CAVALLINI, Pietro
(o Pietro de' Cerroni)
Artista attivo principalmente a Roma e a Napoli tra l'ultimo quarto del Duecento e il primo decennio del Trecento.Scarse e variamente interpretate, secondo la vicenda critica tradizionale, sono le notizie documentarie relative al maestro. Una prima menzione si ha in un atto di compravendita datato 2 ottobre 1273 in cui un certo "Petrus dictus Cavallinus de Cerronibus" compare come testimone assieme a Bartholomeus Johannis Cerronis (Roma, S. Maria Maggiore, Arch., orig. perg. D, II, 48; Ferri, 1904; 1907). Quella dei Cerroni era una famiglia piuttosto importante nella Roma del Tardo Medioevo: alla fine del Duecento un suo membro appare come committente di opere d'arte (Hetherington, 1984) e un altro, nel Trecento, come senatore (Salimei, 1935). Trentacinque anni più tardi, il 10 giugno 1308, un documento della cancelleria angioina di Napoli registra un pagamento di 30 once d'oro a favore del "magister Petrus Cavallinus de Roma pictor", insieme alla concessione da parte di re Carlo II di una casa e una pensione (Napoli, Arch. di Stato, Reg. Ang. 1307, 167, c. 245); il 15 dicembre dello stesso anno un altro atto conferma la concessione di tali benefici da parte di Roberto d'Angiò (Napoli, Arch. di Stato, Reg. Rob. 1309, H, c. 216; Schulz, 1860; Salazaro, 1882-1883). Di recente, Aceto (1992) ha reso nota una terza attestazione di pagamento ad alcuni artisti tra cui "magistro Petro Cavallino de Roma pittori", databile tra il giugno 1308 e il 31 agosto 1309. Nei documenti angioini, comunque, il soprannome Cavallinus sostituisce, forse definitivamente, il nome della casata dei Cerroni, come sembrerebbe potersi dedurre dal fatto che, più tardi, in una postilla vergata su un codice vaticano (BAV, Vat. lat. 1927) - contenente opere di Valerio Massimo e databile approssimativamente tra il 1330 e il 1360 - un certo Giovanni Cavallini, scrittore apostolico, ricorda il proprio padre Petrum de Cerronibus, il quale "centum annorum vitam egit; qui nullo unquam frigore caput vestimentum cooperuit". Questi scarni e, nell'ultimo caso, singolari riferimenti hanno condotto parte della critica (Ragionieri, 1981; Boskovits, 1983) a dubitare della possibilità di identificare il Petrus dictus Cavallinus, citato nel documento del 1273, con il pittore beneficiario dei pagamenti erogati dalla corte angioina. Da ultimo Barbero (1989) ha però reso noto un testamento redatto in data 12 gennaio 1279, nel quale un membro della famiglia Orsini, Matteo Orso figlio di Napoleone, dispone che i propri eredi versino 13 libras provisinorum a Petro Cavallino a restituzione di un prestito e altre 13 per una fibula (Roma, Arch. Storico Capitolino, Fondo Orsini II.A.II, 12). In questo nuovo documento il personaggio citato appare già nel 1279 socialmente affermato, autore di un pezzo di oreficeria e creditore - sia pure di una somma non particolarmente elevata - nei confronti di un membro di una nobile e potente famiglia romana.Se nel 1279 C. è senz'altro adulto e già abbastanza agiato da poter prestare denaro, la data della nascita dell'artista sembra poter essere verosimilmente collocata intorno alla metà del secolo, o forse anche più precisamente intorno al 1240, con conseguenze di non poco peso sulla discussa cronologia delle sue opere. Di esse, infatti, dal punto di vista della datazione nulla si sa di certo, né le fonti tradizionali - dai Commentari di Ghiberti, alle Vite di Vasari, alle Considerazioni sulla pittura di Mancini - offrono alcuna notizia utile. Per contro, sulla storiografia successiva, anche recente, ha pesato in modo talora affatto acritico l'affermazione vasariana secondo cui C. fu allievo di Giotto, affermazione che appare piuttosto - con un atteggiamento che ha pesantemente inciso anche in seguito sulla tendenza della critica cavalliniana a sproporzionate esaltazioni e viceversa riduzioni della figura e dimensione storica dell'artista