PISA (A. T., 24-25-26 bis)
Città della Toscana, capoluogo di provincia e sede arcivescovile.
Si esclude, oggi, ogni affinità del nome della città con il nome greco di Pisa dell'Elíde e lo si ravvicina piuttosto a un gruppo d'origine etrusca, frequente nella toponomastica toscana, dal significato generico "bocca, foce".
La città sorge sulle due rive dell'Arno a 12 km. dalla sua foce nel Tirreno, in mezzo a un vasto piano alluvionale formato dai depositi del fiume stesso a 4 m. s. m. Di antichissima origine, fu centro marittimo di grande importanza; ma il costante protrarsi della costa marittima ne ostruì il porto e l'impaludamento dell'agro adiacente determinò il diffondersi della malaria. Alla metà del sec. XVI, Pisa non contava più di 8600 ab.; ma le cure del governo mediceo valsero a risollevarne le sorti. A ciò contribuirono i grandi lavori di bonifica che la liberarono dalle febbri palustri; le franchigie offerte ai nuovi abitatori che vi si volessero stanziare; la costruzione del canale navigabile dei Navicelli fatto scavare da Ferdinando I, che rimetteva la città in diretta comunicazione col mare. Assai lento fu tuttavia il suo progredire demografico; nei due secoli successivi la popolazione si accrebbe solo del 50%, raggiungendo alla metà del sec. XVIII i 12.500 ab. Più rapido si manifestò sotto la dinastia lorenese per l'impulso maggiore dato ai lavori di bonifica, onde nel secolo successivo la popolazione quasi raddoppiò salendo nel 1861, per l'intero suo comune, a 49.743 ab. Dopo l'unificazione del regno il movimento ascendente non si è arrestato, talché al censimento del 1931 la popolazione del comune risultò di 73.041 ab., dei quali 55.000 per il solo centro urbano. Pisa occupa così il terzo posto tra le città toscane, subito dopo Firenze e Livorno.
In epoca romana la città pare che si stendesse in corrispondenza dell'attuale parte settentrionale entro un'area delimitata all'incirca dal luogo dove sorge il Duomo e dalla Porta a Lucca fino a S. Zeno: ma ben presto il centro urbano si spostò sempre più verso il fiume, poiché già intonaco al sec. XI la zona sopra descritta veniva chiamata la "città vecchia", mentre la prima cinta di mura di cui abbiamo concrete notizie, risalente al sec. X, escludendo tutta la parte orientale dell'attuale città e la stessa Piazza del Duomo, descriveva un perimetro che si può all'incirca stabilire, in riferimento alla topografia odierna, come passante dalla Piazza Arcivescovado per Via Mugelli, e secondo un relativo prolungamento perpendicolare al Lungarno, di sulla riva destra del fiume fino alla Piazza Garibaldi; di lì si dirigeva sulla sinistra del Borgo Stretto, e parallelamente a questo, attraverso Via delle Sette Vòlte e Via S. Apollonia incontrava la Via Torelli, con la quale si ricongiungeva alla Piazza Arcivescovado. Verso la metà del sec. XII una nuova cinta di mura comprendeva il territorio alla destra del Borgo Stretto, e più tardi, dopo il 1162, fu necessario recingere anche il quartiere detto di Chinsica, che si era formato sulla riva sinistra dell'Arno: quest'ultimo giro di mura venne terminato circa un secolo dopo, e, salvo poche varianti apportatevi durante il dominio fiorentino e dai Medici, è ancora quello che, nella sua caratteristica forma quadrilatera, separa la città dai numerosi sobborghi che le si sono propagati all'intorno.
Il recente sviluppo demografico della città, dovuto all'intensificarsi di alcune lavorazioni industriali e al costante miglioramento delle condizioni agricole del suo territorio, ha determinato il suo ampliamento edilizio con nuove vie periferiche e moderni fabbricati. Allo sviluppo industriale (tessitura, vetrerie) si accompagna una maggiore attività commerciale, dovuta alle facili comunicazioni per cui Pisa è divenuta un considerevole centro ferroviario dove s'incrociano la linea litoranea Roma-Genova con la Firenze-Livorno e dove fa capo la Pistoia-Lucca-Pisa, cui sono da aggiungersi, per il traffico mercantile, le vie d'acqua rappresentate dal ricordato Canale dei Navicelli, che ampliato di recente la mette in comunicazione con Livorno, e dal corso inferiore dell'Arno per il tratto almeno sino a Pontedera.
Pisa è dotata di tutti i servizî pubblici e uffici inerenti alla sua qualità di capoluogo di provincia. Per la sua posizione a soli 10 km. in linea d'aria dalla riva del mare che anticamente ne lambiva le mura, la città gode di un clima più mite di quello di Firenze. La media della temperatura invernale (7°,0) ne è di 1°,3 più elevata e quella estiva (22°,4) di un grado più bassa. Più abbondanti le piogge (1046 mm.), prevalentemente autunnali, ripartite in 120 giorni. Il comune di Pisa, vasto 184,51 kmq., non comprende oltre il capoluogo altri centri abitati notevoli salvo Marina di Pisa, centro di recente origine con 2500 ab. e stazione marittima balneare assai frequentata, sviluppatasi presso il casale di Bocca d'Arno sulla sinistra del fiume. Questa stazione balneare è congiunta a Pisa da una linea tramviaria di km. 12,5.
Monumenti. - Architettura. - Il più importante ricordo dell'architettura romana a Pisa è costituito dai ruderi di un grandioso edificio termale, situato nei pressi di Porta a Lucca e chiamato volgarmente "Bagno di Nerone", o anche, come si legge nella "carta di Bonanno" "Terme di Adriano". Si tratta in realtà di una sala ottagona a vòlta, contornata da quattro grandi nicchie ad abside, probabilmente un laconicum o sudatorio, edificata, come testimonia un'iscrizione romana rinvenuta in quei pressi nel 1883, da un Lucio Venuleio Aproniano, console di Pisa, sulla fine del secolo II d. C.
Dell'anfiteatro o "parlascio", del foro e dei templi di Cesare, Diana, Vesta, di quelli di Marte e di Apollo, di un presunto sacrario di Venere e del cosiddetto "Palazzo di Adriano", che doveva essere situato nell'attuale Piazza del Duomo, non rimane più alcuna traccia degna di nota, all'infuori dei rari pezzi di scavo e di numerosi frammenti usati nella costruzione di chiese ed edifici appartenenti ad epoca di molto posteriore.
La vera civiltà artistica di Pisa non ebbe principio che nel secolo XI, cioè quando, insieme con la potenza politica della città, si affermò nelle chiese e negli edifici uno stile che, svoltosi poi fino al sec. XIII, per originalità d'indirizzi e per copia di testimonianze meritò a buon diritto di occupare uno dei più importanti capitoli della storia dell'architettura romanica in Italia. Lo "stile pisano" s'iniziò con Buscheto, l'architetto geniale che nel 1063, dopo la vittoria dei Pisani contro i Saraceni di Palermo, diede mano alla fondazione del Duomo.
Il Duomo pisano, dedicato a S. Maria, fu consacrato, quando non era ancora compiuto, nel 1118 da papa Gelasio II: verso la fine del sec. XII venne eseguita la facciata, che in un'epigrafe si dichiara opera di un "Rainaldus", non meglio identificato. L'edificio è a croce latina, con cupola ellittica sostenuta da un tamburo ottagonale all'incrocio dei bracci. Il corpo centrale è a cinque navate, con ampî matronei, mentre il transetto è a tre navate.
In conseguenza di un gravissimo incendio, scoppiato nel 1596 per incuria di chi riparava le lastre di piombo della copertura, numerose opere d'arte andarono distrutte, e tra l'altro si deve lamentare la perdita delle antiche porte di bronzo della facciata: così che molto di quel che oggi si vede all'interno del Duomo e la maggior parte delle sue suppellettili risalgono al tempo dei radicali restauri che dal 1602 al 1616 furono promossi dal granduca Ferdinando I e poterono essere condotti a termine mediante lo spontaneo contributo dell'intera cittadinanza. Le principali dimensioni del duomo all'esterno sono: lunghezza m. 100, larghezza della facciata m. 35,50, altezza di essa metri 34,24.
Nello stile pisano, quale esso si manifesta sin dal suo primo apparire ad opera di Buscheto, rivive il classico respiro proprio alle monumentali basiliche paleocristiane di Roma (è noto che Buscheto a Roma ebbe a rialzare l'obelisco del circo neroniano), armonicamente illustrato da una grande varietà di elementi lombardi e soprattutto orientali. Nata dallo stesso ceppo classicheggiante sul quale s'affermò l'architettura fiorentina, quella pisana si dimostrò più rigogliosa e accogliente nel comporre varî motivi di origine e spirito diversissimi: e questo spiega come lo stile buschetiano ebbe agio di diffondersi e di moltiplicarsi secondo partiti sempre nuovi nelle città circonvicine e sin nelle lontane chiese della Sardegna, della Corsica e delle Puglie. Così, ad esempio, nel Duomo pisano è notevole la presenza dell'arco acuto, secondo un modulo che non richiama l'ogiva gotica, ma che direttamente s'ispira all'arte musulmana: egualmente d'influenza musulmana e orientale sono gli archetti che l'alto piedritto fa sembrare a sesto sorpassato, e le fasce bianche e nere a corsi di concio alternati nel paramento, che non s'identificano con le incrostature decorative fiorentine, ma formano parte integrante della costruzione. Dall'architettura armena (cattedrale di Ani), piuttosto che dai templi bizantino-ravennati, parve lo stile pisano avere ereditato il tipico ricorrere delle arcate cieche lungo l'esterno degli edifici, e sommamente caratteristici sono i tondi e le losanghe intarsiate a più colori che si allineano al disotto delle arcate cieche. Rainaldo, che proseguì nel Duomo lo stile instaurato dal suo predecessore, sviluppò nella facciata il motivo più schiettamente lombardo delle loggette pensili, motivo che contemporaneamente elaborato nella vicina Lucca con maggiore esuberanza decorativa si ritrova quindi applicato nelle facciate di altri illustri templi pisani, quali, ad es., il S. Paolo a Ripa d'Arno. Lo stile di Buscheto e di Rainaldo ebbe poi successivi sviluppi negli altri edifici che fanno corona al massimo tempio della città: nel Campanile, cui un cedimento del suolo acquitrinoso quando da poco s'era cominciato a costruire contribuì a dare la caratteristica inclinazione, e nel Battistero. Il primo fu iniziato nel 1174 da Bonanno Pisano, e dopo una lunga interruzione venne proseguito da Giovanni Pisano fino al coronamento, opera di Tommaso di Andrea Pisano (seconda metà del sec. XIV). Il secondo ebbe principio nel 1153 ad opera di Diotisalvi, un architetto che s'era già distinto con l'edificare nella stessa città, secondo moduli lombardi, la chiesa di S. Sepolcro, e fu terminato, dopo aver subito un radicale mutamento, secondo i disegni di M. Zibellino da Bologna sulla fine del sec. XIII.
Ma contemporaneamente a questo stile, che potremmo chiamare maggiore, fiorì a Pisa un'architettura minore, destinata a trar profitto, in alcune chiese meno importanti, della vivacità cromatica delle scodelle maiolicate derivate dall'Oriente e dalla Spagna e poi prodotte in gran copia da floride fabbriche locali: scodelle che si incastravano variamente sui nudi paramenti esterni a pietre scoperte, appena decorati da un leggiero ricorrere di archetti falcati alla maniera musulmana. Così, se da una parte, oltre alle citate, le chiese di S. Frediano, di S. Pierino, di S. Andrea e altre innumerevoli riflettevano e sviluppavano con una certa fedeltà le forme e le decorazioni instaurate da Buscheto, dall'altra S. Sisto e S. Piero a Grado testimoniano la varietà di uno stile minore, che fu ampiamente diffuso nelle campagne.
L'architettura gotica, quando giunse a Pisa, secondò quello che era stato già in precedenza così potentemente e caratteristicamente realizzato: le facciate a loggette pensili ebbero perciò gli archetti acuti o trilobi, come in S. Michele in Borgo e in Santa Caterina; e nello stesso Camposanto monumentale, il quarto dei grandi edifici che adornano la superba Piazza del Duomo, iniziato nel 1278 da Giovanni di Simone e compiuto in pieno sec. XIV, ci è dato osservare il ritmo ancora prettamente romanico delle arcate cieche, all'esterno, e la serena monumentalità delle "arcoare" a pieno centro lungo i corridoi interni, più tardi, durante il secolo decimoquinto, adornate di sottili ricami marmorei, mentre i finestroni venivano raccorciati dal basso e suddivisi da esili colonnette in foggia di quadrifore.
