POLITICA INTERNAZIONALE
La p.i., come disciplina di studio, ha per oggetto il complesso delle relazioni e le risultanti dell'interazione tra stati o gruppi di stati. Così intesa, va distinta sia dalla politica estera, il cui oggetto sono gli obiettivi che ciascuno stato si prefigge rispetto agli altri e per la cui trattazione si rimanda alle voci dei singoli stati; sia dalle relazioni internazionali, che comprendono l'operato non solo degli stati ma anche di attori non governativi e transnazionali. Gli attori della p.i. sono dunque gli stati, membri di quella che H. Bull ha definito la "società anarchica": i moderni stati nazionali (o plurinazionali) formano infatti una società perché accettano alcune regole di coesistenza, che risultano in una certa misura di ordine internazionale. Ma tale società è anarchica, perché formata da unità sovrane sia internamente (in quanto hanno supremazia su tutte le altre forme di autorità sul proprio territorio) sia esternamente (in quanto non riconoscono alcun'altra autorità al di sopra della propria nell'ambito della società internazionale). Entro questi parametri, e prendendo in considerazione il periodo dal secondo dopoguerra a oggi, si riscontra un cambiamento sostanziale nel significato e nel ruolo della sovranità nazionale degli stati; questi, da simbolo d'indipendenza per antonomasia, sono diventati sempre di più le unità di riferimento per misurare il grado d'interdipendenza nel mondo.
Il periodo preso in esame ha inizio alla fine degli anni Quaranta. Con il consolidarsi del nuovo assetto geopolitico internazionale conseguente alla seconda guerra mondiale, ha infatti inizio quella che l'autorevole commentatore politico statunitense W. Lippmann battezzò la "guerra fredda" tra i due raggruppamenti di stati attorno a USA e URSS, segnata dalla divisione territoriale e dalla contrapposizione ideologica e strategica dell'Europa postbellica destinata a riflettersi a livello mondiale. Dopo le rivoluzioni in Europa orientale nel 1989, la riunificazione tedesca del 1990, e la disgregazione dell'URSS nel 1991, quell'assetto è definitivamente tramontato, e nel 1992 ha avuto inizio lo sviluppo di un altro assetto, radicalmente nuovo e non ancora definito.
La fine degli anni Quaranta è una data di partenza conveniente non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello dello studio scientifico dei rapporti tra gli stati. Iniziò infatti allora una nuova era nello studio della p.i., che si staccava decisamente dalla storia diplomatica per diventare disciplina a sé, cercando generalizzazioni e spiegazioni del comportamento ricorrente degli attori in base alle loro motivazioni e ai risultanti schemi d'interazione. Si deve ad H. Morgenthau il maggior contributo a questo tipo di analisi e alla sua scuola di pensiero cosiddetta ''realista'' (con accezione del termine connessa al concetto di Realpolitik bismarckiana, per cui tutta la politica è lotta per il potere), che ha influenzato tutti gli studi successivi. Altri studiosi hanno enfatizzato aspetti diversi e sviluppato altre teorie, generalmente più particolari, come quelle riguardanti i meccanismi del neocolonialismo, della corsa agli armamenti o del comportamento dei vertici decisionali in situazioni di crisi. Il risultato di queste elaborazioni è stato una sistematizzazione dello studio della p.i. come disciplina scientifica. Non se ne tratta a livello teorico in questa sede, ma l'analisi che segue si basa sulle fondamenta della teoria della p.i. così come si è sviluppata dopo il 1945.
Continuità e cambiamento del sistema internazionale dopo la seconda guerra mondiale. - Gli sconvolgimenti bellici del 1939-45 provocarono la fine di tutti gli equilibri geopolitici precedenti in Europa, Africa, Asia e Oceania; l'unico continente che ne rimase relativamente immune fu l'America, sia perché non fu teatro di combattimenti, sia perché, a parte Stati Uniti e Canada, gli stati americani furono coinvolti solo marginalmente nel conflitto mondiale. Il nuovo ordine internazionale che ne emerse fu quasi una ratifica dello statu quo militare al momento della fine delle ostilità. In questo nuovo ordine, il principale elemento di continuità con il precedente era sicuramente il nazionalismo. Lo stato-nazione si confermava infatti come l'attore fondamentale della p.i.: con gli imperi europei, anche le alleanze belliche che avevano forzatamente comportato, in forme diverse, una diluizione di alcuni aspetti della sovranità nazionale di molti dei principali stati, si disgregarono rapidamente.
