PIEMONTE (A. T., 24-25-26)
Situazione, rilievo, morfologia. - Il Piemonte occupa la sezione occidentale della pianura padana e il versante interno delle Alpi, dal Passo di S. Giacomo sino al Colle di Cadibona; inoltre una sezione dell'Appennino Ligure fino al Monte Antola. Il limite statale e amministrativo corre, per buon tratto, lungo il crinale alpino, escludendo la testata della valle del Sempione e includendo invece gli alti bacini del Varo e della Roia; restano inoltre escluse le alte valli del bacino del Tanaro e della Scrivia appartenenti alla Liguria. Verso oriente, per buon tratto, il confine politico è rimasto quale fu dettato dagli avvenimenti storici fino al sec. XVIII: staccandosi al Passo del Gries (m. 2456) dal crinale spartiacque alpino, il confine corre sulle catene del Basodino e con direzione NO.-SE. giunge al Lago Maggiore, di cui la sezione settentrionale rimane alla Svizzera; si accompagna, verso sud, alla sezione mediana del Verbano, indi segue il Ticino, sino all'altezza, circa, di Cassolnovo. Da questo punto assume un andamento irregolare e niente affatto geografico, attraversando regioni che formano evidenti unità economiche, quali il basso Novarese e la Lomellina, staccata nel 1866: si accompagna in certi tratti a corsi d'acqua (la Sesia e parzialmente il Po); risale la zona spartiacque tra la Staffora e il Curone, per arrampicarsi sino al Monte Carmo (m. 1642), dove si salda col confine della Liguria. Entro questi confini il Piemonte misura 29.353 kmq. di superficie. Nonostante il suo nome, che significa "al piede dei monti", la regione ha caratteristiche essenzialmente montuose, con dislivelli fortissimi, i più alti di tutto il regno, che vanno da un minimo di 95 m. sul livello del mare nella piana di Alessandria a un massimo di ben 4810 m. con il Monte Bianco. Una prima grande divisione dà alla parte pianeggiante solo il 27,8% e alla montagna il 72,2%. La divisione agraria assegna le seguenti percentuali: regione di montagna 50%, di collina 27%, di pianura 23%. A queste caratteristiche morfologiche così multiformi e tormentate il Piemonte deve il suo ambiente antropico ed economico tanto variato e complesso. Dal punto di vista geomorfologico si possono distinguere, entro i limiti amministrativi, tre grandi regioni naturali: il Piemonte alpino con una breve sezione appenninica, il Piemonte pianeggiante, aperto con un grande semicerchio verso oriente, e racchiudente pure verso oriente la terza grande unità morfologica, costituita dal Piemonte collinare, che coincide quasi esattamente con le regioni storico-naturali delle langhe e del Monferrato (v.).
La regione alpina comprende interamente una delle tre grandi sezioni in cui il sistema suole essere diviso: quella occidentale, cui, nel versante interno, bene è appropriato il nome di Alpi Piemontesi, per le quali si rimanda alla voce alpi. Qui giova ricordare alcune caratteristiche essenziali, che meglio differenziano questa dalle altre sezioni alpine. Innanzi tutto le Alpi Piemontesi presentano un andamento meridiano prevalente, a differenza delle Alpi Centrali e Orientali, a guisa di gigantesco ferro di cavallo, con numerose incisioni vallive, ortogonali, di solito, alla direzione della catena-asse, che conducono a passi elevati, ma di non difficile transito e utilizzati fino dall'antichità, mentre nelle altre sezioni predominano le valli longitudinali. Una seconda differenziazione di capitale importanza è la mancanza quasi assoluta della zona prealpina o pedemontana che tanta diffusione ha invece nelle Alpi Lombarde e Venete e sul versante francese, per cui brusco e violento è il dislivello tra la pianura e la catena-asse, con pendii precipiti, e profondamente asimmetrico risulta il profilo trasversale. Questa mancanza di fascia subalpina si connette con la differente costituzione geologica delle Alpi Piemontesi rispetto a quella delle altre sezioni: predominanza di rocce cristalline, con assenza quasi assoluta di quella zona calcarea interna, così diffusa invece nelle Alpi Venete, per cui deriva l'aspetto grandioso e imponente dei massicci, sovraincombenti la pianura, dalla quale li separa, talvolta, soltanto una distanza brevissima. La differente costituzione geologica e litologica che si riscontra nelle varie sezioni delle Alpi Piemontesi si riflette bene sulla morfologia e sulle condizioni demografiche ed economiche delle singole vallate.
La pianura piemontese si estende, a guisa di grande ferro di cavallo, tra il piede delle Alpi e le colline del Monferrato ed è divisa dalla strozzatura offerta dall'anfiteatro morenico della valle di Susa e dalle colline di Torino in due grandi sezioni: a sud si ha il pianalto di Cuneo, che rappresenta la parte più elevata di tutta la pianura padana, con i margini a un'altezza di circa 400 m., e una pendenza generale verso nord molto accentuata (fra Cuneo e Torino si ha un dislivello di 300 metri con una pendenza di circa il 40‰); sulla sinistra della Dora Riparia si estende invece, fino al Ticino, la seconda sezione della pianura piemontese, con doppio pendio, da nord a sud e da ovest a est, che presenta la sua minima estensione all'altezza dell'anfiteatro morenico d'Ivrea (distante 15 km. dal Po) mentre, a mano a mano che si procede verso oriente, aumenta di ampiezza, raggiungendo il massimo nel Novarese e nella Lomellina, tra la Sesia e il Ticino. Differente è la natura litologica dei terreni che compongono la pianura: lungo il piede delle Alpi si estende la fascia delle antiche conoidi di deiezione, composte di detriti grossolani profondamente alterati sino a dare origine a quel terreno ocraceo decalcificato, cui si dà il nome di "ferretto", che costituisce le zone più aride e meno produttive della piana piemontese, denominate "gerbidi" nella pianura di Torino, "vaude" nel Canavese, "baragge" nel Biellese, Vercellese, Novarese. Dopo il ritiro dell'ultima glaciazione, i fiumi hanno iniziato una potente opera erosiva, intaccando questa sezione alta della pianura e modellandola a terrazzi; procedendo verso l'asse vallivo, i terreni si fanno sempre più fini e minuti, i migliori dal punto di vista agrario e delle irrigazioni, favorite dalle "risorgive" o "fontanili", che si allineano, a guisa di grande fascia, ai piedi delle conoidi terrazzate e che tanta importanza hanno nell'economia della regione piemontese, soprattutto nel Vercellese e nel Novarese (v. irrigazione). A cavaliere tra la pianura vera e propria e la regione alpina si estendono poi gli anfiteatri morenici, sviluppati soprattutto allo sbocco delle grandi vallate delle Alpi Graie e Pennine, in relazione alla maggiore ampiezza di bacino, alle più copiose precipitazioni, alla più elevata altitudine e di conseguenza alla più imponente manifestazione glaciale.
A sud e a est della pianura, si estende il Piemonte collinare, la terra tipica terziaria piemontese, dalle forme di solito molto dolci, adatte all'insediamento umano e alle colture specializzate (vigneto). Comprende questa terza parte la collina di Torino, che si continua, verso oriente, fino a Valenza, vera propaggine settentrionale dell'Appennino, piccola catena di corrugamento, formata nel complesso da un'anticlinale a fianchi dissimmetrici; cui succedono verso sud i terreni quaternarî dell'Astigiano e del Monferrato, modellati a colline per intenso lavorio delle acque ("colline negative del Gastaldi"), con un'altezza media di 200 m., costituiti da sabbie, argille e marne azzurre, facilmente erodibili. A mezzogiorno del Tanaro, che scorre in un'ampia sinclinale, si estende il rilievo collinoso delle Langhe, composte di rocce mioceniche, con un'altezza media di 600 m., e una topografia molto varia e accidentata.
Clima. - Chiuso per tre quarti dalla cerchia alpina-appenninica, separato dal mare Adriatico da una vastissima zona interposta, il Piemonte presenta caratteristiche climatiche peculiari e si può considerare come un'area di transizione dal clima mediterraneo, che s'incontra a sud della catena alpino-appenninica, a quello continentale dell'Europa di mezzo. Nella regione di pianura e in quella collinare monferrina la temperatura media annua si aggira sugli 11°-13°: l'inverno è decisamente freddo, avvicinandosi dovunque allo zero, con una spiccata accentuazione nella pianura di Alessandria e di Tortona (in gennaio Novara −0,4; Vercelli 1°,1; Torino 0°,3; Asti −0,2; Alessandria −0,6), coincidendo con la minore altitudine di tutta la regione: abbondanti la nevosità e le nebbie; lungo il periodo del gelo. Al contrario l'estate è calda (in luglio 23°-24°), per cui assai forte risulta l'escursione annua. A mano a mano che ci si avvicina alle prime pendici alpine, la temperatura invernale si alza, per il noto fenomeno dell'inversione, ed ecco i centri di sbocco, tutti al di sopra dei 250 m., avere in gennaio una temperatura superiore a quella del piano sottostante (Mondovì 1°,1; Cuneo 1°,7; Saluzzo 2°,1; Pinerolo 2°,2; Ivrea 1°,2; Biella 1°,5), per cui ne risulta un'escursione annua meno accentuata. Particolare menzione va fatta per le zone lacustri, la cui grande massa d'acqua mitiga notevolmente i rigori invernali; ed ecco Pallanza con 3° e Cannobbio con 3°,5 in gennaio. Entrando nel regno alpino, il fattore altimetrico diviene il preponderante, ma a questo si associano la morfologia, l'orientamento, l'esposizione delle varie località. Dalle zone di fondo valle dove la temperatura si mantiene del tutto simile a quella delle pianure (Domodossola 1°,5 in gennaio; 22°,6 in luglio; escursione 21°,1; Aosta 0°,3; 20°,3 e 20°,6 rispettivamente), salendo lungo le pendici e verso le testate delle valli si passa a un tipo di clima continentale, subnivale, nivale.
L'altro elemento climatico fondamentale è offerto dalle piogge, che presentano una distribuzione caratteristica. Nelle zone di pianura e sulle colline del Monferrato lungo il corso del Tanaro e del Po si ha una piovosità media di 700 mm. annui (Alessandria, 642), che sale gradatamente, avvicinandosi ai margini delle Alpi e dell'Appennino, fino a 1000-1200 mm. (Novi, 934; Mondovì, 852; Cuneo, 1066; Saluzzo, 1075; Ivrea, 1127; Biella, 1190). Entrando nel dominio alpino si nota un'area di altissima piovosità lungo tutta la regione prealpina, che si estende a ovest del Lago Maggiore, tra la valle Leventina, la val d'Ossola e la Valsesia, dove si superano dovunque i 1600 mm. e in molte zone anche i 2 metri all'anno. Tale zona si continua verso occidente, occupando le Prealpi Biellesi, dove la quantità annua supera i 1600 mm.
Tutte le altre vallate alpine e appenniniche presentano una piovosità inferiore quanto a distribuzione corografica, interessantissima dal punto di vista antropico ed economico, e avvertono un'area di minime precipitazioni nella sezione centrale, cui fanno contrapposto la sezione inferiore valliva e la testata, dove le precipitazioni vanno aumentando gradatamente d'intensità. Per quanto concerne la piovosità dell'alta montagna, soltanto dal 1919 si è potuto gradualmente ovviare alla grande deficienza di stazioni di osservazione, mercé gl'impianti di numerosi osservatorî, situati di solito presso le dighe di sbarramento dei laghi artificiali o artificialmente ampliati per l'industria idroelettrica. Quanto alla distribuzione stagionale, si avverte la maggiore siccità per tutte le stazioni durante l'inverno; segue l'estate, mentre i massimi, di solito, s' incontrano nelle due stagioni intermedie, primavera e autunno. Si può quindi addivenire alla classificazione dei tipi fondamentali pluviometrici e cioè del tipo continentale, con massimi estivi e minimi invernali, pochissimo diffuso nella zona piemontese e ristretto alle parti più alte e più interne del sistema alpino, e del tipo sublitoraneo, che ha i suoi massimi nelle stagioni intermedie e più precisamente in primavera nel tipo sublitoraneo piemontese, che si estende in tutta la regione centro-occidentale; e in autunno in quello sublitoraneo appenninico, che interessa la sezione orientale.
Idrografia. - La rete idrografica piemontese è interamente centripeta, inviando tutte le acque al Po, mediante una rete molto fitta di fiumi, che regime, portata, morfologia di bacino, consigliano di classificare in "fiumi alpini e appenninici". Fenomeno di fondamentale importanza per l'economia agraria è quello della risorgenza, che ha il suo massimo sviluppo nelle pianure novarese e vercellese e sporadicamente appare sino nell'alta pianura di Cuneo: a questi fontanili o risorgive si deve il grande numero dei piccoli corsi d'acqua della pianura, che vengono interamente sfruttati a scopo irrigatorio.
Accanto ai numerosissimi bacini lacustri di alta montagna, oggi interessanti particolarmente l'industria idroelettrica, il Piemonte possiede due grandi conche all'estremità nord-orientale, di cui una giace per intero nella regione (Cusio o lago d'Orta), l'altra è divisa tra Piemonte (sponda occidentale), Lombardia (sponda orientale) e Svizzera (sezione settentrionale). Dell'importanza climatica di questi laghi si è già fatto cenno; di quella demografica ed economica si dirà in seguito; quanto ai dati morfologici e morfometrici si rimanda alle rispettive voci.
Popolazione e centri abitati. - Il Piemonte con i suoi 29.353 kmq. rappresenta il 9,4% della superficie del regno, mentre per il numero di abitanti (3.497.799 al 21 aprile 1931) costituisce l'8,5% della popolazione complessiva italiana. È diviso amministrativamente in 7 provincie. Nel 1927 avvenne la scissione delle due provincie di Novara e Torino: dalla prima staccati gli ex-circondarî di Varallo, Biella, Vercelli, nonché i comuni di Villata e Borgo Vercelli, costituenti la provincia di Vercelli che ha ceduto alla provincia di Novara l'ex-comune di Campello Monti, e la frazione Isella del comune di Valduggia; dalla seconda gli ex-circondarî d'Ivrea e d'Aosta, formanti l'attuale provincia di Aosta. Con regio decr.-legge del 1° aprile 1935, n. 296, veniva poi creata la 7ª provincia, quella di Asti, comprendente 105 comuni dell'antica provincia di Alessandria, con una superficie di kmq. 1512,51 e una popolazione presente (1931) di 253.216 ab. (nella trattazione si è tenuto conto, per altro, delle circoscrizioni provinciali anteriori al 1° aprile 1935). Le provincie hanno in generale, soprattutto in pianura, limiti prettamente convenzionali e non sono unità morfologiche ben definite, nel senso che entro i loro confini amministrativi includono paesaggi di origine, costituzione geologica e litologica diversissime, i quali, insieme con . la svariatissima altimetria, recano di conseguenza quella varietà di aspetti demografici, che è uno degli elementi caratteristici della regione piemontese. Tutto il territorio è diviso in 1068 comuni (1934), cifra notevolmente inferiore a quella di 1489 dell'anno 1921, dovuta alle numerosissime riduzioni di comuni, avvenute nel periodo 1927-29, che hanno interessato particolarmente l'alta valle d'Aosta e la valle d'Ossola, ma soprattutto la sezione collinare pedemontana, i vasti anfiteatri morerenici e lacustri subalpini, come quelli che presentavano un grande numero di unità amministrative di ridottissime dimensioni e di scarsa consistenza demografica. Comunque il Piemonte tiene il secondo posto, dopo la Lombardia, per numero di comuni: questi hanno una superficie e una popolazione media nolto inferiore a quella del regno (27,5 kmq. in media per comune in Piemonte e 42,4 per il regno: 3281 ab. per comune in Piemonte e 5632 per il regno). La densità, per kmq., è di 119 ab., leggermente inferiore a quella del regno (133): questo stato di cose si spiega con l'alto grado di montuosità raggiunto dalla regione. Le provincie naturalmente accusano differenze notevolissime, andandosi da un massimo di 209 per la provincia di Torino (l'influenza della metropoli è decisiva) a un minimo di 47 per Aosta, la provincia tipicamente alpestre. Oltre Torino, solo Alessandria supera la densità media del regno (149). Scendendo a un'analisi più minuta, si possono mettere in chiara luce tutti i differentissimi aspetti del problema demografico, in diretta relazione con l'ambiente naturale, storico ed economico. Poche regioni, come il Piemonte, sono in grado di poter offrire tanta messe di osservazioni e di deduzioni. Con i dati del censimento 1931, riferiti alle singole unità amministrative, e le relative modificazioni sino al 31 dicembre 1934, è stata costruita l'unita carta della densità di popolazione. Si osservano contrasti straordinarî, dipendenti da molteplici cause, soprattutto di ordine fisico.
