Benedetto XIII
Pierfrancesco Orsini nacque a Gravina il 2 febbraio 1650, secondo i calcoli del Vignato, mentre la maggior parte dei biografi lo dice nato nel 1649. Era figlio primogenito di Ferrante degli Orsini, duchi di Gravina, e di Giovanna di Carlo Frangipani della Tolfa, duca di Grumo. Morto il padre nel 1658, Pierfrancesco ricevette l'investitura dei feudi di Gravina, Solofra, Sorbo e Galluccio. Malgrado l'opposizione dei familiari, e in particolare della madre e dello zio cardinale Virginio Orsini, che poi inutilmente si rivolsero allo stesso Clemente IX, il 12 agosto 1668, durante un viaggio di istruzione a Venezia, Orsini vestì l'abito dei Predicatori, assumendo il nome di Vincenzo Maria. Il 9 febbraio dell'anno successivo rinunziò ufficialmente in Roma ai diritti di primogenitura in favore del fratello Domenico e quattro giorni dopo professò nel convento di S. Sabina. Inviato per i corsi di teologia al convento domenicano di Bologna, qui pubblicò nel 1669 un volume di Sacra Epigrammata, poi ristampato a Roma in traduzione italiana nel 1730. Ordinato sacerdote il 24 marzo 1671, il 4 luglio successivo fu nominato lettore di filosofia nel convento dell'Ordine di Brescia, ottenendo due pensioni, sull'arcipretato della cattedrale di Padova e sull'abbazia di S. Michele di Coniolo, nella diocesi di Brescia.
Durante il suo soggiorno bresciano pubblicò a Venezia, sempre nel 1671, Concentus Dominicanae Bononiensis Ecclesiae in album Sanctorum Ludovici Bertrandi et Rosae de S. Maria e La perdita comune. Panegirico nell'esequie dell'em. card. A. Barberino. In quello stesso anno furono celebrate le nozze tra il fratello di Vincenzo Maria, Domenico, ed una nipote di Clemente X, Ludovica Altieri: Giovanna Orsini pretese nei patti matrimoniali che il figlio maggiore fosse elevato al cardinalato ed il papa il 22 febbraio dell'anno seguente tenne fede all'impegno, creando cardinale del titolo di S. Sisto il ventiduenne domenicano.
Trasferitosi a Roma per prendere possesso della carica nel Concistoro del 19 aprile 1672, l'Orsini ottenne da Clemente X numerose cariche e benefici, malgrado i timori della madre che, raccomandandolo al cardinale Virginio Orsini, lo diceva "poco flemmatico, al contrario di ciò che si richiede in corte, dove si assegnano le rendite": nel 1672 fu infatti nominato protettore della Congregazione dei Canonici Regolari di S. Salvatore, abate commendatario di S. Sofia in Benevento e della abbazia di S. Pietro in Monforte, pensionario del vescovato di Pavia per 500 scudi, di quello di Lodi per 150 e del priorato di S. Nicolò della Piova per 200; il 4 gennaio dell'anno successivo fu nominato prefetto della Congregazione del Concilio e membro delle Congregazioni dei Vescovi e Regolari, dell'Immunità ecclesiastica, delle Reliquie e delle Indulgenze. Più che all'attività di Curia Orsini si sentiva però inclinato alla diretta cura delle anime: nominato vescovo di Siponto (Manfredonia) il 28 gennaio 1675, prese subito possesso della diocesi, rinunziando alla carica di prefetto della Congregazione del Concilio.
Nell'intensa attività spiegata nell'amministrazione della diocesi sipontina Orsini mise sin dall'inizio in evidenza le preoccupazioni che poi guidarono la sua azione nell'episcopato di Cesena, in quello beneventano e nello stesso pontificato, stimolando la ripresa della vita religiosa attraverso la moltiplicazione delle visite pastorali e dei sinodi diocesani, imponendo l'osservanza dell'obbligo della residenza, inaugurando il nuovo seminario, sorvegliando con ogni severità i costumi del clero e il rispetto delle norme canoniche, controllando e riorganizzando la situazione patrimoniale degli enti ecclesiastici. Nel giugno del 1678 iniziò l'esperimento di un Monte frumentario, una forma di credito agrario che poi con maggior decisione e disponibilità di mezzi promosse e generalizzò nell'arcidiocesi di Benevento, e che fu largamente imitata dalle autorità civili nel Regno di Napoli. Con queste ultime Orsini ebbe a Manfredonia alcune contese in materia di immunità ecclesiastica e pare che appunto in seguito a queste si decidesse in Curia il suo trasferimento alla diocesi di Cesena, il 22 gennaio 1680. A Cesena l'attività pastorale di Orsini si svolse con caratteri analoghi a quelli della sua precedente missione: grande impulso all'attività catechistica, con l'organizzazione di missioni affidate a predicatori fatti venire da Napoli, riforma della vita ecclesiastica per mezzo di un solerte controllo disciplinare e la convocazione dei sinodi diocesani, riorganizzazione dell'amministrazione degli enti ecclesiastici e moltiplicazione delle pratiche assistenziali.
Il trasferimento di Orsini all'arcidiocesi di Benevento deciso, sembra per ragioni di salute, il 18 marzo 1686, costituì in ogni caso un alto riconoscimento delle sue notevoli qualità di uomo di governo ecclesiastico: il nuovo incarico comportava infatti non soltanto la responsabilità di una importante provincia ecclesiastica con numerosi vescovi suffraganei, ma anche, in larga misura, compiti di governo civile, resi particolarmente delicati dai rapporti con il Regno di Napoli.
Quando Orsini prese possesso della sua nuova carica "le chiese della città e diocesi [come più tardi egli stesso scrisse in una lettera del 25 aprile 1722] erano in condizioni sì deplorevoli che appena si crederebbe": il cardinale Girolamo Castaldi, che lo aveva preceduto per cinque anni nell'episcopato beneventano, non vi aveva mai risieduto e la disciplina ecclesiastica, la religiosità e moralità pubbliche erano in grande decadenza, nel maggior disordine l'amministrazione dell'arcivescovato, dei Capitoli, delle canoniche e dei luoghi pii, vivissime le contese giurisdizionali tra ecclesiastici e baroni, incerte le competenze del tribunale metropolitano e delle curie suffraganee. L'opera di riforma perseguita per quasi un quarantennio da Orsini nella provincia di Benevento difficilmente potrebbe essere sopravvalutata, se non nei risultati almeno nelle intenzioni e nella intensissima attività: prova che egli non fu così privo di esperienza delle cose amministrative e politiche e così esclusivamente dedito alle pratiche ascetiche, come poi fu spesso giudicato. Energiche misure Orsini prese per restaurare la moralità sia dei laici sia degli ecclesiastici e per ristabilire l'ordine della provincia compromesso dagli annosi conflitti baronali, sicché un decennio dopo l'assunzione della arcidiocesi, il 31 marzo 1696, poteva scrivere con soddisfazione al cardinale Fabrizio Spada: "Il non esservi in città nemmeno un solo certo concubinato, quando prima se ne contavano a centinaia, depone bene sul suo livello morale. Ma c'è di più: mentre i mercanti non si vedon più obbligati, come prima, a dar la roba a credenza, più non si commettono assasinii, i baroni vicini non minacciano più questi poveri patrizi".