Accanto al riaffermarsi dello stato-nazione, tuttavia, si registrarono negli anni immediatamente successivi alla guerra anche nuove spinte aggregative, che si sarebbero rinforzate nel corso dei decenni. Tra gli stati dell'Occidente (inteso in senso geopolitico, come comprendente Europa occidentale, Nord America e Giappone) tre fattori contribuirono a consolidare una nuova coscienza internazionalistica e conseguentemente ad avviare processi integrativi: in primo luogo, la presenza di una comune minaccia ideologica e militare, rappresentata dall'Unione Sovietica; secondo, la presa di coscienza, prima di tutto in Francia e in Germania, tanto più sorprendente in quanto avveniva solo pochi anni dopo la fine della prima guerra totale tra quei due paesi, che le divisioni nazionalistiche erano state tra le principali cause di guerra in passato; e, infine, il consolidarsi della presenza statunitense in Europa, conseguenza del fatto che, contrariamente a quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, gli USA avevano deciso che un diretto coinvolgimento negli affari geopolitici del continente europeo (come pure in quelli dell'Estremo Oriente) sarebbe stato necessario sine die, anche in tempo di pace.
In Europa orientale, invece, l'unico ma potentissimo fattore integrativo fu costituito dall'egemonia e dall'occupazione militare dell'Unione Sovietica. Nel nome di una presunta solidarietà socialista internazionale tra e con i regimi leninisti installati dall'Armata Rossa, l'URSS impose di fatto ai paesi della regione da una parte una serie di collegamenti economici e militari, da realizzarsi sia con Mosca che orizzontalmente tra i paesi collegati, e dall'altra un rigido autoisolazionismo politico, economico e culturale verso tutti i paesi terzi. Non è quindi un caso che, nei primi anni Novanta, dopo quarantacinque anni di forzata pseudoalleanza, appena esauritasi la potenza egemonica sovietica, sia risorto in alcune parti dell'Europa orientale un nazionalismo dai toni spiccatamente e pericolosamente prebellici, che tende a vedere nell'interdipendenza internazionale una forma di subordinazione a potenze straniere, contraria agli interessi nazionali.
Durante il periodo in esame, le maggiori spinte aggregative, pur così diverse, si svilupparono dunque soprattutto nel cosiddetto ''Nord'' del mondo (che comprendeva il ''Primo'' mondo liberal-capitalista e il ''Secondo'' mondo del socialismo reale sovietico). Il nazionalismo, e spesso il tribalismo, rimase invece assolutamente predominante nella maggior parte dei paesi del ''Sud'' del mondo (termine essenzialmente sinonimo di ''Terzo Mondo'', comprendente i paesi in via di sviluppo) e specialmente in quelli di nuova indipendenza, nati dalle ceneri degli imperi che gli europei (sia i vincitori che gli sconfitti nella guerra) non erano stati più in grado di sostenere e avevano quindi dovuto abbandonare. L'influenza egemonica di USA, URSS e degli stati ex imperiali europei, non produsse in questi paesi alcun momento integrativo, ma si limitò nella maggioranza dei casi a creare un rapporto di dipendenza bilaterale che, a seconda dei casi, si rivelò più o meno stabile e duraturo. Per qualche tempo, unica eccezione rilevante al processo qui delineato rimase la Cina. Dopo la Rivoluzione comunista del 1949, per circa dieci anni infatti la Repubblica Popolare Cinese fece parte integrante dell'alleanza filosovietica, salvo uscirne quando questa appartenenza le richiese di anteporre agli interessi politici nazionali quelli, sempre più divergenti, dell'URSS.
