in buon numero. Fra le più antiche, oltre a quelle citate, sono da ricordare nella prima metà del sec. 11° quella della cattedrale di Acqui e quelle risalenti al vescovo di Torino Landolfo (1011-1038) in S. Maria a Testona, in S. Maria a Cavour, nella cattedrale di Chieri (Olivero, 1941) e l'ampio vano con mosaico pavimentale (1030) nell'abbazia di S. Giustina a Sezzadio; vi si matura il tipo a oratorio a più navate e campatelle, retto da sostegni spesso monolitici con volte a crociera, irrobustite da nervature negli esempi più evoluti (Verzone, 1942; Magni, 1979; Carità, 1994). In questo quadro si intreccia la forza propulsiva, determinante per il rinnovamento anche artistico, delle grandi abbazie benedettine. Il priorato della Novalesa con l'abate Odilone di Breme, nipote di s. Odilone di Cluny, conobbe un impulso pari al suo periodo carolingio (Tabacco, 1988), testimoniato anche dai nuovi ritrovamenti della prima fase costruttiva dell'abbazia, databili a ridosso della morte di s. Eldrado (825-827; Cantino Wataghin, 1988). Risale al 983-987 la fondazione della Sacra di San Michele, della cui prima struttura si conserva traccia nella cripta (Palmas, 1990); l'abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese (prov. Torino), costruita da Guglielmo da Volpiano fra il 1003 e il 1006, è stata oggetto di recenti scavi (Pejrani Baricco, 1996). Il complesso e articolato impianto, collegabile a Cluny II e a Saint-Bénigne a Digione, mostra una radicale riorganizzazione degli spazi e dei simboli visivi, dall'imponente torre al mosaico presbiteriale. Lo sviluppo del coro in cinque absidi, l'imposta di una torre nolare sul capocroce, l'inserimento di un sacrario interno imitante l'Anastasi e, non ultimo, l'avancorpo con funzione cimiteriale evocano confronti con successivi episodi piemontesi, senza che vi siano peraltro elementi netti a dimostrazione di un influsso diretto e decisivo. Infatti la tipologia della torre sul capocroce, ipotizzata nella cattedrale di Ivrea (De Bernardi Ferrero, 1971), è presente a Ognissanti a Novara ed è documentata anche per la perduta cattedrale di Vercelli (Verzone, 1934b).Il Sepolcro dei monaci alla Sacra di San Michele e la chiesa del Santo Sepolcro (S. Pietro in Consavia) ad Asti devono peraltro leggersi entro un quadro più ampio di fortuna dell'Anastasi in Occidente. Non direttamente da Fruttuaria, ma da modelli borgognoni e renani, che la rete cluniacense può avere diffuso, potrebbero inoltre derivare nel sec. 11° anche soluzioni architettoniche estranee al tessuto locale e lombardo, come i clocher-porches del gruppo canavesano di Balangero, Bollengo, Chiaverano e Lugnacco (Cavallari Murat, 1973; Chierici Furno, 1975), o il nartece a due piani aggiunto a S. Vincenzo a Pombia (prov. Novara; Di Giovanni, 1981).Dalla rete di priorati e celle, tracciata sul territorio dalle abbazie (Tabacco, 1988), consegue l'irradiamento di alcune formule costruttive che caratterizzarono il Romanico piemontese minore fino al pieno 12° secolo. La torre campanaria di Fruttuaria, a sei ordini con specchiature divise da paraste mediane, sembrerebbe un riferimento, insieme con altre lombarde, per quella della Consolata a Torino, antico possesso novalicense dedicato a s. Andrea, costruita dal monaco architetto Bruningo prima del 1014 sotto Gezone, fratello di Guglielmo, o per quella di S. Ambrogio a Susa, consacrata alla presenza di Guglielmo (Olivero, 1941), come le altre presenti nel monastero di S. Giusto a Susa e a S. Maria a Testona, tutte comprese entro i primi decenni del secolo (Olivero, 1941; Cavallari Murat, 1973). Fuori dall'ambito monastico si affiancano a questa fonte anche i campanili delle cattedrali e delle grandi plebane fra la fine del sec. 11° e il 12°, a Biella, Novara e Gozzano (prov. Novara; Verzone, 1934a; De Bernardi Ferrero, 1959; Di Giovanni, 1981). Lo sviluppo della pianta in più navate con coro triabsidato si estende sia agli insediamenti monastici maggiori sia agli edifici dipendenti dalle diocesi secondo regole costanti e condivise e morfologie ricorrenti, cadenzate dall'evoluzione di elementi