Una vasta opera riformatrice dell'organizzazione ecclesiastica Orsini condusse nel territorio di sua giurisdizione: creò una rete di venticinque vicarie foranee alle quali sottopose le parrocchie; distinse i canonicati in presbiterali, diaconali e suddiaconali, secondo le decisioni tridentine; ordinò la compilazione di un catasto delle rendite dell'arcivescovato e degli altri enti ecclesiastici della diocesi, opera monumentale che è ancora oggi una fonte importante per lo studio della proprietà ecclesiastica nella provincia di Benevento: su questa base ridimensionò il numero delle pensioni ecclesiastiche e ottenne da Innocenzo XII, il 30 gennaio 1694, l'esenzione dagli spogli per tutte le chiese della diocesi e liberò il Capitolo di Benevento da ogni onere di pensioni.
La straordinaria attività di Orsini nel quarantennio del suo arciepiscopato beneventano può essere riassunta in alcune cifre molto significative: visitò, personalmente o per commissione, quindici volte la diocesi di Benevento, una volta quella di Frascati, tre volte quella di Porto, oltre a numerosissime visite di cui fu incaricato dalla Santa Sede, a Cerignola, alle canoniche di S. Salvatore a Napoli ed a Benevento, alla Congregazione benedettina di Monte Vergine, alla chiesa di S. Bartolomeo in Galdo, alla provincia francescana di Sant'Angelo, a Gravina, Volturara, San Lupo, alla cattedrale di Alife; consacrò nella arcidiocesi trecentocinquantasei chiese e millequattrocentosessantatré altari; organizzò due sinodi provinciali e numerosissimi diocesani; tenne più di quattromila prediche, una parte delle quali raccolte in vari volumi: Lezioni scritturali sopra il sagro libro dell'Esodo, composte e recitate nella Santa Chiesa metropolitana di Benevento [...], Benevento 1709-20; Sermoni sopra la vita di Maria SS.ma, ivi 1718-24; Il tempo della quaresima e della pasqua spiegato con XII prediche introduttive nell'anno 1711, Roma 1726; Sagri trigesimi de' sermoni sopra il purgatorio composti e recitati ne' martedì della quaresima nella città di Benevento, ivi 1728. Grande impulso Orsini diede all'attività catechistica e allo sviluppo degli Ordini regolari nella provincia: fondò conventi domenicani a San Giorgio di Molara (1687), a San Giorgio la Montagna (1687), a Ceppaloni (1705); un monastero di Domenicane a Montefusco (1699) e uno di Francescane a Montesarchio (1709); un monastero di clausura a Benevento (1720) e in questa stessa città un convento di Francescani Riformati (1724); introdusse nell'arcidiocesi gli Scolopi (1707), i Carmelitani Scalzi (1710), i Chierici della Dottrina Cristiana (1723), i Chierici Ministri degli Infermi (1725); istituì a Benevento, affidandole ai Gesuiti, le missioni annuali perpetue, dotandole di 3.000 ducati (1721), e protesse l'istituzione nella città dei noviziati dei Francescani (1721) e dei Conventuali (1724). Grande attenzione rivolse anche all'edilizia ecclesiastica, fondando nel 1703 un "Monte delle fabbriche ecclesiastiche", che finanziò la ricostruzione di vari edifici distrutti o danneggiati nei terremoti del 1688 e del 1702, tra i quali la chiesa, il chiostro e il campanile dell'antica abbazia di S. Sofia e il palazzo arcivescovile. Animava questa intensa attività pastorale e organizzativa uno straordinario fervore religioso, che confinava talvolta con l'esaltazione e il bigottismo, cosa che più tardi, durante il pontificato, contribuì non poco a fare di Orsini la vittima indifesa delle malizie di curiali e diplomatici; ma il culto quasi maniaco delle reliquie, la sovrabbondanza delle pratiche ascetiche, i rapimenti mistici che portarono più volte Orsini a sentirsi personalmente miracolato (così durante il terremoto del 1688, in seguito al quale fece pubblicare in Napoli, nello stesso anno, una Narratione de' prodigi operati dal glorioso San Filippo Neri nella persona dell'E.mo cardinale Orsini arcivescovo di Benevento, in occasione che rimase sotto le rovine delle sue stanze nel tremuoto che distrusse quella città a' 5 di giugno 1688) erano pure l'espressione di un'autentica passione religiosa che, proprio perché rara in un tempo di accentuata mondanità del clero, poteva essere una forza feconda per la Chiesa: e in effetti l'episcopato beneventano di Orsini venne considerato esemplare dai contemporanei, laici o ecclesiastici che fossero.
Di fronte alle contese teologiche che travagliavano la Chiesa del suo tempo Orsini si mostrò, così nel suo periodo beneventano come poi durante il pontificato, in definitiva disposto a una grande tolleranza, che forse nascondeva una incomprensione di fondo delle opposte ragioni, ma soprattutto esprimeva la sua fondamentale preoccupazione di non approfondire con misure di eccessiva severità la divisione del mondo cattolico: così, domenicano e quindi semmai ben diversamente inclinato, giudicava, in una lettera al filippino Nicola Antonio Squillante, del 13 marzo 1688, "troppo rigore il proibire tutti i libri al Signor Cardinale Petrucci", il cardinale quietista le cui posizioni teologiche avevano tanto preoccupato la Santa Sede. Inflessibile Orsini si mostrava invece verso gli attacchi esterni, effettivi o presunti, al patrimonio dottrinale ed agli interessi della Chiesa: così nel 1693 si rivolse, a nome del sinodo provinciale, ad Innocenzo XII e al viceré di Napoli, conte di Santisteban, protestando contro l'insegnamento della filosofia atomistica che si andava diffondendo nell'Università di Napoli e chiedendo provvedimenti contro i professori responsabili; così nel 1723 impedì la diffusione a Benevento della Istoria civile del Giannone.
