Pio VI
Angelo Onofrio Melchiorre Natale Giovanni Antonio Braschi nacque a Cesena il 25 dicembre del 1717 dal conte Marco Aurelio Tommaso, figlio di Francesco, e da Anna Teresa dei conti Bandi. La sua era un'antica famiglia romagnola che secondo una remota e non controllabile tradizione sarebbe stata originaria della Svezia (dai Brasck o Brascke); una qualche analogia tra gli stemmi delle due famiglie, la svedese e la italiana, può confortare la tesi di una comune origine che sarebbe da far risalire almeno al XII secolo, età in cui appaiono i rami italiani. Da Alessandria, in Piemonte, i Braschi passarono a Vicenza e a Rimini. A Cesena figurano per la prima volta tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, in due famiglie diverse, distinte dai nomi delle contrade ed entrambe ascritte al patriziato cittadino. I Braschi "dei Servi", ai quali apparteneva il futuro pontefice, furono ascritti con Francesco al Consiglio nel 1607 e conseguirono anche il titolo comitale, partecipando ininterrottamente al governo della città. Molti membri della famiglia di entrambi i rami si dedicarono allo studio della storia patria e all'erudizione locale. Nel 1731 Pietro Antonio Braschi (1664-1727), letterato e storico appartenente all'altro ramo, i Braschi "di Tavernelle", pubblicò postumo a Roma un volume sulla famiglia romana Cesennia (De familia Caesennia equestri et consulari in Roma) che ebbe una certa fama. Importanza maggiore ebbe Giovanni Battista (1656-1736) che intraprese la carriera ecclesiastica sotto la protezione di Vincenzo Orsini, futuro Benedetto XIII, allora vescovo di Cesena, e che divenne a sua volta vescovo di Sarsina, arcivescovo "in partibus" di Nisibi e ricoprì cariche in Curia. Autore di numerose opere di antiquaria, di diritto e di storia ecclesiastica e di canonistica, si applicò anche lui alla storia patria dedicandosi alla compilazione di Memoriae Caesenates sacrae et prophanae per saecula distributae, pubblicate postume a Roma nel 1738. Questa tradizione familiare di studio antiquario e di trasmissione della memoria storica municipale fondante una forte identità locale e una appartenenza civica, che caratterizza la cultura del patriziato provinciale dello Stato ecclesiastico, non sembra priva di influenza sugli interessi e sugli interventi del futuro pontefice indirizzati alla realtà delle province. Il Braschi era il primogenito di otto figli, quattro maschi e quattro femmine che non lasciarono discendenza con l'eccezione della sorella Giulia Francesca, che sposò il ravennate conte Girolamo Onesti ed ebbe tre figlie e due figli, Luigi e Romualdo. Angelo ricevette la prima educazione dai Gesuiti e si laureò giovanissimo "in utroque iure" il 20 aprile 1735; fu subito aggregato al Collegio dei venti giuristi di Cesena. Completò i suoi studi di giurisprudenza all'Università di Ferrara, sotto la guida dello zio materno Giovanni Carlo Bandi, futuro vescovo di Imola, che ricopriva allora la carica di auditore del legato pontificio, il cardinale Tommaso Ruffo. La protezione dello zio gli valse la benevolenza del Ruffo e la nomina a suo segretario, che segnò l'avvio della carriera amministrativa nello Stato. Per il conclave del 1740, dopo la morte di Clemente XII, seguì come conclavista il cardinale a Roma senza più far ritorno nella città natale: secondo una delle leggende che avrebbero costruito l'agiografia del futuro pontefice, questi, recatosi a Cesena prima della partenza per salutare i suoi, incontrò il futuro s. Leonardo da Porto Maurizio che gli profetizzò il pontificato. E sarebbe stato proprio il Braschi, da pontefice, a proclamare beato Leonardo, nel 1796. Il nuovo pontefice Benedetto XIV nominò il cardinale Ruffo, divenuto decano del Sacro Collegio, vescovo suburbicario di Ostia e Velletri e il Braschi, succedendo allo zio a sua volta nominato vescovo "in partibus" di Botra, divenne il suo auditore. Con la nuova carica dovette amministrare l'importante diocesi, nella quale fissò la sua residenza, ed ebbe una parte di un qualche rilievo nella difesa del vescovado e nella protezione di Velletri all'epoca della battaglia che vi si svolse, l'11 agosto 1744, tra Austriaci e Napoletani nel corso della guerra di successione austriaca. I servigi resi in quella occasione al re di Napoli, Carlo di Borbone, e i buoni rapporti da allora intrattenuti con il sovrano convinsero il pontefice a incaricarlo, nel 1746, di dirimere alcuni conflitti giurisdizionali insorti tra Roma e il Regno meridionale in materia di competenza del foro vescovile; a ricompensa della conseguita composizione delle divergenze, anche attraverso l'ottenimento delle dimissioni dell'arcivescovo di Napoli cardinale G. Spinelli, venne nominato cameriere segreto, entrando così in prelatura. Dopo la morte del Ruffo, nel 1753, il pontefice lo nominò segretario particolare e quindi canonico di S. Pietro (17 gennaio 1755). Nel settembre 1758 prestò giuramento in qualità di referendario del cardinale N. Corsini, prefetto della Segnatura, e, nello stesso anno, avendo oramai deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico - e, secondo alcuni biografi, rinunciato al matrimonio -, ricevette gli ordini maggiori e fu ordinato prete. Nel settembre dell'anno successivo, ottenuto anche il favore del nuovo pontefice Clemente XIII che lo raccomandò al nipote, il neocardinale Carlo Rezzonico, fu da questo nominato suo auditore e segretario. In questa funzione assistette al grave conflitto insorto tra la Chiesa e la politica giurisdizionalista dei sovrani italiani ed europei sulla questione dei Gesuiti, senza mai prendere una posizione netta: scelta prudente, questa, che giocò un certo ruolo nella sua futura elezione al soglio pontificio. Se l'atteggiamento del Braschi fu oggetto di critiche da parte dei filogesuiti, tuttavia esso non impedì che, il 26 settembre 1766, venisse destinato, in sostituzione di monsignor Canale, all'importante carica di tesoriere generale della Camera apostolica: carica tra le più prestigiose dell'amministrazione economica e finanziaria, che apriva la porta alla porpora cardinalizia. Vi venne chiamato con l'appoggio del cardinale Rezzonico, che ricopriva a sua volta il più alto incarico economico dello Stato in qualità di camerlengo, e vi pervenne proprio al culmine di una delle più catastrofiche carestie che colpirono lo Stato della Chiesa come il resto dell'Italia. In qualità di tesoriere operò con competenza e attivismo, preoccupandosi del risanamento finanziario dello Stato, gravato da un pesante debito pubblico, e tentando di instaurare un nuovo sistema tributario per aumentare le entrate, all'interno di un organico progetto di riforma elaborato fin dal 1767. Il progetto, che è stato definito "uno dei più importanti documenti finanziari del '700 italiano" (E. Piscitelli, p. 38), era ispirato a una concezione economica strettamente mercantilistica e prevedeva l'abolizione di tutti i pesi camerali e la loro sostituzione con tre sole gabelle (macinato, sale e estimo dei terreni), la soppressione di numerosi appalti, la eliminazione di tutti i pedaggi e gabelle di transito interni con l'istituzione invece di dogane ai confini dello Stato. Il Braschi ottenne da Clemente XIII la nomina di una particolare Congregazione per l'applicazione del suo progetto, ma la morte del pontefice, il 2 febbraio 1769, impedì di dare esecuzione al piano, che tuttavia venne, ma solo in piccola parte, attuato da Clemente XIV mentre il Braschi era ancora tesoriere. Non vi è comunque dubbio che i tentativi di riforma amministrativa e finanziaria avviati in questa fase aprirono la strada ai provvedimenti economici del futuro papa. Il 26 aprile 1773 Clemente XIV, su pressione delle corti borboniche, gli accordò il cappello cardinalizio con il titolo di S. Onofrio e, subito dopo, le cariche di abate commendatario del convento dei Camaldolesi di S. Gregorio al Celio e del monastero di Subiaco. Qui egli stabilì la propria residenza, avviando subito le visite pastorali in tutto il territorio, ma dovette presto lasciare l'abbazia per il lungo e difficile conclave del 1774-1775. Questo, che ebbe inizio il 5 ottobre 1774 e si protrasse per oltre quattro mesi, si svolse in una atmosfera carica di tensione, di sospetti e di conflitti, suscitati dalla traumatica recente soppressione della Compagnia di Gesù, dall'operato della Congregazione deputata su questa materia che aveva condotto all'arresto del generale della Compagnia, Lorenzo Ricci, dalle voci relative alla morte per avvelenamento di Clemente XIV e alla sua ritrattazione della bolla di soppressione, dal processo inquisitoriale intentato alle "profetesse" di Valentano, accusate, insieme con alcuni ex gesuiti, di complotto contro il papa defunto e contro i sovrani. Contemporaneamente, tra pasquinate e libelli dei due partiti - filogesuitico e antigesuitico - circolava anche un dramma per musica satirico, intitolato Il conclave dell'anno 1774, il cui presunto autore, l'abate fiorentino G. Sertor, fu processato ed esiliato; l'opera, che in realtà era frutto del filogesuita principe Sigismondo Chigi, maresciallo del conclave, fu condannata al rogo pubblico. In questo clima, il conclave, se vide lo scontro tra i cardinali delle Corone, portavoce degli interessi dei sovrani, e cardinali "indipendenti" o "zelanti", preoccupati di respingere le interferenze dei poteri politici sul governo della Chiesa, provocò anche la divisione delle corti: così, grazie al sostegno di Francia e Spagna, e nonostante l'opposizione del Portogallo, il Braschi venne eletto papa, il 15 febbraio 1775. Il 22 febbraio, simultaneamente, venne consacrato vescovo dal cardinale decano F. Albani e incoronato; la domenica seguente aprì la Porta santa della basilica di S. Pietro, dando inizio all'anno giubilare con cui si avviava il suo pontificato. La scelta del nome di Pio non fu affatto casuale. In una fase di ridefinizione radicale del ruolo della Chiesa nella società e all'interno di quello che si annunciava come uno scontro con la cultura e con la politica della modernità, egli decise consapevolmente di succedere a quel Pio V, fino ad allora primo e unico