L'architetto del Camposanto, Giovanni di Simone (un tempo confuso con Giovanni Pisano, lo scultore figlio di Nicola), collaborò pure ad altri importanti edifici gotici della città: con ardimento geniale osò poggiare le basi dello slanciato campanile della chiesa di San Francesco (un tipico esempio, questo, dell'architettura gotica francescana) su due mensoloni sporgenti dalle pareti interne del tempio; costruì le "murelle" della chiesa di Santa Caterina e con molta probabilità ebbe mano nella riedificazione dell'oratorio della Spina, la chiesetta che, isolata sulla riva del fiume, con l'esuberanza e la raffinatezza delle sue ornamentazioni marmoree ci testimonia quale carattere avesse raggiunto in Pisa a quell'epoca (1323-1332) lo spirito decorativo dei gotici, che si rivela altrettanto originalmente anche nelle teorie d'archetti e di finestre coronanti le cupole del Duomo e del Battistero. Pochi edifici a Pisa si sottrassero all'unità d' indirizzo che informò l'architettura locale dai tempi di Buscheto all'ultimo Trecento: e fra questi ultimi citeremo il tempietto ottagono di S. Agata (fine del sec. XI), di tipo schiettamente lombardo, cui Diotisalvi parve ispirarsi nel disegnare la chiesa di S. Sepolcro (sec. XII) e quindi, riavvicinandosi ai moduli del luogo, nel costruire il Battistero; infine, il caratteristico campanile pendente di S. Nicola, un tempo attribuito a Nicola Pisano, e frutto invece di un'interpretazione pisana dello stile monastico-benedettino.
Accanto all'architettura religiosa fiorì pure con accenti proprî a Pisa, nell'epoca romanica e gotica, l'architettura civile, rappresentata soprattutto dalle cosiddette "casetorri", le quali, ad evitare i pericoli del terreno acquitrinoso, venivano incorporate entro alti pili di verrucano congiungentisi spesso con archi acuti, meno frequentemente con archi a pieno centro, secondo una pratica già in uso presso i Romani e ricordata da Vitruvio: tante erano queste singolari costruzioni che nel sec. XII Beniamino da Tudela enfaticamente affermava che la città ne contava circa diecimila, e anche oggi molte strade pisane devono a tali resti il loro caratteristico aspetto.
Col sec. XV, completamente annientata la potenza politica della città, anche le arti persero del tutto ogni carattere personale: modesto esempio di timide tendenze architettoniche rinascimentali è il palazzo dei Trovatelli; nel Cinquecento tali tendenze trovarono uno sbocco nei cortili dell'università e dell'arcivescovado. Tuttavia nella seconda metà di quest'ultimo secolo Pisa, pur non potendo vantare artisti proprî, si adornò di notevoli edifici, e ricevette dagli architetti fiorentini, chiamati in quel tempo da Cosimo I, la fisionomia calma e aristocratica che ancor oggi seduce chi passi per le sue strade: fra le opere più importanti di quell'epoca va ricordata la sistemazione della Piazza dei Cavalieri, cui fanno corona il Palazzo e l'omonima chiesa, costruiti su disegni del Vasari, il Palazzo della canonica, quello della provincia, il Collegio Puteano e il Palazzo dell'orologio. Così, in numerosi altri fabbricati ci è dato riscontrare influenze vasariane e buontalentesche, e la mirabile passeggiata dei Lungarni, se non proprio come la vediamo adesso, tuttavia deve la sua iniziale sistemazione allo scorcio del sec. XIV, quando vi si costruirono i più importanti palazzi, fra i quali degno di nota quello Lanfreducci detto "alla Giornata", opera di Cosimo Pugliani. Rari sono in Pisa gli esempî di architettura barocca e settecentesca (non va tuttavia passato sotto silenzio il nome di Mattia Tarocchi, pisano, del secolo XVIII, al quale si devono la facciata della chiesa di Sant'Apollonia e l'interno della chiesa di Santa Marta); nell'Ottocento Pisa si arricchì di una delle sue più belle piazze: quella di Santa Caterina (1815).
Scultura. - Di altrettanta, se non maggiore importanza rispetto a quello dell'architettura, fu a Pisa lo svolgimento di una scuola locale di scultura, la quale, specialmente fra il sec. XIII e i primi del XIV, ebbe la gloria di propagare sull'intera penisola il verbo di un fondamentale rinnovamento stilistico. Gl'inizî della tradizione scultorica pisana nel periodo romanico, piuttosto modesti, furono caratterizzati soprattutto, come in genere per tutta la Toscana, da un vivace sentimento della classicità: questo sentimento veniva vieppiù fomentato dalla presenza di numerose sculture e sarcofagi del periodo greco e romano, quali ancor oggi ci è dato di vedere nella copiosa raccolta del Camposanto monumentale. Maestro Guglielmo, unendo a tali tendenze il vigoroso plasticismo lombardo e influenze provenzali, scolpiva (1162) il pergamo di Santa Maria Maggiore, poi trasferito, nel sec. XIV, a Cagliari. Da Guglielmo presero le mosse varî rozzi scultori che operarono nelle città circonvicine, come Biduino e Gruamonte, finché sul cadere del secolo XII non operò a Pisa una personalità veramente singolare per vastità di cultura e raffinatezza di stile: Bonanno Pisano, di cui si ammirano ancora la porta in bronzo del Duomo che dà adito alla cappella di S. Ranieri e quella del Duomo di Monreale (1186). Contemporaneamente scolpivano gli architravi delle porte del Battistero e di altre chiese pisane artefici che più direttamente s'ispiravano agli avorî bizantini, mentre più tardi giungevano scultori di educazione lombarda, fra i quali il più illustre è Guido da Como, autore del fonte battesimale di S. Giovanni (1246). Ma il periodo aureo della scultura pisana non ebbe inizio che con il grande Nicola, il quale nel 1260 compose il suo primo pergamo per il Battistero. Da Nicola a Giovanni suo figlio si maturarono del tutto gli elementi della rinnovata scultura italiana, e solo ci preme di avvertire che, se il padre non fece che riassumere e rianimare al fuoco della sua potente personalità motivi già più o meno operanti nella cultura artistica del tempo, fu Giovanni l'autentico instauratore di nuove forme, a carattere schiettamente gotico, e in definitiva il primo a creare quello stile drammatico-impressionistico, dall'accento eosì stranamente moderno, e a svolgerlo fino alle estreme conseguenze, come possiamo constatare di fronte alla maggiore opera che del figlio di Nicola possiede Pisa: il pergamo della cattedrale (1302-1310). Per tacere di fra Guglielmo, il quale operò quasi esclusivamente fuori di Pisa, nobile divulgatore di forme pisane fin nel lontano Mezzogiorno fu Tino di Camaino (attivo dal 1311 al 1337). Accanto a Tino di Camaino fiorirono Giovanni di Balduccio, propagatore della scultura pisana in Lombardia, e altre singolari personalià, quali il "Maestro della tomba Gherardesca" in Camposanto. Un così glorioso periodo per l'arte plastica pisana si chiuse degnamente con Andrea da Pontedera e con i suoi figli Nino e Tommaso, dopo la metà del sec. XIV. È da notarsi che con Nino di Andrea ebbe il massimo rigoglio a Pisa anche una scuola di scultura in legno, che perdurò e diede eccellenti frutti fino al termine del sec. XIV.
Dalla fine del sec. XIV fino ai giorni nostri Pisa sembra aver dimenticato del tutto quello che aveva rappresentato la sua scultura nei secoli XIII e XIV; se Donatello vi si recò, fu per eseguire il monumento al cardinale Brancacci da inviarsi a Napoli, e del soggiorno del grande artista nella patria di Giovanni Pisano non resta che un busto in bronzo dorato di S. Lussorio, conservato nella chiesa di S. Stefano dei Cavalieri, e il ricordo di due pisani donatelleschi, Antonio e Isaia i quali del resto operarono esclusivamente fuori della loro città natale. La scultura quattrocentesca a Pisa è testimoniata più che altro dalla sparsa attività di un modesto artefice fiorentino, Andrea di Francesco Guardi, di volta in volta volgarizzatore di forme donatelliane o michelozziane. Più tardi, a partire dal 1445, una scuola derivata dal Civitali lavorò all'interno del Duomo. Altri scultori nelle epoche successive si avvicendarono a Pisa, soprattutto per esplicare la loro attività in favore dell'opera primaziale, ma nessuno di essi fu pisano di nascita, e tanto meno di educazione; potremmo citare sopra tutti il Giambologna, Stoldo Lorenzi, il Tacca; quindi Pandolfo Fancelli, Lorenzo Stagi, S. Cosini, G. Rossimino, e i giambologneschi che, fra altre cose, eseguirono ai primi del sec. XVII le belle porte bronzee della facciata del Duomo, disegnate da Raffaello Pagni: G. Caccini, P. Francavilla, G. Mola, A. Serani, G. Catesi, P. Tacca, G. Pagani, O. Mochi, A. Susini e R. Fortini. Nel Settecento dominò il carrarese A. Vaccà autore della fontana sulla Piazza del Duomo, e il periodo neoclassico fu efficacemente rappresentato da una statua di L. Pampaloni e da monumenti funebri di G. Duprè, L. Bartolini e B. Thorvaldsen.
Pittura. - Contrariamente a quanto accade per l'architettura e per la scultura, Pisa non può vantare una tradizione pittorica propria, dall'origine e dallo svolgimento schiettamente locali. Seguitava a fiorire nella città ai primi del Duecento una nobile pittura di tipo essenzialmente romanico con misurati influssi bizantini, la quale soprattutto veniva rappresentata da grandiosi crocifissi su tavola, non molto diversamente da quanto avveniva nelle città circonvicine, quando Giunta Pisano si fece propagatore di una nuova corrente bizantina. Le più notevoli pitture del tempo, che a Pisa, in numero singolarmente ragguardevole, fanno corona alle opere di Giunta, sono anch'esse bizantineggianti. Ma la scuola di Giunta, che annoverò i nomi di Enrico di Tedice, di Ranieri di Ugolino, e d'altri, presto s'inaridì, e già al termine del Duecento operavano nella città artisti giunti di fuori: Deodato Orlandi da Lucca, al quale sono attribuiti gli affreschi nella chiesa di S. Piero a Grado, e Cimabue, che collaborò al musaico nel grande catino absidale del Duomo.
Durante tutto il sec. XIV numerosi pittori pisani lasciarono traccia di sé in tavole destinate alle chiese della città, ma in sostanza i caratteri comuni all'intero complesso di questi artisti non possono individuarsi che nelle alterne fasi di una dipendenza da modelli senesi; dipendenza più o meno fedelmente osservata, a seconda che la pittura pisana si dimostrava di volta in volta più o meno sensibile all'influsso dell'arte fiorentina. L'influsso senese si fece soprattutto sentire dapprima per aver Simone Martini dipinto nel 1320 il polittico per l'altar maggiore di S. Caterina, ma più tardi degenerò nell'imitazione dei minori senesi quali Luca Tomè e altri, con Cecco di Pietro, col Gera e con altri anche più mediocri; l'influsso fiorentino si manifestò invece attraverso l'opera dei primi frescanti del Camposanto, Taddeo Gaddi, Andrea da Firenze, Ant. Veneziano, Spinello Aretino, e per l'attività di Nicolò Gerini, in B. Nello di Giovanni Falconi, e in altri secondarî pittori pisani. Bene sintetizzò questa diversità di tendenze, riuscendo a comporle armoniosamente in forme d'eletta originalità, Francesco Traini, il maggior pittore pisano del Trecento, il quale eseguì per la chiesa di Santa Caterina un trittico con San Domenico (1344) e una tavola col Trionfo di San Tommaso (1363). A questa robusta tempra d'artefice vennero anche attribuiti i famosi affreschi del "Trionfo della Morte" nel Camposanto, per quanto la più recente critica tenda a considerarli come opere di origine e di carattere emiliani. Nel sec. XV anche l'esile voce della pittura locale si spegne del tutto a Pisa; tuttavia è degno di nota che nel 1426 Masaccio vi dipinse il famoso polittico per la chiesa del Carmine, oggi smembrato fra le principali gallerie d'Europa, e del quale è restato un unico frammento nella città che l'ospitò (il S. Paolo al Museo civico), e che Benozzo Gozzoli con aiuti vi compì dal 1468 al 1485 il famoso ciclo delle storie bibliche affrescato nella parete settentrionale del Camposanto. Nello stesso secolo convennero a Pisa artisti come il Botticelli Domenico e David Ghirlandaio, il Baldovinetti e il Mainardi, e nel seguente lasciarono testimonianze della propria arte Andrea del Sarto, Pierin del Vaga e il Sogliani, mentre più tardi i senesi Beccafumi, Salimbeni, Manetti e Vanni testimoniavano per quali vie si fosse orientato il gusto dei committenti pisani.