Un lato interessante della demografia piemontese è costituito dalla varia diffusione della popolazione sparsa, indice di particolari condizioni economiche: purtroppo le cifre ufficiali al riguardo sono ben lontane dall'offrire garanzia di veridicità, per la confusione che molto spesso viene fatta fra centro geografico, frazione di censimento e abitazione sparsa. Comunque, il Piemonte non presenta una forte percentuale di popolazione che vive a diretto contatto con la campagna; ma il valore medio della regione (18%) è largamente superato dalle provincie tipicamente agricole (Alessandria 27%, Cuneo 36%), mentre in quelle a base essenzialmente alpina e industriale, le cifre si abbassano notevolmente, con il minimo del 9% nella provincia di Novara.
La diffusione dei centri offre peculiarità salienti, soprattutto per quegli agglomerati urbani, che hanno assunto notevoli dimensioni. Particolari ricerche darebbero, per il censimento 1931, 54 centri con una popolazione presente superiore ai 5000 ab., così distribuiti: 34 con 5001-10.000 ab.; 16 con 10.001-25.000; 1 con 25.001-50.000; 2 con 50.001-100.000; 1 con più di 100.000 ab., da porsi quindi nel novero delle grandi città. Le quattro città con più di 25.000 ab. sono capoluoghi di provineia (Vercelli, Novara, Alessandria, Torino) e la loro ubicazione è determinata da particolari condizioni storiche strategiche (soprattutto per Novara e Alessandria), politiche ed economiche (Torino in primo luogo). Nodi ferroviarî e stradali hanno ricevuto dalla grande industria moderna nuovo impulso vivificatore.
Ottime si presentano nel Piemonte le condizioni dell'alfabetismo, con valori provinciali oscillanti fra il 95 e il 97% della popolazione di età superiore ai 6 anni. Anche la regione di montagna offre percentuali molto confortanti, andandosi da un minimo di 92% per Alessandria a un massimo di 97% per le regioni montuose di Novara e di Vercelli. Paragonando le cifre del 1931 con quelle dei censimenti precedenti, si avverte una continua diminuzione nel numero degli analfabeti.
Accanto al problema statico della popolazione, si ha quello dinamico, che presenta nel Piemonte aspetti e particolari del più alto interesse.
Il problema della natalità ha assunto nella regione piemontese un aspetto veramente preoccupante, assistendosi a una graduale diminuzione dei nati, non compensata dal regresso dell'indice di mortalità. Un'indagine, spinta per provincie e per l'intero compartimento, nel periodo 1881-1931, mette in chiara luce la gravità del fenomeno. Che ci sia un netto rapporto tra bassa natalità da una parte e condizioni ambientali rudi e industrie diffuse dall'altra è bene dimostrato dal fatto che le provincie di Aosta, Torino e Vercelli hanno sempre avuto un'eccedenza di nati inferiore al valore medio del Piemonte in qualunque periodo, mentre la provincia di Cuneo, tipicamente agricola-pastorale, avverte l'indice più elevato e la diminuzione meno violenta. Il fenomeno della denatalità è divenuto oggi pressoché generale, investendo tanto i grossi centri urbani, ricchi d'industrie, quanto i piccoli paesi sparsi per le campagne e annidati su per le montagne. Nel 1931 sopra un totale di 1066 comuni, ben 335 (31%) avevano più morti che nati, col valore massimo di Vercelli (49%) e quello più basso di Cuneo (18%).
Oltre al problema della natalità si deve tener conto di quello delle migrazioni, per ben comprendere e valutare nella sua molteplice vastità il problema del movimento demografico.
Il fenomeno migratorio si presenta molto vasto, multiforme, interessante tutte le regioni del compartimento. Una prima chiara visione dell'entità del movimento si ha paragonando tra di loro le cifre della popolazione censita con quelle della popolazione che si calcola con l'eccedenza dei nati sui morti. La popolazione censita è quasi sempre inferiore a quella calcolata, e la cifra risultante dà l'eccedenza dell'emigrazione sull'eventuale immigrazione. Siamo di fronte ad esodi in grande stile, soprattutto nel periodo 1901-1911 con una differenza eccedente di emigrati pari a ben 155.270 persone, valore che si riduce a 77.847 nel periodo successivo, per tramutarsi in una eccedenza d'immigrati negli anni 1921-31. Ma tale risultato, complessivo per il Piemonte, nasconde differenze profonde tra provincia e provincia, ché, mentre Alessandria, Aosta, Cuneo e Novara accusano sempre, in tutti i periodi, eccedenza di emigrati, Vercelli nell'ultimo periodo presenta una notevole immigrazione eccedente; Torino, poi, in tutti e tre i periodi avverte valori cospicui di immigrati, col massimo di 108.385 nel 1921-31. L'emigrazione verso l'estero si è sempre mantenuta molto attiva: circa 30.000 emigrati all'anno nel periodo 1876-84; 63.600 nel periodo precedente la guerra mondiale; 25.000 durante il conflitto; 48.000 negli anni 1919-1924; 47.000 nel periodo 1931-33. Ha sempre prevalso l'emigrazione verso i paesi europei, soprattutto verso la Francia e la Svizzera, quantunque nel periodo 1904-1913 l'esodo verso i paesi transoceanici avesse raggiunto l'alta cifra relativa del 42%. Attualmente l'emigrazione verso questi paesi è ridottissima (5%) per le restrizioni da essi imposte all'immigrazione. Quanto alle provincie, Alessandria ha sempre inviato più della metà dei suoi emigrati soprattutto verso le Americhe, mentre tutte le altre avvertono spiccatissima tendenza per i paesi europei. Ne deriva una delle caratteristiche peculiari dell'emigrazione piemontese, che è appunto la temporaneità. Quanto ai mestieri esercitati, prevalgono gli operai qualificati, gli addetti all'industria edilizia e gli artigiani, seguiti dagli addetti all'agricoltura. Salvo rare eccezioni, il numero degli emigrati è sempre superiore a quello degl'immigrati, con un deficit migratorio pari a un totale di 89.000 persone nel 1929-33 (17.800 persone di media all'anno), con i valori più cospicui nelle provincie di Cuneo e di Torino. Uno spostamento demografico interessante è offerto dalle cosiddette migrazioni interne: nel periodo 1930-32 si ebbe annualmente un'emigrazione interna di 27.000 individui, accanto a un'immigrazione di 73.000 persone, di cui l'80% provenienti da altre provincie. Le zone intensamente risicole del Novarese e del Vercellese assorbono gran parte di questa massa immigrante (55-60.000 persone) composta in assoluta maggioranza di giovani donne, addette alla monda e al raccolto del riso.
L'analisi dell'incremento naturale della popolazione e delle correnti migratorie permette di sintetizzare il quadro delle variazioni demografiche piemontesi, che presentano condizioni profondamente diverse fra le varie parti della regione. Nel periodo 1871-1931, la popolazione del Piemonte è aumentata di appena il 21%, mentre nello stesso periodo si ha per l'intero Regno una variazione positiva del 53,6% (non si dimentichi per altro che a questa variazione positiva concorre l'annessione della Venezia Tridentina e Venezia Giulia). Il ritmo di ascesa non è costante: si mantiene buono nel trentennio 1871-1901, tanto che la popolazione avverte un aumento assoluto percentuale del 14,3%. Il fiorire industriale e la larga eccedenza dei nati sui morti neutralizzano ancora i vuoti dell'emigrazione: così Novara ha nel trentennio un aumento assoluto del 23%, Torino del 20,5%, Vercelli del 15%; Alessandria colma con i suoi numerosi nati i vuoti dei partiti ed è in notevole aumento; le provincie di Cuneo e di Aosta, che sempre hanno dato luogo a una forte emigrazione e non presentano zone di particolare richiamo demografico, avvertono aumenti lievissimi, dovuti per intero alla buona eccedenza dei nati sui morti. Col sec. XX le condizioni peggiorano: l'aumento percentuale assoluto per decennio si riduce a circa il 4%; dal 1911 al 1921 si avverte anzi diminuzione di popolazione. È in questo periodo che il contrasto tra le provincie si fa acuto: quelle agricole e alpine sono in completa diminuzione (Alessandria, Aosta, Cuneo; Novara con ottima agricoltura e fiorenti industrie, ma anche con vaste plaghe montane in diminuzione demografica, avverte aumenti modesti, con una leggiera diminuzione nel decennio 1911-1921); Vercelli diminuisce costantemente dal 1901 al 1921 per risalire leggermente nell'ultimo decennio. A salvare la situazione interviene la provincia di Torino, la quale avverte un aumento costante ben superiore al valore dell'eccedenza dei nati sui morti: è in questo caso l'immigrazione eccedente, come già si è fatto cenno, che porta al magnifico incremento. Ma l'esame delle variazioni demografiche relativo alle provincie non mette in luce la realtà del fenomeno: accanto a zone ove l'aumento della popolazione è continuo, per attività industriali, commerciali, turistiche, di studio, stanno plaghe ove l'esuberanza della pressione demografica, il cattivo regime di natalità, l'eccedenza dell'emigrazione portano a una continua diminuzione di popolazione. Tutta la montagna piemontese si spopola. Recenti indagini su questo preoccupante problema, che va sotto il nome di spopolamento montano, mettono in chiara luce la gravità del fenomeno. I risultati delle indagini, condotte per il periodo 1871-1921, per 16 vallate e gruppi di valli, dalla valle Vermenagna al bacino del Toce, sono davvero impressionanti, perché siamo di fronte a un vero sfacelo demografico.
Condizioni economiche. - La ripartizione della popolazione di età superiore ai 10 anni a seconda della professione o condizione, permette di farci un'idea sufficientemente chiara delle reali condizioni economiche del Piemonte. Esso, su 100 persone presenti al 1931 con oltre 10 anni, ne ha 38,6 di condizioni non professionali (soprattutto donne intendenti alle faccende domestiche); 25,2 addette all'agricoltura con i valori più elevati nelle provincie di Alessandria, Aosta, Cuneo (32-37% dell'intera popolazione) e quelli più bassi nelle altre con il minimo di Torino (14%); ha il 22,4% di persone occupate nelle industrie e nell'artigianato, con i valori più elevati nelle provincie di Novara, Vercelli, Torino; il 5% di persone occupate nel commercio, con i valori più alti in Torino, Vercelli, Novara, Alessandria. Si viene così a delineare un profondo, significativo contrasto tra le provincie essenzialmente agricole-pastorali da una parte e quelle con importanti, diffuse industrie dall'altra.
Prima di iniziare una rapida disamina delle condizioni agricole è indispensabile accennare a quello che è il coefficiente fondamentale dello sviluppo di tale attività economica, vale a dire all'irrigazione, che trova il suo ambiente più favorevole nella pianura, soprattutto nella sezione alluvionale recente, sempre più estesa procedendo verso oriente, compresa fra il diluvium e l'asse vallivo del Po. L'irrigazione è favorita, oltre che dalle buone condizioni morfologiche, dalla presenza di abbondante acqua, ricavata dai fontanili e dalle risorgive; dai fiumi, che, alimentati da ghiacciai, hanno le massime portate da maggio ad agosto, oppure in prima era e in autunno, quando ricevono acqua unicamente o quasi dalle precipitazioni (esempio tipico il Tanaro); in minor misura dalle falde freatiche, dalle quali l'acqua viene meccanicamente estratta, come si verifica, su larga scala, nella provincia di Alessandria, principalmente tra il capoluogo e Tortona, ove esistono circa 600 pozzi tra grandi e piccoli irriganti una superficie di 7000 ettari, e nei territorî di Carmagnola e Racconigi nelle pronuncie di Torino e Cuneo. L'arte della canalizzazione delle acque derivate dai fiumi ha nel Piemonte un passato glorioso di secoli, ma tutto l'antico sistema irriguo piemontese, fra la Dora Baltea e il Ticino, ha subito una vera e grandiosa rivoluzione nella seconda metà del sec. XIX, per mezzo del Canale Cavour e suoi diramatori, opera gigantesca voluta dal grande statista piemontese e condotta a compimento dal suo successore, il ministro Quintino Sella, negli anni 1863-1866. Diramatore principale del Canale Cavour è il Canale Quintino Sella. Nel complesso la superficie irrigata in Piemonte assomma a 389.000 ettari, pari al 15% della superficie produttiva: per questo riguardo la regione è superata soltanto dalla Lombardia.
Agricoltura. - Dal punto di vista agricolo-pastorale e forestale il Piemonte presenta caratteristiche salienti: le condizioni altimetriche del territorio spiegano l'alta percentuale del terreno improduttivo (13,6% di contro all'8% del regno), con i valori più elevati nell'alpestre provincia di Aosta (26,5%) e in quella di Novara (27,9%, Ossola; bacini lacustri del Cusio e del Verbano). Il valore minimo è offerto dalla collinare provincia di Alessandria. La ripartizione percentuale delle colture è data dalla tabella a pag. 180.
I seminativi riguardano soprattutto i cereali (6-7/10 della superficie a seminativ¡). Tra questi primeggia il frumento (313.000 ettari nel periodo 1909-1914; 334.600 nel 1919-1922; 334.225 nel periodo 1926-1929; 310.000 negli anni 1931-1933). La sua produzione, che fu di 4 milioni di quintali nel periodo prebellico, sale a 6 milioni negli ultimi anni, avvertendo quindi un aumemo continuo della produzione media per ettaro. Il Piemonte supera quindi il valore medio del Regno, ed è superato a sua volta soltanto dalla Lombardia, dal Veneto e dall'Emilia. Anche nel Piemonte la coltivazione del grano è tipicamente collinare e pianeggiante: come sempre, all'abbassarsi dei limiti altimetrici si accompagna un aumento nel rendimento unitario per ettaro.
Valore molto più modesto hanno gli altri cereali: la segala, coltivata su una superficie di 40-50.000 ettari, con una produzione di 600-700.000 quintali di media all'anno (diffusa soprattutto nelle provincie di Cuneo e di Torino); l'orzo, coltivato su circa 1500 ettari, con una produzione di 15-16.000 quintali, quasi per intero diffuso nelle provincie di Torino, Aosta e Cuneo, assente, o quasi, nelle provincie di Vercelli e Novara; l'avena (16-17.000 ettari e 250-300.000 quintali), coltivata in tutte le provincie ad eccezione di Aosta, ove non si raggiungono neppure i 1000 ettari. Ben maggiore importanza ha la coltura del mais, coltivato su 120.000 ettari circa, cui si deve aggiungere una piccola aliquota destinata al mais cinquantino, e diffuso in tutte le provincie, con una produzione annua oscillante fra i 2,5-3 milioni di quintali (preminenza della provincia di Cuneo): il mais trova un ambiente favorevole, avendo bisogno di molta umidità e di un periodo estivo molto caldo per la maturazione.
Intimamente connessa con l'irrigazione è la coltivazione del riso, per la quale il Piemonte occupa il primo posto in Italia: la superficie si aggira sui 60-70.000 ettari, pari a oltre la metà del totale nazionale, ed è concentrata nelle due provincie di Novara e Vercelli e in qualche zona pianeggiante dell'Alessandrino. La produzione ha avuto notevole incremento, salendo da 1,6 milioni di quintali nel periodo 1870-1874 a 2-3 milioni. Alla risaia stabile si è venuta sostituendo quella avvicendata, che offre maggiori requisiti sanitarî e di produzione, come pure al sistema della semina a spaglio si è sostituita dal 1912 quella più redditizia del trapianto. La coltivazione del riso presenta caratteristiche salienti, prime fra tutte la monda, che richiama sul posto grande quantità di mano d'opera forestiera.
Ai cereali seguono come importanza i foraggi, che permettono un intenso allevamento e favoriscono tutta una serie d'industrie con esso collegate. Essi sono ottenuti dai prati artificiali e dagli erbai (le cui superficie, pari a circa 250.000 ettari, sono incluse nei seminativi e si diffondono quasi interamente nella pianura, in relazione diretta con le possibilità irrigue); dai prati permanenti irrigui e asciutti (in totale 350.000 ettari, diffusi principalmente nelle provincie di Cuneo e di Torino); dai pascoli permanenti, vasti ben 413.000 ettari e diffusi in tutta la cerchia alpina, il che spiega gli altissimi valori delle provincie di Cuneo, Aosta, Torino. La produzione foraggera, ragguagliata a fieno normale, si aggira sui 28-30 milioni annui di quintali, quasi interamente ottenuti dai prati naturali e artificiali: dai pascoli si ricavano in media 1-2 milioni di quintali soltanto, data la notevole altezza delle aree in questione, la povertà agraria dei terreni e l'uso per l'alimentazione diretta estiva del bestiame. Per produzione foraggera il Piemonte viene dopo la Lombardia, l'Emilia e il Veneto.