Sempre ispirandosi ai superiori interessi della Chiesa, Orsini nei numerosi conclavi ai quali partecipò militò nel partito dei cardinali detti zelanti, che si proponevano di scegliere il candidato più degno senza considerazione di interessi politici: così nel conclave del 1676, nel quale egli votò per il vincitore Benedetto Odescalchi, Innocenzo XI; nel 1689, contribuendo a eleggere Pietro Ottoboni, Alessandro VIII; nel 1691, per l'elezione di Antonio Pignatelli, Innocenzo XII, che ricambiò l'appoggio di Orsini creandolo abate commendatario di S. Maria di Corazzo e di S. Salvatore a Benevento; durante il conclave del 1700, nelle cui trattative iniziali venne proposto anche il suo nome, votò con il gruppo degli zelanti per Giovanni Francesco Albani, Clemente XI: da questo Orsini ottenne, nel Concistoro del 3 gennaio 1701, di essere trasferito dal titolo presbiterale di S. Sisto a quello episcopale di Frascati; nel 1721 partecipò della sconfitta degli zelanti che non riuscirono a far prevalere il loro candidato, il cardinale Spada, contro Michelangelo Conti, Innocenzo XIII, candidato delle potenze.
Orsini, che il 18 marzo 1715 rinunziò alla sede tuscolana per quella di Porto e S. Rufina, l'anno successivo fu incaricato da Clemente XI di una ambasceria all'imperatore Carlo VI, per indurlo a intervenire contro i Turchi; ma l'imperatore, dopo aver a lungo esitato nel timore che le corti borboniche approfittassero in Italia di un suo impegno in Oriente, finì per decidere l'intervento prima che Orsini partisse da Roma e la missione fu annullata. Salvo che in questa occasione (e nel 1710, allorché fu incaricato di alcune trattative di poca importanza in materia giurisdizionale con il governo napoletano) Orsini non ebbe mai dalla Curia incarichi che lo distogliessero dall'amministrazione di Benevento. Tra le iniziative più importanti prese da Orsini nel governo civile della provincia fu l'istituzione, il 14 febbraio 1694, di un Monte frumentario, con una riserva iniziale di 1.000 tomoli di grano e di 12.663 ducati: esso aveva un fine assistenziale, poiché si proponeva di sovvenire alle necessità degli agricoltori poveri e di sviluppare con i profitti altre iniziative assistenziali, quali il Monte dei pegni e il Monte dei maritaggi, ma era giudicato anche un intervento idoneo a stimolare uno sviluppo dell'economia agraria: preoccupazione costante in Orsini, che già a Manfredonia aveva mostrato analoghe intenzioni, riprese poi, su scala ben più larga, ma con risultati del tutto infelici, durante il pontificato. A Benevento invece l'iniziativa ebbe successo e Orsini la estese a tutto il territorio di sua giurisdizione: esso fu uno dei primi esperimenti di credito agrario nel Mezzogiorno e ispirò poi analoghi tentativi dei governi austriaco e borbonico nel Regno di Napoli.
Un'azione decisa Orsini svolse nella difesa degli interessi della Chiesa contro le pretese baronali e contro gli assalti delle autorità napoletane alla immunità e giurisdizione ecclesiastica, giungendo alle sanzioni ecclesiastiche più pesanti contro gli avversari. Gli incidenti più gravi con il Regno di Napoli si ebbero in materia di commercio dei grani: poiché tradizionalmente i grani inviati dalla Puglia a Napoli venivano immagazzinati a Benevento, la cosa dava spesso luogo ad episodi di speculazione da parte dei mercanti beneventani, contro i quali il governo del Regno soleva ricorrere alla drastica misura di deviare il transito dei grani in modo che non toccasse il territorio pontificio. In difesa degli interessi beneventani Orsini fu costretto più volte a entrare in polemica con le autorità napoletane: nel 1702 con il viceré austriaco conte di Martinitz, nel 1708 con il prefetto dell'annona principe di San Severo, nel 1719 con il viceré cardinale di Schrotenbach, con il quale ultimo finì però per trovare le vie di un ragionevole compromesso.
Quando Orsini, ormai settantacinquenne, si recò nel marzo del 1724 a Roma per il conclave successivo alla morte di Innocenzo XIII, nulla lasciava prevedere che egli fosse per uscirne vincitore: già nei precedenti conclavi la sua scarsa esperienza dell'attività politica della Curia, la sua estraneità alle complicate vicende diplomatiche nelle quali la Santa Sede era coinvolta da alcuni decenni, la mancanza di legami con il partito borbonico del Sacro Collegio o con il suo opposto asburgico, oltre al tenace pregiudizio contro l'elezione di un papa proveniente dagli Ordini regolari, avevano sempre impedito che la candidatura di Orsini acquistasse consistenza. Questa volta però questi medesimi motivi finirono per determinare il suo successo. Il conclave si condusse infatti dal 20 marzo sino alla fine di maggio in un'alternativa incessante di proposte e controproposte che sembrarono creare una situazione senza uscita; tramontate per l'opposizione dei partiti delle potenze le candidature dei cardinali imperiali e di Paolucci, avanzate dagli zelanti, tra i quali lo stesso Orsini; respinta quella di Olivieri, troppo esplicitamente proposto dalla corte francese, e poi quella del Piazza, candidato di Vienna, la stanchezza dei conclavisti, dopo più di due mesi di inutili trattative, finì per rendere accetto il candidato che più di ogni altro offriva garanzie di neutralità proprio per la sua inesperienza politica. Così Orsini, sul quale per la prima volta concorsero uniti i voti dei cardinali borbonici e di quelli asburgici, fu eletto il 29 maggio 1724 e assunse il nome di Benedetto XIII. Grandi erano i problemi che si prospettavano al nuovo pontificato: nel clero francese erano ancora forti, anzi esasperate, perché disperate, le resistenze gianseniste; la situazione politica europea imponeva alla Chiesa un difficile equilibrio tra le dinastie d'Asburgo e di Borbone; attendevano ormai una soluzione improcrastinabile le annose controversie con il governo siciliano e con quello di Torino; gravissima era la decadenza economica dello Stato pontificio che richiedeva una coraggiosa politica di intervento statale: per ciascuno di questi problemi, in maggiore o minore misura, il pontificato di B. non conseguì che insuccessi.
