Politica e mito
di Dino Cofrancesco
In prima approssimazione il mito politico è una forma di legittimazione del potere - sia di quello esercitato da una classe dirigente, sia di quello, per così dire, pietrificato nelle istituzioni e divenuto quasi una seconda 'natura', sia di quello, infine, di un 'noi' allo stato nascente che vuol lasciare il suo segno nella storia, conservando intatta la propria irriducibile diversità - che non fa riferimento alla ragione universale ma alla narrazione di un destino, alla sorte straordinaria toccata a un gruppo particolare. Tale carattere lo rende estraneo allo spirito della filosofia politica moderna. Quest'ultima, infatti, nasce sul terreno dell'analisi. Il mondo umano viene scomposto nei suoi elementi costitutivi - la morale, l'economia, la politica, l'arte, ecc. - e ciascuno di essi diviene l'oggetto di un sapere specialistico. La ragione, intesa dapprima come organo dell'assoluto e, in seguito, con più limitate pretese, come un'indispensabile bussola per orientarsi in un cosmo sconosciuto, fonda e legittima ogni modello di ricerca. La politica non fa eccezione. Dallo Stato, come apparato di ordine e come potenza in espansione, l'attenzione della ricerca moderna si è successivamente spostata sul regime politico, sulla necessità della divisione (o, al contrario, della concentrazione) dei poteri, sui ceti e sulle classi sociali, che, portatori di interessi e di valori particolari e generali a un tempo (di volta in volta, la nobiltà di servizio, la borghesia, il proletariato ecc. ecc.), si candidano a garanti della ricchezza e della felicità delle nazioni. Il discorso politico moderno si legittima in virtù dell'appello alla ragione, al calcolo, alla dimostrazione. Il suo interlocutore non è l'abitante di una tribù, colto in una determinata configurazione spazio-temporale, ma l''uomo universale', dotato di raziocinio e capace di esercitarlo sui più ardui problemi della convivenza sociale. I documenti teorici ai quali viene consegnato tale discorso sono le ideologie intese in senso debole (ossia, con riferimento ai 'contenuti' e non alle 'funzioni' che esse svolgono), come visioni della realtà che intrecciano fatti e valori, essere e dover essere, al fine di far luce sul mondo, renderlo trasparente al pensiero, consentirne la manipolazione tecnico-scientifica. Le ideologie, riguardate come dottrine politiche, costituiscono il terreno privilegiato del confronto tra i diversi programmi di azione e i diversi modelli di regime politico.Tuttavia il logos non occupa tutto lo spazio della città. E non perché, come si suol dire, accanto a esso (o dietro di esso) spunti regolarmente l'ombra del mythos, quell'irrazionalità sempre in agguato che si diverte a turbare i sogni della ragione. Ma per un altro motivo più semplice e più terreno: che la vita - degli individui come quella dei gruppi sociali - non è solo progetto, è anche destino. Nella fattispecie, le comunità politiche possono avere l'origine più diversa - l'ambizione di potenza di una casa regnante, un libero patto federativo - ma, una volta nate, costituiscono un attore autonomo, un individuum unico, dotato di un impulso a conservare la propria distinta specificità. Si è sudditi del re d'Inghilterra o del re di Spagna, si è Francesi o Ungheresi: tutto questo precede le opzioni ideologiche, la scelta del costituzionalismo liberale o della democrazia, dello Stato forte e imperiale o della federazione pacifica e tollerante. Prima di essere 'qualcosa', bisogna essere 'qualcuno'. Senonché mentre l'attributo - liberale o socialista, democratico o autoritario - può essere argomentato razionalmente (il liberale vuole convincere gli altri a preferire von Hayek e Popper a Habermas o a Rawls), ciò a cui esso si riferisce non lo può: o lo si accetta o lo si rifiuta. Posso convincere gli altri a pensare politicamente come me, ma non posso convincerli a essere me stesso; posso indurli a mutare radicalmente la struttura della loro personalità ma, anche in questo (improbabile) caso, non saranno mai tanto eguali a me da diventare - io e loro - intercambiabili. Ora, come gli 'attributi' di una città - l'avere un tipo di costituzione o un'altra, certi valori o altri - trovano la loro corrispondenza nelle 'ideologie-dottrine politiche', così la città come dato (quasi) di natura - per cui è quella e non altra, si è Francesi e non Algerini e non Tedeschi e non Inglesi, ecc. - si rispecchia nel mito politico, nel senso di una autorappresentazione rapportata non a valori e a simboli universali (e universalizzabili) bensì a una individualità che va semplicemente registrata e la cui stessa esistenza è un bene da salvaguardare e da consegnare intatto (se non arricchito) alle generazioni future. Il mito politico obbliga non in virtù di agrafoi nomoi iscritti nel cuore di tutti gli uomini e vincolanti per ogni tempo e per ogni luogo, ma in virtù di un'appartenenza a un gruppo particolare; a generare conformità sociale non è dunque un imperativo razionale, ma il racconto di un'origine, di una rete di legami, di un destino da compiere.Vediamo, però, di rendere il discorso meno generico e di sgombrare il terreno d'indagine dagli innumerevoli equivoci che finora lo hanno caratterizzato.
