Pasolini, Pier Paolo
Scrittore e regista cinematografico, nato a Bologna il 5 marzo 1922 e morto a Ostia (Roma) il 2 novembre 1975. Poeta, narratore, filosofo, intellettuale impegnato oltre che regista, erede professo di Roberto Rossellini, P. non solo proseguì l'esperienza del Neorealismo, ma ne estrasse la sostanza, ne risolse le incertezze, ne superò i limiti ideologici. La sua opera cinematografica ‒ che scandalizzò anche i marxisti di sinistra, i quali videro nei suoi primi film un brutale realismo provocatore e in quelli successivi una regressione nel mito e un ripiegamento dell'autore verso una poetica individualista ‒ manifesta, oltre a un vasto raggio d'interessi culturali che vanno dalla pittura alla letteratura, dalla filosofia all'antropologia culturale, anche una straordinaria coerenza che si potrebbe sintetizzare con la frase che P. fa pronunciare al centauro Giasone nel film Medea (1969): "Solo chi è realistico è mitico e solo chi è mitico è realistico". Anche il suo recupero del Neorealismo fu sin dall'inizio inteso a sottolineare la presenza del mito nella realtà quotidiana: il mito rappresenta la continuità, mentre la storia, che P. non trascura affatto, la differenza, il cambiamento. La sua opera, che suscitò molte polemiche ma ottenne anche numerosi riconoscimenti e premi, mostra sin dall'origine una profonda e straordinaria compenetrazione di sacro e profano, di spietato realismo e altrettanto intensa religiosità: l'alto e il basso per P. non sono distinguibili, il sesso è sacro quanto l'anima e nella carne si manifesta lo spirito.Figlio di un ufficiale di carriera, trascorse l'infanzia in diverse città dell'Italia centrale e settentrionale e studiò a Bologna letteratura italiana: ammiratore del filologo G. Contini, che scoprì le sue poesie in dialetto friulano, e dello storico dell'arte R. Longhi, al quale doveva, come scrisse egli stesso, il merito della sua 'folgorazione figurativa', si laureò con una tesi su G. Pascoli nel 1945. Nel 1943 si era stabilito a Casarsa della Delizia in Friuli con la madre e il fratello (morto nel corso della Resistenza), ma nel 1950 fu costretto a trasferirsi a Roma a causa dello scandalo suscitato dalla sua omosessualità: una diversità che avrebbe in seguito sempre difeso, talvolta in tribunale, che gli sarebbe costata l'espulsione dal Partito comunista italiano e sarebbe stata anche all'origine del suo drammatico omicidio all'idroscalo di Ostia.P. esordì nella regia nel 1961 con Accattone, portando sullo schermo quei ragazzi delle borgate romane di cui aveva già proposto in letteratura il linguaggio affascinante e sboccato con il romanzo Ragazzi di vita (1955). Di Accattone fece scandalo non tanto la rappresentazione realistica della vita di borgata, quanto la paradossale consacrazione dei volti di ruffiani, ladri, prostitute, assassini (interpretati da attori realmente 'presi dalla strada') attraverso uno stile ieratico dichiaratamente ispirato a Masaccio e ai pittori del Trecento toscano, come A. Lorenzetti e alle sue icone di santi su fondo oro. Essenziali per comprendere lo spirito del cinema pasoliniano sono anche i riferimenti costanti a Dante, dal primo all'ultimo film. Accattone (Franco Citti), fannullone 'magnaccia' e ladro, seduce con un regalino Stella, e la convince a prostituirsi, ma le sofferenze della ragazza, che lo ama davvero, provocano in lui un pentimento improvviso e fanno nascere l'amore nel suo cuore inaridito. Accattone decide di andare a lavorare ma, incapace di sopportare la fatica, torna a rubare, viene colto sul fatto e muore fuggendo. Le sue ultime parole ("Mo' sto bene!") suggeriscono che ha raggiunto la pace, ottenendo con il suo pentimento la grazia, e spiegano la citazione dantesca dell'inizio del film ("Per una lagrimetta che 'l mi toglie"), dal V Canto del Purgatorio in cui Buonconte da Montefeltro