I contemporanei cercarono di spiegare le debolezze, le incertezze e le sconfitte con un giudizio su di lui che ebbe in Giannone la formulazione più cruda: "Così faceva in Roma, essendo papa, come in Benevento, essendo arcivescovo, non comprendendo, finché visse, che si fosse l'essere papa: e, per ciò, niente curando delle cose grandi di Stato, né della papal monarchia, era tutto inteso alle cerimonie e funzioni ecclesiastiche, a battesimi, a consacrar templi e altari, a benedir campane, alla mondizia e polizia degli abiti ed ornamenti di sacristia, e cose simili" (P. Giannone, Vita, a cura di F. Nicolini, Napoli 1905, pp. 127 s.). E in realtà, dopo tanti pontefici sin troppo raffinati politici, la religiosità di B., espressa nelle forme più appariscenti, doveva necessariamente stupire e dare l'impressione di una inadeguatezza del pontefice ai grandi compiti che la situazione proponeva alla Chiesa. In realtà, questo giudizio, e l'altro simile, assai diffuso tra gli storici, che spiega gli insuccessi di B. con la mancanza di esperienze governative e diplomatiche, hanno una loro validità soltanto in quanto rilevano la forte esigenza religiosa che B. portava nella trattazione degli affari ecclesiastici, che avrebbe potuto essere una forza, piuttosto che un difetto, se egli avesse potuto disporre di una adeguata élite di governo, che si facesse interprete ed esecutrice delle sue forti iniziative: giacché sin dagli inizi del pontificato B. affrontò le "cose grandi dello Stato", contrariamente al giudizio di Giannone, con un interesse, un'energia ed una lucidità di propositi che poterono essere delusi soltanto dalla sua incapacità di circondarsi di un governo efficiente ed animato dalle sue stesse intenzioni. E qui, veramente, pesò sulla sua azione l'unilaterale esperienza del quarantennio beneventano: deciso ad affidare la realizzazione della sua politica soltanto a gente che conoscesse bene, si circondò, con la sola eccezione del cardinale Fabrizio Paolucci, al quale assegnò la Segreteria di Stato, di collaboratori che già gli erano stati vicini a Benevento e che si rivelarono tutte persone indegne delle alte cariche loro affidate, arrivisti e furfanti che considerarono una personale fortuna l'insperata ascesa al pontificato del loro arcivescovo e cercarono di trarre dalla situazione i maggiori vantaggi personali possibili: primo tra costoro Niccolò Coscia, che era stato segretario dell'arcivescovo di Benevento e suo conclavista nel 1721 e nel 1724, e che B. creò segretario dei Memoriali, arcivescovo di Traianopoli, suo coadiutore con diritto di successione nell'arcivescovato di Benevento (di cui volle rimanere titolare anche dopo la sua esaltazione) e finalmente cardinale nel giugno del 1725. Oltre a Coscia, con gli stessi fini e metodi di lui, altri esponenti della piccola corte beneventana furono il cameriere segreto Niccolò Saverio Santamaria, classica figura di avventuriero settecentesco, Niccolò Maria Lercari, che B. elevò alla Segreteria di Stato dopo la morte del Paolucci, Francesco Fini, anche lui creato cardinale da Benedetto XIII. Così il papa, nonostante la sua onestà e la volontà di non favorire alcuno dei propri parenti, riprodusse col favore accordato ai suoi collaboratori beneventani tutti i mali tradizionali del nepotismo. Quando, nel giugno del 1726, morì il Paolucci, i "beneventani" persero ogni freno e ritegno e finirono per isolare completamente il pontefice, giacché questi, sospettoso dell'ambiente di Curia, considerò sempre come interessate calunnie di intriganti le innumerevoli accuse che si elevavano a Roma contro il Coscia ed i suoi complici.
Se la corruzione e l'affarismo dei più vicini collaboratori non furono la sola ragione del fallimento della politica di B. certo vi contribuirono in grandissima misura, anche perché impedirono che il pontefice potesse ascoltare nelle sue iniziative il parere dei competenti. Esemplare in questo senso, e tale da correggere i tradizionali giudizi sia sulle sue capacità e intenzioni politiche, sia sui motivi degli insuccessi, fu il tentativo di riforma economica dello Stato pontificio che il papa affrontò mettendo a frutto - cosa che gli storici di questo pontificato non hanno sufficientemente considerato - le esperienze realizzate in proposito a Benevento. I successi qui ottenuti dall'iniziativa dei Monti frumentari lo indussero a pensare che soltanto un diretto intervento del governo potesse stimolare, attraverso una forte diminuzione della pressione fiscale e una larghissima concessione di crediti, la diffusione di iniziative commerciali e industriali e, soprattutto, potesse valorizzare l'agricoltura. B. riteneva che il nuovo clima economico avrebbe creato, su basi meno opprimenti e limitatrici delle iniziative produttive, un gettito fiscale tale da compensare i sacrifici iniziali che l'erario si sarebbe assunto. Testimoniano l'impegno con cui egli cercò di realizzare questa coraggiosa impostazione ben trentotto costituzioni che sulla materia furono emanate durante sei anni di pontificato. La preparazione e l'esecuzione dell'iniziativa furono affidate, il 15 ed il 17 ottobre 1725, a una speciale Congregazione sull'Agricoltura e a una commissione di tecnici incaricata di studiare la questione della libertà dei grani.
La Congregazione sull'Agricoltura, alla quale il papa attribuì giurisdizione su tutto il territorio pontificio, al di sopra di ogni diversa magistratura, doveva provvedere alla revisione del bilancio dell'Annona, alla concessione di crediti agrari e di esenzioni fiscali all'industria e al commercio, allo studio e realizzazione di provvedimenti "ad agricolturae perfectionem, statum et consistentiam", alla stipulazione dei trattati di commercio con altri Stati. In esecuzione delle deliberazioni della Congregazione gli sgravi fiscali autorizzati da B. a varie categorie di industriali e di commercianti ed i prestiti concessi agli agricoltori raggiunsero cifre senza precedenti e alla fine del pontificato l'erario aveva raggiunto il fortissimo deficit di 120.000 scudi, laddove al principio del governo di B. aveva un margine attivo di più che 270.000 scudi. Tuttavia l'economia dello Stato non si avvantaggiò minimamente del notevole sforzo imposto all'erario dal pontefice: il gruppo di profittatori che questi aveva intorno seppe sfruttare a proprio particolare vantaggio il programma del papa, inducendolo a finanziare iniziative economiche fittizie, sviando verso le tradizionali consorterie parassitarie di nobili e di speculatori le provvidenze di cui si faceva carico l'erario e travisando a tal punto le intenzioni del pontefice che Clemente XII, assumendo la successione nel 1730, dovette creare una "Congregazione particolare sulle estorsioni e sugli abusi a danno di Benedetto XIII".
