pittura
Rappresentare il mondo dentro e fuori di noi con forme e colori
La pittura è certamente la più nota e praticata tra le arti, ed è anche la più stimolante per gli artisti che nel corso dei secoli hanno sperimentato le tecniche e i materiali più diversi. Con l’ausilio di terre colorate, pietre preziose, lamine metalliche e, nell’arte contemporanea, anche plastiche, vernici e oggetti di uso quotidiano, i pittori hanno raffigurato la vita e la storia del proprio tempo. Inventando procedimenti sempre diversi per rappresentare la natura ma anche le proprie sensazioni ed emozioni, gli artisti hanno reso la pittura uno strumento di conoscenza della realtà esterna e di quella interiore dell’uomo
I primi esempi pittorici di cui si ha traccia sono costituiti dalle pitture rupestri di età paleolitica visibili nelle grotte di Lascaux in Francia e di Altamira in Spagna, che raffigurano scene di caccia, talvolta eseguite con una semplice linea di contorno incisa, in altri casi con il colore che riesce a rappresentare fedelmente anche il volume dei corpi. La ricerca delle modalità tecniche per raffigurare sulle superfici dipinte la forma naturale degli oggetti – che nella realtà hanno tre dimensioni – è il tema dominante della pittura occidentale, che sin dall’età classica si basa sul concetto di imitazione.
Perduta la pittura greca, le pitture parietali di epoca romana (come quelle rinvenute nelle città di Pompei, Ercolano, Oplontis) forniscono esempi di architetture in prospettiva, di raffigurazioni perfettamente realistiche di figure umane abbigliate con vesti e manti dai ricchi panneggi.
Nel corso dell’età medievale la progressiva riscoperta della tecnica ad affresco e l’introduzione delle giornate di lavoro favoriscono la ricerca sulla rappresentazione dello spazio pittorico: la suddivisione delle giornate d’intonaco richiedeva infatti l’esistenza di un progetto disegnato di tutta la composizione, che veniva poi messo in opera giornata dopo giornata dal pittore e dai suoi collaboratori secondo compiti precisi. Nella sua bottega il pittore istruiva i giovani apprendisti e sperimentava materiali e tecniche diverse, preparando i colori e distillando oli e resine, finché la produzione industriale giunse a fornire agli artisti tutti i materiali necessari pronti per l’uso. Da allora le innovazioni si sono trasferite dal campo delle tecniche all’impiego fortemente innovativo e spesso provocatorio di materiali industriali e oggetti d’uso comune.
I pittori delle caverne non usavano i pennelli per dipingere, ma si servivano delle mani sporcate con il sangue degli animali uccisi per realizzare delle semplici impronte. Talvolta spruzzavano il colore con la bocca sulle mani appoggiate alla parete rocciosa. Soltanto successivamente cominciarono a delineare a graffito le forme degli animali cacciati (cervi, tori, cavalli) incidendo le pareti con una punta acuminata o servendosi di un ramoscello di legno carbonizzato per disegnarne i contorni. Tali forme disegnate erano poi colorate con terre gialle, rosse e marroni che si trovavano facilmente nel terreno circostante.
L’immagine del pittore all’opera di fronte al cavalletto con tavolozza e pennelli risale al Rinascimento e risulta puramente fantastica, poiché fino al 19o secolo i pittori non hanno mai operato da soli ma in botteghe ben organizzate insieme a molti collaboratori. Ai ragazzi più giovani (tra i 9 e i 13 anni) era affidata la macinazione dei colori, mentre i più grandi, man mano che cresceva la loro abilità, si esercitavano nel disegno – prima a carboncino, poi a pennello e inchiostro –, tracciavano le principali linee per l’inquadramento della scena (con spaghi, righe e compassi) oppure trasferivano il disegno eseguito dalla carta alla superficie da dipingere. Solamente i più esperti erano ammessi a dipingere accanto al capobottega con pennelli – duri di setole o morbidi di pelo – e colori distribuiti in ciotoline contenenti le diverse tonalità necessarie.