A fronte della continuità, rappresentata dagli stati-nazione più o meno integrati tra loro, quasi tutto il resto nella p.i. postbellica cambia. A fini analitici, si possono individuare come principali fattori di cambiamento i seguenti: 1) la perdita di peso politico, militare ed economico dell'Europa, senza precedenti nella storia moderna; 2) la nascita, sulle rovine del sistema di equilibrio di potere multipolare creato con il Congresso di Vienna del 1815, di un sistema internazionale bipolare, con due nuove superpotenze che sono in grado, politicamente, economicamente e militarmente, d'influenzare fortemente le scelte di tutti gli altri stati; 3) il ruolo centrale acquisito in politica dall'ideologia, e quindi il fatto che alle alleanze militari corrispondano divisioni di ordinamento politico, economico e sociale di stati allineati su posizioni tra loro ideologicamente incompatibili; 4) il fenomeno della decolonizzazione che ha fatto crescere enormemente il numero degli stati, e, in proporzione diretta, in base a qualsiasi unità di misura si voglia adottare, le disparità politiche ed economiche tra di essi; 5) la crescita in numero e in competenze delle organizzazioni internazionali; 6) il peso assolutamente primario assunto dallo sviluppo tecnologico, sia civile che militare, negli assetti di p.i.: in campo militare, lo sviluppo dell'arma nucleare ha infatti stravolto tutte le preesistenti concezioni sull'uso della forza e sulla misura della correlazione delle forze militari tra gli stati; e in campo civile, lo sviluppo e la sempre più capillare diffusione della tecnologia dell'informazione ha creato possibilità di comunicazione orizzontale senza precedenti tra stati e all'interno degli stati. Quest'ultimo è stato un fattore decisivo per il declino dell'ordine bipolare che si è verificato alla fine del periodo in esame. Tutti i fattori sin qui elencati hanno nel loro insieme contribuito a elevare il grado d'interdipendenza internazionale tra gli stati, come si è detto, soprattutto nel ''Nord'' del mondo. Anche questo è stato un fattore degenerativo dell'ordine bipolare.
La fine dell'eurocentrismo. - La novità epocale della p.i. nel periodo in esame è stata la fine dell'eurocentrismo politico, economico e militare, che aveva fino a quel momento caratterizzato la storia moderna. Le prime avvisaglie che l'incontrastata supremazia geopolitica europea si stava erodendo si erano già avute in precedenza, con la vittoria giapponese sulla Russia zarista nella guerra del 1905 e soprattutto con l'intervento decisivo degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. Successivamente, però, sia Stati Uniti che Giappone si erano limitati a consolidare la loro influenza a livello regionale: nel continente americano e in parte nel Pacifico i primi, in Asia orientale il secondo. Nel periodo fra le due guerre l'Europa riacquistò nel frattempo una completa centralità nella politica globale.
La fine della seconda guerra mondiale, invece, trovò tutte le tradizionali grandi potenze europee economicamente e militarmente stremate, e costrette quindi a una graduale ma inarrestabile e generale ritirata dalle loro zone d'influenza sia al di fuori che all'interno del continente europeo. La Germania aveva già dovuto farlo a seguito della prima guerra mondiale. L'Italia dovette formalmente lasciare le proprie colonie, già perse durante la guerra, nel 1945. Il Regno Unito iniziò nel 1947 una ritirata relativamente pacifica dall'India e successivamente da quasi tutti gli altri possedimenti imperiali in Asia, Africa e America Centrale. Più cruenta fu invece la ritirata della Francia, che cercò invano per circa quindici anni di resistere militarmente alle pressioni indipendentistiche in Asia sud-orientale e in Africa settentrionale. Alla metà degli anni Settanta anche Spagna e Portogallo avevano lasciato le loro ultime colonie africane.
