Podestà del comune italiano
Brunetto Latini parla dei podestà comunali nella seconda parte del terzo libro del Tresor, scritto tra il 1260 e il 1266, distinguendo preliminarmente due forme diverse di governo temporaneo ed elettivo. La prima, diffusa in Francia e in "autres païs", è rappresentata da maires, prevosti, balivi e scabini, "ki sont sozmis a la signorie des rois et des autres princes perpetueus"; la seconda, quella podestarile, è tipica dell'Italia, e solo ad essa è dedicata la trattazione: "li citain et li borgois et li communité des viles eslisent lor poesté et lor signour tel comme il quident qu'il soit plus proufitables au commun preu de la vile et de tous lor subtés" (Li livres dou Tresor, a cura di F.J. Carmody, Berkeley-Los Angeles 1948, III, 73, p. 392). Un riscontro viene dall'arcidiacono dalmata Tommaso da Spalato, che narra a distanza di decenni alcuni avvenimenti accaduti nella sua città nel 1238. In quell'anno si importò a Spalato dalla penisola l'istituzione podestarile, un "regimen Latinorum" costituito "ad exemplar Ytalicarum urbium" (Artifoni, 1995). I due autori ci dicono che nel pieno Duecento il governo dei podestà ‒ elettivo, temporaneo e teoricamente non soggetto ad altri poteri ‒ è un carattere inconfondibile della civiltà urbana d'Italia. Queste testimonianze parlano della forma matura dell'istituto, che si può ritenere compiuta non prima del secondo o terzo decennio del sec. XIII. Ad essa si giunse attraverso un percorso storico sulla cui interpretazione le ricerche sono aperte.
Fin dalla metà del sec. XII le istituzioni dei comuni consolari sono attraversate da tensioni che si manifestano in due modi. Da un lato si ha l'occasionale sostituzione del collegio dei consoli con figure uniche, variamente denominate: dominus civitatis a Siena nel 1151, rector et gubernator civitatis ad Arezzo nel 1153, potestas a Pistoia nel 1158, rector et potestas a Bologna fra il 1151 e il 1154, mentre negli stessi anni altri rectores sono documentati a Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Faenza, Orvieto. D'altro canto, quando non c'è sostituzione temporanea del consolato, negli stessi decenni questo appare qualche volta gerarchizzato internamente, come provano appellativi quali prior ex consulibus, primus consul, dominus o magister fra i consoli (Padova, Pisa, Genova), né manca a Modena nel 1180 una potestas che presiede il collegio consolare (Ludwig, 1973; Banti, 1983). In queste testimonianze è possibile vedere, senza che i due aspetti siano in alternativa, tanto la crescita di autorità di alcuni potenti nella vita cittadina quanto una tendenza ancora occasionale a una guida più accentrata e razionale del governo. Non come prosecuzione diretta di tali esperienze, ma piuttosto come sviluppo della tendenza che esse manifestavano al governo accentrato, e senza che si possa escludere qualche influsso dei podestà imperiali nominati dal Barbarossa nella sua opera di riorganizzazione del Regno, si collocherebbe dagli anni Novanta l'affermazione del podestà comunale. Alla forma compiuta dell'istituto, impersonata da un forestiero eletto dai consigli cittadini, chiamato annualmente in città a svolgere il suo compito e remunerato per questo, si giunge dopo alcuni decenni (il periodo 1190-1210, con eccezioni prima e dopo) che vedono un'alternanza tra consoli e podestà originari della medesima città che governano. Da questa interpretazione autogenetica, prevalente negli studi, rimane esclusa una visione derivativa dell'istituto podestarile, che ne farebbe una pura e semplice 'comunalizzazione' dei podestà imperiali nominati dal Barbarossa.