papa santo dell'Età moderna, a cui il Braschi professava grande venerazione, che era stato l'applicatore rigoroso dei precetti del concilio di Trento, il nemico dei protestanti, il creatore della Congregazione dell'Indice e, soprattutto, l'artefice della Lega Santa contro i Turchi e della vittoria di Lepanto. La cerimonia del "possesso", celebrata il 30 novembre 1775, fu l'ultima che si svolse con la grandiosità e la solennità della tradizione, prima del tramonto definitivo del rito. Amante delle cerimonie e del fasto, l'aspetto fisico imponente e maestoso e il contegno regale di P. producevano profonda impressione sui contemporanei: anche J.W. Goethe lo descrisse come "la più bella, più dignitosa figura virile". Governò da solo, senza lasciare troppo spazio ai vari e spesso scialbi segretari di Stato che andarono succedendosi. Fin dagli esordi del suo pontificato, che fu uno dei più lunghi e travagliati della storia dei papi, egli marcò una rottura con lo spirito conciliante e aperto al rinnovamento del suo predecessore. La sua prima enciclica, Inscrutabile divinae sapientiae, promulgata il giorno di Natale del 1775 che era anche il giorno del suo genetliaco e quello successivo alla chiusura dell'anno giubilare di pace e perdono, definiva in termini organici il programma del nuovo papa. Essa condannava assai duramente le idee del secolo dei Lumi che, senza alcuna distinzione, erano presentate come un portato del diavolo e una cospirazione diretta contro la convivenza civile, "ad seducendos fidelium animos veneno suae falsitatis". Il pensiero moderno era accusato in blocco, con toni quasi apocalittici, di diffondere l'ateismo e di voler spezzare la tradizionale concordia tra la Chiesa e gli Stati, ciò che avrebbe dissolto ogni forma di consorzio civile; i vescovi erano richiamati all'unità, a rafforzare strutture e istituzioni di derivazione controriformistica e a vigilare sull'ortodossia dottrinale del clero in modo da contrastare infiltrazioni nella Chiesa delle tesi avversate. Pochi mesi prima, il nuovo papa aveva aperto il suo pontificato con un altro atto significativo, strettamente connesso alla condanna della cultura illuministica: coerentemente con quanto si riscontra sempre nei periodi di crisi e di risposta aggressiva delle istituzioni ecclesiastiche, egli ristabiliva una dura normativa antiebraica che rispondeva all'idea secondo la quale solo il rifiuto della diversità e l'affermazione dell'unità religiosa garantivano la compattezza della società cristiana. L'editto del 5 aprile 1775, Fra le pastorali sollecitudini, che in quarantaquattro articoli ripristinava antichi divieti per gli ebrei (di mestieri, di libri, di abitazioni, di contatti e scambi con i cristiani) ed evocava "il pericolo di sovversione" costituito da questi, divenne il punto di riferimento della politica papale antiebraica successiva (M. Caffiero, "Le insidie de' perfidi giudei", pp. 557-58). Coerentemente con queste scelte, il pontefice andò sempre più emarginando le forze intellettuali cattoliche riformatrici e tolleranti, aperte al rinnovamento della Chiesa e del suo rapporto con il mondo moderno, che avevano avuto modo di esprimersi nel pontificato precedente. Tali gruppi avevano trovato proprio in quegli anni nell'Accademia dell'Arcadia una sede ove prospettare, ad esempio con i discorsi ivi letti da L. Gonzaga e G.C. Amaduzzi, la possibilità di un accordo tra filosofia e cristianesimo in chiave di riforma della Chiesa e di ritorno alla "vera religione", così come era propugnato dai riformatori filogiansenisti, e teorizzare, insieme con la richiesta di moderate libertà politiche, la funzione civile e culturale degli intellettuali. Anche queste istanze vennero progressivamente tacitate. D'altro canto, la chiusura di P. nei confronti della filosofia illuministica e della cultura moderna è dimostrata dalla composizione della sua ricchissima biblioteca, nella quale mancano del tutto gli scritti dei filosofi moderni mentre prevalgono le opere teologiche delle scuole agostiniana, tomista e molinista, che dimostrano però come una reale preparazione dottrinale fosse alla base delle sue prese di posizione ufficiali (G. Pignatelli, p. 21). Nel corso dei primi anni di pontificato, comunque, la politica adottata per colpire ogni tentativo di creare forze autonome e centrifughe all'interno del cattolicesimo fu intransigente, ma abile. Senza allinearsi apertamente - almeno in un primo tempo - alle posizioni filogesuitiche, e anzi reprimendo ogni azione settaria degli ex Gesuiti che premevano per la ricostituzione della Compagnia, egli cercò di ricondurre i circoli degli ecclesiastici contrari ai Gesuiti, riformatori e filogiansenisti, ad accettare l'unità dei cattolici in un rigoroso rispetto dell'autorità papale. Tuttavia, l'affermazione sempre più netta dell'assolutismo e del primato del pontefice condussero prima all'isolamento, poi alla lotta aperta contro i giansenisti oramai pervenuti anch'essi a posizioni radicali. A questo fine di battaglia e di propaganda cattoliche e di riscossa della Santa Sede "diretta da Pio VI in persona" (ibid., p. 37), il papa, dopo aver liquidato i gruppi filogiansenisti romani - come quelli ruotanti intorno alla Chiesa Nuova o intorno a P.F. Foggini e P. Tamburini, che finì per lasciare Roma - appoggiò con forza la nascita di un nuovo periodico, il "Giornale ecclesiastico di Roma" (1785), che divenne l'organo ufficiale del papato e una delle espressioni più efficaci della politica di riconquista cattolica e della volontà di combattere gli avversari, interni ed esterni. In particolare, il periodico romano, intorno al quale ruotavano personaggi di rilievo come F.A. Zaccaria, T.M. Mamachi, L. Cuccagni, G. Marchetti, era stato progettato per rispondere agli attacchi rivolti al primato del papa dai fiorentini "Annali ecclesiastici", organo dell'anticurialismo e del riformismo giansenista toscano. La vicenda e l'evoluzione del periodico romano rifletterono puntualmente la progressiva radicalizzazione della lotta sul terreno ecclesiologico e disciplinare, che sfocerà più tardi nella violenza di toni e di argomenti del periodo rivoluzionario. D'altro canto, non è certo casuale che proprio nel corso del pontificato di P. si assista a uno slancio rilevantissimo della pubblicistica apologetica diretta alla difesa della sovranità temporale del papa e all'esaltazione del suo primato spirituale, anche attraverso la sottolineatura del ruolo della cerimonialità papale come strumento chiaramente simbolico della speciale, assoluta e unica "maestà" del pontefice romano (M. Caffiero, La maestà del papa, pp. 286-94). Anche le nomine cardinalizie, che furono numerose giungendo a ben settantacinque, in ventitré promozioni, erano ben ponderate in vista di tale programma: tra di esse, oltre alle nomine dello zio G.C. Bandi e del nipote R. Braschi-Onesti, che si inscrivono nella forte ripresa del nepotismo sotto il suo pontificato, vanno ricordate, per il rilievo dei prescelti e i legami di fedeltà al papa nonché per il numero dei nunzi promossi, quelle di I. Boncompagni Ludovisi, G. Archinto, L. Valenti Gonzaga, L. Antonelli, G.A. Archetti, G. Pallotta, G. Salviati, G.S. Gerdil, A. Gioannetti, P.F. Antamori, V.M. Altieri, F. Herzan d'Arras, L.E. von Firmian, A. Mattei, G. Capece Zurlo, G. Doria Pamphili, G. Garampi, C. Bellisomi, T. Antici, S. Borgia, I. Busca, F. Ruffo, G. Caprara, J.-S. Maury e G.M. della Somaglia. Solo nel 1785 P. provvide a ben quattordici nomine. Nel 1789, inoltre, il papa ordinò l'arresto di Cagliostro e di un piccolo circolo di massoni, romani e francesi, che si riunivano intorno a lui a Roma, tra i quali era il marchese F.S. Vivaldi, futuro giacobino: il processo che venne intentato dal Sant'Uffizio e la condanna a morte del Cagliostro, poi commutata nel carcere a vita nel 1791, colpirono molto l'opinione pubblica europea e costituirono un ulteriore segnale dell'irrigidimento papale. Nel 1790, poi, furono proibite come sediziose le tragedie di V. Alfieri. I rapporti con gli Stati italiani ed europei divennero molto presto assai difficili per i contrasti relativi ai problemi dottrinali, ai conflitti giurisdizionali e alla questione dei Gesuiti. Mentre veniva ribadita la scomunica nei confronti dei vescovi della Chiesa olandese scismatica di Utrecht, soprattutto violento fu il contrasto con il riformismo ecclesiastico dell'imperatore Giuseppe II. Gli interventi di quest'ultimo concernevano nuove disposizioni relative alla legislazione matrimoniale, alle dispense e all'ammissione del divorzio, alla soppressione dei monasteri degli Ordini regolari contemplativi e delle Confraternite, alla riduzione e al disciplinamento delle feste, dei pellegrinaggi e di molte espressioni della devozionalità barocca, alla tolleranza nei confronti di ebrei e acattolici, alla riorganizzazione e valorizzazione delle parrocchie. Le riforme ecclesiastiche giuseppine, oltre a colpire le prerogative pontificie sulla base delle dottrine giurisdizionaliste e a smantellare i pilastri del sistema postridentino, puntavano inoltre a creare una Chiesa nazionale nel quadro della monarchia asburgica, operando in accordo con il rilancio delle idee episcopaliste che colpivano direttamente il primato pontificio. Tali idee erano state diffuse in Austria, fin dal 1763, dal libro De statu ecclesiae et legitima potestate Romani Pontificis di Giustino Febronio (Johann Nikolaus von Hontheim, vescovo suffraganeo di Treviri), poi, nel 1782, dal vero e proprio pamphlet antipapale, Was ist der Papst?, di Joseph Valentin Eybel, professore di diritto ecclesiastico all'Università di Vienna, che contestava l'infallibilità del papa. La ritrattazione dell'Hontheim del 1° novembre 1778, ottenuta dai nunzi di Colonia e Vienna, Bellisomi e Garampi, con cui quello riconosceva i diritti del papato, e assai desiderata da P. che la lesse in Concistoro e la fece pubblicare, benché molto esaltata dal "partito ultramontano", non segnò che un'effimera vittoria. Nel tentativo di far recedere l'imperatore dalla sua politica ecclesiastica, P. si risolvette ad intraprendere, tra il febbraio e il giugno del 