romano - squisitamente campanilistica, mirata a riaffermare la supremazia della scuola toscana su quella romana (Paeseler, 1971). L'attuale situazione documentaria - in accordo del resto con i caratteri dell'opera cavalliniana - sembra in ogni caso delineare un'anzianità di C. rispetto a Giotto di quasi una generazione.L'impresa forse più antica che le fonti attestano realizzata da C. a Roma, quella della basilica di S. Paolo f.l.m., è andata completamente perduta nel corso dell'incendio che devastò l'edificio nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823. Si trattava degli affreschi, che Ghiberti per primo attribuì a C., che si susseguivano nella navata centrale, con Storie dell'Antico Testamento sulla parete destra e degli Atti degli Apostoli su quella sinistra. I due cicli comprendevano ventidue riquadri ciascuno, su due registri sovrapposti; sotto di essi si stendeva una serie di ritratti papali entro clipei, mentre in alto, tra le finestre, erano affrescate grandi figure di apostoli e profeti.Gli affreschi, che sono tuttora ben leggibili dal punto di vista iconografico, soprattutto attraverso le accurate copie seicentesche fatte eseguire dal cardinale Francesco Barberini (Roma, BAV, Barb. lat. 4406; Waetzoldt, 1964) - oltre ad alcuni dipinti e incisioni dei secoli successivi (Hetherington, 1979, p. 81ss.) -, sul piano stilistico sono oggi interpretabili solo in alcuni clipei con i busti dei pontefici, unici frammenti superstiti dell'originario imponente complesso (Roma, S. Paolo f.l.m., Pinacoteca), comunque lontani dall'autografia cavalliniana (Gardner, 1971; Romano, 1989b). L'opera di C. interveniva nella più antica decorazione affrescata della basilica ostiense, dovuta, a quanto sembra, alla committenza di papa Leone Magno (440-461), in un rapporto con essa che, date le attuali conoscenze, resta in sostanza ipotetico. Per ciò che concerne la datazione, la critica è ormai pressoché concorde nel riferire l'inizio del 'restauro' del ciclo paleocristiano agli anni immediatamente precedenti il 1277 (Gardner, 1971; Hetherington, 1979; Aggiornamento scientifico, 1988); sembra suggerirlo un frammento di iscrizione, riportato dal copista seicentesco, posto accanto a una figura di donatore nella scena di S. Paolo che predica a Gerusalemme, ove si legge il nome di un "I(o)h(anne)s Levita", probabilmente identificabile con Giovanni Gaetano Orsini, il futuro papa Niccolò III (1277-1280). Un'altra iscrizione frammentaria ricorda inoltre che il ciclo neotestamentario fu portato a termine sotto l'abate Giovanni VI, in carica ca. dal 1278 al 1279; un'ultima testimonianza epigrafica fa poi menzione di un "Ursus sacerdo(s) et monachu(s)", la cui identificazione storica è assai incerta. Una seconda fase del 'restauro' cavalliniano dovette aver luogo al tempo dell'abate Bartolomeo (1282-1297), probabilmente entro il 1285, anno in cui quest'ultimo commissionò il ciborio ad Arnolfo di Cambio, verosimile completamento dell'impresa decorativa nella basilica ostiense. Sempre secondo Ghiberti, C. eseguì per S. Paolo anche il mosaico della facciata, commissionato da papa Giovanni XXII nel 1325, secondo quanto attestato da una lettera dello stesso anno (Roma, Arch. Segreto Vaticano, Reg. Vat. 78, c. 1v); ne rimangono alcuni brani, sfigurati dai restauri, inseriti nell'arco trionfale e in quello leoniano della basilica attuale: un solo frammento, una testa d'angelo individuata da Sindona (1969), sembra conservare attendibili livelli di leggibilità. L'opera nel suo complesso è nota attraverso varie testimonianze grafiche e soprattutto grazie a un disegno conservato a Edimburgo (Nat. Gall. of Scotland; Gardner, 1973); essa raffigurava al centro, sul cavetto di facciata, un clipeo con il Salvatore, sostenuto da angeli e affiancato ai lati dai simboli dei quattro evangelisti, mentre più in basso, tra le finestre, erano collocate le figure di S. Paolo, della Vergine, del