I colori preparati e venduti in tubetti pronti per l’uso costituiscono anch’essi un’invenzione ottocentesca: prima di allora ogni artista doveva procurarsi da solo i materiali che gli occorrevano. Numerosi manoscritti dal Medioevo in poi tramandano le ricette per la manifattura delle diverse sostanze (pigmenti) impiegate per dipingere. Queste testimonianze indicano inoltre la particolare precisione con cui i pittori erano in grado di distinguere le varie tonalità di colore attraverso il nome assegnato a ciascun pigmento, derivante dal materiale con cui era realizzato, oppure dal luogo di provenienza.
Il bianco di piombo – detto anche biacca – era infatti ottenuto da lamine di piombo poste sopra o dentro vasi pieni di aceto, che dopo qualche settimana corrodeva il metallo e produceva così una polvere bianca; se invece del piombo si usavano lamine di rame, si produceva una polvere verde costituente il verderame.
L’azzurro oltremare era ottenuto dalla lavorazione del lapislazzuli, una pietra preziosa che dal Medioevo giungeva in Occidente dalle lontane terre d’oltremare, ovvero dall’attuale Afghanistan; l’azzurro d’Alemagna, o azzurrite, era estratto dalle miniere di rame della Germania dove si trovava insieme alla malachite, un’altra pietra preziosa usata come pigmento (verde). Dalla lontana Cina giungeva il rosso cinabro che presto venne ottenuto artificialmente mescolando insieme zolfo e mercurio.
Assai preziosa era, infine, la gamma delle lacche – rosse di kermes e di cocciniglia, gialle di zafferano, azzurre di indaco e fiordaliso – ottenute dagli estratti di piante e animali con cui si tingevano i tessuti, e che i pittori utilizzavano per raffigurare le stesse stoffe con cui erano tinti nella realtà.
Le superfici scelte dai pittori per dipingere – dette supporti – sono state assai variegate nel corso dei secoli: muri, tavole lignee, tele, pergamene, ma anche lastre metalliche e di pietra. Dai materiali costituenti i supporti pittorici si distinguono differenti tecniche esecutive in base alla sostanza – detta legante – impiegata per miscelare i colori e farli aderire al supporto, come è il caso di uovo, colla, olio e cera.
Possiamo così incontrare le tipiche tempere a uovo su tavola di epoca medievale come la Maestà di Ognissanti di Giotto, oppure L’amor sacro e l’amor profano di Tiziano dipinto a olio su tela. Non dobbiamo tuttavia pensare che tutte le tavole lignee fossero sempre dipinte a tempera d’uovo: i pittori fiamminghi (fiamminga, arte) preferivano dipingere a olio, così come Mantegna ha eseguito molte tele con i colori mescolati alla colla (cioè a guazzo). Allo stesso modo, non si può definire affresco qualunque dipinto murale poiché si tratta di una tecnica etrusca e romana recuperata alla fine del Duecento, come testimonia il ciclo attribuito a Giotto delle Storie di s. Francesco nella Basilica superiore di Assisi.
L’affresco è la tecnica di pittura murale più conosciuta e consiste nell’applicazione dei pigmenti colorati sciolti in acqua su un intonaco umido a base di calce. All’inizio del Medioevo l’intonaco veniva steso su tutta la parete da dipingere e il pittore lavorava con la sua bottega assegnando un compito preciso a ciascuno dei suoi aiutanti, per riuscire a portare a termine la pittura prima che l’intonaco si asciugasse nel corso di ventiquattro ore.
All’inizio del Trecento – come possiamo vedere nella Cappella degli Scrovegni di Padova dipinta da Giotto – si afferma la divisione dell’intonaco in tante porzioni dette giornate, di estensione variabile in rapporto al lavoro che ogni pittore era in grado di portare a termine in un giorno. Così se per dipingere un fondo con case e paesaggi un abile artista come Masolino poteva impiegare un’unica giornata, per eseguire una figura in primo piano erano necessarie almeno due giornate diverse: una per il corpo e l’altra tutta dedicata al volto.