1782, il famoso viaggio a Vienna, prima uscita di un pontefice fuori dei confini dello Stato ecclesiastico dopo più di due secoli. Mentre a Vienna si scatenava la pubblicistica antiromana con un fiume di pamphlets antipapali, a cui il nunzio G. Garampi cercò di contrapporre altrettanti scritti apologetici a difesa dei diritti pontifici, Giuseppe II ricevette P. come un sovrano estero qualsiasi. Il viaggio del papa suscitò una vasta eco e vivaci discussioni negli ambienti colti, ma ebbe un grande rilievo, gravido di importanti conseguenze per il futuro, soprattutto sul piano della risposta e della mobilitazione popolari. L'entusiasmo e la devozione che suscitò lungo le tappe del percorso il "pellegrino apostolico" - come venne chiamato il pontefice, su suggestione delle popolari profezie sui pontefici che andavano sotto il nome di s. Malachia e come venne cantato da V. Monti in una sua poesia - confermavano il papa "come il capo di una opposizione crescente contro le riforme che venivano dall'alto a sconvolgere la vita tradizionale" (F. Venturi, Settecento riformatore, p. 674). Questo ruolo di guida prestigiosa dell'ondata crescente di reazione religiosa contro il regalismo e il riformismo dei sovrani rese, dunque, assai meno deludente il bilancio finale della visita papale. Essa non causò, del resto, nonostante piccole concessioni, alcun cambiamento nella politica ecclesiastica imperiale e portò, nel 1784, alla stipula tra P. e Giuseppe II di una "Conventio amicabilis" - termine scelto dall'imperatore per evitare la parola concordato che alludeva a privilegi papali - con cui il pontefice accettava sostanzialmente la riorganizzazione diocesana dei territori asburgici. Tuttavia, le reazioni popolari e la mobilitazione dimostrativa delle masse anticipavano futuri sviluppi dell'alleanza tra la Chiesa e gli strati inferiori della società e costituivano una tappa importante nel processo che sarebbe sfociato nel sanfedismo controrivoluzionario. Inoltre, da parte del pontefice il viaggio a Vienna, se sul piano politico e diplomatico registrò una debole capacità di intervento romano, sul piano ideologico costituì uno spartiacque decisivo. Esso segnò, nella politica ecclesiastica, la radicalizzazione della lotta antigiansenista e del riflusso verso Roma dei riformatori cattolici più moderati proprio in conseguenza della estremizzazione delle posizioni antipapali, e diede la spinta ad una inesauribile ed efficace pubblicistica di esaltazione del primato e dell'autorità papali prodotta dagli scrittori del "partito" filocuriale, oramai coordinato in una sorta di "internazionale ultramontana" (D. Vanysacker, pp. 183 ss.). In questo quadro di riscossa, in cui comincia ad avere da entrambe le parti in conflitto un ruolo importante sia l'uso politico della opinione pubblica e della stampa quale strumento di propaganda, sia la ricerca di consenso, rientrano anche la "scoperta" e il lancio, avvenuti l'anno successivo al viaggio di P. e con il pieno appoggio del più stretto entourage di questo, di un nuovo santo, il pellegrino Benoît-Joseph Labre, intorno alla cui immagine simbolica andarono coagulandosi le forze combattenti a difesa della religione e dell'assetto tradizionale della società cristiana (M. Caffiero, La politica della santità, pp. 194 ss.). I conflitti con il mondo tedesco continuarono poi nelle controversie relative alla neoistituita Nunziatura di Monaco e alle conseguenti cosiddette "puntuazioni di Ems", un documento episcopalista e febroniano redatto nel 1786 dai vescovi austriaci riformatori, che venne respinto da Roma con una confutazione ufficiale affidata a G. Garampi e a F.A. Zaccaria. Se il contrasto sempre più acuto con Giuseppe II non impedì che successivamente, nel 1790, il papa giocasse un ruolo di conciliazione in occasione delle violente sommosse scoppiate alla fine degli anni Ottanta nei Paesi Bassi austriaci contro le riforme ecclesiastiche, gravi conflitti nacquero anche con i sovrani di Prussia e di Russia in relazione al rifiuto di questi di dare applicazione al breve di soppressione della Compagnia di Gesù, promulgato nel 1773 da Clemente XIV. Con Caterina II il contrasto verteva anche sulla questione della Chiesa uniate e sulle nomine dei vescovi della Russia Bianca che l'imperatrice rivendicava come di suo diritto. L'abile mediazione dei rappresentanti diplomatici papali, come i nunzi in Polonia G. Garampi, G.A. Archetti e L. Litta, fu importante per la risoluzione di tali conflitti. Furono invece buoni i rapporti con la Spagna e il Portogallo, paesi nei quali andava disegnandosi uno smantellamento progressivo della politica antiecclesiastica di metà Settecento e un avvicinamento sempre maggiore al papato. In Italia, P. incontrò le maggiori difficoltà nel Regno di Napoli e nel Granducato di Toscana. A Napoli, la ripresa della politica giurisdizionalista negli anni Ottanta e le accese polemiche regalistiche, anche qui cariche di accenti febroniani e giansenisti, condussero il Regno sull'orlo della rottura con la Santa Sede. Al centro dei conflitti stavano il controllo e la limitazione dei beni ecclesiastici e la rivendicazione regia delle nomine vescovili. Mentre veniva soppressa, nel 1783, l'Inquisizione in Sicilia e si procedeva alla chiusura di conventi, nel 1786 furono avviate trattative per un nuovo concordato, ma senza esiti: segno inequivocabile di queste tensioni fu il rifiuto del sovrano napoletano, nel 1788, di effettuare l'omaggio e il tributo feudali tradizionali della chinea. Ma assai più grave fu il contrasto con il granduca Pietro Leopoldo, fratello di Giuseppe II, le cui misure in materia ecclesiastica, ispirate dal vescovo giansenista di Pistoia e Prato, Scipione de' Ricci, tendevano pure alla costituzione di una Chiesa nazionale toscana. L'alleanza che si produsse qui, come, sia pure in misura minore, in Lombardia e nei territori austriaci, tra il riformismo ecclesiastico dei gruppi giansenisti che riponevano nel potere politico le loro speranze di rinnovamento della Chiesa fino ad allora deluse da Roma, e il regalismo centralizzatore del sovrano, se era cementata sulla base "negativa" dell'anticurialismo e dell'"antiromanesimo" (M. Rosa, Riformatori e ribelli, p. 176), diede però vita a un programma organico e assolutamente originale. Accanto a misure analoghe a quelle del giuseppinismo, il riformismo ricciano-leopoldino, a partire dai primi anni Ottanta, tentò di mutare nel profondo la Chiesa toscana attuando un programma sinodale episcopalista-parrochista in cui l'importanza data alla regolare convocazione di sinodi diocesani e al ruolo e alla partecipazione dei parroci sfociava, per un verso, nella novità originale dell'istituzione del Patrimonio ecclesiastico diocesano, con cui si riorganizzava il sistema dei benefici e delle rendite delle parrocchie, dei conventi e delle confraternite soppressi in una unica struttura centrale che provvedeva alle congrue parrocchiali; per altro verso, nella convocazione del sinodo di Pistoia (18 settembre 1786), in preoccupante - per Roma - concomitanza con l'affermazione del giuseppinismo espressa nel congresso e nelle puntuazioni di Ems. Il sinodo, momento culmine del giansenismo settecentesco e della sua radicalizzazione democratico-parrochista, alla cui preparazione e svolgimento guardò con attenzione tutto il giansenismo europeo, spinse alla convocazione a Firenze, il 23 aprile 1787, di una assemblea dei vescovi toscani che avrebbe dovuto preparare un concilio nazionale che, tuttavia, non si tenne mai. Dopo lunghe discussioni da parte delle tre Congregazioni particolari successivamente istituite a Roma dal pontefice con l'incarico di esaminare gli atti del sinodo di Pistoia, la condanna ufficiale del pontefice apparve soltanto il 28 agosto 1794, con la bolla Auctorem fidei che, nel pieno ormai della temperie rivoluzionaria, rispondeva soprattutto a motivi politici cogliendo le conseguenze implicite nell'ecclesiologia parrochista ricciana e il nesso stretto tra "democrazia ecclesiastica" e rivoluzione politica (M. Rosa, Riformatori e ribelli, p. 209). Nella redazione della bolla prevalse la linea dottrinale del cardinale G.S. Gerdil, prefetto della Congregazione dell'Indice, centrata sulla difesa del primato di ordine e di giurisdizione del pontefice romano e della Chiesa di Roma. Nasceva, inoltre, da questa reazione romana, il tema polemico del giansenismo causa prima della rivoluzione che dominerà la pubblicistica di propaganda cattolica antirivoluzionaria. Il giansenismo toscano, inoltre, aveva ingaggiato una serrata battaglia contro le espressioni devozionali più "facili" e popolari, spesso di derivazione controriformista e comunque benviste da Roma, che urtavano l'aspirazione rigorista, di origine muratoriana, a una pietà illuminata, moderata e sobria: in questa direzione, decisa fu la contestazione della devozione al Sacro Cuore di Gesù che andava sempre più prendendo piede nel mondo cattolico e romano, così come della pratica francescana della Via Crucis. Fu proprio questa linea ricciana antidevozionalistica a innescare i tumulti popolari del 1787 che, anticipando le rivolte per la fede dell'insorgenza antifrancese, provocarono la fine del riformismo toscano. D'altro canto, la sottolineatura romana del piano devozionale si riflette nella politica delle beatificazioni di P. che, se non proclamò alcun santo, fece però numerosi beati, soprattutto tra i Francescani. P. come sovrano temporale giocò un ruolo attivo e dinamico nell'ammodernamento dello Stato ecclesiastico, ancora non sufficientemente valutato dalla storiografia. Principe fastoso e magnifico, amante dello splendore delle cerimonie e generoso mecenate, egli diede un grande impulso alle iniziative artistiche e archeologiche e allo sviluppo della scienza antiquaria. Nel corso del suo pontificato gli artisti e i letterati italiani e stranieri presenti a Roma (ad esempio, R. Mengs, G. Hamilton, G.B. e F. Piranesi, A. Canova, A. Kauffmann, J.