Nei rapporti con le potenze cattoliche B. fu guidato dalla preoccupazione preminente di normalizzare, anche con rinunzie in materia di giurisdizione, tutte quelle situazioni nelle quali il contrasto tra autorità ecclesiastiche ed autorità civili impedisse l'esercizio delle attività pastorali. Ma anche in questo caso i collaboratori del pontefice seppero trarre profitto dalle circostanze per i propri fini particolari, facendo pagare assai più di quanto la situazione non imponesse gli accordi tenacemente perseguiti da Benedetto XIII. Sin dal settembre 1724 questi aveva cercato di avviare trattative per un accordo con la corte sarda, inviando a Torino il francescano Tommaso da Spoleto. Preoccupava particolarmente il pontefice il fatto che, in conseguenza delle contese nate tra Vittorio Amedeo II e la Santa Sede per l'investitura della Sardegna, numerose diocesi piemontesi e tutte quelle sarde fossero rimaste sprovviste di titolare. Se grande era l'importanza che il papa attribuiva perciò a un accordo, non inferiore era l'interesse del sovrano sabaudo, giacché essenziale alla realizzazione del programma di riforme che Vittorio Amedeo II meditava era la tranquillità del paese, minata dalle interminabili contese tra autorità civili ed ecclesiastiche e dalla vacanza di tanti vescovati. C'erano dunque tutte le condizioni perché si realizzasse un accordo con reciproca soddisfazione. L'accorta prodigalità del plenipotenziario sardo, marchese d'Ormea, ruppe questo equilibrio di interessi: i corrottissimi collaboratori del papa riuscirono ad impedire che nelle trattative per il concordato B. si consigliasse con il Collegio dei cardinali, minacciarono le conseguenze più gravi per l'attività pastorale nel Regno sardo se si fosse addivenuti ad una rottura; vantando l'ortodossia della riforma universitaria di Vittorio Amedeo II e le energiche misure di lui in difesa dell'unità della fede e della disciplina contro ogni infiltrazione giansenista, seppero far breccia nelle ultime resistenze del papa: Ormea compì l'opera circuendo il religiosissimo B. con doni di reliquie e con plateali manifestazioni di devozione. Il concordato, sottoscritto dal pontefice il 28 maggio 1727, faceva tali concessioni in materia di immunità e di giurisdizione ecclesiastica che il mondo politico romano ne fu sdegnato.
Vicende del tutto simili ebbero le trattative con l'imperatore sulla questione della Legazia apostolica di Sicilia e del tribunale della Monarchia Sicula: con un breve del 21 luglio 1725 il papa impose ai vescovi siciliani l'applicazione della bolla di soppressione dei due istituti emanata da Clemente XI, che di fatto non era osservata nell'isola. Invano il ministro austriaco a Roma, cardinale Cienfuegos, cercò di indurre il pontefice a riesaminare la questione, minacciando gravi rappresaglie da parte di Carlo VI se egli "non avesse con giudizio e paternale prudenza riparato il già fatto". Dove non riuscirono le minacce ebbero buon gioco gli intrighi ben retribuiti del Coscia, e il papa, il 30 agosto 1728, emanò la bolla Fideli ac prudenti dispensatori, nota come concordia benedettina: anche questa volta la buona fede del pontefice era stata sorpresa. Indotto dalle pressioni dei collaboratori a cercare un compromesso che evitasse la rottura con l'imperatore, B., pur confermando esplicitamente la bolla clementina, si lasciò andare a concessioni irrilevanti in apparenza, ma che di fatto tradivano completamente le sue intenzioni ed aprivano la strada a future, gravi pretese giurisdizionali della Monarchia Siciliana: la bolla, infatti, mentre riservava i maggiori affari ecclesiastici siciliani alla Santa Sede, consentiva all'istituzione di una speciale magistratura per le altre questioni, concessione pericolosa che infatti successivamente costituì per i sovrani siciliani una nuova base per le loro pretese agli antichi privilegi di Ruggero. Il perdurante contrasto disciplinare e dottrinale della Santa Sede con il clero di Francia per l'applicazione della bolla Unigenitus e della condanna delle opere del Quesnel fu l'ultima importante questione di cui B. dovette occuparsi durante il suo pontificato. Molte speranze erano nate tra i giansenisti per l'elezione al soglio pontificio del papa domenicano, giacché forti erano nell'Ordine le simpatie per i vescovi appellanti e l'ostilità all'Unigenitus.
B. autorizzò a lungo le speranze con atteggiamenti di personale simpatia verso alcuni personaggi del movimento giansenista, con tentativi di definizione dottrinale che sembrarono accogliere alcune istanze degli appellanti, infine con una indulgenza verso i ribelli che destò molte perplessità in alcuni circoli della Curia e tra i più fieri avversari dei giansenisti, i Gesuiti, ma che in effetti era soprattutto l'espressione della sua preoccupazione fondamentale: riportare la pace nel mondo cattolico, smussando le punte più aspre del contrasto. Ma questa posizione di conciliazione non riuscì mai ad esprimersi con chiarezza, perché troppe e contrastanti furono le pressioni che si esercitarono sul pontefice, e le iniziative di B. servirono in definitiva più a dare nuovo alimento alla contesa che a moderarla.
Il primo diretto intervento del papa nella controversia dottrinale fu il breve Demissas preces all'Ordine dei Predicatori, emanato per le pressioni del generale dell'Ordine Agostino Pipia e del domenicano Ignazio Giacinto Graveson, agente del cardinale arcivescovo di Parigi, de Noailles, i quali ritenevano che questo intervento avrebbe potuto sanare le controversie vive da gran tempo tra i Domenicani. Alcuni gruppi di questi, infatti, ritenevano che la bolla Unigenitus fosse inconciliabile con la dottrina, professata dall'Ordine, della grazia per sua natura efficace e della predestinazione alla beatitudine eterna senza previsione di meriti. Questa valutazione dell'Unigenitus accostava molti Domenicani, come il gruppo del convento parigino di S. Giacomo, alle posizioni dei vescovi appellanti, i quali d'altra parte sostenevano di non scostarsi su questo punto dalla dottrina tomista insegnata dai Domenicani. Secondo le richieste di Pipia B. affermò nel breve che la dottrina della grazia per se stessa efficace e della predestinazione alla gloria senza previsione di meriti era una dottrina antica conforme alla Sacra Scrittura, ai decreti pontifici e agli insegnamenti di s. Agostino e di s. Tommaso, e che la bolla Unigenitus non la condannava, sconfessando tutti coloro che calunniavano in questo senso i Domenicani.