Al ritiro coloniale corrispose una drastica diminuzione dell'influenza degli stati europei nella politica internazionale. Nel caso dei paesi sconfitti e dei paesi coloniali minori, tra cui l'Italia, questa fu per molti anni pressoché totale. Rimase invece un margine d'influenza per Francia e Regno Unito, soprattutto nell'Africa subsahariana e nella regione del Pacifico meridionale, ma del tutto subordinata all'emergere delle due nuove superpotenze globali.
Il bipolarismo. - Dopo il 1945, la supremazia economica e militare degli Stati Uniti, unici possessori dell'arma nucleare e le cui città e industrie erano state le uniche a rimanere indenni da danni bellici, diventò una realtà permanente della politica internazionale. Agli USA si contrapponeva l'Unione Sovietica, economicamente prostrata ma militarmente forte, per il fatto di aver occupato metà Europa nel corso dell'offensiva finale contro il Terzo Reich. Al precedente sistema di equilibrio multipolare di potere tra le maggiori potenze europee, nel 1945 subentra quindi il duopolio di USA e URSS. L'Europa rimane il baricentro geopolitico del mondo, ma gli europei assumono un ruolo di subordine rispetto alle decisioni prese a Washington e a Mosca, ciascuna egemone nella rispettiva sfera d'influenza e ciascuna caratterizzata da tale chiusura reciproca che per esse viene universalmente adottato il termine di ''blocco''. La divisione in blocchi prescinde anche dalle unità statali: la Germania viene divisa, prima (nel 1945) in quattro settori di occupazione, e poi (nel 1949) in due stati, uno occupato dalle potenze vincitrici dell'Occidente e uno annesso al blocco sovietico. Questa non sarebbe rimasta peraltro una situazione unica: anche il Vietnam (fino al 1975) e la Corea (a tutt'oggi) saranno divisi dal confine tra i due blocchi. L'Europa rimane l'area più densamente armata del mondo, ma la stragrande maggioranza delle armi ivi dislocate sono statunitensi e sovietiche. L'Europa è di fatto diventata un'espressione geografica, sulle cui rovine si combatte la ''guerra fredda'' tra i due blocchi, la cui linea del fronte è demarcata da quella che W. Churchill definì la ''cortina di ferro'', una ''cortina'' che, dall'Adriatico al Baltico, troncava a metà il continente e segnava il confine tra le sfere di sicurezza delle due nuove superpotenze mondiali.
Nata in Europa, la divisione del mondo in due blocchi presto assunse contorni più preoccupanti in Asia, dove, con la vittoria dei comunisti nella guerra civile cinese, nacque tra Mosca e Pechino nel 1949 una portentosa alleanza, che per un decennio fece pensare a un'unione di tipo nuovo, basata non su una pragmatica coincidenza o sinergia tra interessi nazionali ma su un comune progetto ideologico di rivoluzione mondiale. Con lo scisma tra i due giganti comunisti, consumatosi nel 1959-60, ma non percepito subito come tale in Occidente, questi timori si rivelarono infondati, e le relazioni tra i due giganti comunisti ritornarono sui binari tradizionali della p.i., e cioè a imperniarsi sulla lotta per il potere, sia in ambito geografico (soprattutto in Asia meridionale e sud-orientale, ma anche in Africa e in America latina) sia nel nuovo, e allora importantissimo, ambito ideologico (all'interno del movimento comunista internazionale).