funzionali e decorativi, come le coperture lignee e poi a volta, gli apparati murari e le partizioni di superficie a lesene, cornici di fornici e di archetti variamente apparecchiati e ritmati.Dalle fondazioni di più alta dignità gerarchica alle cappelle campestri si espande dunque anche in area piemontese un comune stile, latamente lombardo, che solo in accezioni particolari assume strutture originali e specifiche, dettate da microstorie differenziate.Da S. Giovanni in Campi a Piobesi Torinese (1020), all'abbazia di S. Maria di Pulcherada (inizio sec. 11°), alla pieve di Liramo, presso Ciriè (inizio sec. 11°), alla pieve di S. Michele a Oleggio (1050-1075), all'abbazia di S. Giacomo della Bessa (1083), a quella di S. Giacomo di Stura, presso Torino (metà sec. 12°), si applicò una pianta a tre navate, senza transetto, con pilastri e copertura lignea; fra la fine del sec. 11° e i primi decenni del successivo il sistema a volte a crociera, sperimentato precocemente a S. Pietro a Carpignano Sesia (prov. Novara), si trasportò sulle navate maggiori in molti esempi, specie novaresi, come S. Giulio a Dulzago, S. Giulio a Orta San Giulio, S. Pietro a Casalvolone (prov. Novara; Verzone, 1932-1937; Olivero, 1941; De Bernardi Ferrero, 1959; Di Giovanni, 1981). Nell'ambito regionale distingue le diverse aree il materiale usato, gneiss nell'anfiteatro morenico del Canavese, pietra sbozzata e poi tagliata con maggiore raffinatezza nelle aree alpine, ciottolo di fiume quasi ovunque nei medi bacini fluviali, misto a cotto di recupero o di fornace, e quasi esclusivamente mattone nella pianura orientale. Proprio l'uso di corsi alternati di mattoni e arenaria è una delle discriminanti degli edifici romanici del Monferrato, individuati già da Porter (1915-1917) come l'unica peculiare scuola locale.Nell'area a N-O di Asti, sullo scorcio del sec. 11° o nei primi decenni del 12°, si concentrò un gruppo ben caratterizzato di nuove costruzioni che ebbe il suo fulcro nell'abbaziale di S. Fede a Cavagnolo Po, datata al 1070 ca. (Solaro Fissore, 1984), e gli esempi più significativi in S. Lorenzo a Montiglio, S. Secondo a Cortazzone, Ss. Nazario e Celso a Montechiaro d'Asti. Vi si ritrova una cura non episodica alla resa di superficie: blocchi di arenaria ben squadrata alternata a corsi in mattoni, archetti in pietra o lastre scolpite con motivi vegetali e animali o anche antropomorfi di sapore apotropaico, e soprattutto una diffusa tipologia di facciata con falso pronao aggettante che accoglie il portale con architrave e arco a ghiera scolpita. Il ricco portale di S. Fede a Cavagnolo Po, considerato il prototipo in zona, ne ha forse fatto sopravvalutare le relazioni con aree francesi, Alvernia o Saintonge, recentemente ridimensionate a favore di dipendenze pavesi ed emiliane (Casartelli Novelli, 1959; Solaro Fissore 1971; 1984; Carità, 1994). Il cantiere di S. Fede, probabilmente cluniacense, segna in realtà il recupero di un autonomo statuto dell'arredo plastico che, fra la fine del sec. 11° e l'inizio del 12°, si riscontra più sommesso anche altrove nel panorama piemontese, fatta salva l'eccezione della Sacra di San Michele.Ciò nonostante la scultura romanica della regione non si presta a un disegno unitario o per aree omogenee. Alcuni episodi cruciali di estremo interesse, ma di diversa valenza, sono tuttora oggetto di problemi critici aperti: è il caso dei capitelli dell'abbazia di San Costanzo sul Monte presso Dronero (prov. Cuneo), datati al 1100-1110 e collegati alla scuola milanese, e di quelli, ormai fissati al 1132, del maestro lionese che operò nella collegiata di S. Orso ad Aosta (Castelnuovo, 1988; Romano, 1994c). Un Pietro da Lione firmò peraltro un rigoroso classicheggiante altare marmoreo in S. Giusto a Susa ed è riconoscibile fra i comprimari di Niccolò alla Sacra di San Michele (Romano, 1994c). Fuor di dubbio il portale dello Zodiaco della Sacra è un fatto centrale per le successive prove del maestro a Ferrara e Verona (Verzar, 1968; Verzar Bornstein, 1985), ma costituisce anche una fonte per episodi che via via a esso vanno ricollegandosi nella valle