-L. David, quanto ai primi, V. Alfieri, J.W. Goethe, A. Verri, V. Monti, quanto ai secondi) furono numerosi e di grande rilievo; essi confermarono il ruolo della città come centro degli studi dell'antichità e cuore del neoclassicismo europeo, oltre che fonte inesauribile della mania collezionistica dell'epoca e del fiorente mercato d'arte antica. Numerosi furono pure i viaggiatori illustri e i visitatori stranieri attirati in questi decenni dalla grandiosa cerimonialità romana e dai ritrovamenti artistici. Le scoperte archeologiche e le opere acquistate dallo stesso pontefice furono raccolte nel Museo Pio-Clementino, in Vaticano, che divenne la più ricca collezione di antichità d'Europa; il papa, che con i suoi interessi in questo campo finì col favorire la nascita dell'archeologia come scienza autonoma e dell'archeologo come professionista, diede la responsabilità degli acquisti e dei restauri e la sopraintendenza agli scavi in Roma e nello Stato all'antiquario Giambattista Visconti, mentre la redazione del monumentale catalogo illustrato fu quasi per intero - tranne il primo volume, redatto da quest'ultimo (1782) - opera del più celebre figlio Ennio Quirino Visconti (sei volumi tra 1784 e 1807): questi, che il papa nominò secondo custode della Biblioteca Vaticana e poi direttore del Museo Capitolino, divenne poi un importante esponente della Repubblica Romana del 1798-1799. Nei primi cinque anni del pontificato di P., che si attribuì un diritto di prelazione su tutti i ritrovamenti, furono aperti centotrenta scavi archeologici a Roma, tra i quali importanti furono quelli legati ai lavori per le fondamenta della nuova sagrestia della basilica di S. Pietro. Il pontefice, inoltre, fece innalzare gli obelischi di piazza Quirinale, piazza Montecitorio e Trinità dei Monti. Rilevante fu anche la riforma dell'Università romana della Sapienza, attuata nel 1788. Molta importanza e larghe risorse dello Stato furono assegnate anche alle opere pubbliche, con la risistemazione dei porti di Ancona, di Civitavecchia, di Anzio e di Terracina e delle vie di comunicazione più importanti dello Stato. Molti furono gli interventi urbanistici nelle province, e in particolare a Subiaco, il governo della cui abbazia egli mantenne anche da papa. I lavori di prosciugamento dell'Agro pontino che furono avviati nel 1777, secondo un progetto dell'ingegnere bolognese G. Rappini, e durarono quasi vent'anni, furono grandiosi ma gravarono pesantemente sulle finanze statali. Il papa li seguì personalmente con molte visite, percependo il significato più ampio dell'impresa, relativo alla crescita del suo prestigio. Tuttavia, il recupero alla coltura di ampi territori non modificò affatto i modi e i rapporti di produzione e soprattutto non moltiplicò la proprietà attraverso una divisione che intaccasse il sistema generale del latifondo. In realtà, nel 1791 le terre fino ad allora bonificate furono assegnate in enfiteusi ai grandi proprietari assenteisti, tra i quali lo stesso duca Braschi-Onesti, nipote del papa, che ricevette da solo più di 7.000 ettari. Nonostante tali limiti, gli interventi modernizzatori di P. sulla realtà economica dello Stato furono numerosi e degni di nota: nello scorcio del secolo si concentrò così il più ampio tentativo di riforme mai progettato e realizzato nello Stato. Per la prima volta, infatti, le riforme costituirono un insieme compatto di misure organicamente legate all'interno di un preciso progetto di rinnovamento. Esse rivelano tanto una intenzione riformatrice mirante innanzi tutto al risanamento delle critiche condizioni dell'erario statale e dell'enorme debito pubblico accumulato, quanto una evidente volontà centralizzatrice e unificatrice dell'amministrazione, diretta, non sempre con successo, contro sistemi, corpi e interessi particolari. Tale azione sarà continuata e sviluppata dalle riforme dell'epoca rivoluzionaria e napoleonica e ancor più da quelle della prima e della seconda Restaurazione pontificia. A partire dalla metà degli anni Settanta, con un'acme intorno alla metà degli anni Ottanta, la pubblicistica economica sempre più fitta, la fondazione di nuove riviste dagli interessi scientifico-economici, e le accademie agrarie che sorsero numerose nelle province, soprattutto nella più dinamica realtà umbro-marchigiana - a Montecchio, a Corneto, a Urbania, a Macerata, a Foligno - tentavano di ricollegarsi alle esperienze degli altri paesi europei e italiani, e soprattutto a quelle della vicina Toscana, e intensificavano la propaganda a favore dello sviluppo e dell'ammodernamento dell'agricoltura e delle tecniche agrarie. Si moltiplicarono anche iniziative imprenditoriali e sperimentazioni locali originali (manifatture, case di lavoro, introduzione di nuove colture e tecniche) che contribuivano, tra l'altro, ad accrescere le aspirazioni periferiche ad una maggiore autonomia da Roma e a formare un nuovo ceto dirigente locale che cominciava a candidarsi a funzioni di governo locale e statale. Nacquero, inoltre, nuove riviste economiche, come il "Diario di Agricoltura, Manifattura e Commercio", pubblicato a Roma (1776-1777), o "L'Agricoltore" di Perugia (1784-1786), o il "Giornale delle Arti e del Commercio" di Macerata (1780-1781), mentre anche riviste meno specializzate, come le romane "Efemeridi Letterarie" (1772-1798) e "Antologia Romana" (1774-1798) e le bolognesi "Memorie Enciclopediche" (1781-1787), dedicavano largo spazio ai dibattiti scientifici e ai provvedimenti economici. Numerose furono pure le opere di teorici e riformatori - molto spesso "stranieri" trapiantati a Roma in qualità di funzionari di Curia e di amministratori ai vertici dello Stato - come A.M. Curiazio, L. Doria, C. Moltò, A. Fabbroni, F. Milizia, F. Cacherano di Bricherasio, A. Aleandri, M. Fantuzzi, P. Vergani, N. Corona e A. Tocci. Si trattava di scritti che denunciavano le debolezze strutturali dello Stato e riecheggiavano, non senza originalità e vigore - soprattutto quelli di Milizia, Cacherano di Bricherasio e Corona -, la contemporanea e più avanzata cultura economica europea. Le loro proposte, tuttavia, o erano troppo radicalmente utopistiche per poter trovare applicazione, oppure finivano per lo più per collocarsi nell'ambito moderato e consueto della richiesta di misure finanziarie e doganali di tipo protezionistico che non mettevano in discussione più profondi interessi e assetti sociali costituiti. Stretto tra impulsi e indirizzi economici contrastanti, oscillanti tra un prudente liberalismo e le soluzioni di tipo fisiocratico avanzate da alcuni e la tradizionale mentalità mercantilistica favorita dai più, P. finì per optare, negli anni Ottanta, per un programma di mercantilismo in ritardo suggerito dall'influente tesoriere Fabrizio Ruffo, nominato nel 1785 (era nipote del cardinale Tommaso e da P. conosciuto fin dai tempi in cui il futuro papa ne era l'auditore), e dai suoi collaboratori Giovanni C. de Miller e Paolo Vergani. Questo programma mirava a sviluppare le manifatture nazionali e il commercio piuttosto che a promuovere quelle riforme agrarie decisive che inevitabilmente avrebbero intaccato i privilegi e gli interessi dei nobili, degli ecclesiastici e della capitale. Di conseguenza, gli interventi legislativi investirono il sistema doganale con l'abolizione delle gabelle interne che impedivano la libera circolazione dei prodotti e con l'introduzione delle dogane ai confini (1786): due importanti riforme, queste, che oltre a mirare all'unificazione dell'amministrazione finanziaria dello Stato, dovevano avviare un regime generale di libertà di commercio. Analoghe finalità liberistiche ebbe l'abolizione del sistema degli appalti per le proprietà fondiarie camerali, che vennero concesse in enfiteusi. Altre misure, intraprese anche prima dal papa, riguardavano l'incoraggiamento dell'agricoltura e delle nuove colture, anche con il sistema dei premi e con la riduzione del sistema vincolistico-annonario, la promozione delle manifatture, soprattutto tessili, gli interventi tesi a ridurre il disordine monetario e l'invasione delle cedole cartacee, la riorganizzazione dei tributi. Quest'ultima culminò nella compilazione del catasto, ordinata nel dicembre 1777 per tutto lo Stato - anche se escludeva in un primo tempo i fondi dell'Agro romano e le Legazioni -, che si protrasse per molti anni, incontrando enormi ostacoli e ricorsi da parte dei proprietari: il catasto costituì non soltanto la prima capillare rilevazione delle proprietà fondiarie eseguita nello Stato, ma soprattutto la base per l'introduzione, realizzata solo nel 1801, della novità assoluta della tassa fondiaria detta "dativa reale". L'opera di razionalizzazione fu coronata dal rilevante "motu proprio" del 25 gennaio 1783 che decideva di formare un catasto anche dell'Agro romano - il cosiddetto catasto annonario - che doveva costituire la base per l'imposta fondiaria, ma, soprattutto, imporre la messa a coltura di almeno un terzo dei terreni, tradizionalmente lasciati al pascolo. Ma, per le opposizioni dei potenti proprietari dell'Agro, tali disposizioni non furono osservate. Anche la riforma voluta dal Ruffo che soppresse la precettazione del bestiame ovino e suino e dell'olio (1789), istituendone il libero commercio, rivestì una enorme importanza perché inferse un colpo mortale sia all'antico sistema dell'annona che privilegiava la capitale a scapito dei produttori provinciali, sia all'organizzazione potente delle corporazioni. Tuttavia, la reazione violenta dell'Università dei macellai di Roma, che giunse fino ad organizzare il blocco della vendita della carne al pubblico, e il malumore popolare scatenato dalle riforme del tesoriere determinarono, nel 1794, il licenziamento del Ruffo, che nel 1791 era stato creato cardinale (riservato "in pectore" e pubblicato proprio nel 1794). In realtà, molte delle iniziative che dovevano sanare il cronico disavanzo pubblico, stimolare la produttività e assicurare ordine e uniformità amministrativa ai diversi territori dello Stato dovettero spesso ridimensionarsi di fronte alle fortissime resistenze dei particolarismi locali e dei ceti privilegiati, spesso sostenuti dagli strati più umili della popolazione. Inoltre, le misure tributarie e soprattutto quelle doganali, acuendo la tensione tra Roma e le province più