L’intonaco fresco di calce accoglie senza alterarli solo i pigmenti costituiti da terre naturali, che però hanno tonalità limitate – rosse, gialle, verdi – e poco brillanti. Per non rinunciare alla bellezza e alla preziosità degli altri pigmenti – oltremare, cinabro, lacche – normalmente impiegati nei dipinti su tavola e nella decorazione dei codici miniati, i pittori li utilizzarono ugualmente fin dall’epoca medievale, dipingendo sull’intonaco ormai asciutto (cioè a secco) e mescolandoli alla tempera e all’olio.
Nella pittura murale del Quattrocento, per raffigurare anche sulle grandi estensioni delle pareti la ricchezza dei colori della pittura su tavola, si diffonde largamente l’uso della tempera e dell’olio, impreziositi da lamine d’oro nelle aureole dei santi e nelle stoffe ricamate, come si può vedere nell’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano e nella corte di Ludovico Gonzaga dipinta da Mantegna nella Camera degli sposi a Mantova.
Gli esperimenti condotti con il legante a olio da parte dei pittori fiamminghi si erano diffusi anche in Italia per la morbidezza e la lucidità degli impasti, che potevano essere stesi in grosso spessore ma anche con pennellate sottili e trasparenti come veli (e per questo motivo chiamate velature).
Leonardo fu il principale sperimentatore dei diversi effetti cromatici offerti dall’olio, che impiegò sia nei suoi dipinti su tavola (per esempio nella famosa Gioconda) sia sulla parete del refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano nell’altrettanto famoso Cenacolo. Dipingendo su muro come avrebbe dipinto su una tavola lignea, Leonardo traduceva in pittura le sue ricerche scientifiche sull’ottica e la visione dello spazio, ottenendo un modo per rappresentare la profondità mediante la gradazione dei colori, più intensi in primo piano e progressivamente più chiari nel fondo.
L’osservazione della minore resistenza nel tempo della pittura murale a secco condusse i pittori del Rinascimento da un lato a recuperare la tecnica ad affresco, come nel caso di Michelangelo nella Cappella Sistina, dall’altro a sperimentare il supporto in tela: ciò avvenne soprattutto a Venezia, dove l’ambiente particolarmente umido spinse gli artisti ad adottare i teleri (grandi tele dipinte applicate successivamente sulle pareti) per sostituire i dipinti murali degradati dall’acqua.
Con la diffusione della pittura a olio su tela, soprattutto per opera di Tiziano, gli artisti potevano dipingere le proprie opere in bottega e il lento processo di asciugamento dei colori a olio consentiva loro correzioni e miglioramenti, ma anche l’esecuzione di più dipinti contemporaneamente o la loro replica sistematica in serie.
Famoso fu nel Seicento il Guercino, che aveva stabilito un tariffario preciso a seconda della grandezza del dipinto da eseguire: ciò era possibile grazie alla diffusione di formati di tele con misure standardizzate, fornite da artigiani ai quali spesso i pittori chiedevano di vendere il supporto con lo strato preparatorio già applicato.
L’elasticità della tela richiedeva, infatti, una preparazione diversa da quella rigida a gesso e colla applicata dagli artisti sulle tavole medievali e rinascimentali, e il riconoscimento del ruolo sociale del pittore divenuto l’artista rinascimentale aveva prodotto sempre maggiore disattenzione agli aspetti più pratici e materiali del mestiere, ormai delegati ad altri.