Si è affermata tuttavia da alcuni decenni una prospettiva che si potrebbe chiamare diffusionistica, proposta da Alfred Haverkamp (1984). Lo studioso ha sottolineato nell'attività della prima Lega lombarda, nel periodo intercorrente tra la pace di Montebello e quella di Costanza (1175-1183), la frequente imposizione di podestà alle città consociate da parte di Milano, che nell'insediamento di personale politico milanese, o controllato dal centro lombardo, vedeva un efficace strumento di coesione e di controllo della societas. In tali podestà forestieri, frutto di una operazione egemonica milanese, sarebbe da individuare l'inizio dell'istituto, che andrebbe dunque riportato cronologicamente alla seconda metà degli anni Settanta e non agli anni Novanta del sec. XII. La proposta, anche se ha avuto il merito di richiamare l'attenzione su testimonianze sottovalutate e sulla necessità di riconsiderare attentamente la cronologia, tuttavia non deve essere applicata in modo rigido, quando si pensi che in taluni casi (per esempio a Vercelli), dopo l'attestazione iniziale da riportare all'egemonia milanese (1177), si ha un ritorno alla forma consolare e che solo dal 1190 in avanti prende avvio la serie regolare dei podestà (Artifoni, 2000). Occorrerà perciò sia tenere presenti le attestazioni podestarili degli anni 1175-1183, sia distinguere, quando le fonti lo richiedano, fra queste e l'inizio più tardo di una vera e propria età podestarile, intendendo con ciò la complessiva ristrutturazione dell'apparato delle istituzioni intorno al nuovo vertice. Non è comunque in dubbio il ruolo svolto da Milano, anche in questa seconda fase, come fornitrice soverchiante di podestà a una gran parte dell'Italia settentrionale.
Il comune podestarile nella prima metà del Duecento ha nella complicazione del sistema istituzionale la sua caratteristica saliente.
A mano a mano che il nuovo vertice si struttura, esso prende a funzionare da fulcro di coordinamento di cariche settoriali e di consigli che sono ora diversificati (la credenza si sdoppia in un consiglio minore e uno maggiore) e fanno spazio alla parziale rappresentanza di ceti esclusi dal potere nel secolo precedente. La partecipazione viene incentivata e il gioco politico, sottratto almeno idealmente il vertice alla competizione, deve evolvere verso forme nuove, dalla presenza strategica nei consigli alla costituzione di partes e raggruppamenti. La guida del comune non è più la risultante diretta dell'egemonia esercitata dalle famiglie dell'aristocrazia consolare, ma un luogo, garantito ora dagli statuti, in cui la politica può svilupparsi nel suo aspetto di pratica della mediazione. La ragione è che si è trasformata nel frattempo la base di appoggio del governo cittadino. Il cambiamento istituzionale si svolge infatti in parallelo con un processo di parziale selezione nei ceti dirigenti urbani che avviene tra la fine del sec. XII e i primi decenni del XIII: alcuni nuclei dell'aristocrazia consolare si integrano con gruppi familiari dalla storia politica più recente, dando luogo a una classe dirigente che rimarrà egemone fino all'avvento dei governi popolari nella seconda metà del secolo.
Nell'età di Federico II gli istituti podestarili giunsero ovunque a piena maturazione nell'Italia del comune. Sono in questo periodo chiaramente constatabili alcune caratteristiche che fanno del podestà e del sistema di consigli su di lui gravitante un'esperienza fondamentale nel configurare in termini omogenei il mondo delle città centrosettentrionali. Si trattò in primo luogo di un regime elastico (Ottokar, 1948, p. 27), che trovava nella sua stessa articolazione la disponibilità a deformarsi, ammettendo al suo interno rappresentanze istituzionali delle forze che crescevano nella società, fossero esponenti delle compagnie rionali di pedites o delle associazioni dei militi, delle corporazioni o delle partes. Ne derivò una quota di instabilità strutturale, connaturata a un governo partecipativo, che non determinò tuttavia la crisi del sistema, che poteva individuare nella pluralità dei consigli, degli uffici e degli incarichi ad hoc istanze di compensazione delle pressioni di diversa provenienza. In secondo luogo, la funzione coordinatrice del podestà poté esprimersi appieno, perché a lui o a suoi rappresentanti faceva capo la gestione dei vari settori della vita associata: l'amministrazione della giustizia, la guida della milizia, la presidenza di consigli e commissioni, l'esercizio della forza pubblica, la tutela della città nella sua facies materiale e urbanistica.