La questione più delicata, per lo studioso dei concetti politici, è l'individuazione delle reali affinità e delle false parentele. Se, nel caso del mito politico, adottiamo il classico principio aristotelico e scolastico della definizione, scopriamo che il genus proximum trova tutti gli analisti concordi, mentre la differentia specifica rischia di trasformare il confronto delle metodologie e degli orientamenti teoretici in un irrimediabile dialogo tra sordi. Non c'è quasi momento dell'immaginario politico e del magazzino senza fondo delle credenze, dei valori, delle ideologie che non venga, da qualcuno, designato come 'mito' - indipendentemente dalla valenza conferita al termine. La leggenda e la tradizione, l'ideologia e l'utopia, il millenarismo e il fondamentalismo di ogni genere, la 'religione civile' e i simboli, la legittimità e la 'formula politica' vengono spesso, indifferentemente, chiamati anche 'miti'.E tuttavia, nella grande confusione che sembra caratterizzare l'espressione 'mito politico', qualche punto fermo può essere stabilito. Comunque lo si voglia valutare e caratterizzare, infatti, il 'mito' chiama in causa stati della mente (credenze, disposizioni del cuore, passioni) che rappresentano una risorsa importante nella competizione politica e che, pertanto, possono fornire a un regime, a una classe politica, a un movimento di contestazione un'arma, per così dire, 'impropria', non quantificabile - a differenza delle risorse legate al controllo degli strumenti della violenza o alla distribuzione di beni materiali indispensabili.In tal senso, è innegabile che il luogo del mito politico coincide con quello delle ideologie.
Anche queste ultime, infatti, sono rappresentazioni mentali, fatte di visioni del mondo e di valutazioni, che condizionano - a volte in misura notevole - il processo politico e i suoi esiti. E inoltre anche le ideologie costituiscono quella che Mario Stoppino chiama l'identità etico-sociale. Espressione, quest'ultima, che designa il conferimento di dignità e di valore all'individuo non in quanto tale, ma in quanto membro e partecipe di un gruppo, caratterizzato da idealità elevate (il momento etico) e dal reciproco riconoscimento (il momento sociale) delle qualità possedute da tutti e da ciascuno. Le risorse simboliche, in tal modo, legittimando e consacrando i ruoli, danno consistenza ai membri di un consorzio sociale, li sottraggono all'anomia e all'irrilevanza e, in tal modo, assolvono un compito imprescindibile. La fruizione concreta dell'identità etico-sociale è un bene irrinunciabile, non meno importante di quegli altri beni che vengono assicurati dall'attività produttiva (l'economia) e dalla protezione contro la violenza (l'apparato statuale). E tale bene (di natura simbolica) è assicurato sia dal mito politico, sia dalle dottrine politiche articolate e argomentate, che il parlare comune designa come 'ideologie' tout court. Se la famiglia è la stessa, però, si intuiscono differenze che portano a riferire i due fenomeni a 'rami' diversi. E qui il discorso si fa di nuovo ingarbugliato, per la difficoltà di raggiungere un accordo su tali rami e sui criteri di assegnazione all'uno piuttosto che all'altro.
