Pisa
Per Pisa l'età di Federico II corre dalla sua elezione imperiale (1220) fin oltre la sua morte (1250), per giungere ad abbracciare anche l'estremo tentativo dell'ultimo degli Svevi, Corradino, di assicurarsi l'Impero, tentativo che Pisa promosse e sostenne militarmente fino al fallimento (1268), e che ebbe conseguenze gravi nei rapporti della città con la Sede Apostolica, risolte solo nel 1273. Nel 1220 l'alleanza di Pisa con il giovane imperatore fiorì spontaneamente, sull'onda del rapporto privilegiato della città con l'avo Federico I (1162) e con il padre Enrico VI (1191), all'indomani dell'elezione, quando Federico rilasciò ai pisani un diploma in tutto simile a quello dei suoi predecessori, ma con l'aggiunta di nuovi privilegi territoriali (Lami, 1758; Historia diplomatica; M.G.H., Leges, 1893) ‒ lo aveva già fatto durante il suo breve regno Ottone IV negli anni 1209 e 1210 ‒ atti a giustificare una politica espansionistica che il comune, forte dell'appoggio imperiale, realizzò immediatamente. Da allora, più di qualsiasi altra città, Pisa visse il tempo di Federico II da protagonista: nelle vicende politiche e militari, per l'aiuto prestato sempre all'esercito imperiale e il servizio armato assicurato in particolari circostanze, come nell'episodio della cattura presso l'isola del Giglio della nave genovese che trasportava i cardinali diretti a Roma nel 1241; nelle istituzioni, poiché ottennero competenze politiche e riconoscimenti giuridici i gruppi sociali più importanti, rappresentativi di interessi economici differenziati: Ordo Maris e Ordo Mercatorum in particolare, senza che per questo si alterassero gli equilibri di potere che vedevano al governo l'aristocrazia originaria, presente in forze nei due ordini. Uno spaccato significativo della società pisana, testimonianza di una struttura sociale in mutamento, è offerto dal patto di alleanza di Pisa con Siena, Pistoia e Poggibonsi (1228), sottoscritto dalle rappresentanze di tutta la cittadinanza ‒ quattromilatrecento nomi ‒ suddivisa per 'popoli' in base all'appartenenza alle cappelle cittadine (Salvatori, 1994, Appendice I), elencate non più secondo l'organizzazione tradizionale per porte ma secondo la struttura dei quartieri, che ebbero riconoscimento ufficiale pochi anni più tardi, nel 1233; da questo organigramma si distacca, in posizione eminente, il gruppo dei maggiorenti componenti il ceto al potere, tra i quali si trova, per la prima volta, un prior communitatis e figurano otto personaggi di nuova estrazione, che sono stati identificati come gli Octo rectores communitatis testimoniati con questo titolo accanto al podestà Ugo Lupo marchese di Soragna nel 1232.
Nella communitas è stato individuato il primo nucleo del futuro Populus, i primi successi di una nuova compagine politica con requisiti istituzionali analoghi a quelli che furono in seguito assunti dagli Anziani del Popolo. Erano gli anni difficili dei turbamenti provocati dalla guerra di Sardegna, in cui si alternarono al potere podestà forestieri, governi consolari e podesterie multiple interne. A questa situazione di grave instabilità pose fine la pacificazione voluta dall'imperatore: la pace siglata nel lodo del 1237, preparata da lunghe trattative (1236; Cristiani, 1962, docc. I-II), occupa un posto centrale nella vicenda imperiale della Repubblica pisana e nella sua evoluzione politica, perché nelle ampie coalizioni che vi sono documentate si mette in luce la complessa trama di rapporti tra la città e i territori limitrofi, tra il mondo signorile e quello comunale cittadino configurato come un organismo politico aperto, che aveva fatto della rete delle connivenze economiche, militari e politiche il perno del proprio successo internazionale. In