Battista e di S. Pietro.Le altre due imprese monumentali di C. a Roma sono i mosaici di S. Maria in Trastevere e gli affreschi di S. Cecilia in Trastevere; anche per esse esiste un problema di successione temporale: per ambedue, infatti, mancano del tutto riferimenti cronologici precisi.Nel primo caso - i mosaici eseguiti da C. in S. Maria in Trastevere - la data 1291 proposta da De Rossi (1899) correggendo Barbet de Jouy (1857), che leggeva, sulla base di scarni lacerti di iscrizione, un fantasioso anno 1351, non presenta evidenza documentaria tale da garantirne la validità. Altrettanto aleatori sono risultati anche recenti tentativi di spostare la data molto in avanti, verso gli inizi del Trecento (Hetherington, 1979; Ragionieri, 1981; Poeschke, 1983; Bellosi, 1985). Si tratta di un ciclo - sei scene della Vita della Vergine (Nascita di Maria, Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Dormitio Virginis) e un pannello votivo ove figurava in origine, oltre alla data, anche la firma di C. (De Rossi, 1899), con il committente dell'opera, Bertoldo Stefaneschi, presentato alla Vergine e al Bambino dai ss. Pietro e Paolo - caratterizzato da un impianto spaziale fortemente tridimensionale, soprattutto nella resa delle architetture (Nascita di Maria, Annunciazione, Presentazione al Tempio) e nel saldo plasticismo con cui sono costruite le figure dei personaggi.La scoperta e la pubblicazione da parte di Hermanin (1902) degli affreschi di S. Cecilia in Trastevere segnò un momento di fondamentale importanza nel panorama critico sulla pittura duecentesca romana. Aprì infatti un'ampia e definitiva breccia nel bipolarismo stilistico entro cui essa era stata fino a quel momento racchiusa: l'influsso del passaggio di Cimabue per Roma nel 1272 da un lato e la tradizione bizantina dall'altro. Si vide, allora, che nell'ultimo quarto del Duecento anche a Roma si ragionava in termini di ampliamento della visione spaziale e questo indipendentemente e prima della lezione giottesca. Hermanin (1902), infatti, collegò subito una possibile datazione degli affreschi di S. Cecilia al riferimento cronologico costituito dal ciborio eseguito da Arnolfo di Cambio nella stessa basilica, firmato e datato al 1293. In tempi più recenti Romanini (1981; 1983; 1989) ha dimostrato che - analogamente a quanto avvenuto a S. Paolo f.l.m. - la messa in opera del ciborio arnolfiano dovette costituire l'atto conclusivo di una vasta campagna di rinnovamento della basilica che, nel caso di S. Cecilia, sembra probabile abbia avuto nello stesso Arnolfo il capocantiere dell'impresa e comunque l'ispiratore delle aperture al Gotico francese che caratterizzano ampi passaggi della decorazione. A S. Cecilia, infatti, oltre al celeberrimo affresco di controfacciata con il Giudizio universale, dove si è riconosciuta unanimemente la mano di C. in prima persona, le pareti della navata accoglievano in origine un ciclo vetero e neotestamentario di cui si conserva il registro superiore, scandito da una serie di incorniciature e motivi architettonici dipinti (nicchie a gâbles con figure di santi, colonnine tortili, architravi), che trasformano strutture di marcato accento rayonnant in una trasfigurante versione policroma coincidente con quella del ciborio arnolfiano. In ogni caso il Giudizio finale, sulla controfacciata della basilica, è uno dei capitoli più alti della pittura romana del tardo Duecento. La saldezza di impianto delle figure, la loro classica monumentalità, i sottili e curatissimi passaggi cromatici con cui sono costruite le strutturate volumetrie dei corpi fanno di questo affresco un punto nodale per la concezione dello spazio pittorico medievale. Per quanto riguarda i registri più bassi della decorazione originaria delle pareti della navata, si conservano a destra ampi frammenti di tre scene con le Storie di Isacco e Giacobbe e a sinistra parte di un'Annunciazione e una grande figura