Da Pelayo a Girardet, da Eliade a Mosse, da Tudor a Rezsler, da Wolin a Emilio Gentile - per citare alcuni tra i più significativi studiosi contemporanei - sono stati messi in luce alcuni tratti del mito politico che sicuramente ne individuano aspetti sostanziali. E tuttavia l'analisi è rimasta confinata, per lo più, sul piano storico: sono stati illuminati diversi aspetti del campo d'indagine, ma è mancato il quadro teorico di riferimento capace di tenerli insieme.Il punctum dolens è, a guardar bene, un riflesso condizionato che, nello studio del mito politico, porta o a disinteressarsi dell'aggettivo, sedotti dall'universo fascinoso e autosufficiente del sostantivo, o ad attenersi esclusivamente a esso, ma trascurandone le componenti strutturali. Nel primo caso, l'attenzione si sposta sempre più in alto: dalla storia politica si passa alla filosofia della storia e da questa alla riflessione sulla humana condicio; nel secondo caso, ci si sofferma invece sul piano della politica, ma intendendo quest'ultima in un'accezione riduttiva, che tende a identificarla col solo 'processo' politico - vale a dire, le condotte degli attori in competizione per la conquista e la conservazione del potere, le strategie messe in atto, il modo di impiego delle risorse (tra le quali la mitopoiesi) - e che finisce per relegare in un orizzonte lontano la 'struttura', ovvero l'insieme dei rapporti stabili di potere, il "quadro preformato delle aspettative e delle disposizioni che orientano i comportamenti (anche comunicativi), cioè il processo". Senonché, come rileva Giorgio Fedel, un modello che non dà importanza alla struttura e alle istituzioni politiche che ne sono l'articolazione e si concentra unicamente sui fenomeni processuali, difficilmente può cogliere lo specifico della politica, che è legata ad assetti istituzionali e, più in generale, a fatti strutturali di vasta portata. Insomma, il mito politico è una risorsa di potere, non tutto il potere; copre una parte della politica, non tutta la politica.
Il problema, ancora una volta, è quello di proporre una definizione di mito politico che: 1) faccia giustizia degli usi stravaganti e dilatati dell'espressione; 2) ne spieghi gli aspetti oggettivamente ambigui e contraddittori; 3) contribuisca a un uso critico e controllato dell'espressione; 4) sottragga il discorso allo scontro di Weltanschauungen (ad esempio, tra chi ritiene il mito politico una cosa buona e ne lamenta la perdita nella 'disincantata' società contemporanea e chi lo ritiene una cosa cattiva e ne lamenta la proteiforme vitalità).Tali esigenze potrebbero venire soddisfatte specificando meglio (e illustrando sinteticamente) la definizione dalla quale siamo partiti, che vede nel mito politico una credenza ideologica - espressa in forma di racconto drammatico (e con un linguaggio intuitivo) - circa il destino assegnato a una particolare comunità in vista del suo coinvolgimento in una 'grande impresa'. In quanto credenza ideologica, esso è finalizzato all'integrazione politica: come ha opportunamente sottolineato Henry Tudor, il mito politico non vuole intrattenere piacevolmente l'ascoltatore, stimolando la sua fantasia e dando libero sfogo al suo bisogno di 'evasione', di avventura, di mistero; né vuol essere una parabola, intesa a insegnare sane regole di condotta o la cosiddetta saggezza del vivere. Sua finalità specifica, infatti, è la costituzione del 'noi', vale a dire la costruzione di una comune identità (esclusivamente di valori o anche di interessi) tra governanti e governati.
La definizione fa leva sia sull'ideologia - considerata nella sua funzione di integrazione politica ottenuta attraverso una determinata raffigurazione dei rapporti di potere e modi specifici di razionalizzazione - sia sulla comunità, intendendo tuttavia quest'ultima non soltanto come Gemeinschaft - nel senso del primo termine della dicotomia che dà il titolo all'opera più celebre di Ferdinand Tönnies, Comunità e società ("La vita comunitaria è possesso e godimento reciproco ed è possesso e godimento di beni comuni. La volontà del possesso e del godimento è la volontà della protezione e della difesa. Beni comuni-mali comuni; comuni amici-comuni nemici") - ma, altresì, come l'insieme di abiti mentali e di aspettative istituzionalizzate che si sono sedimentate, nel tempo, in un'arena politica, formando quasi una 'seconda natura' (alla quale si deve, in fin dei conti, la produzione dell'ideologia comunitaria).