Nelle Fiandre, per esempio, sin dal Seicento i colori erano venduti già macinati, così come l’olio (di lino, di noce) era già depurato e preparato con l’aggiunta di sostanze che favorivano l’asciugamento dei colori. Per rendere poi più veloce la stesura dei colori a olio e completare più presto i dipinti, artisti famosi in tutte le corti europee, come Rubens e Antoon Van Dyck, usavano un legante costituito dalla stessa miscela di olio e resine impiegata per la verniciatura finale, che diveniva quindi inutile. Questa tecnica oleo-resinosa aveva il pregio di ritardare l’ingiallimento dei colori per l’invecchiamento dell’olio.
Nel corso del Settecento e dell’Ottocento tra le resine usate per dipingere si diffuse largamente il bitume, che rendeva gli impasti particolarmente fluidi e facili da stendere ma che purtroppo si asciugava soltanto in superficie producendo con il tempo una rete di fessure – crettature – che oggi sfigurano molti dipinti.
La rivoluzione industriale ha separato per sempre i pittori dalla fabbricazione dei propri materiali. L’industria chimica è in grado di produrre una gamma di colori di tutte le sfumature molto più ampia del passato e di fornirli già macinati e miscelati al legante e quindi pronti per l’uso, venduti dalla metà dell’Ottocento in tubetti di stagno.
Gli artisti perdono così la conoscenza diretta di pigmenti, leganti e supporti, anche per la loro formazione prevalentemente teorica impartita nelle accademie e non più nelle botteghe.
Ma la fabbricazione industriale dei pigmenti, se non consente più agli artisti di giudicare la qualità dei prodotti messi in commercio, stimola tuttavia i pittori a uscire dagli ambienti chiusi delle aule accademiche per dipingere all’aperto, rappresentando paesaggi naturali e giungendo con l’impressionismo a raffigurare non più la natura, ma le sensazioni cromatiche e luminose che il pittore percepisce di fronte a essa.
I colori industriali con le loro tinte pure e brillanti favoriscono queste ricerche stimolate dalle moderne teorie fisiche sul colore e la visione e Claude Monet realizza le sue opere in serie in cui lo stesso soggetto viene dipinto nelle diverse ore del giorno, come nelle famose Cattedrali di Rouen.
Dalla fedele riproduzione delle sensazioni visive operata dalla pittura impressionista si distacca la ricerca di Paul Cézanne che reclama la libertà creativa dell’artista nel rappresentare la bellezza della natura: le sue composizioni sempre più semplificate nelle forme e nei colori applicati a spatola e a pennello sono il fondamento delle successive avanguardie storiche del Novecento. Nella pittura contemporanea, infatti, materiali e tecniche più diversi sono impiegati in funzione espressiva e vengono utilizzati plastica, polistirolo, smalti industriali e oggetti d’uso comune, fino ad arrivare alla più recente videoarte costituita da immagini elaborate al computer.
L’arte di decorare con vetrate colorate e dipinte risale all’antico Egitto, ma il massimo sviluppo si ebbe in Europa in rapporto all’architettura gotica delle cattedrali, che consentì l’ampia apertura di finestre o di oculi circolari (detti rosoni) sulle facciate delle chiese. La vetrata veniva realizzata accostando lastre di vetro trasparente diversamente colorate e tagliate sulla base di un disegno di tutta la scena figurata. I vari pezzi di vetro erano uniti insieme da listelli in piombo e alla fine racchiusi in un telaio in ferro che sorreggeva l’insieme e consentiva di chiudere la finestra. Poiché le lastre di vetro erano colorate con una tinta uniforme, i vetrai potevano realizzare le figure umane soltanto se dopo l’assemblaggio dei vetri fosse intervenuto un pittore a dipingere l’espressione dei volti. Il famoso trattato sulle tecniche artistiche del monaco Teofilo descrive alla metà del 12° secolo tutte le fasi di esecuzione della vetrata, anche nella fase pittorica eseguita a grisaglia, ossia con un colore bruno-verdastro ottenuto dalla macinazione degli scarti di vetro e di ossidi metallici di rame e ferro; dopo essere stato applicato il colore veniva cotto in forno a calore moderato per fissare la stesura pittorica alla vetrata.