A qualche significativo pittore del Seicento si vanta Pisa d'aver dato i natali, e primo fra tutti a Orazio Gentileschi, quindi al Riminaldi e ad Aurelio Lomi, finché nel secolo XVIII i fratelli Melani dànno sfogo all'esuberanza decorativa della loro arte di gusto cortonesco ricoprendo di affreschi numerose chiese e palazzi nella città e nei dintorni: l'interno della cattedrale poi si può dire che costituisca, con le ampie tele che ne adornano le pareti e gli altari, un eclettico museo della pittura dalle più varie tendenze, dal secolo XVI al Bezzuoli (morto nel 1855).
Arti minori. - Grande importanza ebbero nei secoli XIII e XIV i numerosi orafi a Pisa, incorporati in una universitas aurificum della quale sono restati gli statuti: purtroppo è difficile ormai stabilire rapporti precisi fra i nomi quali ci son tramandati dai documenti e il notevole materiale che attesta l'attività di questa categoria d'artisti, e basti quindi citare solo maestro Gilio, autore della statua di S. Iacopo per l'altare dell'Apostolo del duomo di Pistoia.
Maiolicari e campanari in quell'epoca diffusero ampiamente e in vari luoghi i loro prodotti, mentre dalla fine del secolo XV in poi s' affermò a Pisa l'arte della tarsia illustrata soprattutto da G.B. del Cervelliera, autore della cattedra episcopale (1536) che è in Duomo.
Ottimo fonditore della cosiddetta "lampada di Galileo", disegnata dal fiorentino D. Lorenzi (1586), fu V. Possenti, e l'accurato esecutore del tabernacolo del sacramento nella cattedrale, ideato dallo scultre G. B. Foggin) (1680) fu l'orafo S. Tamburini.
V. tavv. XCI-CII.
Principali raccolte artistiche. - Il Camposanto Monumentale, che oltre alle sue pareti decorate da affreschi di T. Gaddi, F. da Volterra, Piero di Puccio, A. Veneziano, S. Aretino, B. Gozzoli e d'ignoti maestri, annovera una ricca collezione di sarcofagi e sculture greche, etrusche e romane, e dal periodo romanico in poi, la maggior parte delle quali fin dal 1807 venne ordinata da C. Lasinio, e il Museo civico, che conta la più preziosa e significativa raccolta di crocefissi ducenteschi, forse del mondo, e numerose sale dedicate alla pittura locale e alla scultura in legno del sec. XIV e dei primi del XV.
Istituti culturali e biblioteche. - Già nella seconda metà del sec. XII appare a Pisa, se non una vera e propria scuola di diritto, un certo fervore di studî giuridici; ma lo studio pisano nacque ufficialmente con la bolla di Clemente VI, del 3 settembre 1343. V'insegnò dal 1339 al 1353 Bartolo da Sassoferrato, e si cominciarono a organizzare e affermare anche gli studî di medicina. Ma lo Studio era destinato a decadere rapidamente, nonostante la breve ripresa dovuta alla signoria del Gambacorta, e, con la conquista della città da parte dei Fiorentini, esso si poteva dire virtualmente finito. Rivisse per opera di Lorenzo de' Medici, che iniziò i lavori per la costruzione del palazzo della Sapienza, e vi chiamò maestri illustri, specialmente di diritto, da ogni parte d'Italia; rivisse soprattutto per opera di Cosimo I, restauratore e organizzatore dello Studio. Si devono a lui gli statuti che rimasero, si può dire, in vigore sino al secolo XVIII, e l'ordinamento per collegi (Collegio della Sapienza, Ferdinandeo, Ricei, Puteano, Vittoriano) che costituiva e costituisce una delle caratteristiche dell'ateneo pisano; e prende origine da lui quel movimento di studî che, specie nel campo delle scienze naturali, con la fondazione dell'orto botanico, il più antico del mondo, per opera di Luca Ghini, con l'insegnamento di Gabriele Falloppia, Andrea Cesalpino, Galileo e Marcello Malpighi, fece della Pisa del Seicento uno dei centri scientifici più importanti d'Italia.
Anche la dinastia lorenese curò lo Studio pisano, che si arricchì, nella seconda metà del Settecento, delle cattedre di fisica sperimentale e di chimica. Nei primi anni dell'Ottocento, per opera dei Francesi, sorsero le nuove cattedre di storia e di diritto marittimo, presero nuovo vigore gl'insegnamenti scientifici e giuridici, e l'università di Pisa, trasformata in Accademia imperiale, dipendente dall'università di Parigi, e, come tale, posta a capo di tutto l'ordinamento scolastico toscano e ampliata, il 18 ottobre 1810, del Pensionato accademico e della Scuola normale, fu riconosciuta ufficialmente come il più importante centro di studî dei paesi dove era "ammesso l'uso della lingua italiana".
Dopo la restaurazione, i granduchi continuarono sostanzialmente, soprattutto per merito di Gaetano Giorgini, sovraintendente agli studî del granducato, la politica napoleonica. Riorganizzata l'università, chiamativi uomini come G. Montanelli, giurista, C. Centofanti, filosofo, I. Rosellini, egittologo, e nelle scienze i fisici C. Matteucci e O. F. Mossotti e il chimico R. Piria (v.), fondato un istituto di agraria, voluto e diretto da Cosimo Ridolfi e sviluppato poi da Pietro Cuppari, istituita una cattedra di veterinaria, riaperta nel 1846, nel palazzo della Carovana, la Scuola normale, erede del palazzo e delle rendite dei Cavalieri di S. Stefano, iniziata la pubblicazione del Giornale toscano di scienze mediche, fisiche e naturali e di quello di scienze morali, sociali e storiche, e, nel 1848, degli Annali delle università toscane, l'ateneo pisano attraversò un periodo di eccezionale fervore spirituale; e la partecipazione alla battaglia di Curtatone e Montanara non è se non la manifestazione più gloriosa del profondo rinnovamento operatosi nell'animo dei giovani che lo frequentavano.
Il ritorno dei combattenti fu triste; ma nell'università mutilata delle due facoltà di teologia e giurisprudenza e dell'istituto di agraria, crebbe scolaro della Scuola normale, il più illustre, Giosue Carducci; e da quando, fra il '59 e il '62, lo Studio fu riorganizzato con sei facoltà e una sezione di agronomia e veterinaria, esso partecipò con entusiasmo, con fede e con spirito novatore, al risorgere della nazione nel campo scientifico. Francesco Carrara, Carlo Francesco Gabba, Filippo Serafini, Francesco Buonamici e Giuseppe Toniolo negli studî di diritto, Domenico Comparetti, Alessandro D'Ancona, Pasquale Villari, Amedeo Crivellucci ed Ettore Pais, negli studî di filologia e di storia, e nella facoltà di scienze, che fu per un momento tra le prime del mondo, Enrico Betti, Ulisse Dini, Antonio Pacinotti e Luigi Bianchi, per non ricordare che i più grandi, tutti contribuirono efficacemente al prestigio degli studî e della scienza italiana. E accanto all'università, la Scuola normale, diretta dal Villari, dal Betti, dal D'Ancona, dal Dini e dal Bianchi, le diede scolari di prim'ordine e maestri illustri, diventando il seminario della scuola storica e la culla della matematica italiana; mentre, eredi e continuatori di quel pratico spirito toscano, che già intorno al '40 avera fatto guardare all'agraria e alla veterinaria come a scienze dell'avvenire, andavano acquistando autonomia didattica e scientifica gli istituti superiori di agraria e di veterinaria, e la scuola d'ingegneria.
Il fascismo trovò gl'istituti universitarî di Pisa (che avevano dato largo tributo di giovani alla guerra mondiale) forti di uomini, ma toccati anch'essi dal marasma del dopoguerra e bisognosi di nuovi mezzi e di nuovi ordinamenti. Dalla rivoluzione fascista appunto s'inizia per l'università e per gl'istituti superiori un'epoca nuova. Riconosciuta nel 1923 come l'unica università statale della Toscana, di tipo A; ottenuti, anche con la costituzione di un consorzio, i mezzi per rinnovare gl'istituti scientifici; dati alla Scuola normale, sotto la guida di Giovanni Gentile, sviluppo e ordinamento adeguati, in modo da farne la grande Scuola normale superiore d'Italia; sorta in seno alla facoltà giuridica la Scuola superiore di scienze corporative diretta da Giuseppe Bottai e rinvigorita dal collegio "Benito Mussolini"; poste le prime promettenti basi di un altro collegio, il nazionale medico; l'università, la Scuola normale e gli altri istituti superiori, nella continuazione e svolgimento di antiche tradizioni e nel delinearsi di nuovi organismi e di nuove dottrine, hanno ritrovato sé stessi. Accanto a essi la Società toscana di scienze naturali, la Società medica pisana, continuatrici, nelle facoltà e fuori, di una gloria di studî che va dal Cesalpino ad Antonio Ceci, l'Istituto di educazione fisica, la Società storica pisana e le varie pubblicazioni, dagli Annali della Scuola normale, con cui si sono fusi nel 1932 gli Annali delle università toscane alle pubblicazioni delle società naturalistica e medica, al Bollettino storico pisano, contribuiscono a diffondere il fervore scientifico dei maestri e scolari degl'istituti superiori di Pisa. Ed essi trovano valido sussidio nella Biblioteca universitaria, istituita nel 1742, ingranditasi nel 1788 con i libri e manoscritti del monastero dei camaldolesi di San Michele in Borgo, e, in seguito, per legati e doni di docenti dello Studio: particolarmente beneficata, nella dotazione annuale, dall'astronomo prof. G. Piazzini, che ne fu anche bibliotecario (1818-32).
L'archivio di stato riflette nelle proprie raccolte tutta la storia di Pisa e delle sue magistrature. Ricchissimi di antiche pergamene sono l'archivio capitolare e l'archivio arcivescovile, ordinato in nuova sede per cura del cardinale P. Maffi.
Vita musicale. - Fra i più remoti compositori è da segnalare, fra il sec. XIV e il XV, Bernardo da Pisa, di cui esistono opere di musica sacra (alcuni Responsorî della settimana santa e un frammento di Lamentazione) negli archivî di Pisa e di Firenze. La cappella della cattedrale e quella dei Cavalieri di Santo Stefano conservano parecchi lavori di compositori pisani: nell'archivio musicale della cappella della primaziale, oggi nel Palazzo dell'Opera, si trovano partiture di G. C. M. Clari (27 settembre 1677-16 maggio 1754, da A. Galli, nel Piccolo lessico, fatto nascere erroneamente a Pistoia) e di Giovan Gualberto Brunetti (?-1808), fra cui Messe, Inni, Mottetti, Lamentazioni, Litanie, ecc. Tanto il Clari quanto il Brunetti scrissero inoltre opere profane e teatrali. La cappella del Duomo possiede, fra l'altro, un volume di Responsorî di M. da Galliano e opere di F. Durante, del padre G. B. Martini, di I. Haydn, di A. Salieri, di Mozart. Un altro Brunetti (Gaetano) nacque in Pisa circa il 1740 e morì a Madrid nel 1808; scolaro del Nardini, fu valente violinista della cappella di corte di Madrid e scrisse pregevoli musiche orchestrali e da camera, che in parte furono pubblicate a Parigi dal Venier. Fra i compositori minori, fra il Settecento e l'Ottocento, vanno segnalati O. Mei, N. Benvenuti, V. Castrucci, O. Guidotti, di cui alcune musiche sacre si conservano nella cappella della cattedrale; e fra i virtuosi il violinista L. Quercioli (1832-1908), i baritoni E. Barbieri, L. Casini, O. Benedetti (tutti della seconda metà dell'Ottocento) e il vivente Titta Ruffo. I teatri d'opera sono il teatro vecchissimo, già esistente nel palazzo Gambacorti sulla piazza di Banchi, il teatro vecchio, oggi Rossi, eretto nel 1770, passato all'accademia dei Costanti e dei Ravvivati, e il Teatro Verdi. Fra le istituzioni musicali, con la cappella del Duomo, si ricordano la Società degli amici della musica, con 500 iscritti, che oltre all'organizzazione dei concerti cura la pubblicazione di scritti di storia musicale sotto la direzione di L. Carmi, e una sezione dell'Associazione dei musicologi italiani. Gli organi della chiesa dei Cavalieri, di grande valore, l'uno di Onofrio (sec. XVI), l'altro di Azzolino della Ciaia (sec. XVII), sono stati recentemente riordinati e collegati elettricamente in un unico strumento da concerto, con 7000 canne, fra i migliori d'Italia.