Il breve ebbe una larghissima risonanza, ma non produsse alcuno degli effetti che B. si era proposto: esso non riuscì infatti a ricondurre alla disciplina i Domenicani appellanti, che avrebbero desiderato una più esplicita ritrattazione di quanto nella bolla Unigenitus poteva suonare condanna dei principi tomisti; il breve inasprì anche le opposte posizioni dei Gesuiti e dei giansenisti, giacché i primi sostennero che esso permetteva come opinione particolare dei Domenicani la dottrina della grazia efficace, ma non la rendeva obbligatoria alle altre scuole teologiche; i secondi furono rafforzati nella loro opposizione all'Unigenitus, giacché ritennero che l'approvazione della dottrina domenicana sconfessasse le posizioni teologiche dei Gesuiti e fosse un primo passo verso la condanna della bolla di Clemente XI.
Queste reazioni al breve, che per essere stato elaborato con la collaborazione di Graveson mostra chiaramente la preoccupazione di B. di permettere un riavvicinamento alla Santa Sede dell'arcivescovo di Parigi, cui in notevole misura facevano capo le resistenze dottrinali e disciplinari del clero di Francia, indussero il pontefice al progetto di promulgare una bolla, formalmente ancora diretta all'Ordine domenicano, di cui doveva raccogliere, confermare ed accrescere i privilegi, ma che in realtà si rivolgeva a tutto il mondo cattolico per confermare la protezione pontificia alla dottrina della grazia efficace: essa doveva dunque essere, nelle intenzioni del papa, un deciso attacco alle posizioni dei molinisti e quindi un nuovo passo incontro ai vescovi appellanti. Per evitare le pressioni dei cardinali legati ai Gesuiti e dei rappresentanti delle potenze, egli incaricò l'auditore Giuseppe Accoramboni e il padre Mola, procuratore generale dei Domenicani, di redigere e stampare nel più grande segreto la bolla. Il paragrafo 41 di questa prima redazione rinnovava l'approvazione della dottrina domenicana "con tales terminos [come scriveva il ministro spagnolo a Roma, cardinale Cornelio Bentivoglio] que la costitución Unigenitus queda totalmente condemnada e inutil". In effetti, anche se in questa redazione si parlava di errori condannati di Quesnel, l'Unigenitus non era affatto menzionata.
Malgrado le cautele prese per conservare il segreto, la notizia della nuova iniziativa del pontefice trapelò nella Corte romana, suscitando la vivacissima reazione di un numeroso gruppo di cardinali e dei ministri delle tre potenze, i cardinali Polignac, Cienfuegos e Bentivoglio, il quale ultimo scriveva preoccupato alla propria corte che "ciertamente la cosa puede ser de unas funestas consequencias, y que si el Papa publica esta bula, será indicio de una guerra universal de religion por todo el mundo christiano, y el cisma que iva picando en pocos angulos de la Francia se hará universal a todos los reynos, y si un pontifice retrata las decisiones de otro en materia de fé, en donde estará la infalibilidad de la cathedra de S. Pedro? Y que certeza tendran de aqui adelante los fieles en su creencia?". Queste preoccupazioni di Bentivoglio, del tutto condivise da Polignac e da Cienfuegos, furono dai tre fatte presenti al papa, con l'aggiunta della minaccia che i loro governi non avrebbero accettato la bolla se essa non fosse stata rimaneggiata.
Cedendo a queste pressioni B. affidò la bolla all'Inquisizione e la fece nuovamente redigere e stampare secondo le indicazioni del Sant'Uffizio e di un apposito memoriale presentato da Bentivoglio. Il paragrafo dottrinale della bolla Pretiosus, pubblicata il 28 giugno 1727, non serbava che tenui tracce delle posizioni del pontefice: nella nuova redazione del paragrafo, infatti, le dottrine della grazia efficace e della predestinazione senza previsione di meriti non sono più attribuite, come nella prima formulazione, a s. Tommaso, ma solamente alla scuola tomista; è eliminato un importante chiarimento, secondo il quale venivano poste sotto la protezione pontificia anche tutte le proposizioni della dottrina tomista che fossero conseguenza della dottrina della grazia e della predestinazione; infine le bolle Unigenitus e Pastoralis officii sono esplicitamente confermate. Sebbene anche dopo questa revisione la bolla risultasse sgradita ai Gesuiti e gli appellanti vi trovassero ancora qualche motivo di compiacimento, la vicenda segna la fine della personale iniziativa di B. nella questione. Da allora il pontefice non ebbe più che un ruolo secondario nelle discussioni con il clero francese, affidate di fatto, se anche non ufficialmente, alla Curia. La quale, se durante il suo pontificato riuscì ad ottenere l'adesione all'Unigenitus di Noailles - ma non di tutti i vescovi appellanti -, conseguì questo risultato con il metodo tradizionale dell'irrigidimento disciplinare e con le pressioni politiche, rinunziando completamente alle aperture dottrinali tentate da Benedetto XIII. Anche la bolla Pretiosus, del resto, fu revocata in quello che conteneva di nuovo nel successivo pontificato di Clemente XII, il 13 febbraio 1731, il 29 marzo 1732 ed il 2 ottobre 1733.