sostanza, quel complesso gioco delle parti dà la misura della capacità attrattiva di Pisa, ma anche del rischio che la lotta delle fazioni e la disunione interna rappresentavano per gli equilibri di un'intera regione. In una situazione cosiffatta c'era anche spazio perché i ceti emergenti per ricchezza nella città, minacciati nei loro interessi dai conflitti dei grandi, si coalizzassero, formassero gruppi di pressione politica per essere rappresentati nel comune, e principalmente nel senato, l'organismo più importante che affiancava nel governo il podestà. Tutto questo è ben visibile nell'apparato del lodo di pace del 1237, che qui può essere ripercorso solo nei tratti essenziali. Da una parte stava Ubaldo Visconti, giudice di Gallura e di Torres del ramo dei Visconti maggiori, con tutti i membri degli altri rami dell'ampio consortile, dall'altra il conte Ranieri di Bolgheri-Donoratico, capo del consorzio signorile dei Gherardeschi, schierato con i suoi accanto al comune pisano, rappresentato da podestà di sicura fedeltà imperiale, Guido e Tegrimo dei conti Guidi (1236, 1237), dai senatori nelle cui file si individuano anche nomi nuovi di famiglie emergenti che entrarono nell'Anzianato con il primo governo di Popolo nel 1254, da un buon numero di famiglie dell'aristocrazia consolare originaria, tra le quali spiccano i nomi dei Gualandi-Bocci, Sismondi, Lanfranchi-Chiccoli, Casapieri-Caldera, nonché da nobili di Versilia, Lunigiana e Garfagnana e dai "Capitanei Compagniarum Concordiae pisanae civitatis et districtus".
Arbitro eletto super partes era, in presenza dell'arcivescovo Vitale, il domenicano frate Gualtieri (1237; cf. Bonaini, 1845), membro degli Ordini mendicanti attivi a Pisa da quasi un ventennio, per la prima volta impiegato in questo delicato compito, ma affiancato da rappresentanti autorevoli delle due fazioni: i nobili Gualtieri da Calcinaia e Uguccione da Caprona. Anche fuori della Toscana Pisa fu agevolata in tutto dall'imperatore e dai podestà imperiali, così che può ben dirsi che si realizzarono, all'ombra della corte federiciana, i maggiori successi economici e politici delle élites mercantili pisane nel Regno meridionale, in Sicilia, nell'area mediorientale, e nella regione toscana il fortunato espansionismo del comune, segnato dai successi militari ottenuti soprattutto a spese del territorio lucchese e del predominio di Genova nel territorio lunigianese, se pure a costi economici elevatissimi tanto da attrarre l'attenzione dei testimoni e cronisti del tempo (Lucca, Archivio di Stato, ms. 54; Les sermons, 2001; Villani, 1991).
La Sardegna, invece, contesa da Visconti e Gherardeschi, dal comune pisano e dalla Sede Apostolica, nel 1238 fu da Federico II assegnata come regno al proprio figlio Enzo, che ebbe in moglie la giudichessa Adalasia di Torres, vedova di Ubaldo Visconti. A portare l'imperatore a Pisa nel 1239 fu probabilmente questa decisione, che va intesa non come provvedimento ostile agli interessi dei pisani nell'isola, bensì come assicurazione della pace per mantenere lo status quo in quell'area nevralgica del Mediterraneo occidentale, causa prima della insostenibile conflittualità interna. Che fosse intento dell'imperatore consolidare l'instabile pacificazione è dimostrato dall'emissione di una constitutio, che fu inserita come impegno solenne nel Constitutum usus cittadino: "saluberrima constitutione sancimus piissima, constitutionem domini Frederici romanorum imperatoris pro conservando pace et statu pacifico et tranquillo omnium Pisanorum et civitatis et districtus eiusdem, de societatibus dissolvendis et de omnibus que in dicta constitutione continentur, illesam ab omnibus conservari et perpetuo valituram" (Bonaini, 1854-1870).