Storia. - Preistoria e antichità. - Varie sono le tradizioni intorno alle origini di Pisa: alcuni affermano che essa fu fondata dai Greci e precisamente dai Focesi, che nel sec. VI esercitavano, di fatto, un attivo commercio nel Tirreno superiore e si erano fermati non molto lontani da Pisa, a Populonia; altri la dicono ligure; altri, infine, la fanno dominio etrusco, durante la notevole espansione nel sec. V. Ma il dominio greco si riduce a un'influenza, sia pure non indifferente, commerciale; quello etrusco, confermato per altro da non molte testimonianze archeologiche, a passeggero possesso, mentre i Liguri, come possono fare fede avanzi che rivelano un'affine civiltà, tennero questo territorio prima e dopo il dominio etrusco. Pisa deve però le sue origini di città ai Romani, i quali videro in essa, per la sua posizione e per la comodità del porto, un' ottima piazzaforte per i loro rapporti bellici con le popolazioni del nord, e si misero ben presto in relazione con essa forse mediante un foedus. Prova di questo può essere la fedeltà di Pisa nella guerra contro Annibale, e, dopo, in quella contro i Liguri, terminata con la vittoria di Claudio Marcello. Essa ebbe poi nell'89 la cittadinanza romana.
Ottaviano vi dedusse una colonia, il cui nome di Opsequens Iulia Pisana è tramandato dalle epigrafi, della quale furono patroni i due nipoti dell'imperatore, Gaio e Giulio Cesare.
Fino dai primi decennî del sec. IV d. C. consta che la sua chiesa era governata da un vescovo.
La città era situata alla confluenza dell'Arno con il Serchio, l'antico Auser, il quale ha oggi foce indipendente, mentre si deve riconoscere il suo corso antico nel canale detto oggi Macinante: il territorio pisano collocato alla destra dell'Arno era compreso a E. fra il mare e i monti pisani che lo dividevano da Lucca, fra l'Avenza a N., confine del territorio lunese e il Fine a S., limite del volterrano. Varie strade facevano capo a questa città, accrescendone, così, l'importanza: da oriente le due vie sull'Arno; da S. l'Aurelia, che prolungata da Emilio Scauro s'internava fino a Tortona, prendendo il nome di Emilia; da N. quella lungo il Serchio; un'altra finalmente congiungeva Pisa con il suo porto.
Il fiorire della città nel Medioevo e le imprese contro gl'infedeli. - Decadendo l'impero, spostatosi il centro di questo a Ravenna, la città, ch'era fuori della via da Roma a Ravenna, all'Italia settentrionale, ai paesi transalpini, rivolta verso un mare ormai poco sicuro, sembra perdere alquanto della sua importanza e passa a Odoacre, agli Ostrogoti, ai Bizantini. Ma l'attività marinara non è spenta, si svolge anzi autonoma rispetto a Longobardi e a Bizantini. Gregorio Magno (Epist., II, 35) ricorda nel 603 "dromoni" pronti a uscire dal porto secondo la libera volontà dei Pisani, probabilmente a danno dei Bizantini, dei quali essi erano già rivali in commercio. Pisa fu soggetta poi ai Longobardi; e forse è duca di Pisa un Gregorio "gloriosissimo duca", ricordato in una carta pisana del 730. Ma quelli dei dominatori che vi entrarono, anche se molti, come sembra attestare l'indizio non sempre sicuro dei nomi personali, furono assorbiti dalla cittadinanza primitiva, alla quale rimasero caratteri di schietta romanità: tutta romana è la cultura di Pietro da Pisa, il cantore dei trionfi di Carlomagno. Più tardi la città fece parte del regno d'Italia, compresa nella marca di Toscana.
Questa aveva centro in Lucca, per la quale città passava allora la via "francigena"; ma già nel secolo X, a Liutprando di Cremona, Pisa appariva Tusciae provinciae caput (Antapod., III, 16).
L'apparire dei Saraceni sul mare dà incremento alla potenza marinara dei Pisani e ne innalza lo spirito. La loro flotta, che già nell'808 aveva combattuto con le navi franche contro le bizantine e veneziane a Comacchio, costituisce per intero nell'828 la piccola armata, che, sotto il comando del marchese di Lucca, tocca le coste africane; e partecipa nell'871 alla difesa di Salerno contro gl'infedeli. Sono i primi accenni di uno sforzo più vasto e coerente, che si svolge sulla fine del secolo X e per tutto l'XI. La tradizione, che narra di Cinzica de' Sismondi salvatrice della città da un'invasione saracena, è leggenda sorta forse dall'oscuro nome del sobborgo di Chinsica, o piuttosto dal desiderio di abbellire la catastrofe del 1004, quando i Saraceni avevano preso la città. Ma appartengono alla storia le imprese compiute sul mare dai Pisani, ora soli, ora con le altre città marinare d'Italia, imprese di cittadini anelanti a vendicare le loro terre saccheggiate e la città devastata, imprese di mercanti costretti a difendere il loro commercio dalle depredazioni dei pirati, imprese, anche, di cristiani contro i nemici di Cristo, preludio alla crociata futura. A un saccheggio delle coste di Calabria (970) segue nel 1005, nel giorno di S. Sisto (6 agosto), la vittoria di Reggio sui Saraceni di Sicilia; nel 1015-16, all'appello di Benedetto VIII. contro il terribile al-Mugiāhid, il Mugetto delle cronache, minacciante dalle coste di Spagna, dalle Baleari, dalla Sardegna, rispondono Pisani e Genovesi e snidano i Saraceni dall'isola italica, non conquista ancora, ma via a conquista futura; nel 1034 i Pisani fanno sentire i "segni del loro trionfo" a Bona nell'Africa; nel 1063, affiancando l'impresa normanna, i "Pisani cives celebri virtute potentes", rotta la catena del porto di Palermo, prese sei grandi navi cariche di tesori, innalzano con le spoglie nemiche "quam bene, quam pulchre" la cattedrale magnifica, sulle cui pareti le iscrizioni celebreranno le glorie marinare pisane. L'ignoto cantore dell'impresa di al-Mahdiyyah (1087) vede nella lotta contro l'emiro Tamīm, "simile all'Anticristo", raccolta intorno ai Pisani tutta l'Italia, che piange la fine immatura di Ugo Visconti: la vittoria dei Pisani gli pare insieme vittoria di Cristo e di Roma, di cui Pisa rinnova i trionfi.
Alla prima crociata non sembra che Pisa partecipasse se non con piccole schiere trasportate da navi private; una grande spedizione dell'arcivescovo Daiberto giunse dopo la presa di Gerusalemme, dove tuttavia Daiberto divenne legato papale e patriarca. Dopo il disastro di Hittīn (1187), i Pisani spiegarono notevole attività nel difendere i territorî che rimanevano ai cristiani in Oriente e nel tentare di riacquistarli: l'arcivescovo Ubaldo Lanfranchi fu nel 1188 legato papale a una spedizione crociata e ne riportò, secondo una tradizione gentile, la terra del Calvario per l'ultimo sonno dei giacenti nel Camposanto. Ma una vera crociata i Pisani condussero nel 1113 e 1114 contro i Saraceni delle Baleari, con la benedizione e le insegne papali; avevano alleati il conte di Barcellona e le città della Provenza e aiuti di Romani, di Lucchesi, di Sardi e di Còrsi; ma all'autore del Liber maiolichinus parve che in loro soli continuasse il vigore latino.
La conquista delle isole non ebbe lunga durata, ma grande il prestigio di questa altera Roma, della quale Enrico V premiava le opere "a gloria dell'impero e della cristianità".
L'espansione commerciale. - Né sono soltanto, o principalmente, imprese di guerra. Le galee preparano la via ai mercanti, o accorrono a consolidare posizioni che questi già hanno raggiunte. Nell'Africa i mercanti sono apparsi prima assai che si compia l'impresa di al-Mahdiyyah; questa determina su base più salda rapporti che rimangono intatti fino alla metà del sec. XII: s'intorbidano con la conquista degli Almohadi, s'intensificano di nuovo con Tunisi indipendente. Con l'Egitto l'amicizia è assai stretta, la colonia di Alessandria ha florida vita. In Terrasanta e in Siria i Pisani, contrastati da Veneziani e da Genovesi, hanno tuttavia stabilimenti e privilegi a Giaffa, a Tiro, a Laodicea, ad Antiochia; ad Acri è un console pisano con curia propria; la spedizione di Federico II recherà nuovi vantaggi. A Costantinopoli, un diploma del 1111, accordando ai Pisani un quartiere e uno scalo, pone le basi di una colonia fiorente; Ragusa (1169) e Zara (1188), per ostilità ai Veneziani, conchiudono trattati di commercio con Pisa, che ha nella Dalmazia interessi assai rilevanti. Ma il campo principale dell'attività dei Pisani è nel Mediterraneo occidentale. Essi appaiono già nel secolo XI nelle città del mezzogiorno d'Italia e della Sicilia; aiutano, per avversione ai Saraceni e per ragioni di commercio, l'impresa normanna, ma non favoriscono l'unificazione del Mezzogiorno, che vi può creare una temibile potenza navale. Annodano quindi rapporti con le città ancora libere, con Amalfi soprattutto (1111 e 1126), che non esiteranno poi a saccheggiare e prostrare (1135 e 1137), quando la vedranno sottomessa a Ruggiero. Poi, dopo la guerra contro il re normanno (1134-37), combattuta col papa e l'imperatore, preferiscono la penetrazione pacifica e ottengono, soprattutto a Napoli, condizione di privilegio. Scarse le relazioni con la Spagna araba; più attive con le Baleari, dopo ch'esse sono divenute stato musulmano indipendente. Nella Francia meridionale penetrano Pisani e Genovesi, valendosi delle discordie dei signori feudali fra loro e con i comuni; e sono prima concordi, poi in aspra guerra (1162-75); le città che si rifiutano al predominio genovese, o che, dopo averlo accettato, cercano di spezzarlo, Narbona, Montpellier, Saint-Gilles, Marsiglia, Grasse, Nizza, si stringono a Pisa, finché le due rivali preferiscono cessare su questo teatro la lotta e svolgere in gara pacifica le loro energie. Non dissimili le relazioni con la vicina Catalogna, più stretta dopo l'impresa delle Baleari; anche qui i Genovesi ripetono il tentativo monopolizzatore, senza poter impedire che i Pisani appaiano a eguali condizioni con loro sui mercati della Spagna cristiana. Ma in tutti i mercati, fino ai più lontani di Strasburgo, di Norimberga, di Bruges, appaiono mercanti pisani, e in Pisa, dove è celebre fiera nella festa di S. Maria nell'agosto, Donizone vede con ribrezzo pagani e Turchi e Libî e Parti e Caldei e simili "mostri del mare".
Le origíni e lo sviluppo del comune. - Fra queste imprese, o anzi in gran parte per mezzo di queste imprese, si è sviluppata la vita cittadina. La necessità di rifugio contro le incursioni dei Saraceni, la nuova attività commerciale, il desiderio di vita meno rozza e più agiata hanno spinto gli abitanti del contado nella città. Questa si è allargata di là dall'Auser; sulla sinistra dell'Arno è sorto il sobborgo di Chinsica, che una nuova cinta di mura, tra il sec. XI e il XII, congiungerà con la città antica. E in questo ambiente cittadino si è costituito il comune.
Dapprima esso si è formato di piccoli nobili, che dai castelli sono venuti ad abitare parte dell'anno nella loro torre cittadina, e di armatori di mercanti, nobili e non nobili, stretti in una compagna o coniuratio per provvedere a interessi determinati, a quello soprattutto di avere sicura la città e libero il mare. Associazione privata e temporanea da prima, si allarga a comprendere tutti i cittadini, come quella che risponde a necessità comuni, diviene permanente, si attribuisce, nel decadere della feudalità, funzioni pubbliche sempre più larghe, trova la sua espressione nel consolato, rispecchiante le aspirazioni di quella aristocrazia mercantile, i cui interessi si confondono con quelli della città.