Ruolo dell'ideologia. - Contestualmente al nascere dell'ordine bipolare, un'altra novità della p.i. del dopoguerra è stata l'assurgere dell'ideologia a fattore primario del conflitto politico internazionale. Questo è accaduto prima di tutto in Europa, dove l'ideologia divenne l'arma più potente della guerra fredda. Non si vuole qui certo sostenere che, prima della contrapposizione tra comunismo e democrazia liberale, l'ideologia non avesse avuto un ruolo nei conflitti internazionali: ciò era infatti già avvenuto, in forme diverse, almeno dalla Rivoluzione francese in poi. È con la guerra fredda, tuttavia, che la contrapposizione ideologica per la prima volta assume un carattere al tempo stesso centrale e globale. All'inizio di questa fase fu l'Unione Sovietica che si servì meglio dell'arma ideologica, facendo presa su grandi masse dell'Europa occidentale con il proprio modello di società, di cui si esageravano i pregi, si minimizzavano i difetti e si nascondevano gli orrori. Per contro, i regimi dei paesi d'oltrecortina non consentivano alle proprie popolazioni, se non sporadicamente, di usufruire dell'informazione occidentale e di confrontarsi, se non surrettiziamente, con alternative ideologiche. Dal canto proprio, l'Occidente, al di là dell'appoggio retorico a un numero ristretto di dissidenti più in vista, non ritenne mai di rischiare un conflitto con l'URSS per difendere i diritti umani o i valori del proprio modello democratico. Successivamente, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, le parti s'invertirono: i sovietici divennero sempre meno credibili nel proporre un modello economico evidentemente fallimentare e un modello sociale solo apparentemente egualitario e sempre più illusorio. Viceversa, il modello occidentale di democrazia liberale, vincente sul piano economico, divenne, col tempo, anche più conosciuto e apprezzato, sia nella sfera d'influenza sovietica che nel Terzo Mondo.
Il conflitto ideologico tra Est e Ovest non si limitò alla sola Europa. Di riflesso, si estese prima in Asia e quindi in Africa e in America latina. I governi di molti stati di nuova indipendenza cercarono nella teoria marxista dell'economia pianificata un loro proprio modello di sviluppo che fosse il più rapido possibile, che permettesse di mantenere un controllo centralizzato delle risorse e che li svincolasse dal legame di dipendenza con l'Occidente capitalista ed ex colonialista. L'Unione Sovietica si adoperò attivamente, con un'intensa attività di propaganda accompagnata da assistenza militare, tecnica ed economica, per esportare il proprio modello allo scopo di espandere la propria sfera d'influenza sul piano globale. Gli USA, al contrario, adoperarono gli stessi mezzi allo scopo di contenere l'espansione ideologica del comunismo, sia per limitare l'influenza dell'avversario sovietico nel mondo, sia per favorire i propri interessi economici, spesso protetti da governi autoritari o militari di matrice conservatrice ma danneggiati da quelli, altrettanto autoritari, di matrice comunista.
Proliferazione degli attori. - Il bipolarismo, sia europeo che globale, non portò tuttavia a un consolidamento del sistema politico internazionale. Infatti, il numero degli attori statali all'esterno dei due blocchi crebbe enormemente e confusamente, soprattutto come conseguenza del ritiro europeo dai possedimenti coloniali (principalmente in Asia e Africa, ma anche in America latina e Oceania). Proliferavano gli stati, spesso abbandonati dagli Europei ex colonialisti a fragili governi locali, con molte etnie divise da confini artificiosi ricalcati sui limiti delle conquiste europee più che sulle realtà politiche locali. Alla crescita del numero degli attori, corrispose anche un'amplificazione del divario tra i più grandi e i più piccoli di essi. Prima del 1945 gli stati-nazione erano relativamente pochi e comparabili tra loro, nel senso che, con poche eccezioni, se non erano sempre simili, essi appartenevano quantomeno allo stesso ordine di grandezza per popolazione, reddito nazionale (lordo o pro capite), dimensione geografica, capacità militare, ecc. Concluso il ritiro degli europei dai propri imperi coloniali, il numero degli stati salì a più di 150, anche se per la maggior parte destinati a un ruolo pressoché irrilevante nella p. internazionale. Alla fine del colonialismo non corrispose infatti il ritiro politico o economico delle potenze ex coloniali. Decenni, o secoli, di sudditanza avevano creato una dipendenza strutturale di queste economie dai paesi che le avevano occupate e sviluppate ai fini che meglio si confacevano ai propri interessi. Agli eserciti coloniali subentrarono quindi le multinazionali delle materie prime, spesso chiamate dai governi neoindipendenti per valorizzare le risorse naturali, ma protette politicamente da quelli dei paesi ex coloniali.