ricche e sviluppate della parte settentrionale dello Stato (Marche e Legazioni) - che vi si opponevano in quanto erano proiettate nei loro commerci verso gli Stati limitrofi e nelle quali erano in crescita attività agricolo-industriali e nuclei di imprenditorialità moderna -, finirono per accelerare, invece dell'unificazione, l'ulteriore disgregazione della compagine statale e per porre in rilievo l'accentuata differenziazione, già consolidata alla fine del Settecento, tra due diversi tipi di economia e tra due sistemi sociali. Tali contraddizioni erano destinate ad esplodere nell'età rivoluzionaria e napoleonica con lo smembramento dello Stato e con il dissesto finanziario. Rilevanti, infine, furono gli interventi di P. in materia di assistenza ai poveri, nei quali gli intenti caritativi si coniugavano sempre a quelli educativi e all'aspirazione produttivistica di tipo utilitaristico. Manifatture vere e proprie vennero perciò impiantate o incrementate in molti conservatori femminili romani, come il setificio nell'Ospizio apostolico femminile di S. Giovanni, concesso in affitto, mentre nel nuovo Conservatorio Pio, fondato nel 1775 dal pontefice per le donne povere, erano annessi due tipi di manifatture, un lanificio, anche con manodopera esterna, e una fabbrica interna di lino, canapa e cotone. Si trattava di manifatture dal peso tutt'altro che irrilevante nel tessuto produttivo cittadino e fortemente sostenute sul piano finanziario dal pontefice. Nonostante il quadro generale dello Stato ecclesiastico nei decenni di governo di P. non corrisponda all'immagine convenzionale, e ancora oggi prevalente nella storiografia, di stagnazione e di inerzia assolute, e riveli invece fermenti, spinte innovative e concrete e reali trasformazioni delle strutture sociali e delle mentalità, soprattutto nelle province, assai duri e radicali erano però i giudizi degli osservatori laici coevi. Tali giudizi ridimensionavano drasticamente i tentativi di modernizzazione di P. e sottolineavano invece i ritardi - politici, economici e culturali - dello Stato. Gli attacchi contro Roma e il papato, ispirati dalle idee del secolo dei Lumi e dalla virulenta Épître aux Romains (1768) di Voltaire, si moltiplicavano e divenivano sempre più violenti. Non a caso, proprio quegli anni Ottanta del secolo che videro, da un lato, l'asprezza della polemica antiromana di stampo illuministico e, dall'altro, la ripresa dell'offensiva giurisdizionalistica, furono inondati da una fitta pubblicistica, italiana e straniera, antipapale, anticlericale e di violenta polemica nei confronti della Chiesa e delle sue strutture temporali, che denunciava con descrizioni catastrofiche e semplificanti l'anacronismo, la miseria e il dispotismo assoluto - "asiatico" - dello Stato e il nepotismo e il fasto eccessivi del "Lama d'Europa", con toni e linguaggi che anticipavano gli scritti antiromani dell'età rivoluzionaria. Questi opuscoli costruirono definitivamente l'immagine compattamente negativa del governo e dello Stato ecclesiastici destinata a durare e a dominare il secolo successivo, nonché ad influenzare larga parte della storiografia fino a oggi. D'altro canto, critiche severe provenienti anche dall'interno del mondo cattolico rimproveravano a P. il suo manifesto nepotismo, funzionale all'esaltazione della casata del papa. Egli, infatti, per impedire l'estinzione della famiglia e del cognome, dopo la morte senza eredi dei fratelli, chiamò a Roma i nipoti avuti dalla sorella Giulia Francesca, Luigi e Romualdo Onesti, che adottò trasmettendo loro il proprio cognome e facendo unire le due insegne gentilizie. Romualdo, il cadetto, fu avviato alla carriera ecclesiastica e venne nominato cardinale nel 1786; il primogenito, Luigi, ricevette il titolo di duca di Nemi, dal nome del feudo che P. acquistò dai Frangipane per il nipote. Dopo il fastoso matrimonio di Luigi con Costanza Falconieri (31 maggio 1781), personalmente celebrato nella Cappella Sistina dal papa, questi avviò, nel 1791, la costosa costruzione del grandioso palazzo Braschi, dopo la demolizione della dimora dei duchi Santobuono, acquistata per 52.000 scudi: nel palazzo, opera di Cosimo Morelli, fu riunita una splendida collezione artistica. Questi costosi favori, a cui si aggiunsero il caso scandaloso dell'eredità del patrimonio di A. Lepri, che il pontefice riuscì a fare assegnare per metà al nipote (1789), l'arricchimento sfrontato e le speculazioni economiche di Luigi - che fu insignito da Giuseppe II del titolo di principe dell'Impero, dal re spagnolo del titolo di Grande di Spagna, dal re di Francia dell'Ordine dello Spirito Santo e a cui fu conferita dal re di Sardegna la Gran Croce dell'Ordine equestre dei SS. Maurizio e Lazzaro -, il ruolo preminente e inedito assunto dalla duchessa Braschi nella vita cerimoniale e ufficiale di Roma, ricaddero negativamente sull'immagine del pontefice. Tuttavia, proprio la violenza della libellistica antiromana e antipapale di questi anni rivela i timori suscitati dal nuovo processo di ripresa religiosa che, su un altro e diverso piano - quello di una rinnovata presenza della Chiesa nella società e di una riorganizzazione ideologica, pastorale e religioso-devozionale - andava delineandosi. Mentre l'offensiva giurisdizionalistica raggiungeva la sua acme, proprio intorno a P., che aveva energicamente respinto le correnti riformatrici in seno alla Chiesa e rifiutato ogni dialogo con i difensori della cultura moderna, si andò coagulando una battagliera reazione di mobilitazione a difesa della religione e dell'assetto tradizionale della "società cristiana". Quest'abile strategia di riconquista e di recupero d'influenza era fondata sul sempre maggiore consolidamento del rapporto della Chiesa con il mondo dei ceti subalterni, soprattutto rurali: da qui sarebbe scaturita la reazione popolare di difesa della fede delle armate sanfediste antifrancesi e antigiacobine. Allo scoppio della Rivoluzione in Francia, P., nonostante la preoccupazione provocatagli dalle nuove vicende, adottò dapprima un atteggiamento prudente e prese tempo di fronte alle prime iniziative in materia religiosa. Tuttavia, in seguito ai rilevanti provvedimenti antiecclesiastici francesi - abolizione delle decime ecclesiastiche, nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, rifiuto di dichiarare il cattolicesimo religione di Stato, divieto di professione di nuovi voti religiosi -, egli espresse le sue preoccupazioni in una allocuzione concistoriale del 29 marzo 1790, non pubblicata, in cui condannava la proibizione dei voti monastici. Mentre nell'Assemblea era in discussione la Costituzione civile del clero (approvata il 12 luglio 1790) che, con una rottura unilaterale del concordato del 1516, riorganizzava interamente la Chiesa gallicana come Chiesa nazionale, attribuiva ai membri dei collegi elettorali dipartimentali - dunque anche agli acattolici - l'elezione di parroci e vescovi e sottraeva a Roma l'istituzione canonica dei vescovi, egli tentò vanamente innanzi tutto di intervenire presso il re Luigi XVI con un breve, del 10 luglio, con il quale lo invitava a non concedere la sanzione alla nuova legge, asserendo l'incompetenza del potere civile a legiferare su materia religiosa: "ne croyez pas qu'un corps purement politique puisse changer la doctrine et la discipline universelle de l'Église, mépriser et compter pour rien le sentiment des Saints Pères, des Conciles, détruire la Hiérarchie, ni statuer sur l'élection des évêques, sur la suppression de sièges épiscopaux, en un mot changer à son gré et défigurer toute l'organisation de l'Église catholique" (A.S.V., Ep. ad Princ., Pii VI, an. XVI [1790-1791], t. 185, c. 93). Il timore di P. era che una sanzione della nuova legge provocasse uno scisma in Francia; timore che, da un'ottica però diversa, era condiviso anche dal re il quale, il 28 luglio, rispose al papa sollecitandolo a concedere subito almeno un'approvazione provvisoria degli articoli più importanti (Documents inédits, I, p. 264). Memorie successive indirizzate al papa cercavano poi di convincerlo ad adottare la stessa condotta "di pazienza e mansuetudine" tenuta, con successo finale, nei confronti delle analoghe riforme unilateralmente imposte da Giuseppe II e dal granduca Pietro Leopoldo, astenendosi perciò da una formale condanna. In seguito alla promulgazione della Costituzione civile del clero, nel settembre, e all'imposizione, nel novembre, dell'obbligo agli ecclesiastici con cura d'anime di prestare giuramento di fedeltà alla nazione, al re e alla nuova legge, P. interruppe finalmente il lungo silenzio ufficiale, dovuto, oltre che a considerazioni di prudenza e diplomazia, anche all'attesa di una richiesta formale d'intervento papale da parte dei vescovi francesi che avrebbe palesato la subordinazione della Chiesa gallicana a Roma. Dopo che i trenta vescovi deputati all'Assemblea, con l'Exposition des principes sur la Constitution civile du clergé (30 ottobre 1790) a cui aderirono altri novantatré vescovi francesi, espressero contrarietà alla legge ma disponibilità al negoziato e chiesero la convocazione di un concilio nazionale e la necessità di rimettersi al parere del papa, riconosciuto dunque come centro dell'unità e della comunione cattoliche, P., trascorsi oramai otto mesi dall'emanazione della legge, finalmente intervenne. Con il breve Quod aliquantum del 10 marzo 1791 indirizzato ai vescovi firmatari della Exposition, egli condannò in blocco non solo tutto l'operato dell'Assemblea nazionale costituente in campo ecclesiastico, poiché esso mirava a distruggere la religione cattolica, ma anche i principi di libertà e di eguaglianza che avevano guidato l'azione dei costituenti in campo politico, che egli definiva contrari ai diritti di Dio, nonché l'ideologia del contratto sociale, in virtù del carattere divino della organizzazione sociale. Il documento, che contrapponeva l'autorità della Chiesa alla pretesa umana di costituirsi in autorità, inquadrava tuttavia il conflitto in corso ancora all'interno di un paradigma interpretativo, che si rivelerà del tutto insufficiente, rinviante ai contrasti