Enrico IV, trattando nel 1081 con la città, ne conferma le consuetudini marittime e ricorda un "colloquio", che si raccoglieva "sonantibus campanis" per eleggere, non sappiamo bene se con carattere di magistratura stabile o temporanea, dodici cittadini, forse germe del futuro consiglio dei "sapientes". Degli stessi anni, fra il 1080 e il 1085, è, in una carta sarda, il primo ricordo dei consoli. Essi sono rammentati dopo il vescovo e dopo il visconte, che è giudice e gastaldo, cioè capo della corte regia e marchionale della città. Così il capo spirituale, il rappresentante degli antichi poteri feudali e l'organismo cittadino nascente sono stretti quasi in un consorzio per provvedere agl'interessi della città. Manifestazione stupenda dell'unità ideale che questa ha raggiunto sono i monumenti che vanno adornando la Piazza dei Miracoli.
Dall'ufficio di giudice il visconte è già allontanato nei primi decennî del sec. XII; nel 1153, dopo fiera battaglia con i consoli, perde anche quello di gastaldo. Il vescovo rappresenta ancora il comune negli atti pubblici, gli dà la sua forza morale e, con i diritti sul contado e sulle isole, gli apre la strada a future conquiste. Ma il potere effettivo passa gradualmente ai consoli; presto la giurisdizione vescovile non sarà più che un ricordo, mentre il "breve" consolare, del quale la prima forma è degl'inizî del sec. XII e la più antica redazione giunta a noi è del 1162, dà al governo del comune unità e continuità e il "breve populi", distinto da quello almeno dal 1171, rappresenta gli obblighi dei cittadini verso il comune. Di qui si svolgerà poi la ricca legislazione statutaria, mentre nel 1160 è pubblicato il costituto dell'uso e, forse nello stesso tempo, quello della legge.
Nelle istituzioni e nella legislazione è viva l'efficacia del diritto romano; fin dal 1141, Pisa dichiara di vivere "lege Romana, retentis quibusdam de lege Longobarda", e circonda di venerazione il codice famoso delle Pandette, che forse Burgundione (morto nel 1194) ha recato da Costantinopoli; sono pisani Bulgaro, Uguccione, Bandino, maestri a Bologna; nel 1193 si ha notizia dell'insegnamento del diritto nella Universitas.
Ma durante il sec. XII l'organismo del comune è divenuto più complesso. Il senato, o consiglio di credenza, dapprima emanazione del consolato, si organizza a magistratura autonoma e tende a farsi depositario della sovranità: l'amministrazione della giustizia, prima affidata, almeno nella funzione direttiva e nella ratifica, ai consoli del comune, trova un proprio magistrato nel console di giustizia. Accanto all'istituto politico del comune, si sviluppano istituti corporativi: prima l'ordine dei mercanti, poi l'arte della lana, poi altre arti, mediane e minori, con proprî brevi, con patrimonio proprio e capitani e consoli; i quali istituti hanno per ora funzioni prevalentemente economiche e subordinate al comune, ma non tarderanno ad assumere anch'essi il carattere di istituti politici. E le famiglie nobili si organizzano in domus con proprî eserciti e consigli e capitani, e gli abitanti dei quartieri e delle parrocchie si stringono in compagnie di cittadini. Nello scindersi della compagine antica, l'istituzione del podestà - primo nelle memorie, non certo primo nella carica, un Gherardesca, Tedicio di Castagneto, nel 1190 - è, sopra ai singoli nuclei, l'espressione dell'unità e della sovranità del comune, punto d'arrivo dello sviluppo di questo come ente politico, inizio del suo decadimento.
L'espansione nel contado e nelle isole e le guerre coi vicini. - Il comune, appena costituito, si volge all'acquisto del contado, sottomette i residui dei dominî feudali, estende, per mezzo del vescovo, il suo dominio sui castelli che sono possesso antico o nuovo della mensa, e sulle nascenti comunità rurali, Cascina, Bientina, Vico, Livorno, Vada, Piombino. Nell'Elba l'immigrazione di lavoratori di metalli e di pietra ha da gran tempo messo le basi d'un dominio del comune; Pisa vi ha, già nel sec. XII, a Capoliveri un suo capitano, da cui l'isola intera dipende.
Nelle grandi isole del Tirreno, non si può discorrere ancora di signoria politica pisana. Ma nella Sardegna i mercanti pisani hanno già affermato, per mezzo del commercio, dell'acquisto di terre, di convenzioni con i giudici dell'isola, il loro predominio economico; l'arcivescovo di Pisa vi ha da Urbano II titolo di legato e più tardi (1133) di primate. Nella prima metà del sec. XII i giudicati di Logudoro, di Gallura, di Cagliari sono sotto la preponderanza pisana; si sente viva in tutta l'isola l'efficacia delle istituzioni, della cultura, dell'arte pisana. Anche più stretti i legami con la Corsica, perché Pisa era l'anello che congiungeva l'isola alla Toscana e all'Italia, e aveva con quella intensi rapporti fino dall'età longobarda. La penetrazione dei Pisani nell'isola era profonda, ancora prima che Gregorio VII vi desse, nel 1077, ufficio di legato al vescovo di Pisa Landolfo, che Urbano II la concedesse, nel 1091, come feudo ecclesiastico al vescovo Daiberto e, innalzandolo l'anno dopo a dignità arcivescovile, gli sottoponesse come suffraganei tutti i vescovi còrsi, che infine Innocenzo II, nel 1135, riconoscesse il dominio di Pisa e di Genova sull'isola, dividendo fra loro i diritti di primazia. I Pisani andavano a prendere in Corsica legna, miele e cera e vi recavano i prodotti dell'industria italiana, o quelli che avevano portato d'oltremare; vi recavano anche forme d'ordinamento comunale rispondenti alle norme del diritto statutario pisano, consuetudini schiettamente toscane di vita sociale e civile, forma toscana del linguaggio, fulgore di un'arte che ripeterà a lungo i motivi dell'arte pisana più antica.
Ma la conquista del retroterra, lo sforzo di dominare la strada "francigena", la difesa di supremi interessi commerciali mettono Pisa in contrasto con Lucca, la quale è già padrona alle sue spalle delle due rive dell'Arno, e mira a trarre, almeno in parte, al suo porto di Motrone e all'altro suo porto sull'Arno il commercio marittimo e fluviale. La lotta, della quale si ha il primo ricordo fin dal 1030, può avere tregue, non paci; principale episodio, la guerra combattuta dai Pisani dal 1143 al 1155, la quale, dando ai Pisani vittoriosi il possesso della Val d'Era, assicura le comunicazioni della città con l'interno. E la contesa con Lucca s'intreccia con la rivalità tra Pisa e Genova, della quale è principalissima causa la concorrenza nel predominio sulla Sardegna e la Corsica. Genova, stabilitasi nella seconda metà del sec. XII a Portovenere, può fare causa comune con Lucca; riesce a superare i Pisani nella Corsica, dove questi si accaniscono invano a conservare o riprendere Castel Bonifacio, e capovolge in Sardegna la situazione politica, riuscendo, intorno al 1165, a trarre a sé i giudicati, salvo quello di Gallura.
Pisa imperiale e ghibellina. - Pisa ha tuttavia per sé la forza dell'Impero. Le relazioni di questo con Pisa furono determinate soprattutto dalla necessità, che esso aveva, delle navi pisane per la conquista del mezzogiorno d'Italia e della Sicilia; Pisa, a sua volta, trovò, nel favorirne i disegni, mezzo opportuno di penetrare in queste terre e di conservare e rinsaldare il predominio sulle isole del Tirreno; e, chiaritesi fredde o nemiche all'impero, anche per la stessa avversione ai Pisani, Genova, Lucca, Firenze, vide nella politica imperiale la propria difesa. E s'aggiungevano ideali simpatie per l'Impero, che la città traeva dalla sua romanità persistente e da quella stessa sua tradizione politica. I privilegi imperiali, veramente, rappresentano, piuttosto che una concessione, il riconoscimento d'una condizione politica già maturatasi; tuttavia Pisa fonderà i diritti del comune sui diplomi di Enrico IV e di Enrico V e sulle conferme vere o supposte date da Lotario e da Corrado III all'autonomia comunale. E già dal 1137 il comune pisano appare stretto all'impero nella spedizione di Lotario contro il regno normanno, quantunque, come vedemmo, provveda poi da solo al proprio vantaggio. Col Barbarossa le relazioni, da prima, sono fredde; i Pisani sembrano anzi temere i disegni di restaurazione imperiale; ma dal 1155 la classe dominante si stringe all'imperatore e gli dà aiuti per l'assedio di Milano, mentre l'arcivescovo Villano, il clero e il popolo sostengono, nello scisma del 1159, le parti del papa Alessandro III, indizio di una più profonda divisione tra le classi cittadine. Il 6 aprile del 1162, Federico dà pieno riconoscimento al comune e intera giurisdizione civile e criminale, accorda ai Pisani tutto il territorio fino a circa trenta miglia a oriente, a sessanta a mezzogiorno della città, il dominio della costa da Portovenere a Civitavecchia, e in feudo, per metà o tutte intere, le principali città di quel regno di Sicilia che i Pisani dovevano conquistare con lui. La spedizione attesa non si compie, l'impresa contro Roma nel 1167 fallisce; e il fervore per la causa imperiale vien meno: l'arcivescovo ritorna alla sede, quantunque con diritti feudali menomati dalla tenace politica del comune contro la giurisdizione vescovile; è fatta "pace perpetua" col re di Sicilia (1169), e con i Bizantini nemici di Federico (1171). Anzi i Pisani, che hanno con la vittoria di Motrone sui Lucchesi tentato di spezzare il contatto fra Lucca e Genova, non esitano, per isolare i Lucchesi, a conchiudere un trattato con Firenze, accordando privilegi all'industria fiorentina (4 luglio 1171). Le relazioni con l'imperatore sembrano allora guastarsi: i consoli pisani e fiorentini sono posti in catene (1172); nella pace imposta da Federico nel 1175 in Pavia, la Sardegna, che nel 1165 era stata data come feudo imperiale ai Pisani, è divisa tra loro e i Genovesi.
Ma prevalgono i motivi dell'amicizia tra Pisa e l'impero: Enrico VI, accingendosi alla conquista del regno, viene a Pisa, rinnova la concessione del padre, vi aggiunge, ormai vanamente, la Corsica (1191). Né la disillusione provata per le mancate promesse di Enrico rompe i rapporti con l'impero: Pisa rifiuta di entrare nella lega di S. Ginesio (1197), ed è guelfa col guelfo Ottone IV, diviene e rimarrà ghibellina con Federico II, che, nonostante la politica accentratrice, ne rispetta le franchigie e la libertà del commercio. La rivalità con Firenze diviene ora più viva per il rapido grandeggiare dell'industria fiorentina e lo sforzo di Firenze per aprirsi una propria via verso il mare; nel 1221 si viene a guerra aperta; Pisa si stringe a Pistoia, a Siena, ad Arezzo contro la comune nemica. Si riaccende anche la lotta con Genova: al Giglio (1241) la flotta pisana e la siciliana vincono la genovese. Anche morto Federico, Pisa rimane stretta alle forze ghibelline d'Italia e di fuori; battuta dalla lega guelfa nel 1254, riacquista dopo Montaperti (1260) i castelli perduti; sul mare, alleata con i Veneziani, già rivali in Oriente, accomunati ora a lei dall'odio per i Genovesi, batte questi a S. Giovanni d'Acri (1258).