viene perdonato, nonostante le molte colpe, per essersi pentito in punto di morte. Ma tale conclusione è iscritta fin dall'inizio nello stile del film; Accattone è consacrato dalle inquadrature prima che dalla trama: l'immagine che lo mostra dall'alto di ponte Milvio mentre si tuffa nel Tevere, lo assimila a un angelo; il lungo carrello con cui la cinepresa lo riprende sotto il sole leggermente dal basso, dopo che ha rubato la collanina d'oro al figlioletto, lo mostra paradossalmente come un martire e un santo e segue il suo percorso come fosse una Via Crucis. La Passione secondo Matteo di J.S. Bach rafforza questa sacralità del mondo quotidiano dove, come dice sempre il centauro, "tutto è santo". Il modello seguito da P. infatti è quello delle sacre rappresentazioni medievali, in cui spesso la parte di Cristo era affidata a un ladro o a un assassino, non solo per aiutarlo a redimersi ma anche come ammonimento alla collettività, per rammentare che tutti gli uomini sono fratelli e che spesso Cristo si presenta sotto spoglie misere e insospettabili. Anche nel successivo Mamma Roma (1962) la scena iniziale è una citazione del Cenacolo di Andrea del Sarto, pur mettendo in scena il banchetto di nozze di un'ex prostituta, fra porci e oche, mentre quella finale, con i quattro carrelli panoramici sul corpo di Ettore steso e legato sopra un tavolaccio di contenzione, rimanda al Cristo morto di A. Mantegna, e consacra con 'l'eternità dello stile' (come aveva detto lo stesso P. altrove, parlando della poesia) i personaggi degradati di una storia comune. Una prostituta, che porta il metaforico nome di Mamma Roma (Anna Magnani), riesce a riscattarsi e ad aprire un banco di verdura, ma i suoi sogni piccolo-borghesi vengono irrimediabilmente infranti dal ritorno del suo ex 'protettore' (sempre interpretato da Franco Citti). Questi, infatti, svela al figlio Ettore la professione originaria della madre, portandolo così alla disperazione e alla morte. Anche in questo caso, la citazione dantesca collocata alla fine, in cui si narra l'ingresso nella città di Dite, offre una chiave di lettura: la realtà delle borgate romane rappresenta una vera e propria discesa negli inferi. Con Il Vangelo secondo Matteo (1964), con il quale vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e il Nastro d'argento alla regia, appare definitivamente chiaro l'afflato religioso pasoliniano. Opera di straordinaria ricchezza iconografica, messa in scena in Calabria (Capo Rizzuto e Le Castella) e in Basilicata (a Barile e presso i Sassi di Matera), il film mostra un Cristo ascetico, combattivo, che sembra tolto di peso dalle tavole di El Greco (la Cacciata dei mercanti dal Tempio), ma non senza riferimenti cinematografici, soprattutto a Sergej M. Ejzenštejn: si pensi alla strage degli innocenti (in cui si fa allusione, attraverso la musica, al film Aleksandr Nevskij, 1938), o al montaggio delle beatitudini che proietta letteralmente le inquadrature contro lo spettatore in un vortice di effetti ejzenštejniani. Non avendo trovato nella Palestina contemporanea tracce di questa grandezza spirituale (come afferma nel diario filmato Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, 1964), P. mostra una Terra Santa in cui si mescolano in una vertigine temporale i fez dei giovani fascisti, gli elmetti medievali di Piero della Francesca o i ricchi 'giovanottoni' di Masolino (secondo la definizione di Longhi), per sottolineare il carattere atemporale della rappresentazione. La lettura strutturalista della storia e del mito, che vede questi due aspetti del reale costantemente intrecciati, caratterizza l'opera di P., secondo cui la comprensione del cristianesimo richiede non un illusorio primitivismo ma, al contrario, la conoscenza e l'accumulo di tutta la cultura occidentale. Le musiche di Bach, alternate con gli spirituals e con una messa