Tra le altre coltivazioni sono da ricordare quella delle patate (produzione di 1.89.4000 quintali nel periodo 1909-1920; 2,2 milioni nel periodo 1929-1933), diffusa specialmente nelle provincie di Torino e di Cuneo; quella dei legumi, tra i quali meritano particolare menzione i fagioli, coltivati su una superficie di 34.000 ettari e con una produzione di oltre 200.000 quintali, per cui il Piemonte occupa il 3° posto dopo la Campania e il Veneto: la provincia tipica a tale riguardo è quella di Cuneo. La coltivazione dei fagioli è quasi sempre consociata con altre colture, soprattutto con quella del granturco. Per le fave da seme l'importanza è minima, essendo il Piemonte superato da tutti i compartimenti centro-meridionali-insulari. Gli ortaggi di grande coltura coprono una superficie complessiva di 6-7000 ettari, con una produzione di 600-700.000 quintali (1929-1933), con numerose specialità. Tra le coltivazioni industriali sono da ricordare la barbabietola da zucchero e la canapa; quest'ultima, coltivata su 2955 ettari nel periodo 1924-28, ridotti a 1300 nel 1931-1933, con una produzione di 23.330 e 12.000 quintali rispettivamente, era un tempo molto più diffusa anche nella zona alpina. Oggi la zona più importante è quella di Carmagnola, che produce le migliori qualità esistenti nel Regno.
Tra le colture legnose specializzate, occupa il primo posto il vigneto: secondo il nuovo catasto la superficie occupata si aggira sui 254.000 ettari, di cui 205.000 ettari di vigneto specializzato e 49.000 a coltura promiscua (questa superficie è pertanto inclusa nei seminativi arborati). La provincia di Alessandria ha il primato assoluto con oltre 141.000 ettari pari al 55% del totale. Seguono per importanza le provincie di Cuneo, Torino, Vercelli, Novara: all'ultimo posto sta quella di Aosta, per le sue condizioni altimetriche e morfologiche. In tutte le provincie, salvo quella di Vercelli, predomina la coltura specializzata. La vite ha trovato nella regione piemontese un ambiente molto vario, sia dal punto di vista litologico, sia da quello morfologico e climatico, ma su ogni terreno essa si è acclimata, dalle zone alluvionali alle colline moreniche pedemontane, ai colli terziarî del Monferrato, sulle pendici a solatio delle vallate alpine, spingendosi fino a 800-1000 m. di altezza. Il numero dei vitigni coltivati in Piemonte è notevolissimo, ma le varietà che effettivamente costituiscono la fisionomia della viticoltura piemontese sono relativamente poche: il Nebbiolo di Piemonte e lo Spanna di Gattinara, diffusi nelle provincie di Cuneo, Novara e Vercelli; la Barbera originaria del Monferrato; la Bonarda, diffusa, si può dire, in tutte le provincie del Piemonte; la Fresa, o Freisa, o Fresia, soprattutto coltivata sulle colline torinesi e nel Monferrato; il Dolcetto degli ex-circondarî di Alba, Acqui, Novi, Mondovì, Saluzzo, Tortona; il Grignolino, coltivato specialmente nell'Astigiano, ma che si estende anche nell'Alessandrino e nel Casalese; il Lambrusco del Monferrato e delle Langhe; il Moscato di Canelli, apprezzatissimo, nelle Langhe, nel Monferrato, sulle colline di Canelli e Calosso d'Asti, in qualche zona della provincia di Cuneo.
La produzione complessiva delle uve è stata di 8,8 milioni di quintali nel periodo 1909-1920; si è contratta sui 6-7 milioni nel periodo 1929-1933 con forti sbalzi fra anno e anno. Le provincie di Alessandria e, in minor misura, di Cuneo dànno le più alte cifre di produzione. La massima parte delle uve è destinata alla vinificazione (85% per Alessandria; 90% per Torino e Aosta; 99% per Novara e Vercelli): fa eccezione la provincia di Cuneo, che offre un notevole contingente destinato alla vendita. Si tratta più che altro delle uve da tavola, che non hanno ancora raggiunto in Piemonte una grande importanza, quando si eccettui la regione collinare da Bra a Cisterna d'Asti in provincia di Cuneo, ove tale coltivazione occupa il 30% della superficie vitata dell'intera zona. La produzione di vino, che fu di 5-6 milioni di ettolitri nel periodo 1909-1920, si è contratta attualmente sui 4-5 milioni. Il Piemonte va meritatamente famoso per i suoi vini fini da pasto e da bottiglia; ognuna delle sue provincie può vantarne.
Le condizioni climatiche del Piemonte si prestano molto bene anche alla frutticoltura, eccezion fatta, bene inteso, per quelle categorie (tipo agrumi) che esigono condizioni termiche invernali molto più elevate. Il frutteto non è quasi mai specializzato, ma il più delle volte inframmezzato alle colture. Prevale in maniera assoluta la categoria delle pomacee: la produzione di mele (500-600 mila quintali annui) pone il Piemonte in testa alle regioni italiane; così per le pere e le cotogne (200-250.000 quintali annui) la posizione è sempre preminente. Ma una coltivazione a base industriale, quella del pesco, si è diffusa nel comune di Sàntena (Torino) e nell'Albese, nella regione collinare da Bra a Cisterna d'Asti.
Tra le piante arboree tipiche del Piemonte è ancora da ricordare il castagno, diffuso per circa 120.000 ettari, su un totale nazionale di 600-620.000 ettari, con una produzione di circa 800.000 quintali. È una coltura spontanea, tipica della regione alpina fino a un'altezza di 800-1000 metri, diffusa soprattutto sul versante a bacìo. Tutte le vallate ne sono fornite, con assoluta prevalenza nel Cuneese (Val Stura 17%, Valle del Gesso 25%, Valle Vermenagna 24,5% della superficie geografica), ove si hanno le qualità più pregiate e famose (marroni), molto adoperate per la confetteria: Cuneo, Saluzzo e Mondovì sono i mercati più importanti. Nelle zone del castagno si sono diffuse le fabbriche per l'estrazione di sostanze tanniche.
Il problema del bosco, anche nel Piemonte, presenta aspetti multiformi: quasi assente nelle zone di pianura e di collina, ove ha ceduto il posto alle colture, e dove attualmente si fanno piantagioni artificiali (pioppi) per l'industria della carta, esso si diffonde soprattutto nelle zone di montagna, ove lungo i fianchi delle vallate si distribuisce in zone a seconda dell'altimetria e dell'insolazione. La superficie complessiva boscata per il Piemonte supera di poco i 500.000 ettari (17,2% della superficie geografica; 19,7% di quella produttiva). Le provincie maggiormente provviste sono quelle di Cuneo (19% della superficie produttiva), Aosta (24%), Novara col massimo del 31% (si ricordino le importanti distese boschive dell'Ossola e della conca verbanese). Come in altre regioni d'Italia, così anche in Piemonte il problema del rimboschimento montano è di grande interesse e fa parte del gigantesco piano della bonifica della montagna, attualmente in esecuzione.
Allevamento. - Un ramo cospicuo dell'economia piemontese è costituito dall'allevamento, che trova buone condizioni di ambiente e di vita e che alimenta notevoli industrie. Il censimento del 1930 dava per le singole categorie le seguenti cifre (migliaia di capi): cavalli 74 (22,5% di aumento rispetto al 1908); asini 13 (−12,2%); muli e bardotti 25 (−8,4%); bovini 1022 (5,1%); suini 208 (+11,8%); ovini 176 (−30,6%); caprini 90 (−39,8%). Si osserva il netto prevalere dell'elemento bovino, il che è spiegato dall'estensione ragguardevole di prati artificiali e permanenti, aiutati dalla facile e abbondante irrigazione, e di pascoli grassi di alta montagna. Come numero assoluto di bovini la regione occupa il quarto posto, dopo la Lombardia, l'Emilia, il Veneto.
Le principali razze bovine del Piemonte sono la Piemontese, con le sottorazze Demonte e Albese; la Valdostana, con la sottorazza di Oropa; la Savoiarda o di Susa. Inoltre si hanno bovini tortonesi, scarsi di numero, con mantello rosso intenso; numerosi esemplari della razza Schwyz, che viene allevata nella Valle d'Ossola e nelle pianure vercellese e novarese; infine capi di razza Frisone, Simmenthal e Charolaise.
Per l'allevamento ovino il Piemonte occupa uno degli ultimi posti. Le provincie più dotate sono essenzialmente montuose (Cuneo 67.500), Torino (45.000), Aosta (22.300). È appunto nelle zone montane ove si sono diffuse le razze migliori: la Biellese, quella delle Langhe, la Garessina, la razza di Frabosa, di Sambuco, ecc. Una delle caratteristiche dell'allevamento ovino piemontese è che esso è quasi costantemente connesso con l'azienda agraria. Esso può essere sedentario, nomade e misto: quello nomade, un tempo molto importante, prevale ancora in alcune zone del Cuneese, nella provincia di Torino, nel Biellese, nelle pianure di Alessandria e Tortona. Un allevamento in decadenza è quello dei caprini, che vede una perdita del 40% dal 1908 al 1930. È un allevamento tipicamente montano, che le numerose tasse e i molteplici vincoli vanno riducendo ogni giorno più, con grande scapito dell'economia alpina essenzialmente pastorale. L'allevamento bovino, ovino e caprino presenta nelle vallate alpine il fenomeno della transumanza o nomadismo pastorale, assai importante e che nel Piemonte presenta grande varietà di aspetti (v. alpi).
L'allevamento dei suini ha preso largo sviluppo in Piemonte (5° posto, dopo Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana); è un allevamento tipico della pianura, che ha raggiunto un'attrezzatura industriale nelle zone ricche di caseifici. In genere prevale l'industria dell'ingrassamento, per cui sono necessarie ingenti importazioni di lattonzoli e magroni; prevale il piccolo sul grosso allevamento ed è quasi esclusivo l'allevamento stallino. Tra le razze preferite all'importazione è da mettere quella dello Yorkshire con il suo derivato, il cosiddetto Faentino. L'allevamento dei cavalli non ha particolare importanza, né il Piemonte presenta a questo riguardo caratteristiche degne di rilievo.
Corollario dell'azienda domestica agricola è anche l'avicoltura, che è lontana ancora dal presentare quel perfezionamento cui tendono oggi gli sforzi del governo e degli enti a ciò preposti. Nelle campagne di Chieri, Carmagnola, Saluzzo, Fossano, Savigliano si fanno allevamenti per alimentare la vicina metropoli e per l'esportazione a Milano. Meritano menzione le oche e le anitre diffusissime nel Vercellese e nel Novarese, soprattutto nella zona a riso.
Un allevamento, connesso con una delle più gloriose industrie nazionali, è quello del baco da seta, che con metodi casalinghi si diffonde nella zona del gelso (produzione della foglia intorno ai 2 milioni di quintali nel periodo 1924-1932), dando un raccolto di bozzoli di circa 6.000.000 di kg. (terzo posto, dopo la Lombardia e il Veneto): è alla testa la provincia di Cuneo.
Industria. - Lo sviluppo delle industrie non è recentissimo, perché già prima dell'unificazione del Regno una saggia politica economica aveva permesso il diffondersi e l'affermarsi di varie attività (setificio in prima linea; cotonificio; cartiere; industrie meccaniche, ecc.). L'intenso svolgimento industriale si è peraltro verificato a partire dalla fine del sec. XIX, in relazione anche allo sviluppo assunto dall'industria idroelettrica. Anche le industrie piemontesi vivono in gran parte di materie prime importate, ma hanno trovato nell'ambiente fisico e umano condizioni particolarmente favorevoli di sviluppo: grande quantità di energia idrica, abbondanza di mano d'opera, facilità di comunicazioni e notevole capacità di assorbimento da parte del mercato interno dei prodotti manufatti. Caratteristiche fondamentali dell'industria piemontese sono il frazionamento in tanti centri anche di piccole dimensioni, non favorendo quindi la genesi e lo sviluppo dell'urbanesimo, e l'ubicazione nettamente preferenziale per le zone pedemontana ed entroalpina, in relazione diretta con la maggiore disponibilità di acqua, ciò che appunto si verifica principalmente per le industtie tessili, la cartaria e, in alcune zone, anche per le metallurgiche. Da 75.500 persone occupate nelle industrie nel 1876 si sale a 167.000 nel 1903; 342.000 nel 1911; 549.000 nel 1927 (secondo posto tra i compartimenti italiani, dopo la Lombardia).
Alla mancanza di combustibile fossile (fa eccezione il piccolo giacimento di antracite di La Thuile) il Piemonte ha supplito con lo sfruttamento dell'energia idrica: si contano attualmente 260 impianti idroelettrici e 38 termoelettrici con una potenza di 1,15 milioni di kW, che pone il Piemonte alla testa delle regioni italiane insieme con la Lombardia. La distribuzione delle centrali e dell'energia rispecchia le condizioni ambientali fisiche delle singole provincie: su 221 grandi impianti idroelettrici, quasi 200 appartengono ad Aosta, Cuneo, Novara e Torino. La produzione delle materie prime (miniere e cave) è molto modesta: meritano particolare menzione le miniere di ferro nella Valle di Cogne (Aosta), quelle di talco e grafite nel Pinerolese; le cave di granito e di pietre da costruzione (bacini dell'alto Tanaro, Pellice, Chisone, Dora, Sesia, bacino Cusiano-Verbanese, Ossola); di calcare e gesso (Monferrato; Casale Monferrato è il centro principale per la produzione del cemento), ecc. Tutte le attività industriali sono rappresentate, ma alcune per ampiezza d'impianti e mano d'opera occupata assurgono a particolarissima importanza, prime fra tutte le industrie tessili. Occupando 149.000 addetti (28% del totale), esse comprendono i seguenti rami fondamentali: cotone 57.800 addetti; lana 33.700; rayon 16.800; seta naturale 16.800.
L'industria tessile è il ramo più importante per le provincie di Aosta (40% del totale addetti nella provincia), Cuneo (19%), Novara (33%), Vercelli (55%); ma anche in quella di Torino essa segue a brevissima distanza l'industria meccanica. L'ubicazione dei centri è significativa: dei 45 comuni con più di 1000 addetti all'industria tessile nel 1927 oltre 30 sono localizzati nella zona submontana ed entroalpina, allo sbocco o nell'interno delle valli del Chisone, Dora Riparia, Stura di Lanzo, Orco, Dora Baltea, Cervo-Elvo, Sesia, Toce, Agogna, ecc., oppure sulle sponde del Lago Maggiore: in pianura i grossi stabilimenti tessili si concentrano o a Torino e dintorni o nella pianura tra la Dora Baltea e il Ticino (Vercelli, Novara, Galliate, Trecate, ecc.). L'industria della lana ha il centro più rinomato nel Biellese e nelle vallate contermini del Sessera e della Sesia (celebri le filature di Borgosesia); il cotonificio ha largo sviluppo nella zona verbano-cusiana, ove si localizzò, favorito dalle vie d'acqua per l'arrivo della materia prima, anteriormente all'apertura della ferrovia Torino-Genova, e nel Novarese, ed è frazionato in numerosi centri delle provincie di Aosta, Torino, Cuneo, e Alessandria; l'industria della seta ha la sua massima diffusione nel Cuneese (Cuneo, Boves, Fossano, Racconigi, ecc.), mentre quella del rayon ha i suoi stabilimenti soprattutto a Venaria Reale, poi a Torino, Asti, Casale Monferrato, Vercelli, Gozzano, Pallanza, Ivrea, Châtillon.
Seguono per importanza le industrie siderurgiche e metallurgiche, e quelle meccaniche, con 121.000 addetti. Le industrie siderurgiche (21.800 operai) sono per oltre la metà localizzate nella provincia di Torino: 10.260 addetti vivono nella sola città di Torino, cui fanno corona Novi Ligure, Tortona, Aosta con i suoi alti forni, Novara, Omegna, Villadossola. È notevole l'ubicazione entroalpina di molti di questi centri metallurgici in relazione alla larga disponibilità di energia idrica ed elettrica. Anche le industrie meccaniche (80.654 addetti) sono concentrate per il 67% nella sola provincia di Torino: nel comune capoluogo l'industria meccanica conta 44.546 addetti, per cui la metropoli occupa un posto di prim'ordine nell'economia italiana. Seguono numerosi centri di pianura, ricchi di popolazione, grandi nodi di strade e ferrovie, quali Alessandria, Savigliano, Santhià, Vercelli, Novara, cui fanno seguito numerosi altri nelle zone pedemontane ed entroalpine (Novi Ligure, Villar Perosa, Pinerolo, Bussoleno, Condove, Forno Canavese, Ivrea, Biella, Omegna). Emergono la fabbricazione delle automobili (20.500 addetti), concentrata soprattutto a Torino, con la grande industria connessa della gomma, e quella del materiale ferroviario (5440 addetti) nei centri di Torino, Pinerolo, Savigliano, ecc. Come numero di addetti segue l'industria del vestiario (60.952 di cui 24.671 nella provincia di Torino e 15.013 in quella di Alessandria): l'industria riguarda la sartoria in genere, il maglificio e guantificio (Torino), il cappellificio, per cui gode meritata fama Alessandria (fabbriche Borsalino). A Torino è stato creato recentemente l'Ente nazionale della moda. Un'industria che ha assunto particolare importanza durante e dopo la guerra mondiale è quella chimica, con 15.000 addetti di cui 10.600 nella sola provincia di Torino, soprattutto a causa della lavorazione del caucciù nel capoluogo. Fiorente è anche l'industria delle pelli e del cuoio (7700 addetti, di cui 5000 nella provincia di Torino e 3342 nel solo capoluogo), ma soprattutto quella della carta (8641 operai) localizzata con assoluta preferenza nei centri pedemontani ricchi di acque (Ormea, Verzuolo, Cirié, Mathi, Germagnano, Crevacuore, Serravalle e Romagnano Sesia, Crusinallo, Lesa, Trobaso): come potenza emergono le cartiere di Verzuolo e Serravalle Sesia, tra le più importanti d'Italia. Connessa con la precedente è l'industria poligrafica (7200 addetti), quasi interamente concentrata a Torino, uno dei centri editoriali di maggiore importanza. Le industrie alimentari (37.100 addetti) riguardano tanto stabilimenti enologici, localizzati nelle zone viticole e a Torino, quanto stabilimenti per la filatura e brillatura del riso (Novara, Vercelli), ecc. Un'industria tipicamente torinese è quella dei dolciumi (cioccolata, caramelle), che ha assunto un'importanza nazionale. Nelle zone ricche di prati fioriscono le industrie dei latticinî e delle carni.