È comunque certo che l'inserimento in Sardegna di Enzo come re fu contrario a ogni progetto del papa Gregorio IX che aveva designato, come nuovo marito di Adalasia di Torres, Guelfo da Porcari "Apostolice Sedis devotum filium et fidelem, strenuum et potentem" (Scano, 1940). Il fatto aggravò ulteriormente i rapporti dell'imperatore con il papato, fino alla rottura clamorosa del 1241, che costò a Pisa l'interdetto, destinato a durare fin oltre la morte del suo protettore, ma le assicurò per un decennio il pieno favore imperiale nelle imprese economiche nel Mediterraneo e condizioni vantaggiose ai commerci nel Regno meridionale.
A porre fine all'equilibrio raggiunto fu proprio la morte di Federico II (1250), che riaccese le mire delle grandi famiglie sulla Sardegna. Nel 1254 la città, con l'appoggio del proprio presule, in un clima di grave tensione formò il primo governo di Popolo. Era arcivescovo eletto Federico Visconti (1253), membro di un ramo cadetto della grande famiglia viscontile, i Ricoveranza, non implicati nella guerra di Sardegna: pastore fervente e politico avveduto, fedele alla famiglia ma più al suo ministero, uomo colto, istruito nelle Università di Bologna e di Parigi, Federico, a tutto vantaggio della città, si impegnava nella Curia di Roma per ottenere la riconciliazione e la consacrazione episcopale, sempre rinviata, anche a costo di entrare in conflitto con i potenti familiari (Cristiani-Roncioni, 1964). La mediazione indispensabile fu opera, ancora una volta, di un membro degli Ordini mendicanti, il priore della chiesa pisana di S. Francesco, cappellano e penitenziere di Alessandro IV e diplomatico di primo piano della Sede Apostolica: quel fra Mansueto di Castiglione Aretino (poi Castiglion Fiorentino), minorita, che fu anche ambasciatore presso le corti di Francia e d'Inghilterra per negoziare la pace a nome del papa, gradito al re di Francia Luigi IX dal quale ebbe in dono le reliquie della s. Croce.
I tratti del personaggio meritano qualche commento: lo ricordano Tommaso di Eccleston (1909), come visitatore della provincia francescana d'Inghilterra, Salimbene de Adam (1905-1913), per il suo magistero a Fano in qualità di lettore e per le reliquie portate dalla Francia e donate all'eremo della Verna, ma soprattutto lo lodano i Sermones di Federico Visconti, per la sua preziosa opera di legato che, intento solo al bene della città, aveva risarcito col tesoro della sua chiesa i mercanti genovesi, ottemperando a una condizione indispensabile al perdono e rifiutando ogni compenso (Les sermons, 2001, LX). L'intera vicenda va vista con gli occhi del grande arcivescovo e va inquadrata la sua figura di pastore impegnato, per la riforma della sua Chiesa, a realizzare gli obiettivi indicati ai vescovi dal IV concilio lateranense: i sinodi diocesani e le visite pastorali, ma anche l'istruzione al clero povero, la predicazione, la carità operosa, per le quali egli si giovava dell'aiuto costante dei membri degli Ordini che definì con le parole del concilio "veri coadiutores episcopi, et coadiutores civitatis" (ibid.).
Con Mansueto, Federico Visconti portò a compimento l'opera voluta da Alessandro IV: la fondazione dell'Ospedale della Misericordia o di papa Alessandro, o Spedale Nuovo (1257), suggello dell'avvenuta riabilitazione.
Fu però una pacificazione di breve durata che non frenò il corso degli eventi: nello stesso anno si colloca il fallito tentativo diplomatico di trovare un protettore eleggendo al trono imperiale Alfonso di Castiglia. Si ricordano, inoltre, a breve, alcune importanti vittorie del comune come quella contro Genova, la grande rivale, a Castel di Castro-Cagliari (1257) e ad Acri-Accon (1258); quella con il fronte ghibellino contro la lega guelfa a Montaperti (1260) e negli assalti vittoriosi al territorio lucchese nel Valdarno inferiore (1262-1264): tutti successi effimeri che trasformarono in lotta senza quartiere la perenne conflittualità con Genova e deteriorarono ancora di più i rapporti con la Sede Apostolica.