Nella Corsica l'influenza di Pisa si è novamente estesa per il favore di Federico; nella Sardegna si era rialzata già dalla fine del sec. XII; Cagliari, conquistata nel 1187 per il giudice Oberto di Massa, era rimasta sotto l'influenza pisana; nel 1215 l'avevano occupata, sia pure temporaneamente, i Visconti, e con la costruzione di Castel di Castro sopra alla città (1216) avevano dato un centro e un baluardo alla potenza pisana sul giudicato e sull'isola. I Pisani si sono stabiliti sulle coste, hanno creato nei porti piccole comunità di mercanti, ottenuto dai giudici di poter istituire consoli e podestà. Il comune tende ora, con l'appoggio dell'impero, ad affermare la propria sovranità sopra i giudici, mentre potenti cittadini, per mezzo di matrimonî con le ereditiere dei giudicati o di arditi colpi di mano, s'impadroniscono dell'uno o dell'altro giudicato, e l'arcivescovo Federico Visconti risolleva con un suo viaggio il prestigio del primate e legato papale (1263). Dopo complesse vicende, che s'intrecciano alle lotte interne della città e a quelle esterne con Genova, alla vigilia della Meloria sono giudici della Gallura i Visconti, nel Logudoro dominano i Gherardesca, presunti eredi di Enzo re di Sardegna, il giudicato di Cagliari è diviso in tre parti, delle quali due spettano ai Gherardesca e ai Visconti, quello d'Arborea è alleato di Pisa.
Lotte sociali e di parte nel sec. XIII: la decadenza del comune ghibellino. - Durante il sec. XIII, i contrasti sociali e di parte nella città si sono fatti più accesi. L'aristocrazia degli armatori, già nerbo del consolato ora scomparso, tenta ancora di dirigere la politica del comune per mezzo del consolato del mare, sorto sulla fine del secolo precedente, che si occupa delle cose marittime e delle colonie, ma ha anche funzioni di governo, come rappresentante di quelli che sono tuttora i supremi interessi della città. Ma la grassa borghesia riesce a penetrare in quel consolato e ad escluderne la nobiltà, ed è poi stretta nelle altre due mercanzie, dei mercanti e della lana, le quali vanno acquistando con quella del mare il predominio nella vita comunale, mentre la borghesia media e minuta è organizzata nelle "arti". E tutti insieme i nobili formano un commune militum, a cui si contrappone, per lo stringersi delle varie società delle armi, una societas populi. Tutti questi organismi, che hanno loro capi e loro brevi e dispongono di denaro o di armi, piccoli comuni nel comune, sono rappresentati accanto al podestà e nei consigli cittatidini; e i diversi istituti s'intrecciano e si confondono, finché nella seconda metà del secolo, cacciati nel 1254 dal reggimento politico i nobili, va delineandosi sempre più netta la prevalenza del capitano e degli anziani del popolo. Del resto, le classi sociali non formano caste strettamente chiuse: è anzi un continuo rifluire di nobili minori verso il popolo, di popolani arricchiti verso la nobiltà; i nomi poi di "guelfo" e di "ghibellino" dànno alle fazioni una bandiera politica, inserendole nella grande lotta dell'impero contro i comuni e il papato. E in generale sono per ora ghibelline la vecchia aristocrazia mercantile, continuatrice delle tradizioni del comune, e la borghesia industriale rivaleggiante con Firenze, guelfi la maggiore aristocrazia feudale e il popolo minuto, ugualmente avversi al comune ghibellino, senza che si possano tuttavia far coincidere con le classi sociali i partiti politici, che si alimentano di tradizioni familiari, di risentimenti, di odî, d'interessi personali e anche, assai largamente, di non interessate idealità.
In questo tumultuare di classi, di fazioni, di partiti, le grandi famiglie feudali, quella antica dei Visconti, ancora ricca di aderenze e di privilegi, quella novamente venuta in città dei Gherardesca, mirano a stabilire un potere personale, prima in lotta fra loro, nella città e in Sardegna: guelfi i Visconti, i Gherardesca ghibellini e stretti al comune contro il minaccioso ritorno del potere dei Visconti, pericolosi poi i Gherardesca stessi al comune, infine, per alcun tempo, Visconti e Gherardesca alleati per dominare nella città.
Le lotte cittadine infiacchiscono il vecchio comune; le speranze dei ghibellini sono troncate dalla battaglia di Benevento e dal supplizio di Corradino. Carlo d'Angiò, che ha conquistato il regno con il favore del papa e con l'oro di Firenze, ristabilisce per vero con Pisa rapporti di commercio normali; ma in Toscana, come nel resto d'Italia, è capo dei guelfi, e sono ora con lui, con Firenze, con Lucca, Giovanni Visconti e il conte Ugolino della Gherardesca, espulsi da Pisa perché minacciosi alla libertà comunale: ad Asciano la "taglia" guelfa sconfigge i Pisani (2 luglio 1275); la pace è ottenuta a condizioni assai dure e con il ritorno di Ugolino e dei guelfi. La guerra con Genova, rinnovata nel 1282, conduce al disastro della Meloria, nello stesso giorno di S. Sisto, già sacro ai trionfi dei Pisani (6 agosto 1284); Ugolino, uno dei capi della flotta, che pure aveva voce di tradimento, è creato podestà e capitano del popolo (1284-85) per tentare un accordo con la taglia, unita ora minacciosamente con i Genovesi, e conchiude la pace con Firenze e con Lucca a prezzo di cessione di castelli al confine. Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, giudice di Gallura, dal primo assunto a collega nella signoria, riformano (1286) il "breve" del comune e del popolo, secondo le esigenze d'un governo signorile, che potrebbe ancora, forse, ridare alla città l'ordine e la potenza perduti. Ma le lotte fra i due rettori, l'insorgere dell'arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini e della nobiltà ghibellina travolgono il conte (1288). Pisa ritorna al "pubblico segno" imperiale, di cui porta nel sigillo l'impronta; ma nel 1293 deve conchiudere con i guelfi una nuova pace dannosa e nel 1299 rinunziare in favore di Genova alla Corsica e al Logudoro.
Brilla ancora una speranza per la discesa di Enrico VII. I Pisani fanno incredibili sacrifici per lui, fino a stremare la città, fino a tollerare ch'egli usurpi il pieno dominio sul comune; ma nel bel monumento di Tino da Camaino nella cattedrale, è sepolto con Enrico il sogno di resurrezione (1313).
Il tramonto. - Pisa è illuminata ancora dalla luce della cultura e dell'arte; l'università risorge nel 1338 a nuova vita e ha nel 1343 da Clemente VI privilegio di "Studio generale"; il convento di Santa Caterina è, con Giordano da Rivalto, con Bartolomeo da' S. Concordio, col Cavalca, con Guido da Pisa, centro di pietà, d'eloquenza, di studî; il Camposanto è compiuto nella sua cinta romanica e nella decorazione gotica elegantissima e già ornato di affreschi; il Battistero ha la cupola ardita e il coronamento di guglie e di frontespizî; sul Lungarno sorge il miracolo di S. Maria della Spina.
Ma, economicamente e politicamente, la repubblica declina e tramonta. La marina è fiaccata; il progredire di Genova, di Venezia, di Barcellona ha ristretto la sfera d'azione dei commercianti; le colonie sono quasi del tutto perdute; la Sardegna, data da Bonifacio VIII in feudo agli Aragonesi, è, dopo la duplice sconfitta dei Pisani presso Cagliari (1324-25) e la resa di Castel di Castro, dominio del re d'Aragona (1326); e sono perduti i ricchi introiti e le miniere dell'isola, alle quali è scarso compenso la vena di ferro dell'Elba. Il vecchio comune sembra voglia ancora cercare di rifarsi della sua decadenza sul mare con una più energica affermazione nella terraferma italiana. Ma, oltre agli ostacoli che sono frapposti da Firenze e dalla pur lontana signoria viscontea, sono stremate le finanze, è gravissima la pressione fiscale, soprattutto manca la concordia fra i cittadini. I nobili ormai sono esclusi dalla vita politica, come ne è ancora esclusa la plebe. Ma il "popolo" stesso è diviso. Sono industriali, soprattutto lanaioli, a cui è molesta la concorrenza dei Fiorentini, e armatori e mercanti di mare, ai quali giova che questi frequentino il porto pisano; sono cittadini memori delle tradizioni gloriose della repubblica e gente nuova non legata al passato, o sfiduciata per le speranze tante volte deluse, o amante della pace, che rende fruttuoso il lavoro e tranquilla la vita; sono ghibellini, numerosi ancora fra il popolo minuto, e guelfi, ormai preponderanti nella città; sono, verso la metà del secolo, Raspanti e Bergolini, che solo in parte s'identificano, quelli con gli industriali e i conservatori, questi con gli armatori e i mercanti e la gente nuova, fermentando in ciascuna fazione un lievito di rancori e d'ambizioni, che trascendono lo stretto interesse economico o la passione politica.
Uguccione della Faggiuola, podestà e capitano del popolo e di guerra (1313), conduce a una pace favorevole con i Lucchesi e poi, rotta questa, alla presa di Lucca (1314) e alla vittoria di Montecatini sui guelfi (29 agosto 1315); ma una coalizione di cittadini è pronta ad abbatterlo (10 aprile 1316). Né questo è solo per il governo tirannico di lui, che, appoggiato ai mercenarî, alla nobiltà, al popolo minuto, voleva asservire l'anzianato, ormai divenuto fondamento delle istituzioni comunali, ma anche, e più, per il danno che recava alla maggior parte dei cittadini una politica avversa a Firenze.
Politica fiorentineggiante segue da prima il conte Gherardo o Gaddo della Gherardesca, capitano generale e, temperatamente, signore (1316-20); è conclusa nel 1316 la pace con re Roberto e nel 1317 con i Fiorentini, mentre la conquista di Sarzana (1317) sembra volgere in altra direzione l'espansione territoriale pisana; all'interno egli divide il potere con Coscetto del Colle, acceso capo di popolo. Più tardi Gaddo stesso si accosta al ghihellino Castruccio Castracani, nuovo signore di Lucca; e Ranieri, che gli succede e accentua il carattere signorile del governo (1320-25), oscilla tra nobili e popolo, tra i Fiorentini e Castruccio. Ma, con nuovo esempio, Pisa, per desiderio di pace e per timore di Castruccio, rimane estranea alla lega del ghibellinismo italiano nella discesa del Bavaro, anzi chiude le porte a costui, che deve costringerla alla resa (8 ottobre 1327) ed è accolto dal popolo minuto con festa. Dopo una breve signoria di Castruccio (29 aprile-3 settembre 1328), la città è per alcun tempo centro dell'attività dell'imperatore e forse rinverdisce allora le proprie speranze. Ma, partito questo, Fazio della Gherardesca espelle il vicario imperiale (1329), si fa centro della classe borghese dominante e più tardi è creato capitano di guerra e dominus generalis (1335); segue politica di pacificazione interna e d'accordi con Firenze, con Genova, col re di Napoli e il papa; promuove, per quanto consentono i tempi, il risorgimento economico e culturale della città e tiene con pace e con qualche gloria il potere fino alla morte (1340). Le aspirazioni di Firenze al possesso di Lucca trovano concorde il popolo nella guerra (1341-42) e Lucca è ripresa; ma poi i cittadini si dividono ancora e, passata la signoria al fanciullo Ranieri, e nel fatto ai Della Rocca, raspanti, ed estintasi con lui (1347), non è per più anni chi abbia forza di tenere a freno le fazioni tumultuanti; dietro a queste sono Fiorentini e Visconti, nel cui giuoco serrato Pisa è un fattore pressoché decisivo.
Prevalgono dal 1347 i bergolini con Andrea e Francesco Gambacorta, alla discesa di Carlo IV (1355) di nuovo i raspanti sotto l'autorità nominale del vicario dell'imperatore; vacillando la fortuna di questi per i danni d'una guerra sfortunata con i Fiorentini (battaglia di Cascina, 28 luglio 1364) e l'abbandono del porto pisano, è creato doge Giovanni dell'Agnello, raspante, ma di condizione mercantesca e non troppo sgradito ai Fiorentini e alla loro parte (13 agosto 1364). Egli tenta di rendere personale e duraturo il potere, destreggiandosi tra bergolini e raspanti, tra Firenze e Visconti, sicché, rimasto isolato, perde la signoria alla nuova discesa di Carlo (settembre 1368). E, attraverso nuove lotte, prevalgono ancora i bergolini con Pietro Gambacorta (1369), è fatto un accordo con Firenze, della quale Pisa è ormai lo sbocco sul mare (1369); ma vanno perdute Lucca e Sarzana, ritornando quella indipendente, cadendo questa in mano ai Visconti.