africana, contribuiscono alla potente sintesi. L'ispirazione religiosa pasoliniana appare però sempre stemperata dall'ironia e dall'autoironia, come nel piccolo capolavoro realizzato poco prima, La ricotta, episodio del film collettivo RO.GO.PA.G. (1963), che venne condannato per vilipendio alla religione di Stato, e che uscì nuovamente, dopo che P. ebbe 'corretto' alcune battute, con il titolo Laviamoci il cervello ‒ RO.GO.PA.G. Una povera comparsa, dal significativo nome di Stracci, interpreta il ladrone in un film su Gesù Cristo, e dopo aver rubato e divorato alcuni cestini del pranzo, muore di indigestione sulla croce. Orson Welles, che interpreta la parte del regista, rappresenta anche una parodia dello stesso P., che ironicamente gli fa leggere alcuni splendidi e terribili versi di una poesia messa in calce alla sceneggiatura di Mamma Roma. Nei numerosi cortometraggi, sia di fiction sia documentaristici, viene in luce l'aspetto più innovativo di P., che pensa a un cinema capace non solo di raccontare storie, ma anche di scuotere, di far pensare. Nell'episodio La Terra vista dalla Luna (del film collettivo Le streghe, 1967) la morte e la resurrezione di Assurdina (Silvana Mangano), perfetta donna di casa nelle oscure e colorate bidonville di una Roma fumettistica, si concludono con la morale che "essere vivi o essere morti è la stessa cosa". Il breve episodio Che cosa sono le nuvole? (del film collettivo Capriccio all'italiana, 1968) è uno splendido apologo platonico sulla vita e sulla morte che mostra Totò nella parte di Jago e Ninetto Davoli nella parte di Otello. Entrambi, però, sono solo due marionette di legno in un teatrino di borgata e, fatti a pezzi dagli spettatori, vengono raccolti da uno spazzino canterino (Domenico Modugno), che rappresenta la morte e che li getta nella spazzatura. Stesi sopra i rifiuti, ma finalmente all'aperto, fuori dal teatro della vita, scoprono la "straziante meravigliosa bellezza del creato". In La sequenza del fiore di carta (brevissimo episodio di Amore e rabbia ‒ Vangelo '70, 1969) il giovane fannullone Ninetto, che non vuole sapere niente di politica e che porta a spasso la sua giovinezza come un grande papavero di carta, viene condannato da Dio, perché in questo mondo l'ignoranza è una colpa. Anche nei documentari emergono uno stile e una forma di scrittura filmica del tutto nuovi. La rabbia (1963), primo episodio del film omonimo diretto con Giovanni Guareschi, è un commento amarissimo sulla violenza della sopraffazione degli anni Sessanta, che si conclude con una tenera e dolce poesia dedicata a Marilyn Monroe, vista come simbolo dell'innocenza perduta. Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo è un diario sulla Terra Santa; Comizi d'amore (1965) una scioccante inchiesta sulla sessualità, realizzata insieme ad Alberto Moravia e Cesare Musatti, tesa a mostrare l'ignoranza retriva degli italiani; negli Appunti per un'Orestiade africana (1975) P. propone invece di rivisitare il mito di Oreste ambientandolo nell'Africa in via di sviluppo.Anche nei lungometraggi il regista proseguì la sua opera intenta a scuotere il pigro e indolente pubblico italiano. Uccellacci e uccellini (1966) è un apologo sull'insufficienza dell'ideologia comunista di fronte alla fame atavica del sottoproletariato. Teorema (1968), adattamento del suo romanzo omonimo, è un 'mistero' medievale e moderno al tempo stesso, un'allegoria in cui l'arrivo di uno sconosciuto che intrattiene rapporti sessuali con tutti i componenti di una famiglia borghese, uomini e donne, provoca una serie di reazioni in cui ciascuno viene messo di fronte a sé stesso. Edipo re (1967) e Medea sono due rivisitazioni del mito in cui il tema dello straniero esule viene sviluppato non solo con riferimenti autobiografici, come spesso fu rimproverato a P., ma soprattutto come una grande metafora