Lucca, rimasta l'ultima roccaforte in Toscana della parte guelfa, puntava ormai tutte le sue speranze su Carlo d'Angiò, sollecitato a venire in Italia da papa Urbano IV. Morto Urbano nel 1264, l'operazione fu portata a compimento dal suo immediato successore, Guy Foulquois, papa Clemente IV. Allora, auspice re Manfredi, nell'imminenza del pericolo fu rinnovata la lega ghibellina, ma senza successo: sconfitto e ucciso Manfredi nella battaglia di Benevento nel 1266, Pisa, dopo la defezione delle altre città ghibelline, rimase sola ad affrontare l'assalto dell'esercito angioino e delle città guelfe collegate nei ripetuti attacchi al suo territorio, fino alla distruzione del borgo di Livorno e delle strutture del porto (1267; cf. Breviarium, 1725).
Alla luce di questi fatti va considerato l'ultimo episodio legato alla dinastia sveva: lo schieramento dell'arcivescovo al fianco della città nella scelta politica di finanziare e sostenere militarmente il tentativo di Corradino, accolto a Pisa nella sede episcopale nell'imminenza della spedizione voluta per aprirgli la strada al trono, ma che nel fatale 1268 portò il giovane re alla morte. Con lui, il 29 ottobre di quell'anno ‒ lo ricordano tutte le cronache del tempo (Lucca, Archivio di Stato, ms. 54; Breviarium, 1725; Villani, 1991, ad esempio) ‒, fu decapitato a Napoli sulla piazza del Mercato Nuovo il conte Gherardo di Donoratico che lo accompagnava, capo riconosciuto in patria del proprio casato.
Per questa impresa fu fulminata la scomunica e lanciato un nuovo interdetto a Pisa e alla sua Chiesa, si moltiplicarono gli assalti alle terre pisane, ogni tentativo di pace fu frustrato per l'ambigua posizione di Clemente IV che appoggiava incondizionatamente l'azione militare dell'Angiò, solo a parole zelatore della pace ma deciso a fomentare la guerra fino alla completa rovina della città, secondo il giudizio lucido e severo pronunciato dall'arcivescovo pisano (Les sermons, 2001, XCIII), giudizio che una lettera del re agli Anziani di Lucca del gennaio 1269 rivela esatto: "super hiis autem quia pisanorum nuntios venturos scripsistis ad veniam postulandam, scire vos volumus quod apud Sedem Apostolicam et apud Nos non aliam invenient veniam quam pro suis excessibus" (de Saint-Priest, 1847, p. 388).
La pace fu finalmente sottoscritta nell'aprile 1270, ma la riconciliazione con la Sede Apostolica avvenne soltanto nel 1273 con papa Gregorio X, dopo due anni di vacanza della cattedra papale, quando già si era riaccesa la lotta intestina tra le opposte fazioni dei Conti e dei Visconti, sfociata in rissa sanguinosa presso le case dei Visconti a pochi giorni dalla pace, la notte di calendimaggio 1270 (Lucca, Archivio di Stato, ms. 54).
Ultimo autorevole testimone dell'età sveva, Federico Visconti, l'indomabile arcivescovo che per un quarto di secolo aveva ispirato, condiviso e talora contrastato le scelte politiche del comune, moriva il 1o ottobre 1277 in un rinnovato clima di guerra con Lucca, mentre i suoi concittadini predisponevano alla costruzione del Camposanto monumentale il terreno presso la cattedrale da lui donato per questo scopo alla sua città.
fonti e bibliografia
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Per la struttura sociale di Pisa, rappresentata nel patto di alleanza del 1228: E. Salvatori, La popolazione pisana; per la formazione del Populus e la composizione dei gruppi sociali: M. Ronzani, Pisa; P. Castagneto, Il primo Popolo a Pisa e gli 'octo rectores communitatis' (1209-1237), in Legislazione e prassi istituzionale a Pisa (secoli XI-XIII). Una tradizione normativa esemplare, a cura di G. Rossetti, Napoli 2001, pp. 241-266; A. Poloni, Pisa dall'origine del movimento popolare alla discesa di Ludovico il Bavaro. I gruppi dirigenti cittadini tra continuità e trasformazione, tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, a.a. 2002-2003.
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