giurisdizionalistici suscitati negli anni precedenti dalla politica dei principi illuminati. Il breve era il risultato delle intense discussioni svoltesi all'interno della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari eretta nel settembre e composta dai più autorevoli cardinali del gruppo degli zelanti e dai personaggi più vicini al papa: S. Borgia, F. Carandini, G. Archinto, I. Busca, G. Garampi, F. Carafa, G. Pallotta, F.S. Zelada, V. Borromeo, F.F. Albani, C. Livizzani, R. Braschi-Onesti, M.A. Colonna, C. Rezzonico, F. Carrara, G.S. Gerdil, L. Valenti Gonzaga, L. Antonelli, l'auditore di Rota A. Roverella e monsignor M. Di Pietro, segretario. La Congregazione fu disposta assai negativamente dalla sanzione e dalla promulgazione della legge prima che giungesse una risposta papale, fatto, questo, che venne interpretato da molti cardinali come impedimento a ogni possibilità di conciliazione e prova dell'inevitabilità dello scisma e dunque dell'inutilità di parziali concessioni (Città del Vaticano, Archivio della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Francia, 1790, fasc. 9, c. 56). In particolare, nel suo "votum", l'ascoltatissimo cardinale G. Garampi scriveva che la notizia della rapida promulgazione della legge, se da un lato preoccupava, dall'altro lato tranquillizzava, perché dimostrava quanto fosse errata la propensione fino ad allora presente presso alcuni cardinali - quali Rezzonico, Gerdil, Pallotta, Borgia, Colonna, Carandini, Carafa, Antonelli - di fare alcune concessioni, soprattutto per riguardo al re e per evitare lo scisma. Egli sottolineava l'impotenza di Luigi XVI ad influire sul corso degli eventi e ad essere effettivamente obbedito, ciò che comportava la stessa impotenza per il papa, il quale, anche se avesse acconsentito alle richieste del re, non poteva essere sicuro che l'intenzione e la volontà pontificie venissero poi esattamente adempite e non stravolte o limitate dall'Assemblea: questa, infatti, avrebbe tentato di dimostrare che "come ha saputo sottomettere a sé la potestà Regia, così vuol avere ugualmente subordinata anche la papale" (ibid., fasc. 10, cc. 93-4). Molti cardinali, pur evidenziando l'ispirazione gallicana e richerista-parrochista della costituzione, consigliavano, però, la convocazione di un concilio nazionale dei vescovi francesi che avrebbe permesso al papa di condividere con la Chiesa gallicana la responsabilità di ogni decisione senza essere accusato di violarne le antiche libertà. Riflesso di questa fase di assestamento culturale della Chiesa di fronte alle novità e di una qualche propensione al compromesso con le nuove idee fu la pubblicazione dell'opera De' diritti dell'uomo (Assisi 1791), di cui era autore un personaggio vicino a P. e alla Curia, Nicola Spedalieri. Utilizzando in chiave tradizionalista e apologetica l'arsenale linguistico e teorico dei "philosophes" - il diritto naturale, il contrattualismo, ad esempio - in realtà il libro culminava nell'apologia del primato papale e della teocrazia, nelle accuse ai giansenisti e nella condanna della Rivoluzione, vista come operante in contrasto con i diritti del popolo. Tuttavia, le confutazioni dell'opera che provennero tanto dagli ambienti vicini al pontefice, ad esempio dal "Giornale ecclesiastico di Roma", quanto dai giansenisti, come P. Tamburini, rivelano sia i timori indotti dalle teorie contrattualistiche comunque declinate, sia la fase di incertezza delle strategie politiche romane, oscillanti tra l'uso dell'argomento teocratico come monito ai sovrani cattolici riformatori e la necessità di non alienarsi questi ultimi in prospettiva degli esiti pericolosi della Rivoluzione. Il breve di condanna e il tempo intercorso per la sua emanazione aggravarono la frattura in corso in Francia tra clero refrattario e clero costituzionale, con la contrapposizione tra due culti cattolici e due Chiese, e diedero avvio alla rottura tra cattolicesimo romano e Rivoluzione destinata a durare oltre il concordato napoleonico e ad influire anche sugli eventi successivi. Inoltre, un breve ulteriore, Charitas, indirizzato ai vescovi di Francia e accompagnato da una lettera al re Luigi XVI (13 aprile 1791), respingeva il giuramento civico per gli ecclesiastici, sospendeva quanti non avessero ritrattato e annullava le nomine dei vescovi fatte senza l'accordo del pontefice. Le relazioni ufficiali con la Francia furono rotte nel maggio dello stesso anno, quando, dopo il rifiuto di P. di accettare il nuovo ambasciatore che sostituiva il cardinale de Bernis, il nunzio a Parigi monsignor Antonio Dugnani, a seguito di una violenta manifestazione popolare in cui venne bruciato un manichino raffigurante il pontefice, lasciò la Nunziatura. Mentre P. accoglieva a Roma le zie emigrate del re e manifestava imprudentemente la sua gioia per la notizia della fuga di quest'ultimo (con lettera del 6 luglio 1791), la Francia proclamava, nel novembre, l'annessione dei due territori pontifici di Avignone e del Contado Venassino, ignorando le proteste del papa contro questo primo attacco alla sua sovranità temporale. I brevi indirizzati tra febbraio e settembre 1792 ai monarchi delle principali potenze europee, non solo cattolici ma anche acattolici come Caterina II di Russia e Giorgio III d'Inghilterra, facevano leva sull'argomento dell'attentato ai diritti di un sovrano per sollecitarli a intervenire in nome di una comunanza di interessi e sancivano l'adesione, almeno morale, del papa al fronte antirivoluzionario. Egli, inoltre, dovette rispondere alla pressione proveniente dall'esodo massiccio degli ecclesiastici francesi (duemila solo nel 1792, saliti a tremila l'anno seguente) verso lo Stato della Chiesa, ove furono accolti non senza problemi e con inquietudine, dati i timori che essi fossero propagatori più o meno volontari delle "massime perniciose" gallicane, gianseniste o addirittura rivoluzionarie. Ma, naturalmente, l'emigrazione ecclesiastica fu anche quella che diffuse in Italia l'immagine satanica ed efferata della Rivoluzione, all'interno di una propaganda controrivoluzionaria che lo stesso P. volle concentrata sulla pubblicazione a Roma, tra 1791 e 1794, di sedici volumi delle Testimonianze delle chiese di Francia sopra la così detta Costituzione civile del clero e dei Mémoires pour servir à l'histoire de la persécution française (1795), in chiave antigallicana. L'esecuzione di Luigi XVI (21 gennaio 1793), appresa con grande emozione dal papa che, in una allocuzione solenne al Sacro Collegio, il 17 giugno, conferì al sovrano defunto la qualifica di "martire", l'assassinio quasi simultaneo alla morte del re del rappresentante francese a Roma Bassville (13 gennaio) da parte del popolo romano inferocito - che diede l'assalto al ghetto considerando gli ebrei filofrancesi - e, infine, l'avanzata in Francia dei processi di laicizzazione dello Stato, prima, e di scristianizzazione, più tardi, accesero sempre più il conflitto tra Roma e la Rivoluzione. Nel gennaio 1793, la Convenzione, alle prese con la prima coalizione antifrancese, individuava nella "mostruosa potenza" papale uno dei motori nonché la fomentatrice della guerra religiosa in Francia (A. Latreille, p. 157). Dalla parte avversa, mentre a Bologna e a Roma venivano scoperte e represse, nel 1794, congiure di filofrancesi, una violenta e capillare campagna di stampa prodotta in tutta la penisola, ma in particolare nello Stato della Chiesa, accusava la Rivoluzione di essere opera satanica e risultato di un vasto complotto anticattolico, orchestrato da filosofi, giansenisti e massoni. La tesi, che trovò la sua più nota espressione nelle opere dell'ex gesuita Barruel, prontamente tradotte e stampate a Roma, diffuse e consolidò una interpretazione della Rivoluzione che avrebbe inciso a lungo negativamente sui rapporti tra una larga parte del mondo cattolico e la società moderna. Nei primi anni Novanta fino alla fine del secolo, con particolare punta nel 1796, al tempo della discesa delle truppe francesi in Italia e di fronte al pericolo d'invasione dei territori pontifici, libelli e pamphlets, spesso tradotti dalla produzione antirivoluzionaria francese, rilanciarono con forza, a dispetto della neutralità ufficiale dello Stato ecclesiastico, il mito della guerra santa e della crociata e l'appello ai popoli e ai sovrani per difendere la fede contro i nuovi barbari, rappresentati come belve sanguinarie. Particolarmente attivi in questa opera di propaganda, che influì moltissimo sulla opinione pubblica cattolica, furono ex gesuiti, come F. Gustà, che scrisse un Saggio critico sulle crociate (1794), G.V. Bolgeni e A. Muzzarelli, che insistettero sul tema del complotto anticristiano, sacerdoti come G. Marchetti, che si occupò della divulgazione dei "miracoli" mariani, e l'intera redazione del "Giornale ecclesiastico di Roma". Questa campagna pubblicistica, infiammata da una importante produzione a carattere profetico-apocalittico, dalla predicazione del clero, dalla reiterazione di giubilei straordinari indetti dal papa, dalla proposta ai devoti di nuovi santi in funzione controrivoluzionaria, come B.