del Rodano e della Durance e oltre, lungo le tracce delle dipendenze transalpine dell'abbazia (Castelnuovo, 1988; Pagella, 1990).Intorno agli stessi anni il pulpito di S. Giulio a Orta San Giulio, tuttora oggetto di vivace dibattito, è privo di precedenti e fortuna in ambito strettamente locale, ma gode di precisi confronti con i capitelli del duomo di Spira ed è stato variamente valutato o come alta realizzazione di cultura germanica o come prodotto, neppure eccelso, di un atelier lombardo-comasco, spostatosi a N (Canestro-Chiovenda, 1955; Cochetti Pratesi, 1989; Romano, 1994c).La scuola di lapicidi del Monferrato nella prima metà del sec. 12° si contraddistinse invece per un'evidente dipendenza dalle grandi fabbriche pavesi, il che non impedisce tuttavia un'originale, insistita rielaborazione del repertorio decorativo classico, giustapposto a un antropomorfismo arcaicizzante (Romano, 1994b).Per quanto riguarda la pittura murale, il panorama estremamente lacunoso degli affreschi giunti fino a noi, per la varietà linguistica, la diffusione capillare e la molteplicità di confronti che suggerisce, fa desumere in questo settore una maggiore vivacità artistica e alcuni poli significativi di rinnovamento. Fra questi è S. Michele a Oleggio, dove intorno al 1060 fu attivo un atelier il cui capofila lasciò una testimonianza cruciale per l'assunzione di modelli bizantini, conosciuti forse di prima mano. La sua lezione influenzò il pittore dell'Offerta di Caino in S. Maria ad Acqui, consacrata nel 1067 (Torino, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte), e il ciclo di S. Maria di Castelvecchio a Mongrando (Biella, Mus. Civ.); arricchita delle corpose e brillanti note salisburghesi penetrate nella cultura lombarda, riecheggia nei dipinti (1123-1151) di S. Giorgio ad Agrate Conturbia (prov. Novara) e negli affreschi (1150 ca.) da poco scoperti in S. Pietro a Carpignano Sesia (Bertelli, 1987; Segre Montel, 1994a; 1994b). La cultura di Oleggio e di S. Pietro al Monte a Civate permea anche le Storie di s. Eldrado e di s. Nicola alla Novalesa, di dibattuta cronologia, che la rilettura delle fonti scritte ha fatto infine ancorare al 1096-1097 e attribuire a un pittore lombardo la cui efficacia narrativa si rintraccia anche nella parte inferiore del battistero di Susa (Segre Montel, 1988). Nella valle, nondimeno, fra 1120 e 1130, sembrano coesistere due correnti, una lombarda-salisburghese, visibile nella lunetta del chiostro novalicense (1130 ca.), e un ben diverso stile di timbro francese, dai fondi chiari e dal disegno accentuato e da rapidi modi descrittivi, nella lunetta della porta del fianco meridionale di S. Giusto a Susa; analoga derivazione occidentale è stata colta a S. Valeriano a Borgone Susa (1100-1120) e, in area biellese-canavesana, nell'abside di S. Michele in Clivolo a Borgo d'Ale (1050-1075) e nella parte sinistra dell'abside di S. Ferreolo a Grosso, lievemente posteriore (Segre Montel, 1988; 1994a; 1994b).Si è purtroppo perduta la facies dipinta delle grandi fabbriche cittadine, se si eccettuano la memoria grafica trasmessa per gli antichi affreschi delle volte di S. Eusebio a Vercelli (Cipolla, 1901) e quanto rimane a Novara nell'oratorio episcopale di S. Siro (1180 ca.), aggiornato ad altissimo livello sul classicismo di modelli mosani e della prima età sveva.Diversamente da quel che avviene negli edifici minori sparsi sul territorio, partecipi di una koinè architettonica di matrice lombarda, le grandi fabbriche della fine del sec. 11° e del primo 12° ancora esistenti o documentate mostrano soluzioni singolari e in gran misura estranee all'evoluzione dei caratteri costruttivi nella regione. Così si può dire della fase romanica della cattedrale di Ivrea e tanto più dello sviluppo dell'audace e complesso sistema voltato della Sacra di San Michele. Per la cattedrale di Asti (consacrata nel 1095) tale affermazione può valere solo per l'elegante pavimento musivo, a riquadri simbolici e narrativi, dell'ultimo quarto del sec. 12°, recuperato per via archeologica (Crosetto, 1993-1995; Pianea, 1994); le cattedrali di Novara (consacrata nel 1132) e Vercelli (consacrata nel 1148), conoscibili ormai soltanto da preziose fonti iconografiche, mostrano a loro volta fisionomie molto individuate. Il S. Evasio di Casale Monferrato (prov. Alessandria), infine, nel grandioso atrio interno, coperto con ampi archi incrociati di influsso armeno, variamente datato fra il tardo sec. 12° e il 1220, offre una tecnica di copertura che rimane un unicum (Wagner-Rieger, 1956; Peroni, 1974; Carità, 1994). Un sistema più organico di relazioni artistiche stabili e quasi univocamente orientate verso la pianura Padana riguarda piuttosto i mosaici pavimentali. I due esempi assai simili per rigorosa bicromia e repertorio simbolico e geometrico di Acqui (ca. 1067) e Novara (primo quarto sec. 12°) furono seguiti dal gruppo più incline alle scene narrative e a inserti policromi di Ivrea, Vercelli e Casale Monferrato, attestabili alla metà del secolo. Attente invece alle realizzazioni anche miniatorie francesi sembrano essere, verso la fine del sec. 12°, le cosmografie tessellate di S. Salvatore a Torino (Mus. Civ. d'Arte Antica) e della cattedrale di Aosta (Barral i Altet, 1975; Pianea, 1994). Tra le rare sopravvivenze di arte suntuaria si ricordano le rilegature degli evangeliari di Vercelli (seconda metà sec. 11°) e di Novara (1100-1125), il reliquiario di S. Eldrado (1150-1200) nella parrocchiale di Novalesa e il grande crocifisso argenteo (1170-1175) conservato nella cattedrale di Casale Monferrato, già nel duomo di Alessandria (Piglione, 1994a).Nel panorama complesso e non ancora definito del passaggio al Gotico in architettura e scultura, merita una menzione a parte la chiesa canonicale di S. Maria di Vezzolano, presso Albugnano (prov. Asti), dove la scuola del Monferrato è solo sottofondo a un sistema architettonico gotico che ha suggerito riferimenti alle prime fondazioni cistercensi di Casanova e Rivalta Scrivia (Carità, 1992). L'articolazione e insieme l'isolamento regionale della sua decorazione scultorea, con statue-colonna in facciata e nell'abside e un pontile istoriato con la serie degli Antenati della Vergine, hanno condotto a discordanti datazioni: per alcuni l'anno 1189 inciso nell'iscrizione commemorativa sotto il fregio interno è incontrovertibile (Settia, 1975); per altri, su base formale, si deve distinguere tra una fase primitiva, di impronta monferrina e pavese, che riguarda l'Annunciazione absidale e alcuni capitelli, e una successiva, intorno al 1230, per il jubé e le figure in facciata, attribuiti ad artisti francesi vicini alla bottega operante nella cattedrale di Losanna (Pagella, 1992; Romano, 1994c). Il regnante Federico della legenda e le donazioni e i privilegi numerosi da parte degli Svevi potrebbero condurre a ulteriori precisazioni anche sull'architettura del pontile, ritardata su base stilistica al Duecento (Wagner-Rieger, 1956).Tanto per Vezzolano quanto per le prime fondazioni cistercensi è documentato un rapporto significativo, e peculiarmente piemontese, fra il mondo feudale e gli insediamenti religiosi (Manselli, 1966). Il monastero cistercense di Tiglieto (prov. Genova), linea di La Ferté e primo in Italia dell'Ordine (1120), ricevette concreti sostegni dai marchesi di Gavi e del Monferrato; questi ultimi patrocinarono anche S. Maria a Lucedio (prov. Vercelli), sempre da La Ferté (1123); Staffarda (prov. Cuneo) e Casanova (prov. Torino) erano sotto l'egida del marchese di Saluzzo e del conte di Moriana. Tali patrocini non ebbero solo un riflesso economico, ma segnalano che i legami con l'abbazia madre si intrecciavano con altri familiari e dinastici, anche in direzione della Borgogna, analogamente a quanto era avvenuto per la diffusione cluniacense. Questi doppi canali di relazioni non permettono tuttavia di supporre una precoce presenza di architetti dell'Ordine nelle fabbriche piemontesi. Tiglieto offre scarni e poco significativi resti del sec. 12° (Pistilli, 1990); a causa dei rimaneggiamenti successivi, sono di difficile analisi anche le fasi protogotiche del cantiere di Casanova, fondata nel 1142 e costruita a partire dal settimo decennio