Vie di comunicazione. - Grande importanza ha assunto il Piemonte anche per quanto riguarda le comunicazioni stradali e ferroviarie, tanto per l'interno, quanto, e soprattutto, per l'estero. La prima ferrovia costruita fu la Torino-Alessandria-Genova, iniziata nel 1848 e terminata nel 1853, che così grande benessere recò alla regione, soprattutto dal punto di vista industriale, emancipandola quasi interamente dalla dipendenza adriatica. Nel 1871 avveniva attraverso la Galleria del Fréjus il primo allacciamento con l'estero. Attualmente la rete ferroviaria piemontese statale e privata misura 2194 km., il che rappresenta il 9% del totale nazionale. Tutto il traffico ferroviario s'impernia sulle due grandi arterie, a doppio binario, quella che dal confine di stato, per Bussoleno, giunge a Torino e prosegue sino al Ticino, passando per Chivasso, Santhià, Vercelli, Novara, sezione occidentale della grande arteria pedemontana Torino-Trieste, e l'altra che dalla capitale prosegue verso sud-est e attraversando il Monferrato e toccando i centri di Asti, Alessandria, Novi Ligure, sottopassato l'Appennino, giunge a Genova, innestandosi alla linea proveniente da Ventimiglia, per proseguire verso sud, per Roma, Napoli, sino a Reggio Calabria. Ad Alessandria si stacca il tronco, a doppio binario anch'esso, per Piacenza, permettendo così le comunicazioni più rapide fra Torino e la costa adriatica (linea pedeappenninica). A queste arterie si allacciano, si può dire, tutte le altre. Dal punto di vista geografico meritano particolare menzione le linee transappenniniche, che conducono nel Genovesato, attualmente tutte elettrificate (linea di Savona, la doppia linea per Genova, la succursale di Ovada), e le transalpine (transiti internazionali del Breil, di Modane, del Sempione, di Domodossola). Le linee entralpine presentano caratteristiche particolari: o sono di carattere prevalentemente strategico, o rispondono anche a requisiti economici salienti (industrie e turismo), e sono numerosissime. L'elettrificazione delle linee ha assunto proporzioni notevoli, inferiori soltanto a quelle del vicino Genovesato, soprattutto nelle provincie di Torino, Cuneo, Alessandria: emergono fra tutte la linea da Torino a Modane e quella da Torino a Genova. Tutti i transiti internazionali sono oggi elettrificati. Come importanza di traffico e linee irraggianti sono da ricordare i ganglî fondamentali di Torino, Vercelli, Novara, con la succursale di Vignale, Asti, Alessandria.
Accanto alle ferrovie private e statali, meritano speciale menzione le tramvie extraurbane, che misurano 790 km. di lunghezza, ponendo il Piemonte al 2° posto dopo la rete lombarda, con una densità di 2,7 km. per 100 kmq.
La presenza di conche lacustri ha permesso lo sviluppo di un servizio di navigazione per merci e passeggeri sul Lago d'Orta e sul Lago Maggiore (sponda piemontese e lombarda; sezione svizzera).
Accanto ai mezzi ferroviarî e lacuari si ha l'imponente sviluppo delle arterie stradali, di cui 1413 km. di strade statali. Alle vie interne e di comunicazione interregionale sono da aggiungere le arterie internazionali, che attraversano valichi famosi nella storia medievale e moderna, con caratteristiche altimetriche rudi.
Accanto a queste abbiamo quelle nazionali transappenniniche, che attraverso i non difficili valichi delle Alpi e dell'Appennino Ligure uniscono il Piemonte con la Riviera Ligure di Ponente.
Esistono inoltre numerosissime rotabili entroalpine ed entroappenniniche, che portano di solito alla testata delle vallate e compiono una funzione economica importantissima d'integrazione dei servizî ferroviarî. Tutte queste strade sono attualmente servite da linee automobilistiche in servizio pubblico (383 nel 1933 con una lunghezza complessiva di 8470 km.). Di recente costruzione è l'autostrada Torino-Ticino, proseguente per Milano, sezione occidentale della grande arteria pedemontana Torino-Trieste. La buona viabilità ha permesso un grande sviluppo dei mezzi automobilistici. Alla fine del 1933 gli autoveicoli sommavano a 64.000 (13% del totale nazionale); le autovetture erano 31.246 (12,5%).
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Preistoria.
Il Piemonte fu la parte d'Italia che più tardi entrò nella vita preistorica italiana, come fu una delle ultime a risentire i benefici della civiltà latina. Nel Piemonte, sbarrato da alte montagne per lunghissimo tratto, privo di facili comunicazioni con molte genti, non passarono grandi correnti etniche, o appena lo lambirono. La superiore Valle Padana, lontana dal mare, non accolse mai colonie di popoli che più presto fossero saliti nella scala del progresso.
Finora non si scopersero nella superiore Valle Padana vestigia dell'uomo che fu in possesso della più remota civiltà della prima età della pietra (paleolitico inferiore), e molto dubbia vi è anche la più recente civiltà della stessa prima età della pietra (paleolitico superiore). La finitima Liguria Marittima, più favorita da ragioni geografiche, diede per contro resti di ambedue queste civiltà paleolitiche (v. liguria: Preistoria). Oggi si dovrebbe ritenere che l'uomo abbia posto sede nella superiore Valle Padana solo quando essa cominciò a divenire abitabile, soltanto cioè col graduale cessare dei rigori delle grandi espansioni glaciali, con il raddolcimento del clima, che a poco a poco diveniva l'attuale, con lo smagrimento degli estesissimi corsi d'acqua quaternarî, con il lento restringersi delle vaste paludi. Anche in tutta la superiore Valle Padana, ed entro le stesse valli alpine, ci appare infatti diffuso dappertutto l'uomo in possesso della civiltà della seconda età della pietra, o neolitica, quando agli utensili di selce scheggiata - sempre più perfezionati - si erano aggiunte le asce, le accette e gli scalpelli di pietra levigata, ed era divenuta di uso comune una primitiva ceramica. Gli utensili di pietra levigata, tratti dalla serpentina, dalla giadeite e da altre rocce affini delle vicine Alpi ed Appennini, si raccolsero particolarmente copiosi in Piemonte, forse ancor più copiosi che nella finitima Liguria Marittima. Citiamo l'esteso villaggio di capanne a fior di terra venuto in luce presso Alba (Cuneo), esplorato da G. B. Traverso, e il riparo sotto roccia di Vayes, non lungi dallo sbocco della Val Susa, esplorato da A. Taramelli. Il villaggio di Alba appare di tempi neolitici non recenti, ai quali potrebbe pure essere attribuito il giacimento di Vayes. A Mongiove ed a Villanova Baltea vennero in luce sepolcreti neolitici, esplorati da E. Schiaparelli, G. E. Rizzo, P. Barocelli. Vi appare chiaro l'uso del seppellimento secondario, cioè del riseppellimento del cadavere ormai privo delle parti molli, nella rituale posizione contratta sul fianco sinistro. L'attribuzione al neolitico di questi sepolcreti valdostani è giustificata anche dall'assenza di ceramica: si deve tuttavia considerare che in fondo alle remote valli alpine la civiltà si mantiene solitamente arcaica, specie se si tratti di manifestazioni aventi attinenza con concetti religiosi.
Nel corso del terzo millennio a. C. s'introdussero, rari, i primitivi oggetti di rame puro in mezzo alle armi e utensili litici delle fogge più perfezionate. Con ciò l'aspetto della civiltà, da quello propriamente neolitico, divenne eneolitico. Per le ricordate condizioni geografiche della regione, l'eneolitico appare esservi stato ancora più povero e ritardatario che nel resto della Valle Padana, nonostante che la regione piemontese fosse, fin dalle età litiche, aperta a quanto le veniva dall'Oriente per la Valle Padana stessa.
Gli scavi e le ricerche non hanno condotto ancora al possesso di dati tali da fare riconoscere se, come nella Lombardia e nel Veneto, anche nei laghetti subalpini del Piemonte le più antiche palafitte fossero sorte fin dal neolitico. In ogni modo in Piemonte ritroviamo le prime manifestazioni eneolitiche fra i resti degli abitati palafitticoli, nel fondo dei laghetti e delle paludi poi tramutatisi in torbiere. Le palafitte sorte ai piedi di tutta la cerchia alpina, dal Veneto al Piemonte, documentano anche le successive fasi della civiltà del bronzo. Nominiamo i resti dei villaggi palafitticoli di Mercurago (anfiteatro morenico del Lago Maggiore), di San Giovanni dei Boschi (anfiteatro morenico di Ivrea) e di Trana (anfiteatro morenico di Rivoli Torinese, allo sbocco della Val Susa).
Da un villaggio esistente presso Sciolze (collina torinese) uscirono alcuni fittili molto affini a quelli delle palafitte; ne trae conferma l'ovvia supposizione che villaggi di capanne coesistessero a quelli palafitticoli anche nella superiore Valle Padana, così come fu accertato altrove nella pianura padana stessa.
Dall'Appennino ligure-piemontese si ebbero copiosissimi oggetti litici di foggia propriamente neolitica, i quali documentano esservi esistite numerose stazioni neolitiche o di civiltà neolitica attardata. Eccezionali oggetti di bronzo attesterebbero infatti un grande ritardo nello svolgersi della civiltà fra quei monti, analogamente a quanto avvenne presso i cavernicoli della Liguria Marittima. Citiamo ad esempio un villaggio scoperto presso Acqui.
Dalla palafitta di Trana uscirono alcune forme di fusione, le quali confermarono che, col pieno fiorire della civiltà del bronzo, la lavorazione di questo metallo era già molto diffusa. Gli studî e le ricerche di G. Patroni portarono a riconoscere un centro o più centri di fabbricazione di oggetti di bronzo nella Lomellina, non lungi dalla confluenza di due grandi fiumi e, conseguentemente, di due grandi vie di commercio. Il più singolare, forse, e vasto monumento preistorico italiano è costituito dalle oltre 17.000 figure scolpite sulle rocce, a oltre duemila metri di altezza intorno al Monte Bego, nel cuore delle Alpi Marittime (v. liguria: Preistoria).
Le stesse figurazioni di Monte Bego portano nuova prova del fatto che con l'età del bronzo le relazioni commerciali e culturali mediterranee ed europee divenivano via via più intense: inevitabilmente dovevano accompagnarsi con esse infiltrazioni etniche. È ormai riconosciuto che per l'addietro si abusò delle teorie di migrazioni di popoli per spiegare variazioni di forme e mutamenti di civiltà, di materiale, d'industria. Si direbbe che fin dai primi tempi neolitici sia incominciato quel vario e, per noi, indistinto rimescolio di famiglie, di tribù e infine di gentes, che portò attraverso lunghissimo corso di secoli al costituirsi della nazione italiana.
I due riti funebri, inumazione e incinerazione, si possono ritenere, in genere, con le dovute riserve, indizî di diverse razze. Ai Liguri, inumatori, sembra dovuta la cultura neolitica. Se con le palafitte si siano introdotte nuove genti, è molto discusso e incerto. Nei primi secoli del primo millennio a. C., anche nella Valle Padana superiore si diffuse la civiltà della prima età del ferro nella sua facies di Golasecca, documentata principalmente dai grandi sepolcreti del Ticino, del Novarese, del Comasco (Golasecca, Castelletto Ticino, Ameno presso Orta, San Bernardino di Briona, ecc.). Sono, in genere, sepolcreti di cremati: il rito funebre accennerebbe ad Italici. Non si può tuttavia escludere il già antico rito "ligure" dell'inumazione a S. Bernardino: quella inumazione che fu quasi esclusivamente praticata nei vasti coevi sepolcreti dei dintorni di Bellinzona. Se ne avrebbe documento di persistenza di elementi etnici liguri. La "civiltà di Golasecca" appare, in tutto il corso della sua graduale e lenta evoluzione, di carattere arretrato, diremmo quasi barbaro in confronto dei coevi aspetti di civiltà di altre parti della penisola, ben più privilegiate per posizione geografica (i "Villanoviani" di Bologna, i Veneti di Este, ecc.).
Graduale sembra essere stato il passaggio dalla prima età del ferro alla seconda, o gallica. In qualche luogo le industrie galliche poco o tardi pervennero; altrove evidentemente fu più rapida la loro sovrapposizione alle precedenti, come probabilmente fu più rapida la penetrazione e sovrapposizione delle ondate di genti galliche. Ma anche su questi nuovi invasori, come sui Liguri rimasti indipendenti, Roma trionfò, e il Piemonte passò dai tugurî e dalle capanne alle città murate e ben costrutte. A imitazione di Roma anche qui si eressero fori, templi, terme, teatri, archi di trionfo.
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Storia.
In epoca romana il nome di "Piemonte" è sconosciuto, né la regione ebbe mai fisionomia e unità etnografica, politica o amministrativa proprie. Mentre la Liguria venne abbastanza presto in contatto con le armi romane, la regione che chiamiamo Piemonte rimase ancora a lungo indipendente e spartita nel dominio delle popolazioni alpine dei Taurini, dei Salassi, ecc. (v. queste voci). Qualche lembo del Piemonte meridionale restò compreso nella Gallia Cisalpina, ma solo in epoca augustea, domati nel 25 a. C. i Salassi della Val d'Aosta, la regione intera entrò nell'ambito di Roma e appartenne, per tutto il territorio a sud del Po, alla regione augustea della Liguria (IX), per il territorio a nord alla Transpadana (XI). Vedi queste due voci per la storia dell'antichità.
Dal Medioevo in poi il nome della regione non ebbe sempre lo stesso significato, perché con esso, fino dal suo primo comparire, viene successivamente designato un territorio sempre più esteso. Mentre ora il nome Piemonte è dato a tutta la regione compresa nelle provincie di Torino, Aosta, Novara, Vercelli, Asti, Alessandria e Cuneo, nel tempo invece in cui compare per la prima volta nei documenti, nella prima metà del sec. XIII, esso era solamente attribuito al paese racchiuso a un dipresso tra il Po, il Sangone e le Alpi; nella seconda metà del secolo stesso Carlo I d'Angiò chiamava con tale nome il dominio da lui posseduto di qua dai monti, tra la Stura ed il Tanaro, nella stessa guisa che alla fine del secolo seguente Gian Galeazzo Visconti considerava come situati "in Piemonte" i feudi che ivi costituivano la dote della figlia Valentina sposa a Luigi d'Orléans, cioè Asti e altri feudi circostanti. Ma accanto al significato etimologicamente geografico il nome comincia ad acquistare anche quello di circoscrizione politica, con la qualifica di contea o di principato. Così quando gli Angioini restaurarono il loro dominio da queste parti, Carlo II costituì, investendone il figlio, la contea di Piemonte; principato di Piemonte cominciò a denominarsi il territorio sabaudo retto direttamente dai principi d'Acaia; Amedeo VIII creò "principe di Piemonte" il principe ereditario, finché il nome si estese di mano in mano che la casa di Savoia allargava il suo dominio a tutto quel territorio che alla fine del sec. XVIII le appartenne di qua dai monti.
Il Medioevo s'inaugura in Piemonte, come nel resto d'Italia, con la dominazione di Odoacre, unica in tutto il territorio; nel quale egli non provocò frazionamenti politici, come non introdusse innovazioni nell'ordinamento romano, che lasciò intatto, né nella religione cattolica che egli - ariano - rispettò; trasformando solo il sistema tributario mediante la sostituzione della cessione del terzo delle terre al tributo ordinario del terzo dei redditi.