-J. Labre, da fermenti escatologici e da attese di eventi miracolosi, come quelli che si espressero nell'ondata di "miracoli" mariani che fra l'estate del 1796 e i primi mesi del 1797 si verificarono in ben sessanta località dello Stato, ebbe una grande efficacia anche sul piano operativo. Essa, infatti, ispirò e alimentò concretamente la mobilitazione popolare antifrancese nel triennio giacobino. Se i miracoli vennero presentati dall'apologetica cattolica come "sante e pacifiche" armi contro i Francesi e simboli della protezione celeste, presto si sarebbero tradotti nel movimento militare del "Viva Maria". Con la campagna di Bonaparte in Italia, P. si piegò a trattare con un Direttorio irriducibilmente ostile alla Santa Sede, deciso ad abbattere il potere temporale e a incamerarne le risorse. Tuttavia, proprio Bonaparte era ben consapevole dell'importanza di un intervento papale per la pacificazione religiosa interna e del vantaggio che ne poteva ricavare sul piano del potere personale: di qui le sue esitazioni di fronte alle sollecitazioni direttoriali di arrivare fino a Roma. Mentre il papa aderiva ad una coalizione di Stati italiani, nel giugno 1796, Bonaparte invase lo Stato della Chiesa e occupò le Legazioni fermandosi a Bologna e trattando con i rappresentanti papali un armistizio (23 giugno) con il quale impose pesanti condizioni e contribuzioni, in denaro e in opere d'arte, anche in riparazione dell'assassinio di Bassville, l'occupazione delle Legazioni e la liberazione dei prigionieri politici. La città e il porto di Ancona vennero occupati militarmente dai Francesi. L'armistizio, che risparmiava ancora sostanzialmente lo Stato e il papato, fu male accolto in Curia dalla fazione zelante più intransigente, contraria ad ogni intesa coi Francesi e convinta della necessità di una guerra di religione fondata sulle masse rurali fanatizzate: non a caso, proprio ad Ancona e subito dopo l'armistizio ebbe inizio il fenomeno dei "miracoli" delle immagini mariane. Mentre giungeva a Roma come rappresentante francese F. Cacault, il papa inviò a Parigi il plenipotenziario abate Pieracchi, incaricato di negoziare la pace definitiva con il Direttorio (luglio-agosto 1796); ma, di fronte al rifiuto di questo di prendere in considerazione la richiesta che il papa ritrattasse i suoi brevi di condanna della Costituzione civile del clero e riconoscesse la Chiesa costituzionale, la trattativa si interruppe bruscamente con l'espulsione del Pieracchi. Tuttavia, nello stesso periodo, come segnale di una volontà negoziatrice, la Curia romana stava anche preparando un progetto di breve, Pastoralis sollicitudo, con il quale il papa si apprestava a riconoscere la Repubblica francese in base al principio paolino che ogni potere era opera divina a cui il popolo doveva sottomettersi, così dimostrando ai governanti che la vera religione e la disciplina ecclesiastiche garantivano le leggi civili. Dopo una vana ripresa dei negoziati con il Direttorio a Firenze e mentre, nel dicembre 1796, sorgeva nei territori ex pontifici di Romagna e Emilia la Repubblica Cispadana, il papa prese accordi militari con i re di Napoli e con l'imperatore per la difesa del suo Stato; ma la disfatta dell'esercito pontificio a opera di Bonaparte lo costrinse al trattato di pace di Tolentino (19 febbraio 1797), firmato con le truppe francesi oramai vicinissime a Roma e in seguito a trattative nel corso delle quali i plenipotenziari pontifici, tra i quali il cardinale A. Mattei e monsignor Lorenzo Caleppi, ricevettero da P. l'ordine di cedere sulle questioni temporali, ma di restare intransigenti in materia spirituale. Oltre a ulteriori pesantissime contribuzioni finanziarie e a spoliazioni di opere artistiche senza precedenti, vennero imposti dal trattato la rinuncia definitiva ai territori di Avignone e del Contado Venassino, alle Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna e al porto di Ancona e il riconoscimento della Repubblica Cisalpina, con la quale nel luglio precedente si era fusa la Cispadana e ove avevano trovato rifugio i più radicali e antipapali giacobini romani esuli, come C. Della Valle, G. Lattanzi e E.M. L'Aurora. Nonostante le dure critiche apposte ancora alla politica pontificia dagli ambienti più intransigenti della Curia romana, contrari a qualsiasi cedimento e accordo con i Francesi anche sul piano territoriale, la grave menomazione della sovranità temporale finì, al contrario, per rafforzare il ruolo e il prestigio spirituale del papa, per la sua irriducibile fedeltà al mandato apostolico, tanto più che gli accordi non contenevano alcuna smentita delle misure adottate da P. nei confronti della politica ecclesiastica della Rivoluzione. In tal modo, il trattato di Tolentino con cui, per la prima volta nella storia della sovranità temporale dei papi, un pontefice fu costretto sotto il peso della sconfitta militare a cedere grossa parte dei suoi domini, segna solo a prima vista il punto più basso e conclusivo della vicenda dello Stato della Chiesa e il suggello negativo di un'epoca. In realtà, la caparbietà del pontefice e dei suoi negoziatori nel tener distinte le due sfere, la temporale e la spirituale, non solo riuscì a salvare totalmente e a rafforzare quest'ultima, ma pose le premesse della stessa ricostituzione del potere temporale nella prima Restaurazione. Nel luglio 1797 Giuseppe Bonaparte giungeva a Roma in qualità di ambasciatore, e raccoglieva intorno a sé la ristretta ma attiva parte dei cittadini favorevoli ai Francesi che oramai uscivano allo scoperto con maggiore audacia (ad esempio, G. Ceracchi, G.B. Agretti, P. Bonelli). Il 28 dicembre, in uno scontro tra giacobini romani e soldati pontifici presso palazzo Corsini, sede dell'ambasciata francese, restò ucciso il generale francese Duphot; mentre Bonaparte lasciava subito Roma, l'episodio offriva il destro alla definitiva occupazione della città, oramai in preda al panico e affidata dallo stesso P. alla protezione delle più sacre reliquie portate in solenne processione. Il 10 febbraio 1798 truppe del generale Berthier entravano a Roma e il 15 febbraio - giorno del ventitreesimo anniversario dell'elezione di P. - venne proclamata dai patrioti nell'antico Foro la Repubblica Romana. Mentre si andava organizzando il nuovo governo democratico, il vecchio papa non si mosse da Roma. La sua presenza e i suoi comportamenti di grande dignità e fermezza preoccupavano i Francesi che quindi, in contrasto con l'Atto del Popolo Sovrano fondatore della Repubblica che dichiarava di voler "lasciare intatta la dignità, ed autorità spirituale del Papa, riservandosi di provvedere [...] al di lui decente sostentamento, ed alla custodia della di lui Persona", dapprima tennero il pontefice relegato nel Palazzo Vaticano e poi, il 20 febbraio, lo costrinsero a partire, con pochi familiari, per Siena, dove restò fino alla fine di maggio, raggiunto anche dal nipote Luigi. Da qui i Francesi, temendo che la vicinanza al suo ex Stato alimentasse speranze di ritorno e infiammasse l'insorgenza nel Viterbese e in Umbria, lo trasferirono nella Certosa di Firenze. Essendo partiti, arrestati o esiliati anche gran parte dei cardinali, P. aveva lasciato a Roma come delegato apostolico il suo fedele collaboratore monsignor M. Di Pietro, comunicandogli le facoltà apostoliche per il governo della Chiesa e degli affari spirituali. Nonostante l'aggravamento del suo stato di salute, P. continuò dall'esilio toscano ad occuparsi delle questioni religiose, a mantenere contatti diplomatici e a fornire istruzioni ai cattolici e ai suoi ex sudditi. Da Siena egli dovette anche affrontare il problema delle dimissioni di due cardinali, T. Antici e V.M. Altieri, presentate già nel marzo: una rinuncia, dovuta alla paura di ritorsioni da parte dei Francesi, che suscitò molto scandalo e che il papa, per il timore che tale condotta fosse seguita da altri porporati, accettò formalmente solo vari mesi dopo. Di grande rilievo fu il suo intervento nella questione del giuramento civico di fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica e di odio alla monarchia e all'anarchia richiesto dal nuovo governo repubblicano ai funzionari pubblici, compreso il clero. Tale richiesta, in cui si esprimeva la volontà di sacralizzazione del nuovo regime, aveva suscitato un'accesa polemica tra quanti ritenevano la formula assolutamente inaccettabile, come G. Marchetti e S. De Magistris, e quanti invece sostenevano la liceità del giuramento, come l'ex gesuita e antigiansenista G.V. Bolgeni. Poiché le autorità repubblicane avevano riproposto la questione più decisamente nel gennaio 1799, quando fu richiesto il giuramento anche ai professori delle Università romane - la Sapienza e il Collegio Romano - pena il licenziamento, in tale occasione, di fronte all'atteggiamento troppo permissivo del pro-vicegerente di Roma, monsignor O. Boni, P. provvide a far pervenire un breve da Firenze, il 16 gennaio 1799, in cui asseriva "non esser lecito prestare puramente e semplicemente il giuramento costituzionale" nei termini in cui era proposto. Giurare odio alla monarchia implicava, infatti, un atto di odio per il pontefice come sovrano temporale; inoltre la monarchia era una forma di governo accettata da Dio e come tale non poteva essere odiata dai cristiani; infine, l'odio era comunque un fatto relativo alla coscienza individuale in cui lo Stato non doveva ingerirsi. Anche l'espressione relativa alla fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione veniva respinta perché la Costituzione prevedeva norme antireligiose. Il pontefice proponeva comunque una formula alternativa: "Io N.N. giuro che non avrò parte in qualsivoglia congiura, complotto, o sedizione per il ristabilimento della Monarchia, e contro la Repubblica che attualmente comanda; odio all'Anarchia, fedeltà, ed attaccamento alla Repubblica e alla Costituzione, salva per altro la Religione Cattolica". Si trattava di una formula, che oltre a cancellare la clausola dell'odio alla monarchia, era fortemente limitativa del giuramento attraverso l'espressione di salvaguardia dei diritti della religione e la sottolineatura della possibile caducità del governo repubblicano. Il papa, inoltre, ordinava di ritrattare a quanti avevano giurato nei termini previsti dalla Repubblica; la corrente conciliativa subì così un duro colpo e la situazione religiosa s'inasprì, mentre iniziava una serie di rifiuti e di ritrattazioni del giuramento da parte di funzionari e professori. In questo periodo P. fu al centro di diversi tentativi del Direttorio di rompere l'unità della Chiesa cattolica e di determinare una crisi destabilizzante al suo interno: tentativi che rivelavano la percezione dei Francesi del ruolo ancora centrale del papato e, in particolare, del prestigio della stessa figura di Pio VI. Secondo P. Baldassari, era intenzione dei Francesi, d'accordo con alcuni giacobini romani, di costringere il Braschi a rinunziare al papato e di procedere poi all'elezione democratica del nuovo "patriarca d'Occidente" da parte del clero inferiore e del popolo di Roma, secondo l'antica consuetudine della Chiesa dei primi secoli. La persona prescelta