Altri aspetti del pontificato di B. ebbero indubbiamente un rilievo minore, ma non possono essere taciuti perché anche essi contribuiscono ad illuminare la complessità e l'ampiezza dell'azione da lui svolta nel suo pur breve pontificato. Particolare importanza egli attribuì, come già nel periodo episcopale, al ristabilimento della disciplina ecclesiastica: in questo senso ha un significato centrale il concilio provinciale romano celebrato in Laterano tra il 15 aprile ed il 29 maggio del 1725, durante la celebrazione dell'anno giubilare. Il concilio, che B. aveva convocato ignorando le forti opposizioni della Curia, sempre preoccupata dalle iniziative personali del pontefice, doveva essere, nelle intenzioni di lui, un esempio ai vescovi per i loro sinodi provinciali e diocesani. Le disposizioni prese dal concilio, per impulso instancabile del papa, non presentano innovazioni importanti, ma sono certo significative della preoccupazione vivissima in B. per la ricostruzione dell'unità organizzativa e disciplinare della Chiesa: il concilio insistette sull'osservanza dell'obbligo della residenza da parte dei vescovi e dei parroci; sulla necessità delle visite diocesane, delle conferenze pastorali e di una regolare convocazione dei concili provinciali e diocesani; sull'opportunità di uno scrupoloso controllo delle rendite degli enti ecclesiastici e di una proporzionata attribuzione dei benefici; sulla fermezza con cui occorreva difendere le immunità ecclesiastiche; sull'istruzione religiosa del clero e sull'attività catechistica; sul controllo della moralità e religiosità pubbliche. Quasi a complemento delle indicazioni del concilio provinciale romano furono pubblicate nel giugno del 1725 una bolla sulla costituzione di Gregorio XIV per le immunità ecclesiastiche ed una seconda ai vescovi d'Italia sull'obbligo dell'istituzione dei seminari, mentre nello stesso mese B. costituiva una Congregazione speciale per i seminari e successivamente emanava una istruzione ai vescovi sull'obbligo di visitare regolarmente la Santa Sede. Numerosi furono i suoi interventi presso vescovi, Congregazioni religiose e autorità civili in Italia e fuori d'Italia per il rispetto della disciplina ecclesiastica e il potenziamento dell'attività sinodale, con brevi agli arcivescovi di Amalfi, Avignone, Treviri e Magonza; ai vescovi di Germania e a quelli di Foligno, Gravina, Fermo, Iesi, Cremona; al clero di Costanza, alle Congregazioni dei Benedettini di Svezia e di Baviera, a Filippo V ed al clero spagnolo, contro gli abusi del quale confermò con una bolla del 27 marzo 1726 le disposizioni della bolla di Innocenzo XIII del 23 maggio 1723; all'imperatore, al duca Leopoldo di Lorena e all'elettore Clemente Augusto di Colonia. Particolare cura B. rivolse al coordinamento delle attività missionarie che durante il suo pontificato ebbero notevole sviluppo; i Francescani, ai quali concesse di istituire un collegio per la formazione dei missionari in ogni provincia delle Indie Occidentali e Orientali, si diffusero largamente nel Messico, nel Perù, in Cocincina e in Cambogia; i Cappuccini nei Llanos, nel Bengala, nell'Indostan e nel Nepal; i Domenicani nelle Piccole Antille; soprattutto, però, ebbero impulso le missioni gesuitiche, nelle Indie sia Occidentali sia Orientali. Coerentemente alle sue preoccupazioni per l'attività pastorale in Europa, anche per le missioni B. accentuò le misure per il controllo della disciplina ecclesiastica e per l'osservanza delle norme canoniche: a questo fine nominò visitatori e vicari apostolici nell'Orinoco, in Cocincina e nel Siam, dette nuovo impulso all'attività della Congregazione istituita da Innocenzo XIII per l'esame della questione dei "riti malabarici" ed a quella di Propaganda Fide, impegnata nel giudizio dell'annosa controversia sulle missioni gesuitiche cinesi.
Il 25 settembre 1728 B. prescrisse la celebrazione annuale in tutta la Chiesa del papa Gregorio VII, già santificato da Paolo V; questa misura liturgica provocò una seria crisi nei rapporti internazionali della Santa Sede: numerosi governi videro infatti un attentato alla sovranità civile nella rievocazione della lotta tra Gregorio VII ed Enrico IV, poiché ritennero che vi si rinnovasse la pretesa giuridica del papa di deporre i principi. In Francia fu impedita la stampa del breviario e, poiché alcuni vescovi gallicani si associarono alla proibizione, ne risultò ancora acuito il contrasto tra la Curia e il clero francese; il governo olandese proibì la recitazione dell'ufficio, giungendo a minacciare la revoca del diritto di commercio per i cattolici, mentre il vescovo di Utrecht, per suo conto, rifiutava l'esecuzione della prescrizione papale; a Napoli il viceré conte Harrach ordinò di sequestrare tutte le copie dell'ufficio e di incarcerare gli stampatori e la stessa misura fu disposta dal Senato di Palermo e dalla Repubblica di Venezia. Altri contrasti sorsero, in materia di giurisdizione ed immunità ecclesiastica, con la Polonia, con il duca di Lorena e con il Cantone di Basilea, il quale ultimo costrinse il nunzio Domenico Passionei ad abbandonare la città. Anche le grandi potenze cattoliche europee riservarono a B. qualche amarezza, perché nella pace sottoscritta tra Borboni e Asburgo nell'aprile del 1725 i diritti attribuiti all'infante Carlo su Parma e Piacenza andavano a detrimento delle pretese della Santa Sede sul Ducato. In cambio però toccò a B. ottenere alla Santa Sede la restituzione di Comacchio da parte dell'Impero (1725). B. morì il 21 febbraio 1730 e fu sepolto nella cappella di S. Domenico in S. Maria sopra Minerva.
B. non fu un papa popolare, sebbene fosse stato assai amato e stimato come arcivescovo di Benevento: gli alienò le simpatie del popolo romano proprio la predilezione che egli conservò, anche dopo l'ascesa al pontificato, per la sua vecchia arcidiocesi, predilezione che si manifestò con i frequenti invii a Benevento di doni e di rilevanti somme di denaro, con la scelta tra i Beneventani dei suoi più vicini collaboratori e con i due viaggi a Benevento nel marzo-maggio del 1727 e nel marzo-giugno 1729. Neanche la Curia poté perdonargli di aver affidato le più importanti cariche dello Stato a un gruppo estraneo all'ambiente romano e di aver sempre cercato di trattare le più importanti questioni politiche e religiose prescindendo dalle Congregazioni e dagli altri istituti tradizionali della politica pontificia. Aggravò e giustificò questo risentimento il fatto che il gruppo di governo prescelto da lui fosse profondamente corrotto, sicché Benedetto XIV poté poi scrivere che la decadenza della Curia era cominciata durante il suo pontificato: in realtà l'affarismo e il politicantismo della Curia avevano radici assai più antiche e lo stesso Lambertini, quando era ancora segretario della Congregazione del Concilio, chiamato da B. a partecipare alle trattative per il concordato con la corte di Torino, non si comportò diversamente dai tanto biasimati Coscia, Lercari, Fini e Santamaria, così da ricevere da Vittorio Amedeo II, in premio dei buoni uffici, una pensione di 1.000 scudi. Probabilmente fu proprio perché conosceva gli antichi mali della Curia che B. cercò, con così poca fortuna, di costituire un gruppo di governo estraneo ad essa. Ma ancor più probabilmente questa scelta fu determinata dall'esigenza di eliminare gli ostacoli che, come legittimamente si poteva prevedere, la Curia avrebbe frapposto alla realizzazione della politica nuova che B. meditava, specie per quanto riguardava i rapporti con la Chiesa di Francia. Il calcolo si dimostrò in parte giusto, poiché il Coscia e gli altri "beneventani" si astennero dall'interferire in quest'ultimo settore dell'attività del pontefice, dove probabilmente sapevano che si sarebbe dimostrato meno indulgente; ma il papa sottovalutò le capacità di resistenza della Curia e il peso determinante che sulla Santa Sede ancora potevano avere gli interventi delle grandi potenze cattoliche, e questo fu certo il motivo fondamentale del suo insuccesso. Neanche nell'opposta sponda degli anticurialisti il papa domenicano godette di eccessive simpatie, come mostra il giudizio su di lui di Giannone; a parte le ragioni personali che lo scrittore foggiano poteva avere per un giudizio negativo su B., dopo il sequestro a Benevento dell'Istoria civile, l'energica difesa dei privilegi ecclesiastici cui egli dette impulso, sia come vescovo sia come papa, non poteva renderlo gradito agli anticurialisti: che poi questi ultimi non apprezzassero neanche il fervore religioso di B. è una nuova prova che la loro rivendicazione di un clero tutto dedito alle attività pastorali era, più o meno consapevolmente, soltanto un espediente polemico.