La venuta di Teodorico, che dopo alcuni anni di una guerra cominciata nel 488 si sostituì definitivamente a Odoacre, produsse un grave contraccolpo in Piemonte, perché nel 492 un'orda di Borgognoni, guidati dal loro re Gondebaldo, disceso in soccorso di Odoacre, fece lungo il cammino orribili devastazioni con asportazione di prigionieri, tra cui il vescovo di Torino Vittore, che vennero poi riscattati da Teodorico nel 497. Il trionfo di questo non modificò le condizioni del Piemonte; fu rinnovata la distribuzione del terzo delle terre fra i nuovi barbari, i quali, a differenza di quelli di Odoacre, avevano con sé anche la famiglia, così che la popolazione gota si addensò più numerosa in alcuni luoghi e precisamente in quelli, come nella Valle Padana, che avevano sofferto di più nelle ultime guerre e ne erano rimasti più spopolati. Anche Teodorico conservò l'ordinamento romano, compreso quello provinciale e municipale, con le stesse antiche magistrature, accanto alle nuove indispensabili all'esercizio e alla conservazione del potere da parte dei vincitori. Perciò non poteva effettuarsi una vera e propria fusione fra l'elemento romano e quello barbaro, pur essendovi una corrente che l'avrebbe desiderata, contro la tendenza opposta, tra le quali Teodorico mirò a mantenere un prudente equilibrio. L'unità territoriale rimase politicamente intatta, salvo durante una breve parentesi, iniziatasi nel 509, quando Aosta con la parte alta della valle fu occupata dai Borgognoni; ma le guerre minacciavano da vicino, specialmente dopo la morte di Teodorico, accrescendo la miseria delle popolazioni, che già avevano esauste gli agenti del fisco e le malversazioni dei funzionarî. E un'altra parentesi aprì nella Valle di Susa la guerra successiva, dei Bizantini e dei Goti, quando la dominazione di questi era sul tramonto e già in grave pericolo per le vittorie di quelli, e Vitige era strettamente assediato da Belisario in Ravenna: un barbaro, di nome Sisige, preposto al comando della Valle di Susa, invece di tenerla per i Goti, venne a trattative con i duchi bizantini e si mantenne pacifico e indipendente in quella regione non solo oltre la sconfitta definitiva dei Goti, ma perfino oltre la venuta dei Longobardi.
Nel 553 muore in battaglia Teia, l'ultimo re ostrogoto; negli anni seguenti, fiaccate le ultime resistenze, verificatesi più a lungo nell'Italia settentrionale, la dominazione bizantina si costituì con la "Prammatica sanzione" di Giustiniano, che rispettò tuttavia le circoscrizioni provinciali e gli ordinamenti cittadini esistenti.
Col 568 si sostituisce in Italia alla dominazione dei Bizantini quella dei Longobardi, i quali, non essendo riusciti a conquistare tutta la penisola, diedero principio a quel suo frazionamento politico che non ebbe fine se non nei tempi moderni. Tale frazionamento si verificò anche in Piemonte, ma in misura assai scarsa; così che, se deve dirsi che non tutto il Piemonte cadde sotto la dominazione dei Longobardi, la parte ivi rimasta immune fu invero limitatissima. La conquista infatti si arrestò a piè delle Alpi. Nella Valle di Susa gl'invasori si urtarono dapprima contro la resistenza di Sisige; nella Valle d'Aosta dovettero indietreggiare di fronte alla reazione dei Franchi, che già pochi anni dopo l'inizio dell'invasione longobarda sono padroni dei principali valichi alpini nelle valli di Susa e di Aosta, nonché in quelle di Lanzo; mentre in tutto il resto si consolidano i Longobardi, che dividono il territorio in ducati, corrispondenti alle antiche divisioni amministrative romane diventate circoscrizioni ecclesiastiche, dei quali in Piemonte sono noti soprattutto quelli di Asti, Torino ed Ivrea, oltre quelli del Novarese, tra cui quello di Bulgaria corrispondente a Novara. Traccia della loro dominazione in Piemonte i Longobardi lasciarono nella toponomastica, conservando alcuni luoghi il nome, non solo dei nuclei longobardi che vi si stabilirono, ma anche di quelli degli altri popoli barbari che con quelli si accompagnarono e che appunto nella parte settentrionale d'Italia furono più numerosi che altrove. La crudeltà e la ferocia spiegate dai conquistatori nel primo impeto della vittoria si andarono mitigando a poco a poco dopo la conversione di essi dall'arianesimo al cattolicismo, nonché per la codificazione delle loro consuetudini avvenuta al tempo di Rotari, il quale allargò alquanto il territorio primitivamente occupato, specialmente nel Piemonte meridionale; questo fino allora si era appoggiato verso mezzogiorno al territorio della Liguria, che invece da Rotari in poi appartenne ai Longobardi. Altra conseguenza della conversione di costoro fu la fondazione di nuovi monasteri, centri di vita intellettuale e economica, che la tradizione attribuisce ad essi e che la critica storica riconosce come una conseguenza della necessità di contrapporre una nuova forza all'influenza nemica, specialmente sulle frontiere: così sorsero i monasteri di Villar San Costanzo presso Dronero, di San Pietro in Savigliano e in Torino, di Pagno in Val Bronda, di San Dalmazzo vicino a Cuneo; nella stessa guisa che nel territorio franco sorse contemporaneamente di contro ai Longobardi il monastero della Novalesa. La dominazione longobarda durò, secondo l'opinione comune, due secoli, perché l'ultima dinastia nazionale ebbe termine con la vittoria di Carlomagno nel 773. La prima fase della rovina si svolse in Piemonte: Carlomagno aveva diviso l'esercito in due parti, di cui la prima doveva entrare in Italia per il valico del Gran San Bernardo, l'altra, guidata da Carlomagno in persona, per il Cenisio, lungo la valle della Dora Riparia, sbarrata dalle "Chiuse". Qui fu compiuto il maggiore sforzo, che, infiorato di particolari leggendarî, consistette più che altro in un abile aggiramento delle posizioni longobarde compiuto da Carlomagno, forse aiutato dall'altro corpo di spedizione. Ma avendo il vincitore assunto il titolo di re dei Longobardi, e non avendo introdotto da principio delle modificazioni nell'ordinamento amministrativo, in apparenza il regno longobardo continuò come prima; e anche i provvedimenti che la tradizione attribuisce al re franco dopo la congiura che alcuni duchi ordirono contro di lui pochi anni appresso, e che sarebbero consistiti nella sostituzione di più conti franchi ai duchi longobardi, in fondo non produssero un cambiamento così radicale come vorrebbe la tradizione. Tutt'al più una maggiore autonomia data ai comitati o contee, alcuni dei quali corrispondevano al precedente ducato longobardo, come quello di Torino; mentre corrispondevano a qualche altro ducato, per es. a quello d'Ivrea, più comitati, come, per es., Ivrea stessa e Vercelli. Meritano in special modo di essere ricordati, oltre questi, i comitati di Asti, di Bulgaria (più tardi Novara), di Bredulo (fra il Tanaro e la Stura), di Auriate (fra la Stura ed il Po). Mutamenti invece più radicali, che interessano la storia generale del Piemonte, perché provocarono il formarsi e in seguito il consolidarsi di quelle circoscrizioni politiche per cui la regione restò divisa in tanti piccoli stati fino all'unificazione sotto la casa Sabauda, cominciarono nel secolo X, dopo il periodo carolingio.
Dalla fine del sec. IX il Piemonte venne funestato da atroci stragi e devastazioni compiute prima dagli Ungheri, che nell'899 massacrarono il clero di Vercelli, e poi dai Saraceni, che annidati in Frassineto corsero per molti anni questa regione lasciando ricordo di sé nella toponomastica e nelle tradizioni locali.
Nel sec. X la storia del Piemonte s'impernia sulle vicende delle marche occidentali d' Italia, raggruppamenti di più contee sotto l'autorità dei marchesi, i quali, ereditarî di fatto (benché in diritto, come gli altri funzionarî imperiali, tali non fossero), pur attraverso profonde modificazioni nell'ampiezza del territorio sottoposto alla loro giurisdizione, acquistarono potenza sempre maggiore, trasmessa ai figli e ai nipoti. La prima fu la marca d'Ivrea (v.), costituita fino dai primi anni dopo la lotta scoppiata alla deposizione di Carlo il Grosso: comprendeva quasi tutto l'attuale Piemonte, e si sdoppiò più tardi nelle marche di Ivrea e di Torino, oltre la porzione chiamata marca della Liguria occidentale, una parte della quale corrisponde alla regione nota sotto il nome di Monferrato. Della marca d'Ivrea era marchese verso la fine del sec. X Arduino, che per breve tempo assunse poi il titolo di re d'Italia; quella di Torino fu retta dalla famiglia arduinica (v. arduinici), discendente da un altro Arduino e perciò fu detta la marca "arduinica"; quella della Liguria occidentale venne a cadere nella famiglia aleramica (v. aleramici) e fu detta marca "aleramica". Dopo la morte del re Arduino, è a capo della maggior parte del Piemonte Olderico Manfredi, il quale, destreggiatosi dapprima abilmeme nella lotta tra Arduino e l'imperatore, esercitò la sua giurisdizione oltre che sulla marca di Torino anche in tutto o in parte su quella d'Ivrea, lasciando il dominio alla figlia Adelaide e quindi all'ultimo marito di questa Oddone di Savoia, figlio di Umberto dalle bianche mani; Adelaide dominò, si può dire, la storia del Piemonte fino alla sua morte avvenuta nel 1091. Allora quel forte nucleo subalpino rappresentato dal dominio ivi acquistato dalla casa sabauda si disgregò: le valli superiori della Dora e del Chisone furono occupate da Guigo VII conte di Albon; Bonifacio del Vasto occupò una gran parte del resto, mentre Umberto II di Savoia invano tentò di riacquistare l'avito dominio, e le città, ormai già rette a comune, cominciavano a contrastare l'autorità del proprio vescovo e a trattare da pari a pari con i conti e marchesi più potenti. Da questo disgregarsi si costituirono altri nuclei che attraverso varie vicende si perpetuarono nei secoli seguenti.
I figli di Bonifacio del Vasto, morto verso il 1135, senza dividersi propriamente l'eredità si vennero, essi ed i loro discendenti, restringendo nel luogo preferito di residenza, per costituire i marchesati di Saluzzo, di Busca, di Ceva, di Cortemilia, tra i quali primeggiò per ampiezza e per durata quello di Saluzzo; i comuni principali, come Asti, Chieri, Torino, Savigliano, Cuneo, Mondovì, estesero la propria giurisdizione sul territorio circostante e obbligarono a far loro omaggio anche i principali signori; una porzione della marca di Aleramo diventò anch'essa un marchesato che prese il nome di Monferrato; la casa di Savoia riacquistò gran parte del dominio perduto. Verso la metà del sec. XIII il Piemonte è diviso, con le interferenze inevitabili dovute agl'intricati rapporti feudali, tra i comuni, la casa di Savoia, i marchesati di Saluzzo e di Monferrato. Un turbamento vi portò, poco dopo, la signoria rapidamente acquistata da Carlo I d'Angiò prima in Cuneo e poi tutto all'intorno per un largo tratto che, salvo alcune interruzioni, giungeva fino a Torino; signoria perduta nel 1275, ripresa in più modeste proporzioni, e poi di nuovo allargatasi, nella prima metà del '300; ma contrastata dai Sabaudi, dal Monferrato e dai Visconti, finché scomparve definitivamente. Più rapidamente ancora si formò e scomparve dal 1330 al 1333 un'altra signoria, quella di Giovanni di Boemia, che da Brescia arrivò fino a Novara e a Vercelli. Anche i Visconti riuscirono a penetrare in Piemonte, rassodando il proprio dominio per qualche tempo in Alessandria e in Asti; anzi Gian Galeazzo, sposando la figlia Valentina a Luigi d'Orléans nel 1387, costituì a questa in dote Asti e il territorio circostante che si estendeva fino a Villanova da una parte, a Bra e a Cherasco da un'altra, comprendendo altresì il marchesato di Ceva.
La prima metà del sec. XV vide soprattutto l'unificazione del Piemonte sabaudo con Amedeo VIII, che unì alla parte fino allora dominata direttamente dal conte di Savoia - il quale dal 1416 si chiamò duca - cioè alle valli di Susa, di Lanzo e di Aosta ed al Cuneese, il resto del Piemonte dominato direttamente dai principi d'Acaia estinti nel 1418; nove anni dopo acquistò Vercelli col suo territorio, mentre tutti gli altri comuni si erano dati alla sua casa, restando esclusi dal dominio sabaudo Alessandria viscontea, Asti un po' orleanese un po' viscontea, nonché i marchesati di Saluzzo e di Monferrato. Nel loro complesso le cose non mutarono per tutto il sec. XV e nel principio del XVI; la decadenza della casa di Savoia dopo Amedeo VIII, morto nel 1451, non permise nuovi ingrandimenti, ma neppure portò con sé perdite di territorio; il passaggio di Carlo VIII rafforzò il dominio orleanese, rimasto tuttavia esposto alle alterne vicende derivate dalla contesa tra la Francia e la Spagna nell'alta Italia, finché nel 1531 Carlo V ne fece dono a Beatrice di Portogallo, moglie del duca di Savoia Carlo II. Ma nel 1536 la rivalità di Francesco I e di Carlo V provocò la rovina del Piemonte sabaudo che, da quell'anno fino al 1559, rimase diviso in due parti: la principale, francese, l'altra del duca, ma solo di nome perché presidiata dagli Spagnoli, sotto il pretesto di difenderla dai nemici. Salvo le frequenti inevitabili alternative di nuovi acquisti e di perdite da una parte e dall'altra, si può dire che quasi tutto il Piemonte fu occupato dai Francesi, i quali lo amministrarono direttamente per mezzo dei loro funzionarî, eccetto alcuni luoghi del Saluzzese, come Racconigi, Fossano, Cuneo, Caraglio e Busca, dei quali il re investì feudalmente il marchese Francesco di Saluzzo. Rimasero sempre fedeli a Carlo II la Valle d'Aosta; Vercelli; Cuneo stessa, salva la breve parentesi saluzzese; fino al 1554 Ivrea; solo saltuariamente Mondovì e Chieri, nonché qualche altro luogo minore. La pace di Cateau-Cambrésis restituì lo stato al duca di Savoia, eccetto Torino, Chieri, Pinerolo, Villanova d'Asti e Chivasso, ritornati ducali poi salvo Pinerolo, nel 1562, ma in cambio di Savigliano e Perosa, anche questi poi restituiti, con Pinerolo, nel 1574.
Nello stesso tempo il marchesato di Monferrato, al quale il duca Carlo II aspirava, estintasi nel 1533 la dinastia dei Paleologi, venne da Carlo V aggiudicato ai Gonzaga di Mantova, e quello di Saluzzo, morto nel 1548 l'ultimo erede dei marchesi del Vasto, Gabriele, fu occupato dal re di Francia ed annesso al suo regno perché un tempo i marchesi avevano prestato omaggio al delfino.
Perciò dopo il 1559 il Piemonte era diviso fra lo stato di Savoia, il Monferrato, il dominio francese in Saluzzo, il dominio spagnolo in Alessandria e Tortona e poco di poi anche in Novara, quando la Spagna tolse questa definitivamente, col suo territorio, ai Farnese.
Se grave era il danno che aveva arrecato alla casa sabauda il non aver potuto ottener il Monferrato, più grave gliene arrecava l'insediamento nel Saluzzese della Francia, la quale con Carmagnola arrivava quasi alle porte di Torino da una parte, mentre dall'altra occupava i valichi alpini e si assicurava a sua volontà l'ingresso in Piemonte. Perciò Carlo Emanuele I colse il momento opportuno delle discordie religiose di Francia, e nel 1587 assalì e occupò in breve tempo tutto il marchesato. Ne nacque una lunga contesa, durante la quale il duca vide a sua volta assalito il Piemonte ed occupati parecchi luoghi di questo dal Lesdiguières; Enrico IV re di Francia resistette parecchio tempo prima di rinunciare al possesso di quel territorio; infatti, stipulando nel 1598 la pace di Vervins con la Spagna, non definì la questione, che fu rimessa all'arbitrio del papa. Nel 1601 il trattato di Lione riconosceva definitivamente il marchesato di Saluzzo a casa Savoia; il Piemonte sabaudo si ampliava notevolmente estendendosi a un territorio da lungo tempo agognato, che aveva anche il vantaggio di chiudere l'ingresso agli stranieri dalla parte di Francia. Rimaneva ancora il Monferrato, al quale Carlo Emanuele I appuntò le sue mire.
Alla fine del 1613 moriva Francesco Gonzaga duca di Mantova e marchese di Monferrato, lasciando dal suo matrimonio con Margherita di Savoia una figlia, Maria, in nome della quale Carlo Emanuele I pretendeva l'eredità dell'ambito territorio, di cui occupò subito con le armi la maggior parte, che poi fu costretto a restituire a Ferdinando Gonzaga successore del duca Francesco; ma per la guerra che era seguita e per altre che contrassegnarono il lungo ducato di Carlo Emanuele I il Piemonte ebbe a subire continue devastazioni. Il duca rinnovò il tentativo nel 1627 quando morì Vincenzo, fratello e successore di Ferdinando, il quale aveva designato nel suo testamento come erede Carlo Gonzaga, che per via della moglie era duca di Nevers in Francia e perciò appoggiato da questa contro gli altri pretendenti. La Spagna sostenne invece Carlo Emanuele I nelle sue aspirazioni sul Monferrato per dividerselo con questo. Una parte venne occupata anche questa volta dal duca, il quale, assalito dalla Francia, non aiutato sufficientemente e poi abbandonato dalla Spagna, morì nel 1630 mentre i nemici gli avevano occupato gran parte dello stato.