come nuovo vescovo di Roma sarebbe stata monsignor Emanuele De Gregorio, luogotenente civile del cardinale vicario, personaggio che era ritenuto gradito al popolo romano e ben accetto agli stessi Francesi. Il piano, che sarebbe fallito perché il De Gregorio, venutone a conoscenza, fuggì a Siena dal pontefice che fu così informato di tutta la macchinazione, avrebbe condotto all'elezione di un antipapa e ad uno scisma nella Chiesa e soprattutto, attraverso l'elezione popolare del vescovo di Roma, alla riduzione delle attribuzioni di questo, rese eguali a quelle degli altri vescovi. Anima del progetto (secondo R. De Felice, p. 227) sarebbe stato l'abate C. Della Valle, responsabile della politica ecclesiastica della Repubblica Romana fino all'aprile del 1798 e sostenitore di una riforma della Chiesa in senso evangelico-giacobino che egli tentò di avviare anche progettando una romana costituzione civile del clero e sottoponendo le nomine dei parroci al controllo del potere civile. Un analogo progetto emerge da un rapporto di Talleyrand al Direttorio redatto al tempo del breve soggiorno del papa a Briançon, durante la deportazione in Francia: in esso l'ex vescovo di Autun proponeva di nascondere P. e di far spargere la voce della sua morte, per farlo poi ricomparire quando fosse stato eletto il successore. In tal modo si sarebbe determinato "un schisme salutaire aux principes républicains", con due o anche più papi contrapposti (V.E. Giuntella, Premessa, p. LXXXIV). Entrambi i progetti, al di là della loro presunta fantasiosità o irrealizzabilità, tuttavia rivelavano l'acuta consapevolezza delle rilevanti conseguenze suscitate dalla morte, reale o presunta, di P., e sono indicativi sia di quanto l'idea dello scisma religioso come arma politica, tesa a distruggere il centro dell'unità della Chiesa, fosse diffusa tra i Francesi, sia delle reali aspirazioni alla riforma ecclesiastica di molti filorivoluzionari italiani. Del resto, la caduta del potere temporale venne accolta con giubilo e come segnale della prossima realizzazione di grandi trasformazioni da numerosi protagonisti dei tentativi riformatori dei decenni prerivoluzionari: nel 1798 il giansenista G.B. Guadagnini descrisse in alcune Riflessioni sopra la caduta del temporale principato del romano pontefice e della corte ecclesiastica di Roma (stampate significativamente solo nel 1862) gli effetti positivi per la religione e per la Chiesa che sarebbero derivati da tale evento. Il 13 novembre 1798, perseguendo nella sua volontà di intervento nelle questioni religiose e ben consapevole delle manovre in corso relative alla sua successione, P. promulgò la bolla Quum nos, redatta con la collaborazione di E. De Gregorio e D. Sala, con la quale, considerate le circostanze particolari nelle quali si trovava la Chiesa, provvedeva ad emanare nuove disposizioni per il caso di sede vacante e a regolare le modalità di convocazione di un eventuale prossimo conclave. Suggeriva inoltre ai cardinali di trasferirsi nell'ex Stato veneto, sotto la protezione imperiale, sempre in vista di una prossima elezione. Dopo l'occupazione del Granducato di Toscana da parte dei Francesi, alla fine di marzo del 1799 il papa fu condotto a Parma, poi a Torino e quindi avviato in Francia. Dopo un lungo e penoso viaggio, durante il quale dovette affrontare il passaggio del Monginevro, giunse a Briançon dove restò per due mesi. Infine, nel timore di un colpo di mano austro-russo per liberarlo, in giugno fu rimesso in viaggio in direzione di Valence, nella cui cittadella fu custodito e ove morì il 29 agosto 1799. Alla fine dell'anno, e mentre era in corso il conclave di Venezia, venne ristampato a Firenze un opuscolo sulle Profezie veridiche di tutti i Sommi Pontefici, attribuite a s. Malachia, con il quale, in una fase di grande difficoltà per la Santa Sede, venivano riproposte antiche e popolari profezie in funzione di legittimazione della causa cattolica e di esaltazione dell'autorità assoluta del papato e del suo ruolo escatologico. Un lungo paragrafo era dedicato al pontefice designato con il simbolo di "peregrinus apostolicus": con esso era ovviamente identificato l'appena deceduto P. ma in riferimento non al famoso viaggio a Vienna, bensì alle peregrinazioni dell'esilio (M. Caffiero, La nuova era, p. 49). In tal modo, anche P. venne fatto rientrare come protagonista, in quanto vittima sacrificale, all'interno del ricco filone di letteratura profetica che fiorì nello scorcio del secolo; tale filone, se spiegava gli eventi in corso nella chiave apocalittica della collera e del castigo divini e della lotta tra religione e forze sataniche, tuttavia li inseriva anche all'interno dei pronostici relativi alla durata del papato fino alla fine del mondo. Anche attraverso le profezie papali passò, perciò, quel rafforzamento del potere, del simbolismo e del prestigio del papato destinato a culminare nel secolo successivo e a cui la vicenda di P. contribuì in modo rilevante. Se le prime esequie si svolsero a Valence, ove il corpo restò insepolto fino al 29 gennaio 1800, i novendiali per la morte di P. ebbero luogo a Venezia, all'apertura del conclave; l'orazione funebre fu pronunciata in presenza del Sacro Collegio il 30 ottobre 1799 da monsignor C. Brancadoro, intransigente apologeta del primato e dell'infallibilità pontifici. Tuttavia, la vicenda di P. non era terminata e anzi culminò sul piano simbolico nelle contese relative all'appropriazione del suo corpo poiché, se il corpo del papa è già di per sé un corpo santo dato il fondamento cristico della persona del pontefice, quello di P. appariva ancor più glorificato dall'aureola derivante dalla persecuzione e dal martirio. Il successore Pio VII volle infatti riavere a Roma i resti del papa esule. Il 24 dicembre 1801 furono riesumate a Valence le spoglie papali che, imbarcate a Marsiglia per Genova, iniziarono da qui un trionfale viaggio di ritorno in cui ad ogni tappa venivano celebrate solenni esequie seguite da una folla venerante. Il 17 febbraio 1802 si svolse, dalla porta del Popolo, "il magnifico ingresso trionfale in Roma" delle spoglie del defunto pontefice, sormontate dal triregno papale, con una imponente processione che si snodò lungo un itinerario prestabilito fino alla basilica vaticana, ove vennero accolte da Pio VII e dal Sacro Collegio. Il giorno seguente, la messa solenne, celebrata dal cardinale L. Antonelli, prima creatura di P., vide così il raro caso di un pontefice che assisteva al funerale del predecessore in presenza del suo cadavere, collocando due pontefici, il defunto e il vivo, l'uno accanto all'altro nella stessa cerimonia. Un grandioso monumento funebre venne realizzato, più tardi, dal Canova. Tuttavia, il cuore e i precordi di P. furono riportati a Valence, su richiesta precisa del governo francese, con un lungo viaggio che durò qualche mese, attraverso varie tappe in Francia. Nel 1811 il cuore di P. fu nuovamente riportato a Roma. La cerimonia dei grandiosi funerali di P. fu descritta da numerose relazioni coeve e venne replicata in quasi tutte le città europee, con la manifestazione perfino di miracoli. Suffragi e funerali rafforzarono il mito e il modello agiografici che avevano cominciato a cristallizzarsi intorno alla Chiesa e al papato usciti dalla Rivoluzione con l'aureola del martirio. La glorificazione del corpo santo del papa morto "martire" si rifletteva inoltre sul papa vivente, Pio VII, rafforzandone il potere e il prestigio. Tale mito, infine, accompagnato dal rilancio della devozione popolare nei confronti della persona del pontefice e dal rilievo assunto dal profetismo e dalla letteratura profetica relativi al ruolo del papato, quali strumenti efficaci di pressione ideologica e di azione politica, contribuì con successo alla ricostituzione dello Stato e alla conservazione del potere temporale, nella Restaurazione, e alla riaffermazione del ruolo direttivo della Chiesa, del papato e della religione nella società.
fonti e bibliografia
Non esiste una monografia recente su P. né un repertorio delle fonti e della bibliografia a lui relative. Data l'abbondanza delle une e dell'altra, ci si limiterà a menzionare la documentazione e le opere più note e significative e quelle di cui si è fatto uso. Per le fonti dell'A.S.V. relative al periodo rivoluzionario, cui si fa qui riferimento, cfr. Segr. Stato, Francia, 582, e Ep. ad Princ., Pii VI, an. XVI (1790-1791), t. 185. V. anche l'Archivio della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Francia, 1790, fascc. 9-11. Ma v. comunque i Documents inédits relatifs aux affaires religieuses de la France, de 1790 à 1800, extraits des archives secrètes du Vatican, a cura di A. Theiner, I-II, Paris 1857-58, e G. Bourgin, La France et Rome de 1788 à 1797. Regeste des dépêches du Secrétaire d'État, tirées du fonds "Vescovi" des Archives secrètes du Vatican, ivi 1909. In B.A.V., Vat. lat. 9718, si conserva manoscritta una interessante Storia della vita, e del governo di Pio VI, Papa oggidì regnante, raccolta da autentici e sicuri fonti, e arricchita di parecchi aneddoti, finora incogniti. Con quattro Tavole Genealogiche delle più illustri Famiglie de' Principi Romani, pt. I, Cesena 1781, tradotta dal tedesco.
Per la biografia v. J.-F. de Bourgoing, Mémoires historiques et philosophiques sur Pie VI et son pontificat, jusqu'à sa mort, I-II, Paris s.d.
Viaggio del Peregrino apostolico il sommo pontefice Pio Sesto da Roma a Valenza di Francia ove fu trasferito in ostaggio [...]; malattia e morte di esso [...], Roma 1799.
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Sulla sua biblioteca, cfr. Catalogo della maggior parte dei libri già spettanti alla Biblioteca privata di PP. Pio VI, Roma 1805; sul conclave del 1774-1775 non esistono studi recenti, cfr. comunque F. Petruccelli della Gattina, Histoire diplomatique des conclaves, IV, Paris 1866, pp. 211-44, e, per il clima nel quale si svolse, M. Caffiero, Politica e profezia femminile in età moderna. Il processo di Valentano (1774-1775), "Cristianesimo nella Storia", 20, 1999, nr. 1, pp. 595-637.
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