Il mito politico è un racconto, in quanto non spiega ciò che è accaduto o deve accadere agli individui (capi e seguaci) che fanno parte di un aggregato sociale rifacendosi a leggi generali del divenire storico o alla razionalità dell'anima del mondo, ma richiamandosi a vicende eccezionali, vissute dal gruppo, il quale viene altresì considerato come un insieme separato dagli altri: o perché oggetto di elezione da parte di entità soprannaturali (si pensi agli antichi dei che prendevano sotto la loro protezione una città o una gens, ma anche al Dio dell'Antico Testamento); o per doti straordinarie di cui si trovi casualmente in possesso (ad esempio, la razza ariana, la cui eccellenza fisica e morale non trova giustificazioni diverse da quelle che si potrebbero dare a chi chiedesse perché l'Everest è la montagna più elevata del globo: è così perché è così!); o per fortunate circostanze storiche e ambientali che hanno portato individui, in tutto comuni ed eguali agli altri, a vivere un'esistenza al riparo dalla violenza e dalla sopraffazione (si pensi all'Adamo americano, il common man che, lontano dalla vecchia, corrotta e 'feudale' Europa, ritrova nel Nuovo Continente le condizioni di vita dell'umanità prima della caduta).Ed è un racconto drammatico - o, meglio, per riprendere la definizione di Tudor, "una narrazione degli eventi in forma drammatica, con un protagonista, un intreccio, un inizio, un intermezzo e una fine" - in quanto concerne fatti di morte e di resurrezione, di lotte e di vittorie, di disperazione e di riscatto.
La Terra promessa, il Reich millenario, il 'paese di Dio' non sono, infatti, a portata di mano. Per raggiungerli occorre affrontare ardui cimenti, sottoporsi a prove rischiose, mettere a repentaglio la vita propria e quella degli amici e dei congiunti. Racconto drammatico espresso in un linguaggio intuitivo, il mito politico non fa appello alla ragione, mezzo privilegiato di comunicazione 'societaria' - senza la ragione non potrebbero calcolarsi i vantaggi e gli svantaggi dello scambio, né progettarsi alcuna città ideale, né misurare con sufficiente precisione i servizi e le prestazioni dovute - ma alla percezione diretta e immediata della realtà, quale si verifica solo nei momenti di più intenso abbandono interindividuale. Espressione privilegiata dei legami ancestrali e dei sentimenti primordiali che uniscono i membri di un gruppo, il mito politico è portato a far ricorso a un linguaggio complice, allusivo, iniziatico e sfuggente per gli 'altri', ossia per quelli che stanno 'fuori', ma di semplice e pronta decodificazione per quelli che stanno 'dentro'.
Tale carattere spiega l'ostilità, sorda e irriducibile, delle dottrine legate all'eredità dei Lumi nei confronti di questa dimensione 'arcaica' della politica che irrompe nell'ordinato procedere del tempo, spezzando la tela della prassi riformatrice, costruita lentamente, giorno per giorno, dagli individui, a livello di società civile e di sistema politico, e scombinando il disegno della ragionevolezza che intende trasformare l'esistenza senza ricorrere alla violenza. Questi tre aspetti - l'enfasi sull'immaginario, la tensione polemica, l'intenzionalità antiriformistica - si ritrovano, non a caso, congiunti nella prima, esplicita, teorizzazione del mito politico, le Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel. "Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali - vi si legge - si figurano le loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il trionfo della loro causa". Ad esempio, lo sciopero generale dei sindacalisti rivoluzionari, la teoria catastrofica di Marx, l'escatologia del cristianesimo primitivo, e così via: queste costruzioni sono, appunto, i miti, mezzi potenti per agire sul presente: "non descrizioni di cose, ma espressioni di volontà".
Il mito politico racconta un destino nel senso forte del termine che rinvia a un ruolo che non ho scelto ma che, nondimeno, sono tenuto a svolgere, in virtù di una chiamata che giunge dalle regioni imperscrutabili del mio essere e che mi impone un agire predeterminato, pena la 'nullificazione ontologica'. Debbo fare la mia parte non perché è giusto - vale a dire, perché ritengo che ciascun altro, al mio posto, dovrebbe comportarsi allo stesso modo, sulla base delle prescrizioni di una ragion pratica che è la stessa in ogni tempo e luogo e che s'impone a ogni singolo individuo e gruppo sociale -, né perché 'mi conviene' - ovvero perché, nel calcolo dei costi e dei ricavi, una certa condotta risulta vantaggiosa -; debbo fare la mia parte perché, se non mi comportassi come mi viene prescritto, entrerei in conflitto con la mia natura più profonda, rinnegando in tal modo me stesso. Di qui la drammaticità della scelta, che non è tra valori diversi e alternativi - ad esempio, tra la libertà e l'eguaglianza - ma tra l'accettazione del destino (l'amor fati) e il suo rifiuto. Il mito politico rinvia sempre a qualcosa che 'stava scritto', sicché la storia che è stata fatta e quella che dev'esserlo ancora altro non sono che l'illustrazione del compimento, la rappresentazione della necessità.