Il negativo giudizio dei contemporanei di B. si riflette nella tradizione storiografica: tranne la produzione di scrittori dell'Ordine domenicano, caratterizzata da intenzioni e risultati nettamente agiografici (occorre ricordare che il papa fu proposto dall'Ordine per la beatificazione), la storiografia cattolica gli si è mostrata decisamente sfavorevole, non potendogli forse perdonare di aver tentato nella questione giansenista una strada che fu del tutto abbandonata dalla Chiesa. Perciò le varie iniziative di B. - che certamente esprimevano, sia sul piano della definizione dottrinale, sia su quello dei rapporti diplomatici, sia infine su quello delle riforme economiche nello Stato pontificio, esigenze assai largamente sentite nella Chiesa del tempo - sono state ignorate in quanto potevano avere di nuovo e di fecondo e se ne sono visti soltanto gli esiti negativi, sbrigativamente attribuiti ad una presunta mancanza di esperienza del mondo e di preparazione politica, mentre l'innegabile contrasto di B. con la Curia è stato riferito a una "grande ostinatezza", a "piccineria", e "limitatezza" (L. von Pastor) di lui. Del resto la storiografia si è occupata assai poco di questo pontefice: allo stato attuale delle ricerche manca la possibilità di valutare alcuni aspetti importanti della sua personalità, innegabilmente assai complessa e talvolta contraddittoria: così per esempio, non è possibile, finché manchi uno studio critico delle sue personali posizioni teologiche, giudicare sino a che punto si spingessero le sue simpatie per il movimento dei vescovi appellanti: i suoi diari, il suo ricchissimo carteggio, le sue stesse numerosissime opere offrono un campo quasi del tutto inesplorato alle ricerche.
fonti e bibliografia
La più ricca raccolta degli scritti di papa B. venne stampata a Ravenna: Opere tutte latine ed italiane, Ravenna 1728-34; cfr. anche Opuscola varia variis temporibus pro Beneventana Archidiocesi vel calamo, vel iussu fr. Vicentii Mariae Ord. Praed. S.R.E. Cardinalis Ursini Archiepiscopi, nunc S.I.D.N. Papae Benedicti XIII in lucem edita, Romae 1726²; Epistola di avvertimenti pastorali al clero e popolo della città e diocesi di Siponto, lasciati dal cardinale fr. Vincenzo Maria Orsini Romano, loro arcivescovo, in occasione della translazione e partenza sua dalla chiesa sipontina alla cesenatense, Manfredonia 1680; Discorso nel quale si prova che 'l corpo di S. Bartolomeo apostolo stia in Benevento, a cura di B. Giannelli, Benevento 1695 (traduzione di una dissertazione latina dell'Orsini); Regole del Seminario de' chierici della città di Benevento, riconosciute, riformate ed accresciute dall'E.mo e R.mo [...] Fr. Vincenzo Maria Cardinale Orsini, ivi 1703; Memoriale rituum maioris hebdomadae pro functionibus persolvendis archiepiscopo celebrante, vel assistente. Ad usum s. Beneventanensis ecclesiae, ivi 1706; Sermones, ivi 1734; Lettera del nostro Santissimo Padre Benedetto XIII scritta in risposta al Sig. Cardinale di Noailles, arcivescovo di Parigi, Roma 1728; parzialmente pubblicata la corrispondenza dell'Orsini, tra il 1680 ed il 1717, con i Padri filippini della Congregazione dell'Oratorio di Napoli, da A. Bellucci: Di una inedita ed ignota corrispondenza del cardinale Vincenzo Maria Orsini arcivescovo di Benevento e poi papa Benedetto XIII, "Samnium", 2, 1929, nr. 4, pp. 5-35; 3, 1930, nr. 1, pp. 17-35; nrr. 2-3, pp. 5-23; nr. 4, pp. 5-30; 4, 1931, nr. 1, pp. 5-16; nr. 2, pp. 5-16; 5, 1932, pp. 17-24; 6, 1933, pp. 140-47.
Tra le biografie a stampa la più ricca di notizie è di G.B. Vignato, Storia di Benedetto XIII dei Frati Predicatori, I-IX, Milano 1952-76, di carattere però meramente agiografico; cfr. inoltre L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 1, Roma 1932, p. 660; XIV, 2, ivi 1932, pp. 387, 388; XV, ivi 1933, pp. 486-638 e passim; prive di valore critico, ma con qualche utile notizia biografica: D. Nardone, Benedetto PP. XIII, Gioia del Colle 1924; P. Calderoni Martini, Il pontificato di Benedetto XIII, Napoli 1925; A. Cangiano, Benedetto XIII, Roma 1933.
V., poi, P. Savoia, L'episcopato beneventano di papa Orsini, Acerra 1973; A. Casino, Papa Benedetto XIII, Molfetta 1980; G. Giordano, L'impegno missionario del card. Vincenzo Orsini, Benevento 1982; A. De Spirito, Personalità e stili di vita di Benedetto XIII, vescovo e papa meridionale, "Campania Sacra", 21, 1990, pp. 205-79.
V. Alce, Benedetto XIII, in B.S., Prima Appendice, I, coll. 158-60; Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg 1994³, s.v., coll. 208-09; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 163-65.