del sec. 12° (Fraccaro De Longhi, 1958; Carità, 1992). Per Rivalta Scrivia (prov. Alessandria) un'attenta ricostruzione filologica ha permesso di individuare nel coro un primo cantiere, avviato nel 1181, continuato faticosamente lungo la navata nel primo quarto del sec. 13° e in seguito sviluppatosi in forme mature negli ambienti monastici fino al 1260 ca. (Orlando, 1994). Se in generale le iniziali attività architettoniche dell'Ordine sembrano segnate da un parziale riutilizzo di edifici preesistenti, nel secondo quarto del Duecento è accertato un fervore edilizio pertinente soprattutto agli ambienti monastici e agli spazi dedicati alla produzione; le tipologie cistercensi e l'applicazione di sistemi voltati ad arco acuto dei primi tempi si mediano in quest'epoca, per quanto riguarda materiali e apparati di superficie e decorativi, con le tradizioni romaniche lombarde, qui giunte di rimbalzo dalle grandi abbazie padane (Cadei, 1989). Questo sembra particolarmente valido per Staffarda, fondata qualche anno prima del 1138, la cui chiesa, a tre absidi circolari senza torre di capocroce, mostra cantieri discontinui dalla seconda metà del sec. 12° fino al 13° inoltrato; nonostante marcati interventi di ripristino otto-novecentesco, essa si distingue per l'impianto generale del monastero e la ricca articolazione degli edifici adibiti allo stoccaggio e lavorazione dei prodotti agricoli, ai servizi di ospitalità e assistenza, ed è pertanto una testimonianza esemplare del progetto 'globale' dei monaci bianchi (Fraccaro De Longhi, 1958; Carità, 1992). Dalle abbazie si irradia una rete di grange, nelle quali sembrerebbe applicato un nuovo modello edilizio rurale, a più campate modulari, con sostegni e coperture variate e ampiezza adeguata alla consistenza dell'attività (Comba, 1985). Diretti rapporti fra le comunità civiche e le capacità costruttive cistercensi, altrove già evidenziati dalla critica, in P. sono emersi per ora, nel campo idraulico, solo fra Rivalta Scrivia e il Comune di Tortona (Orlando, 1994).Il 'laboratorio' cistercense è stato richiamato come sfondo anche per S. Andrea a Vercelli; i caratteri d'avanguardia, espressi fra il 1219 e il 1224-1226 nella fabbrica voluta dal cardinale Guala Bicchieri (m. nel 1227; Verzone, 1971a), sono stati rivisitati alla luce degli aggiornamenti sul Gotico francese e inglese e dei recenti approfondimenti sulla scuola antelamica (Carità, 1992; Pagella, 1992). Si sono così stabilite relazioni più specifiche con Bourges e Braine nell'architettura, mentre per la scultura, esclusa l'autografia antelamica, si sono venuti piuttosto profilando la presenza della bottega del maestro e i contributi, a cantiere avanzato, di scultori francesi (Pagella, 1992; Romano, 1992).A partire dal Duecento, con il consolidarsi della differenziazione dei poteri ecclesiastici e di quelli comunali o signorili e con nuove dinamiche fra territorio e città, si assestarono anche diverse tipologie urbanistiche. Sulla griglia ortogonale romana, diversamente riplasmata nel Medioevo, ma ancora esistente negli antichi municipia di Torino, Alba, Vercelli e Novara, vicino alla sede episcopale andarono a collocarsi, ormai autonomi, gli edifici del potere civile e dei paratici, con propria torre e diritto di campana. Anche nei luoghi retti da signorie feudali si presentò il fenomeno delle case della Credenza o del Senato, a Ivrea, Chivasso, Pinerolo e Fossano (Cavallari Murat, 1982); in altri centri perse invece vigore l'insediamento intorno all'antica cattedrale e si costituì, come a Chieri e a Piazzo di Biella, un nucleo distaccato. Nel periodo delle lotte tra fazioni, una fervida attività edilizia interessò i castelli urbani, muniti, oltreché verso l'esterno, verso la città stessa, dove le fazioni rivali diedero impulso alla costruzione di palazzi muniti e torri signorili (Conti, Tabarelli, 1975-1980; Cavallari Murat, 1982; Settia, 1991).Nel medesimo periodo nel campo della pittura si allentò la dipendenza dall'area lombarda, mentre lo scenario storico e figurativo europeo riconfermò il P. luogo privilegiato di passaggio e mediazione del