E il destino è sempre quello di una 'comunità' particolare. Ciò sta a significare che non ho (o perlomeno non ho soltanto) obblighi nei confronti del 'genere umano', giacché la mia lealtà va innanzitutto a quella matrice originaria, che mi ha fatto dono dell'esistenza, perché contribuissi alla sua lotta contro l'azione distruttrice del Tempo e ne custodissi l'onore nella ciclicità (comunque inevitabile) in cui è immersa ogni forma vivente.La dimensione comunitaria viene sottolineata un po' da tutti gli autori ma, in una maniera particolarmente convincente, soprattutto da Raoul Girardet. Nel suo studio, Mythes et mythologies politiques, il mito politico viene definito una 'lettura immaginaria della storia' che adempie a due funzioni fondamentali: la ristrutturazione mentale e la ristrutturazione sociale. Grazie a esso "l'oscuro caos degli eventi si ritrova sottoposto alla visione di un ordine immanente. L'incognita misteriosa di un universo sociale andato in frantumi può venir nuovamente disvelata e dominata. Sulle rovine delle morte credenze si erigono nuove certezze. Nei cuori, nelle coscienze si ricostituiscono i rotti equilibri. Fornendo nuovi elementi di comprensione e di adesione, l'immaginario mitico dà la possibilità a chi gli si abbandona di riapprodare in un presente riconquistato, di rimettere piede in un mondo ridivenuto coerente e di facile lettura". E almeno tre dei quattro miti politici passati in rassegna - la cospirazione, il salvatore, l'età dell'oro e l'unità comunitaria (e precisamente il primo, il secondo e il quarto) - altro non sono che capitoli di uno stesso racconto drammatico che parla di quella "comunità organica" che "conserva l'equilibrio tra le attività del gruppo umano", "tiene unito l'ordine essenziale del mondo" e "costituisce per i suoi membri una difesa dal di fuori". "Immagine dell'ospitalità, del riparo, del rifugio", la comunità salva "ciascuno di coloro che ne fanno parte dai pericoli della solitudine; li tutela dagli smarrimenti di senso e dai tumulti delle passioni asociali"; li difende dalle insidie esterne, dalle forze del male in agguato, dagli 'altri' che tramano nell'ombra (il mito della congiura). Tutti compiti che richiamano la necessità di una guida (il mito del salvatore), capace di ricacciare indietro il nemico. All'origine della prospettiva mitica, Tudor vede l'abito mentale che identifica la parte col tutto. Nulla, rileva, è più comune di questo topos argomentativo: "dovunque le colpe dei padri ricadono sui figli. Un ebreo commette un crimine e l'intera razza viene condannata; la nazione vince una guerra e il singolo cittadino si sente inorgoglito, anche se personalmente non ha sparato un colpo".
Questa caratterizzazione intensamente comunitaria ci consente di avanzare forti dubbi sull'estensione del mito politico a dottrine e a movimenti politici che si collocano sul piano dell''ideologia', intesa come un paniere di giudizi di fatto e di giudizi di valore, in cui alla correttezza dei primi - 'razionalmente' argomentata - viene affidato il compito di 'trainare' i secondi. Non solo Tudor, ma anche e soprattutto André Reszler - che pure ha scritto pagine penetranti su questo argomento - e lo stesso Girardet sussumono sotto la categoria del mito politico fattispecie come l'età dell'oro, l'uomo nuovo, il buon selvaggio che, in realtà, per riprendere una concettualizzazione raffinata di Luigi Firpo, andrebbero piuttosto definite utopie retrorse. Si tratta, infatti, di proiezioni del modello di convivenza conforme alla ragione in un passato 'preistorico' o in una regione lontana. I selvaggi, è stato spesso rilevato, non sono autentici selvaggi, ma philosophes travestiti da abitanti delle foreste; l'età dell'oro non è una condizione edenica primordiale in seguito perduta, ma la prefigurazione di un mondo pacificato in cui gli uomini si saranno conciliati tra di loro e con la natura.