Il Gambacorta, creato capitano e difensore del popolo (21 settembre 1370), raccoglie, nel crescente disinteresse dei cittadini per le cariche pubbliche, la somma del potere nelle sue mani, tenta di arrestare con savî provvedimenti la decadenza economica e politica della città e di mantenervi ordine e pace, e fuori si tiene stretto a Firenze, pur riuscendo alla fine a conchiudere una, purtroppo effimera, lega universale italiana (9 ottobre 1389). Ma Iacopo d'Appiano, raccolto intorno a sé il partito visconteo, sbarazzatosi dei Gambacorta (1392), tiene la signoria sotto la protezione di Gian Galeazzo, al quale suo figlio Gherardo vende nel 1399 la città. Pisa fa parte ora del grande stato visconteo. Alla morte di Gian Galeazzo (1402), ritorna per poco a formare uno stato indipendente, sotto il figlio illegittimo di lui Gabriele Maria. Ma Firenze ha veduto troppo da presso il pericolo che il dominio dei Visconti le tagli la via del mare, e, valendosi dell'impopolarità di Gabriele, compera da lui la città e la conquista, dopo eroica, disperata difesa dei cittadini (9 ottobre 1406).
Pisa sotto Firenze e i Medici. - Decaduta già prima della conquista per le guerre, le imposte, la cessazione del commercio, le lotte intestine, Pisa è ora asservita alla politica fiorentina, strettamente egoistica, anche se giustificata dai pericoli interni ed esterni per il nuovo dominio. Il capitano del popolo e il podestà, i cui uffici sono più tardi raccolti nella sola persona del capitano, i decem Pisarum, a cui nel 1426 è sostituita la nuova magistratura fiorentina dei consoli del mare, vi rappresentano, con poteri pressoché pieni, il governo fiorentino; al comune, dove agli anziani sono sostituiti i priori, non resta che un'ombra di autonomia. La nobiltà è scomparsa per le uccisioni e gli esilî, volontarî o forzati; l'industria della lana è sacrificata alla concorrenza fiorentina; le arti, assoggettate a quelle di Firenze, languiscono; le imposte sono intollerabili. Se, ancora nel 1409, ai prelati venuti per il concilio, Pisa pareva "une des notables citez, qui soit en ce monde", più tardi, spogliate le case dai soldati e demolite dai proprietarî stessi per sottrarsi alle imposte, andava diventando "una speloncha", dove nessuno poteva più vivere.
Piccolo sollievo recarono la pace di Ferrara (1433), che toglieva pretesto alle spogliazioni, e gl'inizî della signoria medicea; maggiore la politica avveduta di Lorenzo, che volle legare gl'interessi della città alla casa medicea, l'attorniò di sue terre, creò, o piuttosto riformò, l'Ufficio dei fiumi e fossi per la bonifica del contado e la sanità dei cittadini, ampliò il vecchio palazzo di S. Matteo, dove si ritirava spesso a riposo, fece risorgere (1472) lo Studio, dove sedette discepolo suo figlio Giovanni e furono discepoli e maestri famosi; Benozzo Gozzoli andava allora compiendo il ciclo d'affreschi del Camposanto. La città era tuttavia "in povertà grandissima e molto vota di abitanti e di esercizii", né era cresciuta la devozione a Firenze. Alla calata di Carlo VIII (1494), Pisa rivendica la libertà sotto la protezione francese, restituendo l'anzianato e gli ordinamenti dell'antico comune, e, quantunque abbandonata dalla Francia e male soccorsa dall'imperatore, si difende quindici anni tenacemente. Poi piega di nuovo al dominio fiorentino.
Col ducato e col granducato mediceo sorgono tempi migliori: sono compiuti larghi lavori di bonifica, è scavato il Fosso dei navicelli, che unisce la città col porto di Livorno, è riaperta (1543) l'università, istituito l'Orto botanico più antico del mondo (1544). La città muta il suo volto medievale e si abbellisce di nuovi monumenti con la costruzione del Ponte di Mezzo, degli edifici di Piazza dei cavalieri, delle Logge di Banchi. E si ridesta ancora l'eco delle antiche vittorie. Cosimo I stabilisce qui l'Ordine dei cavalieri di S. Stefano contro i Barbareschi (1562); l'antico palazzo degli anziani si trasforma in quello della Carovana, sede dell'Ordine; lungo l'Arno, presso il luogo dov'era l'antico arsenale, sorge quello delle galee dei cavalieri; la chiesa di S. Stefano, nei trofei e nelle bandiere appese alle pareti e negli scomparti del soffitto, canta i nuovi trionfi sui pirati del mare.
Poi anche questa vita si spegne. La città, protetta dalla dinastia lorenese, passa senza sforzo alla Francia, e senza sforzo ritorna ai Lorena; l'arsenale è ridotto a non nobile uso; il commercio è assorbito in gran parte dalla vicina Livorno. Ma hanno ora sviluppo la cultura e la vita civile. Nel 1839 si raccoglie in Pisa il primo congresso degli scienziati italiani, affermazione di amor patrio ancora più che di studî; il palazzo della Carovana diventa, col risorgere, dopo la breve vita napoleonica, sede della Scuola normale (1846), palestra di giovani che onoreranno la patria con la dottrina e le opere; nell'università, maestri e studiosi d'ogni parte d'Italia si sentono "stretti come da una medesima fede", e ne escono i volontari di Curtatone e di Montanara.
Al nuovo regno Pisa dà voto presso che unanime. Alla guerra, alla difesa della vittoria, alla risurrezione fascista d'Italia, eroismo di combattenti e di martiri, fervore operoso di vita.
Fonti. - Per la storia antica: Licofrone, Alex, v. 1241, 1351 segg.; Polibio, II, 16, 2; Catone presso Servio, Ad Aen., X, 179; Pompeo Trogo in Giustino, XX,1, 11; Livio, passim; Virgilio, En., X, 179-80; Strabone, V, 222; Plinio, Nat. Hist., III, 5; Servio, l. c.; Claudiano, De bello Gildonico, I, 483; Rutilio Namaziano, De reditu, I, 565; Corpus Inscr. Latin., XI.
Per la storia medievale e moderna, principalmente, B. Maragone, Annales Pisani, in Rer. It. Scr., n. ed., VI, 11; Liber Maiolichinus, a cura di C. Calisse, Roma 1904; R. de Granchis, De proeliis Tusciae, n. ed., in Rer. It. Script., XI, z; Fragmenta Hist. Pisanae, ibidem, XXV; Cronica di Pisa, ibidem, XV; Ranieri Sardo, Cronica pisana, e altre cronache e documenti, in Arch. stor. ital., VI, par. 11 (1845); Cronache inedite della seconda libertà di Pisa, in Miscell. di erud.; Pisa 1905, suppl. al fasc. I; M. Palmieri, De captivitate Pisarum, in Rer. It. Script., n. ed., XIX, II. Edizioni di documenti in F. Dal Borgo, Raccolta di scelti diplomi pisani, Pisa 1765; F. Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa, Firenze 1854-57; G. Müller, Documenti sulle relazioni delle città toscane con l'Oriente cristiano e coi Turchi, Firenze 1879; L. de Mas . Latrie, Documents sur l'Algérie et l'Afrique septentrionale, in Bibl. de l'école des chartes, s. 2ª, X (1848-1849), p. 134 segg.; C. Fedeli, I documenti pontifici riguardanti l'università di Pisa Pisa 1908; P. Kehr, Italia pontificia, III, Berlino 1908; A. Era, Statuti pisani inediti dal XIV al XVI secolo, Sassari 1932.
Arte della stampa. - Vi fu introdotta nel 1482, ed è di quell'anno l'opera Consilia di Francesco Accolti d'Arezzo, impressa da un tipografo anonimo e i cui tipi non si ritrovano altrove. Dopo una pausa di due anni ser Lorenzo e ser Agnolo fiorentini vi stamparono il trattato Della Christiana religione di Marsilio Ficino, 2 giugno 1484, e nello stesso tempo (1484-85) il pisano Gregorio De Gentis pubblicava cinque operette tutte estremamente rare, fra cui Alphonsi Regis Dicta di Antonio Panormita (1° febbraio 1485). Venne poi da Bologna il noto tipografo Ugo Ruggeri, e della sua attività in Pisa son note sette opere di carattere giuridico apparse dal febbraio al settembre 1494. È del 1495 circa una Epistola di Antonio Tebaldeo ornata d'una silografia raffigurante Pisa, pubblicata da un tipografo ignoto. Un Socinus del 1° febbraio 1499 è anch'esso l'unico prodotto tipografico di Hieronimo de Ancharano.
Concilî di Pisa.
Il concilio del 1409. - Fu convocato per il 25. marzo dai cardinali delegati da Gregorio XII e Benedetto XIII per risolvere la situazione creatasi in seguito allo scisma d'Occidente. Poiché era chiaro ai delegati delle due parti che i rispettivi mandanti non avrebbero deflettuto dal loro atteggiamento, fu da essi deciso di prescindere dai rispettivi mandati e di risolvere la situazione mediante un concilio ecumenico che raccogliesse tutti i rappresentanti delle due obbedienze. In realtà il concilio, per quanto comprendesse oltre 500 partecipanti, fu ben lungi dal raccogliere il consenso universale. Il concilio si preoccupò innanzi tutto di legittimare la validità della sua convocazione. Il 10 maggio fu stabilito che essendo i due papi causa unica al prolungarsi dello scisma essi erano scismatici ed eretici, e quindi avevano cessato d'esser papi e d'esercitare legittimamente ogni giurisdizione, la quale pertanto passava ai cardinali. A questi il compito di provvedere mediante un concilio a risolvere la vacanza de iure della S. Sede. Il 17 maggio il concilio legalizzò la sottrazione dell'obbedienza ai due papi scismatici e proclamò la nullità delle sentenze pronunciate da essi. Il 5 giugno i due papi furono dichiarati scismatici ed eretici notorî e, in conseguenza, deposti ed esclusi dalla Chiesa. Si procedette quindi dai cardinali delle due obbedienze (a esclusione dei padri del concilio) all'elezione del successore nella persona di Pietro di Candia (v. alessandro v). Il nuovo papa confermò tutti i decreti del concilio e procedette ad alcune sanatorie resesi necessarie, quindi, il 7 agosto, dichiarò chiuso il concilio. Il quale, se da un lato portò un colpo decisivo all'autorità di Benedetto XIII e Gregorio XII e tracciò la linea di condotta che sarà ripresa dal concilio di Costanza (v.), non risolse per il momento la situazione, anzi la inasprì: la cristianità, fino allora divisa in due obbedienze, risultò divisa in tre, giacché né Benedetto XIII né Gregorio XII riconobbero la validità delle sentenze formulate dal concilio.
Per l'inquadramento del concilio nella storia del grande scisma d'Occidente, v. Scisma: Lo scisma d'Occidente.
Il conciliabolo del 1511. - Durante la lotta di Giulio II con la Francia, il re Luigi XII aveva, nell'assemblea di vescovi raccolta a Tours, fatto balenare al papa la consueta minaccia della convocazione di un concilio (settembre 1510); aderì al disegno Massimiliano imperatore, volendo ridurre nelle sue mani il papato e forse correndo dietro al sogno pazzesco della tiara. Il 16 maggio 1511 fu convocato da Milano il concilio a Pisa, in nome di nove cardinali, tre dei quali protestarono poi di non aver dato il consenso; il papa era "pregato" d'intervenire, erano invitati oltre ai cardinali, ai vescovi, ai capitoli, alle università, anche i principi secolari; scopi dovevano essere la pace della cristianità, la guerra santa, la riforma della Chiesa nel capo e nelle membra. Giulio II dichiarò nulla la convocazione, minacciò delle pene più gravi chi l'accogliesse, indisse il concilio del Laterano (18 luglio), conchiuse la Lega santa (v.), depose e scomunicò quattro dei cardinali ribelli (24 ottobre). Il "concilio" si riunì tuttavia a Pisa, concessa dai Fiorentini dopo molte esitazioni (10 novembre); ma soltanto gli ordini della signoria, che vi mandò il Machiavelli, poterono ottenere che s'aprisse la cattedrale per le adunanze (5 novembre). I "padri" erano, del resto, non più che quattro cardinali e diciotto fra vescovi e abbati, francesi tutti, fuori che uno solo; e miravano "più a l'havere de' vescovadi che alla reformatione della Chiesa"; re e imperatore erano "caldi o freddi al concilio secondo le occorrenze, commodi et interessi loro". Di fronte all'ostilità minacciosa della popolazione, i padri, persuasi dallo stesso Machiavelli, dopo avere confermato il decreto di Costanza della superiorità del concilio sul papa, si trasferirono a Milano (12 novembre); e qui, all'annunzio della vittoria di Ravenna, dichiararono sospeso Giulio II e passata al concilio la sua autorità (21 aprile 1512). Ma le minacce degli Svizzeri li spinsero ad Asti (12 giugno) e poi a Lione (27 giugno), dove il concilio si sciolse senza chiusura ufficiale. Il conciliabolo ebbe indiretta efficacia nel sollecitare Giulio II a riforme, mentre l'attitudine dei Fiorentini, oscillante, spiacevole al re come al papa, preparò la caduta della repubblica.