linguaggio gotico a O, ma anche della cultura germanico-sveva a E. È interpretabile sotto questa luce il fregio del broletto novarese, inserito nel rinnovamento dell'arte comunale del primo sec. 13° (Romanini, 1989).Gli influssi francesi, che portarono a un alleggerimento cromatico e a un segno più descrittivo e dinamico, peraltro anche responsabili di nuovi temi iconografici, sono particolarmente evidenti nel percorso che lungo la Valle d'Aosta arriva intorno al 1240 alla lunetta con il Pantocratore del chiostro di Vezzolano, o alla casa dei Canonici a Susa (Mus. Civ.; Romano, 1992). Entrano in gioco in questo periodo, come modelli, le miniature dell'ambito di Luigi IX e forse oreficerie d'importazione, come suggerirebbe il reliquiario di S. Andrea di Hugo di Oignies nel duomo di Chieri, ma già appartenente all'abbazia di Staffarda (Gabrielli, 1939). Questa permeabilità al linguaggio d'Oltralpe è ancora nettamente percepibile a distanza di decenni nella precettoria antoniana di Sant'Antonio di Ranverso (prov. Torino) e nel Contrasto dei vivi e dei morti, del Maestro dei Radicati, nell'ultima campata settentrionale del chiostro di Vezzolano, con datazione al 1305 ca. o anticipata al 1280-1290 (Castelnuovo, 1961; Romano, 1992), per il quale si è ipotizzata una matrice svevo-angioina risalente dal Sud (Bologna, 1969). La difficoltà di ricucire un tessuto estremamente avaro di elementi organici non ha peraltro impedito di ridisegnare un percorso figurativo da E a O, anche stilisticamente in controtendenza: quello dei maestri del battistero di Parma che, all'inizio del terzo quarto del Duecento, hanno lasciato tracce del loro caratteristico linguaggio ad Angera (prov. Varese) e dintorni, e sono direttamente attivi nell'atrio di Sant'Antonio di Ranverso e nel priorato clusino di Saint-Martin ad Aime, in Savoia (Castelnuovo, 1961; Ragghianti, 1970; Romano, 1985).La pittura del Trecento piemontese, che sembrava fino a vent'anni fa solo un ridotto corpus di opere murali, ha beneficiato di numerosi ritrovamenti e restauri sui quali la critica sta ridisegnando una più articolata mappa della penetrazione delle novità formali centroitaliane e, di contro, delle fedeltà a una cultura gotica di matrice occidentale; sulla scorta di queste scoperte si è dunque reimpostata un'esegesi feconda di sviluppi per un riassetto cronologico e attributivo (Castelnuovo, 1961; Passoni, 1986; Romano, 1992; Pittura, 1997).Dalla fine del sec. 13° a tutta la metà del 14° nel confine orientale resistette il debito verso la coeva cultura milanese e comasca; in questa luce è da leggersi l'evoluzione in senso spaziale e plastico della Crocifissione e santi in S. Paolo a Vercelli (post 1297), degli affreschi in S. Giorgio di Agrate Conturbia (fine sec. 13°), della Crocifissione di S. Siro a Novara (ca. 1300; Romano, 1992; Galli Michero, 1997). Un fare più composito, aperto anche a influssi francesi e centroitalici mediati, si è intravisto nel più tardo Maestro di Oropa, attivo anche nella cappella gentilizia di S. Caterina a Valdengo e forse nel battistero di Biella (Gabrielli, 1938; Sciolla, 1980; Astrua, 1987; Castronovo, 1997). Più deciso partito per la solida ed espressiva naturalezza dei cantieri assisiati prende invece nel quarto decennio il Maestro dei De Rhodis nel convento francescano di Domodossola, mentre a Novara rimane la più colta e prossima testimonianza del soggiorno milanese di Giotto nel Noli me tangere e nell'Assunzione nel palazzo episcopale, la cui prestigiosa committenza di Guglielmo Amidano, generale degli Eremitani e confessore di Giovanni Visconti, convalida l'accostamento ai risultati formali delle maestranze toscane coeve e al primo Giovanni da Milano (Galli Michero, 1997). Più labili riferimenti alla pittura comasca e lodigiana del quarto decennio e al Secondo maestro di Chiaravalle sono stati invece avanzati per gli affreschi che ornano la tomba di Tommaso Gallo in S. Andrea a Vercelli, variamente datata a prima o dopo la metà del secolo, non priva però di qualche eco della miniatura bolognese, accessibile nello Studium vercellese (Passoni, 