Nella tipologia dell''integrazione politica forte' (quella in atto nella società moderna e secolarizzata) proposta da Stoppino, la dicotomia 'generalizzazione/universalizzazione' suggerisce dove collocare il mito politico, conservandone sia lo specifico comunitario, sia le pretese inglobanti e l'ambizione palingenetica. "L'estensione ai dominati degli interessi dei dominanti può coinvolgere i membri di una data comunità politica (generalizzazione); oppure può coinvolgere, in linea di principio e in prospettiva, tutti gli uomini (universalizzazione)". Il meccanismo dell'universalizzazione si ritrova, ad esempio, nella dottrina democratica o in quella comunista, nelle quali gli interessi dei rappresentanti eletti o quelli del partito coincidono, rispettivamente, con quelli del popolo o della classe e, in prospettiva, con gli interessi dell'intero genere umano. Il meccanismo della generalizzazione, invece, si rinviene "nelle dottrine nazionaliste, secondo cui gli interessi dei governanti (i quali esprimono in modo genuino l'autonomia e la potenza nazionali) corrispondono a quelli di tutta la nazione; o in quella versione estrema e radicale del nazionalismo, che è il razzismo nazista, secondo il quale gli interessi del Führer (che è la manifestazione più alta e più diretta delle virtù razziali) corrispondono a quelli dell'intera razza" ariana. Traducendo nel nostro linguaggio, si potrebbe dire che il mito politico sta alla comunità come l'ideologia (nel significato di dottrina politica argomentata) sta alla società e al regime politico.
Da sottolineare, infine, il 'coinvolgimento in una grande impresa' che non limita l'integrazione politica, ottenuta attraverso la 'mobilitazione', alla società moderna, ma la estende anche al mondo antico e medievale - si pensi alla guerra di Troia o alle crociate - anche se, in tali contesti, l'ambito degli attori sociali coinvolti rimane ristretto (gli eroi achei, chiamati a riscattare l'onore degli Atridi, o i cavalieri votati alla liberazione del Santo Sepolcro). La consapevolezza di essere partecipe di una comunità privilegiata, in altri termini, non è qualcosa di statico, né soltanto una tranquilla gratificazione sentimentale ingenerata dalla certezza delle 'radici'; è, invece, un'attivazione permanente, uno stare all'erta, una costante disposizione a 'partire' alla volta di un'avventura piena di incognite (dalla crociata al 'destino manifesto') in cui si avrà modo di verificare se si è degni della 'chiamata'.La 'grande impresa' non s'identifica, necessariamente, con la 'missione'. Questa, infatti, è associata a un popolo cosmico-storico, che agisce nell'interesse dell'universale; quella, invece, è l'esaltante possibilità, offerta a una nazione, di lasciar tracce del suo valore nei secoli venturi. La guerra di Troia è un'epopea che affida all'aedo il ricordo imperituro dei posteri; le guerre rivoluzionarie del generale Bonaparte vogliono ottemperare a una 'missione' - liberare i popoli europei dai ceppi dell'ancien régime. Per questo si ha qualche esitazione nel parlare di 'mito' mazziniano della Terza Roma: non perché nell'apostolo genovese non vi fossero elementi mitici (a partire dalla supposta continuità delle tre Rome e dallo stesso privilegio conferito al popolo italiano di porsi alla testa del mondo, nella nuova fase della storia mondiale caratterizzata dalla lotta delle nazionalità oppresse per riacquistare libertà e dignità), ma perché, più importanti di tali elementi, erano poi il respiro umanitario della visione, il compito assegnato alla parte di operare a vantaggio del tutto, il mai rescisso legame con l'universalismo illuministico.
Il mito politico, si è visto, appartiene alla famiglia delle credenze ideologiche, ovvero di quelle credenze volte a giustificare, dal lato del principe, il diritto di comando e, dal lato del popolo, il dovere di ubbidienza. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare il mito politico una mera gratificazione simbolica utilizzata dal potere per ottenere dai sottoposti quella collaborazione sociale (in termini di messa a disposizione del proprio tempo, dei propri averi, del proprio cuore) senza la quale esso non può conservare, acquisire, consolidare nulla. La politica, infatti, non è soltanto 'potere' (capacità di determinare l'agire altrui) e 'conformità sociale' (garanzia di ottemperanza) ma è anche, come ha chiarito Stoppino, 'scambio', ovvero collaborazione sociale ottenuta sempre in cambio di controprestazioni (mai eque e bilanciate, ma non per questo illusorie).Ciò ha due ricadute teoriche non trascurabili nell'analisi del mito politico. Innanzitutto consente di inserire la dimensione dello 'scambio' anche nella sfera simbolica, sottraendola a quell'immersione nell'irrazionale in cui la collocano analisi storiche e filosofiche di grande respiro, come quelle di Ernst Cassirer o di George L. Mosse.