Ancora, la circolazione podestarile fu un potente strumento di raccordo intercittadino, poiché disegnava una rete capillare e mutevole di alleanze e influenze politiche e culturali che ci permettono, seguendo i podestà e le loro familiae di giudici, notai e milites, di dare concretezza alla nozione, in sé astratta e tuttavia spesso evocata, di imitazione. Infine, intorno al podestariato si costituirono tradizioni familiari: i podestà furono reclutati nella prima metà del secolo soprattutto nelle grandi famiglie aristocratiche dei centri lombardi e, in misura minore, emiliani (Milano, Cremona, Bologna, Parma); molti gruppi di parentela giunsero a cumulare, nei singoli membri e nel loro complesso, un grande numero di incarichi. Dopo il 1260 il protagonismo nell'alimentazione dei flussi podestarili passa ai comuni emiliani, e infine si sposta, nel nuovo secolo, verso Firenze e la Toscana. Si può usare la definizione di politici professionali a proposito di taluni podestà, come ammetteva Max Weber (1983, p. 70), e prima Hanauer (1902)? Se si è notato che un impegno personale continuativo nell'esercizio podestarile non è la regola, occorre ricordare che pienamente politico-professionale era invece l'orizzonte ideale in cui la magistratura era collocata, provato dal costituirsi di una cultura specifica de regimine civitatum, e che la tendenza al rafforzamento delle istituzioni, che percorre tutto il Duecento italiano, favoriva lo sviluppo di una specializzazione nel governo della cosa pubblica.
Il podestà fu individuato precocemente dall'iniziativa di Federico II come possibile fulcro di un'operazione di controllo delle città, visto che episodiche testimonianze di podestà di nomina imperiale nei centri alleati o sottomessi di Lombardia e della Marca trevigiana sono precedenti al riassetto amministrativo successivo alla vittoria di Cortenuova (1237). Quando la ristrutturazione del Regno prese forma secondo lo schema ordinato in vicariati, podesterie e castellanie, i podestà collocati nelle città imperiali si mossero comunque in una "situazione ambivalente" (Guyotjeannin, 1994, p. 127), connaturata da un lato all'autorità esterna da cui traevano potere e che li sottometteva ai vicari generali e dall'altro al loro doversi muovere dentro un sistema di istituzioni consolidato e dentro una tradizione cittadina che individuava nel podestà il simbolo dell'autonomia. Per così dire, erano per un verso funzionari imperiali e per un altro podestà cittadini. In realtà gli effetti più rilevanti della loro presenza non sono visibili tanto dentro le città, nelle quali furono i controllori della fedeltà allo schieramento imperiale, ma in genere senza ledere l'ordinamento preesistente, bensì in due dimensioni sovracittadine, quali quella del reclutamento e della circolazione podestarile, in cui la loro origine di magistratura 'esterna', di raccordo tra la realtà cittadina e l'organizzazione imperiale, importò conseguenze di rilievo. Sul primo terreno è rilevabile l'uso da parte di Federico di un personale misto, in cui compaiono sia noti personaggi del Regno meridionale (Marino da Eboli, Tommaso d'Aquino, Tebaldo Francesco, Simone da Chieti, Riccardo Filangieri, ecc.), sia grandi dinasti territoriali dell'Italia del Centro-Nord (i Lancia, i Guidi), sia esponenti di un numero limitato di famiglie appartenenti a città fedeli all'imperatore (soprattutto Cremona, Pavia e Parma), famiglie che avevano già sviluppato una loro tradizione di podestariato itinerante. Sul piano della circolazione podestarile, l'ingerenza federiciana ebbe l'effetto di interrompere alcuni flussi di reciprocità che avevano caratterizzato il funzionamento classico della mobilità intercittadina, assoggettandoli a logiche eterodirette e sovracittadine: podestà pavesi affluirono in Piemonte ma si indebolirono i loro rapporti con le città padane, Cremona vide ridotto il tradizionale flusso di podestà parmensi, i podestà originari di Cremona, prima inseriti in circuiti che toccavano comuni padani filoimperiali di primaria importanza, ebbero ora come destinazione centri meno rilevanti (Vallerani, 1998, pp. 471-472).
fonti e bibliografia
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