1986; Astrua, 1987; Travi, 1995; Castronovo, 1997). Risulta peraltro ormai provato il ruolo importante svolto nel rinnovamento dello stile dalla circolazione di maestri, allievi e codici fra le università emiliane e quelle piemontesi. Altre vie di trasmissione verso O dei nuovi canoni formali furono le fondazioni francescane e domenicane: per la pittura murale l'affermazione può condurre fino al frescante del periferico S. Francesco a Susa (1340-1350; Saroni, 1997), mentre alle scelte domenicane si è fatta risalire la presenza di almeno quattro delle cinque tavole di Barnaba da Modena importate da Genova in P. nel terzo quarto del secolo per le chiese di Alba, Rivoli, Tortona e Lerma (Rossetti Brezzi, 1996; 1997).Con l'avanzare del secolo le influenze culturali trovarono in buona parte sostegno anche nelle suddivisioni politiche, che videro i Visconti premere verso il ducato dei Savoia Acaia e il marchesato del Monferrato subentrare agli Angioini nel Sud-Ovest della regione. Qui il linguaggio gotico tardosvevo orientato a un grafismo elegante e a un cromatismo delicato si addentra forse fino al secondo decennio del secolo con l'autore della cappella di S. Nicola in S. Andrea a Savigliano e delle scene profane nel palazzo Comunale (Galante Garrone, 1979; Romano, 1992; Quasimodo, 1997). Spostandosi verso la Bormida si rinviene traccia di questo gusto narrativo e cortese nella sala capitolare di S. Francesco a Cassine (ca. secondo quarto del secolo), ove la critica più recente ha ravvisato aggiornamenti assisiati e internazionali, piuttosto che dipendenze lombarde strette (Mulazzani, 1983; Rossetti Brezzi, 1997). In questo episodio, che sembra suggerire una sorta di inclinazione regionale per scene dinamiche e una propensione al patetismo, è stata vista anche un'anticipazione del percorso che condusse la parte occidentale della regione agli esiti jaqueriani. Su questa linea, meno sensibile al rigore spaziale e plastico giottesco e alla sua misurata contenuta drammaticità, si sono posti il pittore del castello di Montiglio e del sepolcreto dei Rivalba nel chiostro di Vezzolano (quinto-sesto decennio), ma anche le vene più tenere e sinuose della cappella delle Grazie in S. Domenico a Torino e delle miniature del codice della Catena con gli statuti torinesi (Torino, Arch. Storico del Comune, 390; Castelnuovo, 1961; Romano, 1986; Ragusa, 1997). Nel dominio dei Savoia Acaia ancora sfugge l'attività del fiorentino Giorgio degli Agli, testimoniato solo dalle carte (erroneamente ricordato come Giorgio dell'Aquila; Cognasso, 1976-1977), la cui incidenza sulla pittura della seconda metà del secolo in area torinese spiegherebbe i mutamenti formali ormai consolidati negli affreschi voluti da Tommaso d'Acaia in S. Pietro ad Avigliana, nella lunetta di S. Giovanni ai Campi di Piobesi Torinese, della stessa bottega, e nel sicuro e solido fare del frammento con i donatori in S. Lorenzo a Settimo Vittone, presso Ivrea (Saroni, 1997).I documenti pittorici, in questo secolo del tutto preponderanti rispetto a quelli scultorei, e gli itinerari che essi descrivono, fra iniziativa laica e interventi ecclesiastici, indicano già i correlati protagonisti dello sviluppo architettonico: le famiglie signorili e gli Ordini mendicanti che sostituirono la committenza vescovile, monastica e comunale dei secoli precedenti. Nonostante le prime comunità francescane e domenicane si fossero insediate precocemente in tutte le città di pianura o di collina, le loro maggiori fabbriche si avviarono e svilupparono dalla fine del sec. 13° e soprattutto nel successivo, adottando nei centri urbani forme del costruire ormai pienamente gotiche. Queste si sottraggono a una tipologia regionale vera e propria, anche se vi compare con frequenza l'impianto 'a sala' con sistema uniforme di supporti e transetto raramente sporgente; gli ampi vani interni ricevono luce da rosoni, oculi e alte finestre archiacute che scandiscono i prospetti e le absidi a terminazione poligonale o rettilinea. Secondo cadenze locali, in cotto in pianura e in pietra verso l'area alpina, la volumetria esterna appare ben