Il suo successore Vittorio Amedeo I, coi trattati di Ratisbona e di Cherasco del 1630-1631, ottenne bensì un ingrandimento nel Monferrato con l'occupazione di 70 luoghi come Trino, Cigliano, Livorno a settentrione del Po, Brusasco Lavriano, San Raffaele a mezzogiorno, e oltre questi anche Alba; ma dovette riaprire le porte del Piemonte ai Francesi con la cessione di Pinerolo e di Val Perosa. L'anno seguente alla morte di Vittorio Amedeo I avvenuta nel 1637, e cioè dopo la morte del primogenito Francesco Giacinto, il Piemonte fu travagliato da una lunga guerra civile che durò fino al 1642, resa più grave dall'interessato intervento straniero. Contrastavano la reggenza alla cognata Cristina di Francia, più conosciuta col nome di Madama reale, il cardinale Maurizio e il principe Tomaso, fratelli di Vittorio Amedeo I, i quali si appoggiavano alla Spagna, mentre Madama reale era sostenuta dal fratello Luigi XIII di Francia. Il Piemonte fu corso da Spagnoli e Francesi; nelle alterne vicende della guerra le città vennero a volta a volta prese, liberate e riprese ora dagli uni ora dagli altri, finché le trattative del 1642 regolarono i rapporti tra la duchessa, che conservò la reggenza per il principe minorenne, e i due cognati che ottenevano la luogotenenza generale, di Nizza il cardinale Maurizio, di Ivrea e di Biella Tomaso. Ma la pace interna non aveva posto fine ugualmente alle ostilità, perché ancor durava in Europa la guerra dei Trent'anni tra Francia e Spagna, le quali in Piemonte seguitarono a guerreggiarsi e ad occupare ora l'uno ora l'altro luogo. Neppure il trattato di Vestfalia del 1648 pose termine a questo stato di cose, che si trascinò fino al trattato dei Pirenei del 1659 col ritorno alle stipulazioni di Cherasco e la restituzione di Vercelli che la Spagna aveva occupata.
Al successore di Carlo Emanuele II toccava la sorte di arrotondare i confini ed eliminare il dominio straniero. Vittorio Amedeo II nel 1690 aderiva alla Lega di Augusta contro Luigi XIV. Le operazioni di guerra, i saccheggi e le stragi devastarono miseramente il Piemonte per alcuni anni; dolorosi rovesci colpirono le armi piemontesi a Staffarda e alla Marsaglia, ma le trattative di pace con gli accordi di Vigevano del 1696 condussero fortunatamente alla restituzione di Pinerolo e della valle della Perosa. Alla regolazione di questa parte del confine del Piemonte con la Francia diede compimento definitivo il trattato di Utrecht del 1713 dopo la guerra di Successione spagnola, in forza del quale il versante alpino occidentale nelle valli della Varaita e della Dora Riparia era assicurato al Piemonte sabaudo. Ma questo s'ingrandì ancora, oltre i limiti del Piemonte attuale, con i nuovi acquisti procuratigli dal trattato medesimo, cioè col Monferrato, fino allora in potere dei Gonzaga, con la Lomellina, la Valsesia, Alessandria e Valenza, promessi nel 1703 al tempo del suo passaggio dall'alleanza francese all'austriaca.
In tali condizioni Vittorio Amedeo II nel 1730 trasmetteva il Piemonte a suo figlio Carlo Emanuele III, il quale compì l'opera dei suoi predecessori in due riprese: dapprima partecipando alla guerra di successione polacca che col trattato di Vienna del 1738 gli procurò l'acquisto di Novara e Tortona; indi partecipando a quella di successione austriaca. Un primo trattato stipulato nel 1743 a Worms con l'Austria assicurò a Carlo Emanuele III re di Sardegna i territorî che poi con la pace di Aquisgrana ebbe riconfermati, anch'essi in parte sconfinanti dall'attuale Piemonte: Vigevano e il Vigevanasco, l'alto Novarese ad occidente del Lago Maggiore. L'unificazione di tutta la regione sotto la casa Savoia era definitivamente compiuta.
Per la storia seguente v. sabaudi, stati.
Bibl.: G. Romano, Le invasioni barbariche in Italia, Milano s. a.; F. Gabotto, Storia dell'Italia occidentale nel Medioevo, Pinerolo 1911 (Bibl. Soc. stor. sub., LXI-LXII); id., Un millennio di storia Eporediese, Pinerolo 1900 (ibid., IV); id., L'abazia e il comune di Pinerolo e la riscossa sabauda in Piemonte, Pinerolo 1899 (ibid., I); id., Storia del Piemonte nella prima metà del sec. XIV, Torino 1894; id., Lo stato sabaudo da Amedeo VIII a Emanuele Filiberto, Torino 1892-1895; E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, Firenze 1861-1869; D. Carutti, Il primo re di Casa Savoia. Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino 1897; id., Storia del regno di Carlo Emanuele III, ivi 1859; id., Storia della Diplomazia della corte di Savoia, ivi 1875-1880; L. Cibrario, Orig. e progresso delle istituz. della monarchia di Savoia, Firenze 1869.
Folklore.
Le impronte esterne della tradizione, nella vita borghese e popolare del Piemonte, si vennero via via ritraendo dalla pianura alle Alpi, e presentano ancora nelle valli più alte alcuni caratteri proprî e singolari: nell'architettura rustica, negli arredi, nel vestire, specialmente femminile, differente per ciascun paese, negli usi natalizî, nuziali e funebri. La nota d'arcaismo, che si fa ogni giorno più evidente nelle reliquie locali, contribuisce, sebbene in tenue misura, a salvarle come oggetto di curiosità, non scevre d'interesse artistico. E ciò può osservarsi, meglio che nel costume e nelle usanze, nei prodotti delle piccole industrie: ricami, trine ad ago e fuselli, ferri battuti, stagni e peltri, terraglie, legni scolpiti, ecc.
Certe credenze e superstizioni sopravvivono come proverbî e come ricordi. Vive e tenaci le leggende: oltre alle tradizioni di carattere epico e romanzesco, serbate dai cronisti medievali (quella, ad es., di Aleramo e Adelasia), e qualche sparsa memoria carolingia, alcuni temi narrativi, non ignoti ad altri popoli, si localizzarono anche in Piemonte: come la Bell'Alda alla Sagra di S. Michele, Gagliaudo ad Alessandria (stratagemmi delle città assediate), Gargantua in Valle d'Aosta. E alle montagne, ai laghi alpini, si collegano le leggende consuete, di fate, streghe, folletti, tesori incantati, apparizioni demoniche e spettrali.
La raccolta dei canti popolari fece capo a una silloge di canzoni epico-liriche (Donna lombarda, La bella Cecilia, Il Moro Saracino, ecc.), ch'è fra le più ricche e notevoli di cui disponga l'Italia. Le sacre rappresentazioni, diffuse per molti secoli in tutta la regione, si mantennero vive specialmente nella Valsesia, nel Canavese e nel Biellese, dove ha maggior fama la Passione, che a Sordevolo si recita all'aperto, durante le feste di Pasqua, da un gran numero di attori locali. Le scene della Natività sono svolte, parte in lingua italiana, parte in dialetto monferrino, nel popolarissimo Gelindo (ch'è il nome di un vecchio pastore, semplice e bonario). Si aggiungano le processioni e le sagre, ai santuarî di Oropa, di Crea, al Sacro Monte di Varallo, ecc.
Le feste popolari, fin dal Medioevo, erano affidate a società giovanili, o "abbazie degli stolti", che provvedevano ai balli pubblici, all'albero del maggio, alla "barriera" per gli sposi, ecc.; e da quelle associazioni provengono gli abbà che figurano tuttora in molte feste subalpine: come nel carnevale d'Ivrea, che, sul principio dell'Ottocento e per effetto della rivoluzione francese, si prese a festeggiare col berretto frigio (il corteo della "bella mugnaia" allude allo ius primae noctis, e celebra la liberazione del popolo dai soprusi feudali). Recentemente venne ripristinata la corsa del Palio di Asti, che vanta un'antica tradizione.
Sui varî tipi e macchiette burlesche del folklore piemontese (Gribuia, Giaculin, Gironi, ecc.) prevalse, come simbolo familiare e simpatico, la maschera di Torino, Gianduia ("Gian Boccale"): essa nacque, intorno al 1808, nel teatro delle marionette, e vi regna ancor oggi con lieta fortuna.
Bibl.: A. A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana, I: Piemonte, Bologna 1926; L. Ambrosini e C. Prosperi, Piemonte, Torino 1926 (Collez. di almanacchi regionali); E. Milano, Dalla culla alla bara: Usi natalizi, nuziali e funebri nella provincia di Cuneo, Borgo S. Dalmazzo 1925; A. Barolo, Folklore monferrino, Torino 1931; J. Cassano, La vie rustique et la philosophie dans les proverbes et dictons valdôtains, Torino 1914. Per le leggende: J. J. Christillin, Leggende della Valle del Lys, Milano 1908; L. Collino, Leggende e figure piemontesi, Torino 1930; E. Treves, Leggende piemontesi, Milano 1931. Per i canti popolari: Canti popol. del Piemonte pubbl. da C. Nigra, Torino 1888; Canti popolari monferrini raccolti da G. Ferraro, Torino 1870 (e nuove raccolte del F. stesso, Firenze 1887 e Palermo 1888); B. A. Terracini, La lingua delle canzoni popolari piemontesi, Torino 1914. Per le feste e rappresentazioni: C. Nigra e D. Orsi, Rappresentazioni popolari in Piemonte (sul Natale, la Passione, il Giudizio Universale in Canavese), Torino 1894-1896, voll. 3; id., Il "Gelindo": Dramma sacro piemontese, ecc., Torino 1896; F. Neri, Le abbazie degli stolti in Piemonte, in Giorn. storico d. letter. ital., XL (1902); L. Valmaggi, Il Carnevale d'Ivrea, Torino 1894; G. Deabate, La maschera di Torino, in Torino: Guida della città, ecc., Torino 1928, p. 363 segg.
Dialetti.
Possiamo distinguere l'alto piemontese (Cuneo, Torino) dal basso piemontese (Vercelli, Alessandria) in base soprattutto al fenomeno di -i, per la finale -e, caratteristico di quest'ultima sezione (p. es., gambi gambe, ecc.). Tutte le varietà dialettali piemontesi si stringono in unità con le parlate liguri e della valle padana per effetto di fenomeni comuni, i quali (v. anche lombardia: Dialetti), si ricongiungono ad altrettali fenomeni di tipo francese, franco-provenzale, ladino. Questi tratti comuni sono: a) lo scadimento delle vocali finali, salvo l'-a; b) lo scempiarsi delle consonanti lunghe o geminate; c) il digradamento delle consonanti sorde; d) l'assibilarsi delle velari divenute palatali dinnanzi a i ed e; e) il velarizzarsi alla finale o il faucalizzarsi all'interno di n (maṅ, laṅa, donde: mà, làṅa).
Col lombardo e col genovese, il piemontese s'accorda nello sviluppo di ó in ö in sillaba libera e non davanti a nasale (ma il fenomeno non si verifica in una zona del Monferrato) e di ù??? in ü (e i nel Monferrato e sino ad Alessandria e Asti: fiô "fuso", lim "lume", ecc.). Questi due tratti darebbero luogo ad osservazioni diverse, se volessimo scendere ai particolari e studiare il piemontese nei suoi contatti lombardi; ma basterà ricordare che nell'Ossola, quanto ad ö, abbiamo le condizioni del contado luganese, cioè il mantenimento di ò per effetto della finale chiara (per es., Val Vigezzo: fjöl, ma fiòla "figliuolo, figliuola") e che nella stessa Ossola e nel biellese e nel canavese l'ü è impedito dal contatto di un v (crü "crudo", cruva "cruda"). La pronuncia di î??? è oscura, molto vicina a u; ed é in sillaba libera si dittonga (meis "mese", teièa "tela") salvo dinnanzi a n (cadéṅa "catena"). È caratteristico lo svolgimento di a in é negl'infiniti in -are: andé, canté, ecc. Il limite occidentale di questo fenomeno è dato da Cuneo e Villafalletto; il limite orientale verso Gavi. Altri tratti caratteristici di fronte al lombardo: -́inu, -́anu, -́ulu, in -u (aôu "asino", termu "termine", vindu "guindolo"); caduta di -d- primario e secondario intervocalico (véjl "vitello") donde vengono fenomeni squisiti di combinazioni vocaliche o epentesi interessanti di iato (Castellinaldo: spüvé "sputare"); -c- preceduto da i dilegua (mánia "manica"); -ct- volge a -jt- (fajt "fatto", lajt "latte"), ma in canavese abbiamo lo sviluppo lombardo (faâ, laâ). Propaggini di -l- in r (ara "ala") nel Monferrato e altrove. Nella prima persona dell'ind. pres., in luogo di -am, si è insinuato -óma, -uma.
I dialetti settentrionali italiani, di fronte al francese, al franco provenzale e al ladino, si accampano con un tratto specifico di tutto il sistema: la risoluzione palatale del gruppo cl-, gl- (âama clamat., çanda glanda) e con altri tratti per i quali si ricongiungono all'italiano vero e proprio, e cioè: il mantenimento di ca- e di ga- all'iniziale e in posizione forte e la caduta di -s. Ora, proprio questi due ultimi fenomeni, per i quali le parlate tutte alto-italiane si staccano dai sistemi non italiani, dovettero essere in tempi antichi assai diffusi, perché se ne hanno ancora vestigia in Piemonte (p. es., -s in determinate condizioni nei monosillabi, in saluzzese, e âa- in alcune parole entro dominio decisamente piemontese).
Il tipo dialettale della Valsesia tramezza fra il piemontese e il lombardo, ma si può ascrivere piuttosto al sistema piemontese per lo sviluppo di -are (in -êe), di é??? in ei, delle desinenze -́íno -́áno -́úlú in -u e per la caduta di -d- intervocalico, tutti fenomeni qui sopra illustrati. Nelle Alpi Marittime compaiono dialetti di tipo provenzale (ca- in âa-; -p- in -b-; -a volge a -o; áu si mantiene; la velare g nel tema del perfetto), p. es. a Vinadio. Anche il dialetto dei Valdesi è di tipo provenzale. Invece i sistemi dell'alta Dora Riparia e delle alte valli della Stura settentrionale, dell'Orco e della Dora Baltea sono franco-provenzali (palatalizzazione di ca-; sviluppo di a in ie, e, i dopo palatale, conservazione di -t).
Bibl.: G. I. Ascoli, in Arch. glott. ital., II, p. 111; W. Foerster, in Romanische Studien, IV, p. i segg. (Sermoni gallo-italici); R. Renier, Gelindo, Torino 1896; C. Salvioni, in Rend. dell'Ist. lomb., XXXVII, p. 524 segg.; id., Dial. alpini d'Italia, in Lettura, I (1901), p. 715 segg.; B. Terracini, Il parlare di Usseglio, in Arch. glott. ital., XVII, p. 198; A. Talmon, Dial. di Pragelato, in Arch. glott. cit., XVIII, p. i segg.; Cl. Merlo, in Lingue e dialetti d'Italia, Milano 1932; K. v. Ettmayer, Dial. di Vinadio, in Mélanges Chabaneau, Erlangen 1906; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, p. 65 segg.; G. Toppino, Dial. di Castellinaldo, in Arch. glott. ital, XVI, p. 517 segg. e Studi Romani, X; Spoerri, Il dialetto della Valsesia, in Rend. dell'Ist. lombardo, LI (1918).
Letteratura dialettale.
Da una tradizione antica, ma esigua, di poesie popolari piemontesi si svolge, con più larga fortuna, nel sec. XVIII il toni, scherzoso e satirico (pare fosse detto così dal nomignolo canzonatorio d'Antonio, come d'un tipo contadinesco e piazzaiuolo); il padre Ignazio Isler vi atteggiò, con vena fluente e alquanto volgare, alcune macchiette efficaci; e gli tennero dietro Vittorio Amedeo Borrelli, Ferdinando (Gibertini, Pietro Paolo Burzio, e altri; sui temi d'Arcadia rimò in dialetto l'abate Silvio Balbis. Miglior poeta, e fra tutti il più schietto e personale, si rivelò il medico torinese Edoardo Ignazio Calvo (1773-1804): acceso dalle idee rivoluzionarie, che espresse nelle Folìe religiuse, risentì poi lo sdegno del suo paese per la repubblica sorretta dalle armi straniere: le Favole morali scritte in terza rima piemontese, le Stanse a Mëssé Eduard, L'Artaban bastunà, sono satire politiche di grande evidenza e fierezza. L'ode Su la vita d'campagna rappresenta una tregua fugace di contemplazione e di serenità. Nell'Ottocento, Norberto Rosa da Avigliana (1803-1862) congiunse ai diporti agresti e giocosi l'ispirazione patriottica, e Angelo Brofferio (v.) destò nel pubblico la più calda e fedele simpatia per merito delle sue canzoni; con arte affine a quella del Béranger, egli seppe far risonare, immediata e facile, la nota sentimentale come quella satirica. Dalla schiera numerosa di poeti dialettali che seguì al Brofferio, emergono Fulberto Alarni (pseudonimo di Alberto Arnulfi), Alberto Viriglio e, fra i viventi, Nino Costa.