di S. Michele Arcangelo. Se queste ultime due immagini appaiono dovute a maestranze di bottega ben più deboli di C., i frammenti delle Storie di Isacco sono opera di un pittore che per sicurezza di impianto e originalità di ductus si colloca a un livello di vera eccellenza qualitativa. Un pittore la cui ascendenza più diretta si riscontra nelle Storie di Isacco della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, da cui sembra derivare alcuni tratti dell'impostazione spaziale e certe lumeggiature taglienti, pur seguendo suoi propri originali sviluppi nel senso di un più accentuato linearismo gotico (Romanini, 1989).L'affresco absidale di S. Giorgio in Velabro costituisce uno dei più incerti problemi attributivi del corpus cavalliniano, ritenuto talora opera di bottega (Matthiae, 1972), talora sicuro autografo (Hetherington, 1979; Gardner, 1980; Boskovits, 1983). Anche per la datazione esistono perplessità, poiché il tradizionale riferimento al periodo in cui Iacopo Stefaneschi fu cardinale diacono della basilica, quindi post 1296, è stato arretrato al 1288, quando assunse la diaconia il cardinale Pietro Peregrosso, che la resse fino al 1296 e il cui nome spiegherebbe bene la presenza di s. Pietro alla sinistra del Cristo (Gardner, 1980). Se la figura di s. Giorgio con il cavallo può essere interpretata come una diretta citazione del s. Tiburzio nel ciborio arnolfiano di S. Cecilia (Romanini, 1981), la datazione dell'affresco del Velabro risulterebbe da porsi tra la data del ciborio (1293) e il termine della reggenza del Peregrosso (1296).Più concorde è il riconoscimento dell'autografia cavalliniana nell'affresco che orna la tomba del cardinale Matteo d'Acquasparta in S. Maria in Aracoeli, eseguito intorno al 1302, anno di morte del presule. Nella stessa chiesa C. aveva eseguito nell'abside un affresco raffigurante l'Apparizione della Sibilla all'imperatore Ottaviano Augusto, dettagliatamente descritto da Vasari e distrutto nel settimo decennio del Cinquecento. Dell'opera, dipinta probabilmente negli anni novanta del Duecento, rimane singolare e preziosa testimonianza iconografica in un sigillo del primo Trecento appartenuto al convento francescano dell'Aracoeli (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia, Coll. Corvisieri; Tomei, 1982). Nella stessa chiesa, peraltro, nel sottotetto della cappella Savelli, sopravvivono lacerti di affreschi raffiguranti l'Agnello mistico, con motivi architettonici a mensolette scorciate di grande qualità, almeno dal punto di vista della resa prospettica. Poiché in quegli stessi anni novanta l'Aracoeli sembra essere stata oggetto, sotto la direzione di Arnolfo di Cambio, di una grandiosa campagna di restauro e ridecorazione, le vicende artistiche arnolfiana e cavalliniana appaiono nuovamente incrociarsi in un rapporto di collaborazione, nell'ambito, si direbbe, di uno stesso cantiere (Romanini, 1989).Ancora per i Francescani, C. fu attivo nella chiesa di S. Francesco a Ripa, dove le fonti, soprattutto Ghiberti e Vasari, ricordano l'esecuzione di un ciclo vetero e neotestamentario, peraltro completamente scomparso (Hetherington, 1979; Aggiornamento scientifico, 1988). Le stesse fonti affermano che C. eseguì inoltre quattro figure di evangelisti e altri santi tra le finestre della controfacciata di S. Pietro in Vaticano (Hetherington, 1979).Altre opere romane sono state con maggiore o minore convinzione riferite al pittore in prima persona o comunque a suoi strettissimi seguaci. Tra queste vanno ricordati: il grande pannello musivo nella chiesa di S. Crisogono, raffigurante la Madonna in trono con il Bambino tra i ss. Crisogono e Giacomo (Bologna, 1969; Matthiae, 1972; Aggiornamento scientifico, 1988); una tavoletta frammentaria con il Redentore (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia; Boskovits, 1983), quasi certamente opera di bottega (Tomei, 1991); la c.d. Madonna della Bocciata (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte; Boskovits, 1983; Romano, 1989a); una tavola con un monumentale volto di Cristo nel Camposanto teutonico, da molti ritenuta autografa ma di cui un successivo restauro ha messo in dubbio l'autenticità (Aggiornamento scientifico, 1988). Tracce evidenti dello stile e dell'altissima tecnica musiva del più stretto ambito cavalliniano si ritrovano anche nei due angeli superstiti ed erratici della Navicella di Giotto già nel portico di S. Pietro in Vaticano (Boville Ernica, S. Pietro Ispano; Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte; Tomei, 1989; 1991), come pure echi diretti della pittura del maestro sono presenti nell'affresco raffigurante Bonifacio VIII, già nella loggia delle Benedizioni al Laterano (Boskovits, 1983), in particolare nella caratteristica resa volumetrica delle figure.Va infine citata l'ipotesi avanzata da Matthiae (1970) di una presenza di C., in una fase iniziale della sua carriera, nella ridipintura degli affreschi nella chiesa dell'abbazia di Grottaferrata; ipotesi suggestiva, sostenuta sulla base delle osservazioni tecniche effettuate durante i restauri, ma che non ha retto a una più serrata discussione critica (Aggiornamento scientifico, 1988).Non meno complessa è la questione relativa al soggiorno napoletano di C. a partire dal 1308, come attestato dai già citati documenti angioini. Bologna (1969) ha riconosciuto all'autografia del pittore gli affreschi della cappella Brancaccio in S. Domenico, negandogli invece la paternità di opere a lui tradizionalmente attribuite come gli affreschi in S. Maria Donnaregina o l'altro affresco con l'albero di Iesse nel duomo (cappella di S. Paolo). Per i primi Bologna (1969) ha avanzato un'attribuzione a Filippo Rusuti, mentre per l'affresco in duomo ha proposto il nome di Lello da Orvieto, artista che firmò nel 1322 nella chiesa napoletana di S. Restituta un mosaico con S. Maria del Principio fra i ss. Gennaro e Restituta e che sembra comunque gravitare entro l'orbita di un cavallinismo conosciuto di prima mano. Stilisticamente prossimi a quelli della cappella Brancaccio, ma sicuramente più avanti nel tempo, sono gli affreschi di recente scoperti nella cappella di S. Aspreno nel duomo di Napoli, anch'essi attribuiti a C. (Leone de Castris, 1986); si tratta di figure di santi e apostoli entro complesse ornamentazioni ad architetture dipinte, con riquadri a finto mosaico che, indipendentemente dalla possibilità di un poco probabile riferimento autografo, dimostrano una discendenza dal sistema decorativo di S. Cecilia in Trastevere (Aggiornamento scientifico, 1988).Altre attribuzioni vanno da sculture come il crocifisso ligneo (Lavagnino, 1953) e la statua del santo titolare nella basilica di S. Paolo f.l.m. (Mariani, 1927), al mosaico nella cappella di S. Rosa a S. Maria in Aracoeli, alla tavola con il c.d. ritratto-epitaffio di Umberto d'Ormont (Napoli, palazzo dell'Arcivescovado, già nella cappella di S. Paolo in duomo; Boskovits, 1983), alla pala con S. Lucia e una committente, già nella chiesa romana di S. Lucia in Selci (Grenoble, Mus. de Beaux-Arts; Hetherington, 1984), che appare però di ambito più torritiano che cavalliniano (Tomei, 1990).Al di là dell'attendibilità delle singole attribuzioni, molte delle quali non sono ancora giunte a più stringenti verifiche critiche, resta il fatto che l'influsso della pittura di C. appare vasto e duraturo nel tempo. Gli affreschi di S. Maria in Vescovìo, in Sabina, di San Vittore nel Lazio, di S. Antonio Abate a Ferentino (Romano, 1992), per non citare che alcuni tra i più noti, portano tracce evidenti della lezione cavalliniana, ampiamente diffusa, soprattutto nei territori a S di Roma, dai componenti di quella che, alla luce di questi esiti, si configura come una delle più importanti botteghe pittoriche di tutto il Medioevo romano.
Bibl.:
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