della condizione umana. Anche qui la lettura strutturale viene usata per cogliere nel mito le forme profonde dell'esistenza, forme e condizioni che ricorrono costantemente nella storia. Le sofferenze di Edipo infatti attraversano i secoli, dalle epoche più remote e arcaiche fino alla Bologna degli anni Sessanta, mentre quelle di Medea, sedotta a abbandonata da Giasone, continuano dal passato della Cappadocia fino al presente del Campo dei Miracoli a Pisa. L'opera successiva di P., la cosiddetta trilogia della vita, Il Decameron (1971, Orso d'argento al Festival di Berlino), I racconti di Canterbury (1972, Orso d'oro al Festival di Berlino) e Il fiore delle mille e una notte (1974, Gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes) raccoglie tre studi sul rapporto fra arte e vita che, lungi dall'essere ‒ come furono invece considerati all'uscita ‒ una caduta nella nostalgia di un passato inesistente o di una sessualità immaginaria, rivelano tutta la profondità del pensiero pasoliniano. Il livido colore dei guappi napoletani nel primo, l'angoscia della notte e dell'incontro con il diavolo nel secondo, e la disperazione del piccolo Nureddin che perde la sua donna e scivola in un mondo diabolico nel terzo, si temperano solo alla fine dei tre film con un ritorno all'arte e alla ricchezza della poesia, che non è semplice illusione, ma illusione consapevole, non fuga dal mondo ma riflessione e creazione, vicinanza di morte e vita; l'arte è conoscenza, comprensione che passa attraverso la morte. "Che notte! Dio non ne ha mai fatta una uguale. Il suo inizio fu amaro, ma com'è dolce la sua fine!": così recita l'ultima poesia di Nureddin alla fine del film, con chiara allusione all'arte, alla vita e alla morte. L'ultimo film di P., Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo nel 1976, costituisce forse il suo vero atto di provocazione e scandalo, e per la sua brutalità rappresenta ancora un'opera inguardabile e inaccettabile: durante la Repubblica di Salò, un gruppo di lividi e ripugnanti fascisti si chiude in una villa con il fiore della gioventù italiana e la stupra all'infinito, in una sequenza di crudeltà e ferocia che rende quel luogo una metafora del mondo, mostrando come il potere sia sempre prevaricazione, in un'infinita ripetizione. Film di stile quasi giapponese, che ricorda per certi aspetti i lavori di Mizoguchi Kenji, come Chikamatsu monogatari (1954; Gli amanti crocifissi), per la semplicità delle inquadrature, lo stile senza stile, il rifiuto della retorica, che rafforzano la tremenda crudeltà della messa in scena, Salò è un'opera filosofica sul male e sulla prevaricazione. Le immagini finali della tortura e della danza dei carnefici, che rimandano all'iconografia medievale della Danza della morte o Totentanz, rappresentano la storia come vittoria del male nel mondo e resteranno fra le più crudeli e insopportabili nella storia del cinema. Non meno importante del lavoro di regista fu la riflessione sul cinema (per la quale v. anche estetica del cinema, linguaggio del cinema e teorie del cinema) con cui P. individua nuove prospettive, in particolare negli scritti Il 'cinema di poesia' (1965) e Osservazioni sul piano sequenza (1967), dove delinea un'idea di cinema poetico (costituito da segni "irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici"), contrapposto a quello prosastico-narrativo imposto dall'industria hollywoodiana, saggi poi raccolti in Empirismo eretico (1972). Da ricordare inoltre, per una ricostruzione del suo pensiero, i libri di interviste Les dernières paroles d'un inpie, entretiens avec Jean Duflot, 1981 (trad. it. Il sogno del centauro, 1983, 1993²); Pasolini su Pasolini: conversazioni con Jon Halliday, 1992; Interviste corsare sulla politica e sulla vita: 1955-1975, a cura di M. Gulinucci, 1995.
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