misurata da lisci apparati e da nitidi contrafforti chiusi talora al colmo da cuspidi a cappuccio. Nelle facciate, a doppio spiovente o a capanna, è più evidente la modulazione di un gusto propriamente piemontese e di lunga durata, nella ghimberga a profilo variamente acuto che sormonta il portale esaltando, anche se solo per via decorativa, la tensione verticale, ribadita da pinnacoli che prolungano oltre i contrafforti e i timpani l'effetto ascensionale. Nel panorama complessivo, le zone viscontee mostrano una spiccata sensibilità coloristica coniugata a una lucida definizione spaziale di matrice milanese e pavese; così avviene nelle chiese francescane di Domodossola, Novara, Alessandria e Cassine, fino a quella di Moncalvo d'Asti (Bossaglia, 1954; Romanini, 1964; Di Giovanni, 1983). L'Astigiano conobbe peraltro una generale fioritura di nuovi edifici che andò ben oltre il fenomeno mendicante; nel capoluogo il lungo cantiere della cattedrale di S. Maria, condotto dai primi del Trecento alla metà del secolo e oltre - uno dei pochissimi ad avere anche un arredo scultoreo - è centro di un'area che con S. Maria di Pontecurone e S. Maria di Viatosto mostra una speciale versatilità cromatica e decorativa nell'applicazione rigogliosa di ghiere e cornici in formelle in cotto a disegno astratto o figurato, o nel trattamento policromo di cordoli e nervature, coerente alla propria tradizione romanica (Gabrielli, 1977; Binardi, Tomesani, 1978). Nel Saluzzese e nell'area torinese si ravvisa invece, già a partire dalla fine del sec. 13°, un flusso di motivi provenienti dal Sud della Francia e poi dal Delfinato. Nelle chiese francescane di Susa e Cuneo o in quella domenicana di S. Giovanni ad Avigliana la riduzione locale di clochetons e ghimberghe insiste sull'accentuazione verticale, massima nella chiesa a Sant'Antonio di Ranverso e nella rimaneggiata S. Maria a Chivasso (Olivero, 1939; Romanini, 1964). Appartengono a questo clima le slanciate torri campanarie cuspidate di S. Maria della Stella, già domenicana, a Rivoli, S. Maurizio a Pinerolo, S. Maria ad Avigliana, che sono accomunate anche dall'inserto di bacini e scodelle in ceramica graffita e dipinta, di un tipo che è stato ormai identificato come specifico del P. occidentale. Questa applicazione ornamentale, ben nota in Lombardia e in Liguria, si ritrova anche, sempre nella prima metà del secolo, su alcune torri della regione (Cortelazzo, 1982).Le torri, peraltro, sono un aspetto marginale di un fenomeno architettonico e urbanistico di grande rilievo in quel periodo nella regione: la costruzione di molti centri fortificati e di castelli. Le voci castrum, receptum, villa, riportate nei documenti con significati diversi e dinamici nel tempo, adombrano infatti una profonda e diffusa trasformazione dei nuclei fortificati comunitari e delle fortezze e dimore signorili. Per volontà di Filippo d'Acaia, a partire dal secondo decennio del secolo, si ebbero la riplasmazione del castello di Porta Fibellona, ora palazzo Madama, a Torino e la costruzione del castello di Fossano, l'uno con la funzione prevalente di affermazione territoriale e di difesa, l'altro di residenza temporanea e di rappresentanza. Le solide e ampie strutture quadrilatere e munite di torri angolari e corte interna non si privano infatti del tutto delle grazie di larghe finestre archiacute che derivano, nelle ghiere fittili a stampi figurati, dai modelli di ambito ecclesiastico (Donato, 1996). Su tutto il territorio, dal Cuneese al Novarese, si fondarono o si riplasmarono infine anche gli insediamenti fortificati per le comunità rurali; rientrano in quest'ambito le villae, talora staccate dal castello nobiliare, e i ricetti, agglomerati di cellule abitative intorno a una dimora munita; essi possono riproporre la struttura centripeta degli antichi castra, ma i rapporti di dipendenza dal potere, ormai mutati, li differenziano anche morfologicamente, per le loro elementari cinte difensive e gli spazi ed edifici comuni che vi sono inseriti (Settia, 1984; Viglino Davico, 1984; 1992).
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