Il teatro dialettale piemontese, che, dopo le farse astigiane dell'Alione (pubblicate nel 1521), non contava se non qualche scena comica frammezzata alle rappresentazioni pastorali dei secoli XVI e XVII, e il Cunt Piolet, commedia per musica attribuita al marchese Carlo G. B. Tana e pubblicata nel 1784, ebbe una tarda, ma vivace e ricca fioritura nel periodo del Risorgimento. L'attore Giovanni Toselli suscitò, in certo modo, e raccolse intorno alla sua compagnia un gruppo notevole di autori: fra i primi, Federico Garelli e Tommaso Villa, che allestirono con lui una grottesca imitazione della Francesca da Rimini di S. Pellico (Cichina d'Muncalé, rappresentata nel marzo 1859): seguì, il mese dopo, Guera o Pas? di Federico Garelli, ispirata agli eventi politici del tempo. Luigi Pietracqua, di tempra rozza ma robusta, interprete fedele dello spirito popolare, ottenne largo successo con Le spunde dla Dora, Sablin a bala, Rispeta tua fumna; Giovanni Zoppis, con Mariuma Clarin; e Vittorio Bersezio (v.) consacrò il trionfo del nuovo teatro con Le miserie d'monsü Travet (4 aprile 1863), satira affettuosa e dolorosa della povera vita dell'impiegato. Nel repertorio successivo vanno distinti: Cumpare Bonom del Garelli, I fasti di d'ün grand om di Eraldo Baretti, I mal nütrì di Mario Leoni (pseudonimo di Giacomo Albertini). La commedia realistica e moraleggiante ebbe nuovi cultori in Emilio Serbiani (pseudonimo dell'attore e capocomico Teodoro Cuniberti), Oreste Poggio, Amilcare Solferini, Giovanni Bertinetti. Nel 1911, celebrandosi il cinquantenario del regno d'Italia, Mario Leoni chiudeva la sua carriera con La bela Gigugin, dramma storico: e già erano scritte, sulla stessa linea, le Prime splüe ("Prime faville") di Onorato Castellino, evocazione dei moti studenteschi del 1821. Oggi, la scena dialettale non è priva di autori (Carlo Mariani, Giovanni Drovetti, ecc.) né di attori (Mario Casaleggio), ma appare, nel complesso, meno vigorosa e originale.
Bibl.: D. Orsi, Il teatro in dial. piem., Milano 1890, voll. 3; L. Collino, Storia della poesia dial. piem., Torino 1924; E. I. Calvo, Tutte le poesie piemontesi, a cura e con note di G. Pacotto e A. Viglongo, Torino 1930.
Arte.
Il Piemonte ha nei due centri di Pollentia e di Libarna i due complessi monumentali romani più notevoli; le altre città della regione che fiorirono nell'antichità conservano solo monumenti isolati o raccolte di oggetti mobili che testimoniano della vita che ebbero in età classica. Resti cospicui di mura e di porte fortificate si hanno a Torino (porta Palatina e cerchia urbana), ad Aosta (porta pretoria) e ad Alba; archi onorarî ad Aosta e a Susa, ambedue di età augustea, teatri ad Aosta e a Torino; si debbono inoltre ricordare l'acquedotto di Acqui, i ponti (di St. Vincent e del Pondel) e le opere stradali della Val d'Aosta, dovute pure esse principalmente ad Augusto; sui valichi del Piccolo e del Gran San Bernardo sono i resti di mansiones delle vie e di santuarî dedicati a Giove. Tra le raccolte antiquarie, oltre a quelle di Torino, sono particolarmente importanti quelle di Aosta, Vercelli, Tortona, Bra, ecc.
I monumenti più notevoli del Piemonte appartengono per la maggior parte all'epoca romanica e gotica e all'epoca barocca. Il Rinascimento vi ebbe invece manifestazioni secondarie.
Dei secoli preromanici poco rimane; il monumento più importante è il battistero di Biella, una costruzione in laterizio, a pianta centrale, con quattro absidi strette intorno a una cupola ottagona, risalente secondo l'opinione generale al secolo VIII-IX. Anche il battistero di Novara ha origini molto remote; ma l'attuale edificio è una ricostruzione d'epoca romanica eretta sull'antica pianta del secolo V o VI. Altro battistero romanico è il S. Pietro d'Asti, databile al sec. XII.
Se pochi sono i battisteri romanici superstiti, molti sono invece i campanili. Nella larga demolizione di chiese romaniche perpetrata dal '500 all''800, le antiche torri campanarie molte volte furono risparmiate. Ricordiamo la torre del duomo di Vercelli, ricostruito fra il '500 e il '700, il campanile della cattedrale di Novara, riedificata dall'Antonelli nel 1865-69; della demolita chiesa di S. Andrea a Torino; di S. Maria Maggiore di Susa, ecc.; e una quantità di campanili più rustici nelle vallate alpine, soprattutto in quella di Susa, dalle forme ripetute e caratteristiche. C'è inoltre, in Piemonte, un gruppo di torri campanarie di struttura fra di loro affine e di alto valore architettonico: sono i campanili di S. Giulio al lago d'Orta, dell'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria, della cattedrale di Susa, di S. Stefano d'Ivrea, il cui tipo si fa risalire a fra' Guglielmo da Volpiano (961-1031), nativo appunto dell'Isola S. Giulio, che ebbe una parte notevole nella storia dell'architettura non in Italia soltanto, ma anche in Francia. Ma, oltre a ciò, intere chiese romaniche o parti notevoli di esse sussistono ancora, nonostante le demolizioni. Una delle zone più ricche è il Monferrato. Casale stessa vanta ancora il suo vecchio duomo del sec. XI-XII, a cinque navate, fiancheggiato da due torri campanarie, preceduto da un atrio coperto da originali vòlte a costoloni che richiamano forme orientali. Sui colli fra Casale, Asti, Chivasso, s'incontrano anche chiese isolate in mezzo alla campagna: tali la chiesa di Montechiaro d'Asti, con grande campanile e muratura a strisce alternate di conci chiari e di mattoni; di S. Lorenzo di Montiglio, mascherata da una brutta facciata neoclassica, ma - dietro questa - egregiamente conservata; di S. Maria nella frazione astigiana di Viatosto, già accennante al passaggio al gotico; di S. Secondo presso Cortazzone; i ruderi - abside e campanile diroccati - di S. Vittore nella campagna di Montemagno; infine le due chiese più note di queste località: l'abbazia di S. Feda a Cavagnolo Po e l'abbazia di Vezzolano presso Albugnano. La prima appartiene al sec. XII avanzato: ha una facciata tripartita ove s'apre un grande portale scolpito a motivi ornamentali lombardi; nell'interno invece, secondo il Toesca, le vòlte a botte e le colonne anulate mostrano influssi dell'arte borgognona e provenzale. L'abbazia di Vezzolano fu fondata intorno al 1000, ma la sua attuale architettura risale anch'essa, nelle sue linee fondamentali, al sec. XII: la facciata tripartita è ornata da gallerie cieche a colonnine e l'interno è tramezzato da una tribuna decorata di sculture del 1189. Nelle vicinanze di Torino sono ancora da ricordare San Pietro a Brusasco, Santa Maria a Testona (Moncalieri) con cripta e parti molto antiche, S. Pietro a Pianezza con affreschi quattrocenteschi; verso la Lombardia, le campate anteriori di S. Bernardo a Vercelli, e, risalendo al nord, le parti romaniche di S. Giulio al lago d'Orta, in cui è conservato un ambone scolpito, variamente assegnato al sec. XI o XII; le parti romaniche - abside, ambulacro, tiburio e le due torri campanarie - del duomo d'Ivrea; il chiostro di San Orso ad Aosta, ben noto per le sculture dei capitelli del 1133, ove compare l'influsso provenzale. Quindi, scendendo lungo la cerchia delle Alpi, la Sagra di San Michele, uno dei monumenti piemontesi più tipici, dominante l'imbocco della valle di Susa, elevato su alte, arditissime sostruzioni; e più a mezzogiorno, S. Costanzo a Villar S. Costanzo, presso Dronero, con absidi elegantissime; S. Pietro di Cherasco, costruito nel sec. XIII con materiale più antico; e il vecchio S. Pietro d'Acqui e la S. Trinità di Castellazzo Bormida, per non ricordare che i monumenti principali. Queste chiese mostrano in genere forme tipicamente lombarde.
Del periodo romanico altre opere d'arte sussistono ancora in Piemonte, oltre quelle architettoniche. Per la loro frequenza denotano un tipo di decorazione diffusa localmente i numerosi frammenti pavimentali superstiti delle antiche cattedrali demolite: di Aosta, Ivrea (ora al Seminario), Torino (al Museo civico), Acqui, Casale, Vercelli (al Museo Leone), Novara, e quelli minori di Grazzano e Sezzadio. Inoltre gli archivî capitolari di Vercelli, Novara, Ivrea vantano codici miniati romanici pregevolissimi; quelli di Ivrea sono prodotti di una scuola attiva localmente al tempo del vescovo Varmondo (969-1002), che ha legato il suo nome all'omonimo codice famoso; e nei tesori di alcune cattedrali sussistono ancora pezzi d'oreficeria e avorî medievali, quali il dittico consolare di Novara, le due rilegature d'evangeliarî di Vercelli e i battenti di Susa.
Anche nel periodo gotico si svolse in Piemonte una notevole attività costruttiva. Va posta in primo piano per bellezza la basilica di S. Andrea di Vercelli, a tre navate, con chiostro e abbazia annessi, sorta d'un sol getto tra il 1219-1224 per volere del cardinale Guala Bicchieri, organizzata su una pianta di tipo cisterciense, serbante tuttavia qualche caratteristica romanica. Le lunette di due portali recano rilievi di Benedetto Antelami. Non può però questa chiesa esser presa come esempio tipico dell'architettura gotica piemontese. Il gotico piemontese è in genere rustico, poco slanciato in altezza, ha contrafforti poco sviluppati, usa il laterizio, predilige, soprattutto in epoca tarda, le decorazioni in terracotta: l'esterno dell'abbazia di S. Antonio di Ranverso è un esempio notissimo e significativo di questo stile. Altro monumento ben noto è l'abbazia di Staffarda presso Saluzzo, recentemente restaurata, con chiostro, sala capitolare e foresteria. Inoltre, come in tutto il resto d'Italia, anche in Piemonte le chiese dei francescani e dei domenicani primeggiano fra le costruzioni di questo periodo: il S. Francesco di Cuneo e di Susa; il S. Domenico d'Alba e quello di Casale con alto portale rinascimentale, scolpito, che fu già attribuito al Sammicheli; il S. Francesco e il S. Paolo di Vercelli; il S. Domenico di Chieri e quello di Torino, e così via, son tutte chiese che hanno conservato ancora, nel complesso, l'originaria struttura gotica; e altrettanto si dica del S. Secondo e del duomo di Asti, vastissimo, delle cattedrali di Alba, Pinerolo, Chieri, Chivasso, - con abbondanti decorazioni in terracotta - del duomo e del S. Giovanni di Saluzzo, con chiostro e campanile. Nell'abside di quest'ultima chiesa, destinata a cappella mortuaria dei marchesi di Saluzzo, si conserva un complesso di sculture fra le più interessanti del Piemonte, regione in ogni epoca così scarsa di opere scultorie: il sarcofago e la statua giacente di Ludovico II sono opera di Benedetto Briosco, ma sono collocati in una nicchia gotica riccamente traforata, cui fa riscontro il grande tabernacolo detto della Spina. Anche queste edicole però sono opera già quattrocentesca. E qui torna opportuno rilevare una particolarità del Piemonte nei confronti con la restante Italia: mentre per questa il '400 segna uno stacco deciso dal gotico, il Piemonte rimane ancora per tutto il secolo legato allo stile gotico e fortemente improntato dall'influsso d'oltralpe. Ciò mostrano anche le costruzioni civili, che tra la fine del '300 e i '400 cominciano ad essere numerose: le case antiche di Alba, Cuneo, Mondovì, Avigliana, Rivoli, Moncalieri, Pinerolo, ecc.; il priorato di S. Orso ad Aosta, con torre ottagona e grandi finestre a croce decorate da terrecotte, fatto costruire da Giorgio di Challant, priore nel 1478; i castelli, frequenti soprattutto in Val d'Aosta (v. quelli di Fénis e Issogne alle voci relative) e nel Canavesano (di Masino, Pavone, Ozegna, Malgrà), ma degni di menzione anche nel Monferrato e nelle Langhe (di Montiglio, dei Faletto di Barolo a Serralunga d'Alba, ecc.), oltre ai castelli e ai broletti delle varie città (di Pinerolo, di Vercelli, di Novara, di Torino, l'attuale Palazzo Madama, in parte ridotto a forme barocche, ecc.). La maggior parte di questi edifici è stata profondamente alterata da rimaneggiamenti d'epoche diverse, o, quel ch'è peggio, da malintesi restauri; e il loro valore intrinseco è spesso scarso; essi tuttavia contribuiscono a dar fisionomia al paesaggio e alle città piemontesi.
Nel'400 comincia anche a delinearsi in Piemonte un'attività pittorica. In questo ramo i secoli precedenti quasi nulla ci hanno tramandato: scarsi frammenti non organizzabili in sintesi. Nel '400 invece gli esempî cominciano a essere numerosi: sono soprattutto affreschi, nelle chiese e nei castelli, molte volte assai rozzi, quasi sempre fortemente goticizzanti. Fra tutti meritano specialmente di essere ricordati quelli del castello della Manta (Saluzzo), rappresentanti la Fontana di Gioventù e una teoria di dame e cavalieri, di chiara ispirazione francese (sec. XV); e quelli di Giacomo Iacquerio nel presbiterio e nella sagrestia di S. Antonio di Ranverso. Nella seconda metà del secolo siamo in grado di tratteggiare anche i lineamenti di qualche personalità definita. Una di queste è Giovanni Canavesio da Pinerolo, attivo prevalentemente in Liguria e nelle vallate meridionali del Cuneese (affreschi nella cappella di S. Bernardo a Pigna, 1482; nel santuario della Madonna del Fontan a Briga Marittima, 1492; tavole d'altare a Pigna, nella pinacoteca di Torino, ecc.). La sua arte è arcaica e goticizzante; i suoi affreschi mostrano una policromia chiassosa e popolaresca e movimenti linearmente accentuati e violenti.
Ma la scuola pittorica piemontese più organica e meglio definita è quella vercellese, che fiorì per circa un secolo fra il '400 e il '500. Essa appare fin dalle sue origini imparentata con l'arte lombarda; alla base della sua formazione - a parte i vecchi Oldoni, di cui conosciamo il nome ma non ci è giunta alcuna opera - si suol porre l'arte di Gian Martino Spanzotti da Casale (notizie fra il 1481-1524), un pittore solo recentemente riportato in luce dalla critica, ma fra i più forti e interessanti del Piemonte. È chiara nel suo stile la discendenza foppesca; qualche maggior goticismo tuttavia vi s'insinua insieme con un sentimento più primitivo e raccolto (opere sue sono alla Pinacoteca, al Museo Civico e all'Accademia Albertina di Torino, nel duomo di Torino, nell'ex-convento di San Bernardino a Ivrea, ecc.). Egli fu maestro a Gerolamo Giovenone, il più noto fra i numerosi artisti di questa famiglia, abbastanza abile ma superficiale, più tardi largamente influito da Gaudenzio Ferrari; e a Defendente Ferrari, da Chivasso, attivo nel Piemonte occidentale fra il 1510-1535. Sull'eredità stilistica dello Spanzotti quest'ultimo innestò più accentuati elementi ultramontani, rivelando nelle sue pale un senso decorativo ricco e arcaicizzante e nelle sue predelle un'efficacia narrativa e una gustosità di colore e di particolari assai notevoli; (tavole sue sono al Museo civico, al duomo e alla pinacoteca di Torino, a S. Antonio di Ranverso, ad Avigliana, a S. Benigno, a Ciriè, Ivrea, ecc.). La sua arte diverge per un maggior goticismo dalla scuola vercellese, che continua coi Giovenone, coi più giovani Oldoni, con Eusebio Ferrari, ed è infine dominata dall'arte di Gaudenzio Ferrari, l'unico fra i pittori piemontesi che abbia fama oltre i confini della sua terra. Partito dall'arte dei frescanti della Valsesia e dalla scuola vercellese, subì anche l'influsso di Leonardo e assimilò varî elementi dalle scuole dell'Italia centrale; ma impetuoso, facile e largo di pennello, li trasformò in uno stile meno intellettuale, più popolare, a colori franchi e vivaci e composizioni mosse e affollate. I centri principali della sua attività furono Varallo (affreschi di S. Maria delle Grazie, 1512, e del Sacro Monte: i migliori, quelli della cappella della Crocifissione, del 1526 circa), Vercelli (af. freschi di S. Cristoforo, 1529-32), e negli anni tardi Milano (affreschi in S. Maria della Pace, ora a Brera, e nella chiesa della Passione). Ma oltre a ciò opere sue sono a Novara, Como, Bellagio, Morbegno, Saronno, alla pinacoteca di Torino, ecc. Il suo miglior scolaro fu Bernardino Lanino.