È nota la battaglia neoilluministica e liberale del primo contro le ombre minacciose del mito. "La nostra scienza, la nostra poesia, la nostra arte, la nostra religione - si legge nel Mito dello Stato - non sono che una superiore mano di vernice sopra uno strato molto più antico, che arriva fino a una grande profondità. Il mondo della cultura umana può essere descritto con le parole della leggenda babilonese. Essa non poteva sorgere finché l'oscurità del mito non fosse combattuta e vinta. Ma i mostri mitici non erano interamente distrutti. Erano stati usati per la creazione di un nuovo universo e tuttora sopravvivono in questo universo. Le forze del mito erano contrastate e soggiogate da forze superiori. Finché queste forze intellettuali, etiche e artistiche sono in pieno vigore, il mito è domato e soggiogato. Ma non appena esse cominciano a perdere di vigoria, il caos ritorna. Allora il pensiero mitico riprende ad affermarsi e a pervadere tutta la vita culturale e sociale dell'uomo". Nel discorso cassireriano, il mito politico è l'infuso dello stregone al quale una comunità malata ricorre ogni volta che la scienza e la tecnica - fuor di metafora, il processo politico 'regolare' quale si svolge nel modello classico democratico-liberale - fanno bancarotta davanti a infezioni ramificate e incurabili (nel caso del corpo sociale, una grave crisi economica, sociale, culturale indotta anche da fattori esterni e incontrollabili) e non rimane altro rimedio per liberarsi dalla tensione accumulata e dal terrore della distruzione fisica.
Nei suoi numerosi saggi sul nazionalismo e sulla nazionalizzazione delle masse, Mosse, a sua volta, collega il mito politico a una dimensione non necessariamente patologica della politica - tant'è vero che ne auspica l'asservimento a una sorta di patriottismo dal volto umano -, dimensione che era stata trascurata dall'illuminismo. Quest'ultimo, secondo Mosse, "non si rese conto a sufficienza del bisogno dell'uomo di avere una fede, una credenza in una forza stabile ed eterna, sorda alle realtà esterne in continuo cambiamento, una forza che dovrebbe portare l'uomo a una vita migliore e più piena". Eppure, quanto più la società contemporanea si andava assoggettando a una complessità crescente e andava incontro a fratture storiche epocali causate da conflitti internazionali di inedita violenza, tanto più si sarebbe fatta imperiosa la sete di sicurezze per esorcizzare il "mondo minaccioso della modernità. Questo è, in parte, il contenuto di quello 'stato d'animo' che esprime una certa nostalgia per un mondo sano e felice, fatto di miti e di simboli tradizionali [...]. Il mondo intero doveva esaltare l'ordine e la simmetria [...]: la chiarezza della forma così in contrasto con quel caos che gli uomini avevano sempre temuto".
Sia Cassirer che Mosse, a ben riflettere, non parlano del mito politico come dimensione 'particolare' della politica (dimensione senz'altro importante, sebbene non unica né privilegiata), ma della politica stessa che, nei momenti di profonda crisi sociale, si risolve interamente in mito politico, costituendo in tal modo una dimensione sostitutiva, un surrogato delle religioni di salvezza. Rispetto alle analisi dei nemici dichiarati delle mitologie politiche - come Roland Barthes - Cassirer e Mosse non ritengono queste ultime meri inganni del potere, ma prodotti del fondo oscuro che è nell'uomo, sui quali i mitocrati dell'epoca delle masse costruiscono le loro fortune, vittime essi stessi di credenze, di terrori e di ansie che sono nell'aria.
Va rilevato, tuttavia, che nelle prospettive in esame il tema delle risorse simboliche finisce per trovarsi immerso nel regno delle ombre in cui soggiornano il mito politico e la comunità. L'immaginario politico viene considerato, in tal modo, oggettivamente rilevante nel mondo contemporaneo, ma non viene riconosciuto nel suo status di variabile indipendente che caratterizza la struttura politica in quanto tale, a prescindere dai tempi e dai luoghi in cui si svolge la competizione per il potere. Esso rappresenta 'l'uomo nero' che offre i suoi servigi quando i funzionari della ragione hanno tagliato la corda, oppure un incomprimibile Mister Hyde al quale un qualche spazio (non si sa bene quale) va pur riservato, per non correre il rischio che la vendetta del lungamente represso mandi in rovina l'edificio della civiltà.
Senonché, anche a prescindere dalla richiamata 'fruizione' dell'identità etico-sociale, c'è un aspetto del mito politico per cui esso rappresenta la trasfigurazione di quel precipitato 'istituzionale' dello scambio di risorse sociali che finisce per rendere tutti gli attori 'cointeressati' alle sorti della polis. Il fatto che appaia avvolto nel vago e nell'irreale va riportato, sostanzialmente, alla ragione per cui gli interessi della comunità politica, non essendo universalizzabili (almeno oltre certi limiti), si sottraggono, per principio, al vaglio della ragione. Non si argomenta sul destino: lo si accetta o lo si rifiuta. Ne consegue che, non essendoci avvocati della comunità, ma solo custodi e combattenti, il 'limite' del discorso comunitario finisce per apparire come segno della intrinseca 'irrazionalità' dell'oggetto.