Provincia di Pisa.
La provincia di Pisa, dopo il riordinamento delle circoscrizioni amministrative del regno avvenuto nel 1925, comprende i territorî pianeggianti e collinosi del bacino inferiore dell'Arno a valle della confluenza dell'Elsa e la testata delle valli dell'Era e della Cecina con il litorale Tirreno per km. 18 e 10 rispettivamente a nord e a sud della foce dell'Arno. Complessivamente comprende un'area di kmq. 2446,12 e una popolazione di 335.187 ab., cui corrisponde una densità di 137 ab. per kmq. La provincia è ripartita in 38 comuni dei quali oltre il capoluogo cinque (Bagni San Giuliano, Cascina, Pontedera, San Miniato e Volterra) superano i 10.000 ab. Della popolazione censita, meno di un terzo (31,9%) vive sparsa per la campagna e attende all'agricoltura assai fiorente nel territorio coltivato a vigne, oliveti e campi arativi (il 27,2% dei censiti di età superiore ai 10 anni), mentre il 17% sono artiġiani o addetti all'industria e il 2,6% addetti al commercio. L'analfabetismo vi è in forte diminuzione essendo disceso dal 48% dei censiti di età superiore ai 6 anni nel 1901 al 18,9% nel 1931.
La provincia di Pisa, assai favorita dalle condizioni di suolo e di clima, è principalmente una regione agricola. La superficie agraria e forestale vi si estende per un'area di 229.349 ha., pari al 96% della sua totale estensione. I 3/4 sono rappresentati da terreni in collina o montagna e solo 1/4 (22,43%) da pianura. Nella zona di pianura si trovano ancora territorî parzialmente esposti a un mal regolato regime delle acque e nei quali sono in corso d'esecuzione o furono già compiuti lavori di bonifica; sono fra questi i lavori nella regione del prosciugato Lago di Bientina (v.), nella tenuta ex-reale di Coltano a circa 6 km. a sud di Pisa, donata all'Opera combattenti, dove si compirono con ottimo risultato lavori grandiosi che assicurarono all'agricoltura terreni eccellenti; nell'adiacente tenuta del Tombolo, e così presso il Lago di Massaciuccoli e in altri punti della provincia. Per attenuare i danni d'una prolungata siccità estiva va diffondendosi la pratica dell'irrigazione a pioggia. Le coltivazioni più sviluppate sono quelle del frumento, che dà un prodotto medio annuo di oltre 500.000 quintali sufficiente al consumo; della vite, dell'olivo che ricopre le pendici inferiori del Monte Pisano dove da oltre un secolo ha sostituito i castagneti. Molto sviluppata la produzione orto-frutticola, che alimenta un considerevole commercio d'esportazione. Una limitata importanza hanno invece le colture silvane, che pure comprendono un terzo della superficie agraria e forestale. Sono da ricordare i castagneti del Monte Pisano in via di ricostituzione e le pinete delle zone costiere che alimentano la lavorazione dei pinoli. L'allevamento del bestiame è sviluppato per quanto riguarda i bovini (oltre 50.000 capi) e gli ovini (43.554). Scarsa importanza vi hanno invece la bachicoltura e l'apicoltura. Sebbene la provincia sia una regione prevalentemente agricola, anche l'industria, che vi conta buone tradizioni, vi è praticata in notevole misura. Specie le industrie connesse con la produzione agraria: macinazione del grano, pastifici (Pontedera), oleifici, ecc.; l'industria manifatturiera, particolarmente del cotone (Pontedera, Pisa); quella della lavorazione del legno (Cascina). L'industria estrattiva e quelle dei prodotti chimici vi sono pure largamente rappresentate dall'estrazione e lavorazione dell'alabastro e dalle saline (Volterra), dai soffioni boraciferi di Larderello (v.), dalle grandi fabbriche di vetri e cristalli e di ceramiche artistiche di Pisa, ecc.; quelle siderurgiche e meccaniche dallo Stabilimento di costruzioni ferroviarie di Pisa.
Una buona rete di comunicazioni stradali ricopre la provincia. Oltre alle linee ferroviarie e a quelle di navigazione interna che convergono al capoluogo, sono da ricordare la ferrovia Pontedera-Lucca, aperta nel 1929, cui dovrà aggiungersi la progettata linea Pontedera-Saline. Servizî automobilistici collegano ormai tutti i comuni della provincia.
Bibl.: In generale: R. Roncioni, Delle istorie pisane, in Arch. stor. ital., VI, i, Firenze 1844; P. Tronci, Memorie istoriche della città di Pisa, Livorno 1682; id., Annali pisani, 2ª ed., Pisa 1868-71; F. Dal Borgo, Dissertazioni sopra l'istoria pisana, ivi 1761-68; G. B. Fanucci, Storia dei tre celebri popoli marittimi, ivi 1817-22; J. Ross, The story of Pisa, Londra 1909; R. Bienintesi, Uno sguardo alla storia di Pisa, Pisa 1915; B. Pace, A. Savelli, A. Niccolai, M. Salmi, Pisa nella storia e nell'arte, Roma 1929.
Antichità: H. Nissen, Italische Landeskunde, II, Berlino 1902, p. 288 segg.; E. Pais, Per la storia di Pisa nell'antichità, in Ricerche storiche e geografiche sull'Italia antica, Roma 1908, pp. 463-477; F. Buonamici, Sulla origine di Pisa, Pisa 1910; A. Solari, Il territorio lunense-pisano, in Annali delle università toscane, ivi 1910; id., Topografia storica dell'Etruria, II, ivi 1920, p. 189 segg.; Appendice, Bibliografia, ecc., ivi 1915, p. 96 segg.; A. R. Toniolo, Le variazioni storiche del littorale toscano tra l'Arno e la Magra, in Atti del X Congresso geografico italiano, ivi 1927; M. Buffa, Sull'origine dei nomi di Luni e di Pisa, in Memorie dell'Acc. Lunigianense, VIII, La Spezia 1927; N. Toscanelli, Pisa nell'antichità dalle età preistoriche alla caduta dell'impero romano, II, Pisa 1933.
Età comunale: L. Langer, Politische Geschichte Genua's und Pisa's im XII., Jahrhundert, Lipsia 1882; A. Schaube, Das Konsulat des Meeres in Pisa, Lipsia 1888; A. Main, I Pisani alle prime crociate, Livorno 1893; G. Volpe, Pisa e i Longobardi, in Studi storici, X (1901); id., Pisa, Firenze e Impero al principio del 1300, ibid., XI (1901); id., Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Pisa 1902; D. A. Winter, Die Politik Pisa's während d. Jahre 1268-82, Halle 1906; A. Solmi, Sul più antico documento consolare pisano scritto in lingua sarda in Arch. stor. sardo, II (1906); P. Pecchiai, Gloriosa Pisa, Roma 9107; E. Besta, La Sardegna medioevale, Palermo 1908; P. Silva, Il governo di Pietro Gamba corta, Pisa 1911; F. Ardito, Nobiltà, popolo e signoria del conte Fazio di Donoratico in Pisa, Cuneo 1920; W. Heywood, A history of Pisa, eleventh and twelfth centuries, Cambridge 1921; N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell'Agnello in Pisa e in Lucca, Pisa 1921; M. Sacerdoti, Il diploma di Federico Barbarossa ai Pisani, ivi 1924; L. Ferretti, Appunti sulla genesi dei Costituti pisani, ivi 1929; G. Rossi Sabatini, Pisa e lo scisma del 1159, in Boll. stor. pisano, I (1932).
Pisa sotto Firenze e i Medici: G. O. Corazzini, L'assedio di Pisa, Firenze 1885; V. Fanucci, Le relazioni tra Pisa e Carlo VIII, Pisa 1892; F. Grazzini, Le condizioni di Pisa sotto Ferdinando I dei Medici, Empoli 1898; P. Silva, Pisa sotto Firenze dal 1406 al 1433, in Studi storici, XVIII (1909-10); A. Niccolai, Palazzi, ville e scene medicee in Pisa e nei dintorni, Pisa 1914; G. B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928; M. Lupo Gentile, Pisa, Firenze e Carlo VIII, Pisa 1934.
Età moderna e contemporanea: G. Sforza, Memorie storiche della città di Pisa dal 1838 al 1871, Pisa 1871; I caduti dell'università di Pisa, 1915-18, Milano 1919; Pisani morti per la Patria, 1915-18, Pisa 1921; Pagine eroiche della rivoluzione fascista, Roma 1925.
Argomenti speciali: A. F. Mattei, Ecclesiae Pisanae historia, Lucca 1768-1772; id., Memorie istoriche di più uomini illustri pisani, Pisa 1790-92; L. Cantini, Storia del commercio e della navigazione dei Pisani, Firenze 1797-98; F. Grassini, Biografie dei Pisani illustri, Pisa 1838; A. Feroci, Degli antichi spedali in Pisa, ivi 1896; N. Zucchelli, Cronotassi dei vescovi e arcivescovi di Pisa, ivi 1907; G. Rossi Sabatini, L'espansione di Pisa nel Mediterraneo, in corso di stampa in Studi e testi a cura della R. Scuola normale superiore di Pisa.
Si vedano poi le annate degli Studi storici, I-XXII (1902-1914), e del Bollettino storico pisano, 1932 segg.
Monumenti: Tra le opere più generali: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, III-IX, passim, Milano 1903 segg.; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Torino 1927, pp. 548-556, 810-819, 864-881, 989-991. Tra le più particlari, anche queste corredate di ampia bibliografia: A. Da Morrona, Pisa illustrata nelle arti del disegno, 1ª ed., Pisa 1787-1793, e 2ª ed., Livorno 1912; R. Grassi, Descrizione storica e artistica di Pisa e dei suoi contorni, Pisa 1836-1838, voll. 3; L. Tanfani-Centofanti, Notizie di artisti tratte dai documenti pisani, Pisa 1898; I. B. Supino, Il Camposanto di Pisa, Firenze 1896; id., Arte Pisana, Firenze 1904; id., Pisa, Bergamo 1905; L. Simoneschi, Catalogo del Museo Civico di Pisa, Pisa 1906; R. Papini, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia. Pisa (voll. 2), Roma 1912-1914; A. Bellini-Pietri, Guida di Pisa, Pisa 1913.
Istituti di cultura: L'Ateneo di Pisa, Pisa 1929; Il palazzo dei Cavalieri e la Scuola normale superiore di Pisa, Bologna 1933.
Teatro e musica: A. Segrè, Il teatro pubblico di Pisa nel '600 e nel '700, Pisa 1902; A. Solerti, Musica, Ballo e Drammatica alla corte Medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905; A. Gentili, Cinquant'anni dopo... Il Teatro Verdi di Pisa ne' suoi ricordi, Pisa 1915; Società amici della musica, Primo decennio di attività sociale (25 marzo 1920-24 marzo 1930), Pisa 1930; Società amici della musica, Atti di nascita e di morte del maestro C. M. Clari, con note di Pietro Pecchiai, Pisa 1930; P. Pecchiai, Alcune notizie su l'Archivio musicale del duomo di Pisa "Due musicisti pisani del '700, Pisa 1930; id., Prefazione a "Clari, Ave, Maris Stella", Firenze 1930.
Concilio: D. Mansi, Conciliorum collectio, Venezia 1784, XXVI, coll. 1131-1256 e XXVII, coll. 1-502; L. Schmitz, Zur Geschichte des Konzils von Pisa 1409, in Römische Quartalschrift, IX (1895), pp. 351-375; O. Günther, Zur Vorgeschichte des Konzils von Pisa, in Neues Archiv, XLI (1917-1918), pp. 635-676; Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, VII, i, Parigi 1916, pp. 1-69; e inoltre la bibl. generale citata alla voce scisma: Lo scisma d'Occidente.
Conciliabolo: Acta primi Concilii pisani, Parigi 1612; Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, VIII, i, Parigi 1917; A. Renaudet, Le concile gallican de Pise-Milan, Parigi 1922; L. Pastor, Storia dei papi, III, nuova vers., Roma 1932, p. 776 segg.