Anche a mezzogiorno del Po, tra la fine del '400 e la metà del '500 si svolse una discreta attività pittorica per opera di Gandolfino d'Asti, di Macrino d'Alba e di altri anonimi maestri di maniera alfine, nonché degli Oddone. Come ultima appendice della pittura rinascimentale in Piemonte va ancora ricordato Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo per la lunga dimora che fece in questa città del Monferrato, il quale mostra affinità stilistiche con la scuola lombarda e prolunga la sua attività nel '600 (morì nel 1625). Il maggior gruppo di opere sue e di seguaci è in S. Francesco a Moncalvo (pale), nelle cappelle del Sacro Monte di Crea (affreschi) e in varie chiese di Casale.
Retrocedendo a riprendere in considerazione l'architettura, troviamo che verso la fine del '400, accanto alla già ricordata corrente di carattere locale, in stretta dipendenza dalla tradizione gotica e imparentata a modelli transalpini, comincia a determinarsi una penetrazione di elementi rinascimentali italiani. A Vercelli il cortile dei Centori, costrutto intorno al 1490-1500, mostra armoniose forme bramantesche; a Torino il cardinale Domenico della Rovere, a edificare il nuovo duomo, chiamò nel 1492 il mastro Meo del Caprino da Settignano, e ne risultò l'attuale S. Giovanni, di schiette, se pur modeste, forme toscane. Alla stessa famiglia della Rovere si deve il cortile del castello di Vinovo, in stile lombardo con profilature in terracotta. E di forme rinascimentali, sebbene timide e provinciali, è il portale e il cortile di Casa Cavazza a Saluzzo; e, più tardo e più grandioso, il cortile del palazzo Scaglia di Verrua a Torino, con porticato e loggiato che, sebbene datino dal regno di Emanuele Filiberto, riecheggiano ancora forme quattrocentesche.
Con l'avvento al potere di Emanuele Filiberto assistiamo a una svolta nella storia dell'arte piemontese: essa è tratta a forza, dalla volontà del capo, fuori dal suo ambito provinciale e messa in rapporto con la rimanente Italia. Sono dapprima artisti di fuori che vengono chiamati in Piemonte e dànno impulso soprattutto all'architettura; poi a poco a poco si formano anche maestri locali, di buon mestiere anche se di non grande originalità, i quali vengono di tanto in tanto agitati e arricchiti nelle loro esperienze da forti personalità che sopravvengono dal di fuori (p. es., il Guarini e lo Juvara). Si può dire che l'arte barocca in Piemonte più che da forze artistiche creative indigene, venga suscitata dalla precisa e ferma volontà dei suoi principi.
Le principali costruzioni del regno di E. Filiberto, ancora esistenti, sono la chiesa dei Ss. Martiri a Torino, eretta su disegno di Pellegrino Tibaldi, che in Piemonte lavorò anche per la città di Novara, e la Cittadella, ora in gran parte smantellata, che fu la prima fortezza in Europa eretta secondo i nuovi criterî difensivi, da Francesco Pacciotto da Urbino fra il 1564 e il '66. E. Filiberto iniziò anche la sistemazione edilizia di Torino.
L'opera da lui intrapresa fu intensamente continuata dai suoi successori. Al tempo di Carlo Emanuele I fino al 1615 ebbe parte preminente nei lavori d'architettura in Piemonte Ascanio Vittozzi, a cui si deve il primo progetto di Piazza S. Carlo, l'erezione della chiesa dei cappuccini a Torino (poi malamente alterata) e l'inizio del santuario di Vicoforte (Mondovì). Gli succedette nella prosecuzione di molti lavori Carlo Castellamonte (ricordato la prima volta nel 1575, morto nel 1641), che edificò Piazza S. Carlo, continuò la Via Nuova (attualmente Via Roma) ed eresse il Castello del Valentino con forme prossime ai tipi francesi. Suo figlio Amedeo (nominato in una patente di Cristina di Francia nel 1637, morto nel 1683) entrò anch'egli ben presto al servizio dei Savoia; e dopo il 1646 non si costruì, si può dire, fabbrica a Torino cui egli non prendesse parte. L'opera sua principale è il Palazzo reale, cominciato nel 1658, e la sistemazione della zona ad est della Via Nuova e Piazza S. Carlo con l'ospedale di S. Giovanni.
Quest'interesse, diremmo oggi, all'urbanistica, da cui Torino ha derivata la sua pianta a scacchiera così regolare, è un tratto tipico dell'attività costruttiva barocca piemontese, e ne è forse il prodotto indigeno più originale. Quanto alle forme stilistiche dell'architettura, esse vennero per lo più importante in Piemonte dal di fuori, da artisti che quivi trovarono bensì le condizioni più favorevoli a svolgere e attuare i loro progetti, ma trassero origine dalla tradizione romana. Tali furono il modenese Guarino Guarini e il messinese Filippo Juvara. Il Guarini fu nominato ingegnere ducale da Carlo Emanuele II nel 1668, ma l'inizio della sua attività in Piemonte data da parecchi anni prima. Rimangono di lui a Torino numerosi edifici estremamente caratteristici, di pianta e membrature complicatissime, basate su calcoli astrusi che sboccano in combinazioni dall'apparenza stravagante, difficilmente scomponibili negli elementi di partenza (si vedano per es. la cappella della SS. Sindone, la chiesa di S. Lorenzo, il santuario della Consolata, il palazzo dell'Accademia delle scienze e quello Carignano).
Derivato anch'egli dalla scuola romana, e non come alcuni vorrebbero legato all'arte francese, ma di temperamento tutt'affatto diverso, fu F. Juvara: nella sua opera le movimentate linee barocche accennano a placarsi e regolarizzarsi, la curva cede alla linea retta, le ampie facciate dei suoi edifici si mostrano spesso divise con regolarità di spazî, le modanature si fanno più semplici e sobrie: in certe sue architetture c'è quasi un presentimento del neoclassicismo. Anch'egli fu attivissimo: sono costruzioni sue la chiesa di S. Cristina in Piazza S. Carlo; quella di S. Filippo, riedificata sulla fabbrica preesistente del Guarini, rovinata; la facciata con l'atrio e lo scalone monumentale di Palazzo Madama; la basilica di Superga (1717-1731), la chiesa e alcune parti del castello di Venaria (1713), il castello di Stupinigi (cominciato nel 1729), la chiesa del Carmine (1732-35) e molte altre minori.
Intorno a questi due massimi, opera attivamente in Piemonte nel '600 e '700 una schiera d'architetti indigeni che, più o meno sotto l'influenza di quelli, svolgono variazioni d'un barocco locale. Fra essi Bernardo Vittone è forse colui che raggiunge le espressioni più personali e artisticamente più elevate, trattando gli elementi guariniani e iuvariani con una eleganza mossa e modi di illuminazione leggiera e diffusa, che s'imparentano al rococò (p. es. la chiesa di S. Michele a Torino). Fra i più produttivi furono Francesco Gallo di Mondovì e Benedetto Alfieri di Asti. Il primo svolse la sua attività soprattutto a Mondovì e vicinanze: chiesa della Misericordia, 1708-1725; collegio dei gesuiti, 1713; facciata della chiesa della Missione (questa chiesa contiene affreschi del padre Andrea Pozzo del 1679); S. Croce a Cuneo; la cupola del Santuario di Vicoforte; la SS. Trinità di Fossano, una delle chiese barocche più ornate del Piemonte, 1730-39; ecc. L'Alfieri fu architetto ufficiale e lavorò in luoghi diversi: a Torino; a Carignano, chiesa di S. Giov. Battista; a Vercelli, ricostruzione del duomo; ad Alessandria, palazzo Ghillini, una delle sue migliori costruzioni, ecc. E quando si ricordino ancora il Lanfranchi, col palazzo municipale del 1659-63; A. Bertola, che fu soprattutto architetto militare; il Garoe, non già spagnolo come finora s'è creduto, ma oriundo del Canton Ticino, col palazzo Asinari di S. Marzano del 1684 circa e il palazzo Morozzo della Rocca; Gianfr. Baroncelli, coi palazzi Graneri (1683) e Barolo (1692) con grandioso vestibolo; G. Giac. Planteri col palazzo Saluzzo di Paesana del 1720 (gli edifici sopra nominati sono tutti a Torino); e ancora il Magnocavallo e lo Scapitta per Casale, il Martinez che lavorò spesso con l'Alfieri; e una quantità di castelli e palazzi di autori varî o incerti: quali l'università di Torino del genovese Giov. Ant. Ricca, del 1714; i castelli di Racconigi e Agliè ecc., si avrà un'idea di come fu intensa l'attività architettonica che si svolse in Piemonte nell'epoca barocca.
Contemporaneamente, nel '600 e più nel '700, molti pittori lavorarono in Piemonte. Anche la pittura, come l'architettura, ricevette un impulso centrale dalla corte, e reca impresso perciò, nelle sue linee generali, un carattere aulico ed è legata a scopi pratici: ritratti di nobiltà e di corte, decorazione di chiese e palazzi con composizioni che, siano religiose o allegoriche, sono tutte scenograficamente mosse e artificiosamente elevate di tono. I complessi più tipici, dove l'affresco si combina con lo stucco, vanno ricercati nel castello di Stupinigi (soffitti di G. B. Crosato, Dom. e Gius. Valeriani, C. A. Vanloo), nel Palazzo Reale (affreschi e dipinti di Cl. Beaumont), nel palazzo dell'Acc. filarmonica (soffitto di B. Galliari). Sono il Beaumont e Bernardino Galliari i pittori più rappresentativi del'700 piemontese, entrambi esuberanti e scenografici nella decorazione. Il secondo fu scenografo anche nel senso materiale della parola, attività che divenne tradizionale nella sua famiglia (Giovanni Antonio e Gaspare) e che a Torino aveva avuto un precedente notevolissimo nell'opera - assai interessante anche sotto questo aspetto - dello Juvara. Altri artisti piemontesi del '700 degni di menzione sono A. Milocco (affreschi in S. Francesco di Assisi, in S. Filippo, nella chiesa del SS. Sudario, alla Consolata, ecc.); Pier Fr. Guala, di cui ricordiamo la bella tela dei Canonici di Lu; Maria Giovanna B. Clementi detta la Clementina, buona ritrattista; V. A. Cignaroli, soprattutto paesista; i generisti D. Olivero e Graneri, ecc. Inoltre molti sono gli artisti non piemontesi attivi a Torino: Daniele Seiter, i Vanloo, L. Pécheux, i fiamminghi pittori di battaglie G. Huchtemburg, G. La Pegna, G. B. Verdussen, ecc.
La scultura anche nell'epoca barocca ebbe in Piemonte una parte secondaria. Nel 1739 si creò a Torino, con prevalenti scopi pratici di decorazione, una scuola diretta dal nipote dello Juvara, Simone Martinez, da cui uscirono i Plura. Contemporaneamente ad essi lavorarono i Clemente, i Bernero, i Bolgieri, Fr. Ladatte; un poco più tardi i fratelli Ignazio e Filippo Collino, già di tendenze volgenti verso un incipiente neoclassicismo.
Sorsero inoltre nel '600 e '700 in Piemonte le fabbriche di ceramiche di Torino e Vinovo, l'arazzeria di Torino; e fu ampiamente trattata la lavorazione artistica del ferro battuto e, soprattutto, del legno: portoni scolpiti, altari, cornici, mobili, si ritrovano in tutto il Piemonte, con varietà di motivi locali, per cui, ad es., i prodotti di Vercelli si differenziano da quelli di Torino, e questi dai prodotti del Piemonte meridionale. L'astigiano G. M. Bonzanigo ebbe fama per i suoi mobili, che sono realmente assai ben lavorati quanto a precisione e ad abilità manuale, ma difettano di vero stile.
Nell'epoca moderna il contributo del Piemonte allo svolgimento dell'arte italiana non fu grande. In architettura furono continuate a Torino le buoni tradizioni di urbanistica, con sistemazioni quali l'attuale Piazza Vittorio, regolare e armoniosa. Le fa da sfondo la chiesa della Gran Madre, eretta nel 1818-31 da Ferd. Bonsignore. Altro edificio ottocentesco tipico di Torino, ma di discutibile valore artistico, è la Mole Antonelliana, cosiddetta dal costruttore, l'ingegnere Antonelli, lo stesso che a Novara riedificò la cattedrale e impose al S. Gaudenzio una cupola che richiama la mole torinese. Novara, fra le città piemontesi, è la più ricca di costruzioni neoclassiche, le quali, anche se non hanno un'importanza veramente monumentale, le conferiscono però una sua fisionomia signorile. Nella seconda metà dell'800 l'architetto preminente a Torino fu C. Cappi. Nella scultura, fra i monumenti che si sono moltiplicati a Torino, eccelle quello equestre a Emanuele Filiberto del Marocchetti; fra gli scultori, ottocenteschi o contemporanei, ricordiamo E. Tabacchi, L. Bistolfi, D. Calandra, P. Canonica, E. Rubino.
La pittura dell'Ottocento in Piemonte seguì le alternative del gusto del secolo e fu romantico-accademica con i paesaggi di Massimo D'Azeglio e i quadri storici di A. Gastaldi ed E. Gamba; ma poco interesse avrebbe per noi se non fosse per un gruppo di paesisti, che non formano una scuola, perché diversissimi fra loro, ma che tutti appartengono alla corrente dell'impressionismo. Sono A. Fontanesi, V. Avondo, P. Delleani, A. Pasini, opere dei quali si trovano al Museo Civico di Torino.
Anche attualmente vive a Torino un gruppo di artisti aperto alle tendenze più moderne dell'architettura e della pittura (Felice Casorati, Menzio, Spazzapan), che lavorano attivamente alla ricerca di espressioni adeguate ai nuovi orientamenti dello spirito.
V. tavv. XVII-XLIV.
Bibl.: Theatrum Statuum Regiae Celsitudinis Sabaudiae Ducis, Amsterdam 1682; Padre Audiberti, Regiae Villae Poetice Descriptae, 1711; G. Casalis, Dizionario degli stati del re di Sardegna, Torino 1834-56; C. Promis, Gli ingegneri militari... in Piemonte, in Miscellanea di storia italiana, XII (1872); A. Manno, Bibliografia storica degli stati della monarchia di Savoia, Torino 1894-1913 (fino alla voce Mondonio); A. Stella, Pittura e scultura in Piemonte (1842-91), Torino 1893; S. Weber, Die Begründer der Piemonteser Malerschule, Strasburgo 1912; A. Baudi di Vesme, Per le fonti della storia dell'arte piemontese, in Atti del XI Congresso di storia dell'arte, Roma 1912 (pubblic. nel 1922): bibliografia artistica molto ricca fino a quell'anno; id., Catalogo della R. Pinacoteca di Torino, Torino 1912; L'arte alla corte di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I (carte del conte A. Baudi di Vesme), in Atti della Società piemontese di archeologia e belle arti, IX (1928); A. E. Brinckmann, Theatrum Novum Pedemontii, Düsseldorf 1931; L. Rossi, La pittura e la scultura del 700 a Torino, Torino 1934.
Musica popolare. - L'importante sviluppo avuto in Piemonte durante più secoli dalla musica d'arte non ha condotto la musica popolare a quelle deviazioni che si notano in altre regioni.
Va osservato, a questo proposito, che interferenze d'arte non erano così facili come altrove, anche per il carattere più specialmente aulico serbato dall'attività dei musicisti, che si tenne di solito stretta alla musica strumentale anziché alla teatrale.
A questo si deve, in parte, la purezza con la quale anche oggi si presentano molti canti piemontesi di popolo. Nei quali troviamo in quantità notevole specialmente canzoni narrative (storiche o romanzesche) e domestiche; ma anche le liriche non fanno difetto.
I caratteri stilistici più costanti nell'intonazione musicale si possono indicare, come si comprende dai seguenti esempî, nella prevalenza dell'elemento ritmico sul melodico, accentuata da una vigorosa scansione sillabica, aliena da melismi quanto da corone; nel quasi totale impero della tonalità moderna del maggiore-minore, tanto più emergente ove si pensi alla base modale serbata dal canto d'altre regioni italiane:
Aspetto diverso presentano canti che, come il seguente, rappresentano, piuttosto che una autoctona figura regionale, una riassunzione locale (Val d'Aosta) di correnti derivate dal canto popolare savoiardo.
Bibl.: C. Nigra, Canti popolari del Piemonte, Torino ; L. Sinigaglia, Vecchie canzoni popolari del Piemonte, Lipsia 1913-1922; C. Ferraro, Canti popolari monferrini, Torino 1886; id., Canti popolari del basso Monferrato, Palermo 1888; C. Boraggio, I canti popolari del Piemonte, in Giornale liturgico, 1885; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, Roma 1921.