Con questi rilievi, beninteso, non si vuole riscattare il mito politico da ogni imputazione cui è stato sottoposto in passato. Le ideologie, le risorse simboliche, il mito politico si presentano, in versioni forti o deboli, in ogni consorzio civile, ma un abisso separa il mito dell'Adamo americano dal mito ariano. Anche nel primo ci sono comunità (gli Americani sono un popolo 'a parte', e questa diversità va difesa contro tutti i tentativi di ritorno all'Europa), imprese da compiere (il 'destino manifesto', l'avanzata della frontiera...), elementi di drammatizzazione: ma il risultato finale è una proiezione illuministica. Il palladio da custodire gelosamente è una cornucopia di tutto ciò che la coscienza occidentale considera da sempre come 'cose buone': la libertà, l'eguaglianza, la dignità umana, la contestazione permanente del governo (si pensi, in proposito, alla brillante analisi di S.P. Huntington: v., 1982), l'orgoglio dell'indipendenza e dell'autarchia individuale. Nel mito ariano - è persino superfluo ricordarlo - la separatezza diviene ossessione di purezza razziale, l'impresa si traduce in saccheggio e sterminio, la drammatizzazione diviene consuetudine con la morte, il senso del destino trasforma gli uomini in ciechi strumenti.Nel primo caso, il mito politico presenta il volto rassicurante di una comunità alla quale tutti vorrebbero appartenere; nel secondo, s'identifica col ritorno puro e semplice alla barbarie (sia pure tecnologizzata). E non è tutto. C'è qualcosa, infatti, che induce a vedere un sovraccarico simbolico nella fattispecie regressiva, piuttosto che nell'altra: la prima sarebbe, in altre parole, più mito politico della seconda. È una percezione non infondata: il lager, in fondo, nasce dal 'racconto drammatico' del destino riservato alla razza tedesco-ariana.
Va rilevato, tuttavia, che non è il mito politico, in quanto tale, la causa della disumanizzazione dei rapporti sociali, quanto i contesti storici e ambientali concreti in cui si generano le ansie e le paure che minacciano l'integrità comunitaria. Il timore di sentirsi mancare il terreno sotto i piedi induce a evidenziare il mito politico che, nei momenti di tranquille transazioni liberaldemocratiche - quando non ci sono crisi sociali all'orizzonte, né i nemici minacciano le frontiere - arretra in secondo piano. Non a caso, Maurice Agulhon ha rilevato che i simboli-miti della Francia postrivoluzionaria diventano meno visibili ed emotivamente meno coinvolgenti negli anni della stabilizzazione del pluralismo liberale (l'età di Luigi Filippo, la Terza Repubblica, ecc.). Tuttavia, neppure in questo caso le comunità politiche - oggi rappresentate dagli Stati, ma domani anche da altre forme di aggregazione molto più estese e trasversali o molto più ristrette - rimangono meno distinte e caratterizzate da interessi meno 'oggettivamente' conflittuali. Il mito politico, per ricorrere all'abusatissima metafora, cova sempre sotto la cenere: la differenza e la particolarità sono il suo humus vitale. È al servizio della comunità di destino, ma non è lui ad averla creata (sono i modi di produzione, gli eserciti, ad aver pronunciato il fiat decisivo): quando i confini della prima muteranno, anche i suoi racconti assumeranno altre strutture narrative e diverse forme di drammatizzazione. In ogni caso, la sua funzione latente di principium individuationis è qualcosa che, come la differenza sessuale nella nota battuta inglese, ci porteremo dietro ancora per diversi secoli.
Resta una fattispecie 'irrazionale'? Dipende dal significato conferito al termine. Se irrazionale significa qualcosa che potrebbe essere diversamente se gli uomini, avvalendosi della loro ragionevolezza e del loro buon senso, si decidessero a cambiare, il mito politico non ha nulla di irrazionale, come non hanno nulla di irrazionale i fatti naturali che si sottraggono al nostro potere. Se l'aggettivo-sostantivo si riferisce, invece, al mondo come dovrebbe essere, se il suo Creatore fosse stato più benigno e lungimirante, il mito politico è decisamente irrazionale. Ma assieme a tante altre cose che stanno tra cielo e terra.
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