Ciò diede vita a quello che fu chiamato il ''neocolonialismo''. In alcuni casi, come in quello della Francia verso le proprie ex colonie in Africa centrale, i nuovi governi richiesero, e ottennero, addirittura la permanenza delle forze armate ex occupanti, al duplice scopo di garantire la sicurezza interna dei neonati governi e di proteggerli da aggressioni esterne, contro le quali erano ovviamente impreparati a difendersi. Alla persistente presenza europea sotto forma neocoloniale si aggiungeva poi, come si è detto, quella delle superpotenze (soprattutto militare quella sovietica, anche economica quella statunitense) che comportava l'estendersi della guerra fredda, in corso tra di loro, seppure in forme diverse, in Asia, Africa e America latina.
Le organizzazioni internazionali. - Altro aspetto significativo dell'assetto geopolitico postbellico è stato la crescita, in numero, competenze e peso politico, delle organizzazioni internazionali e dei raggruppamenti e alleanze economiche e militari. Fino alla seconda guerra mondiale, le alleanze militari erano state sempre strutturalmente piuttosto labili, prevedendo una coordinazione poco pianificata e soggetta ad ampi margini di manovra nazionale nei momenti di crisi. Inoltre, non era mai stata creata un'alleanza che prevedesse una misura d'integrazione militare tra i paesi membri, per non parlare di comandi unificati, standardizzazione di armamenti, dottrina e procedure operative, e cooperazione nella produzione dell'industria bellica in tempo di pace. Sul piano economico, mai prima di allora si era dato corso ad alleanze tra stati con fini di coordinamento di politica economica o con obiettivi d'integrazione e di delega di prerogative sovrane a organismi sovranazionali. Tutto ciò ha caratterizzato invece, se pur in misura variabile, le alleanze militari e le comunità politiche ed economiche del periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
A livello globale, quella che nella seconda guerra mondiale era stata l'Alleanza bellica contro le potenze dell'Asse si trasformò nel 1945 nell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che ebbe il compito di riprendere il lavoro, su scala mondiale, laddove la Società delle Nazioni aveva fallito, cioè il tentativo d'instaurare un ordine internazionale basato sul rispetto del diritto sia nelle relazioni tra gli stati sia, e questa era una novità della Carta dell'ONU, all'interno di essi. All'ONU non veniva comunque attribuito alcun potere sovranazionale, e nei decenni successivi la sua partecipazione nella p.i. restò quasi sempre secondaria, repressa dalla competizione bipolare che paralizzava il lavoro del suo Consiglio di Sicurezza, organismo esecutivo in cui il diritto di veto era ristretto alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e dal quale dipendevano le decisioni operative per perfezionare definitivamente le risoluzioni di principio dell'Assemblea Generale. Fino a che il mondo è rimasto diviso in due blocchi, ogni disputa vedeva inevitabilmente le due superpotenze schierate su posizioni contrapposte nel Consiglio: e la prevista possibilità di esercitare il diritto di veto consentiva a ciascuna delle due di bloccare inevitabilmente il raggiungimento del necessario mandato. Più utili, in quanto meno direttamente coinvolte nella dimensione politica, sono state le organizzazioni specializzate dell'ONU, create per rispondere all'esigenza di relazioni internazionali che, nei campi dell'economia, della tecnologia, della cultura, diventavano sempre più articolate. Tra le principali, si ricordano l'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione (Food and Agricultural Organization, FAO) con sede a Roma, quella per l'Istruzione, la Scienza e la Cultura (United Nations Education, Science and Culture Organization, UNESCO) con sede a Parigi, l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA) con sede a Vienna.
In alcuni casi, ancora più incisive sono risultate le iniziative volte a creare organizzazioni internazionali a livello regionale. Come accennato sopra, la principale novità in questo campo è stata la formazione di alleanze politico-militari regolate da trattati multilaterali, complessi e dettagliati, quali non si erano mai realizzati in precedenza. Sul piano militare, gli europei occidentali, con gli Stati Uniti e il Canada, nel 1949 diedero vita all'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic Treaty Organization, NATO), nella quale tutti gli stati membri sottoscrissero l'impegno a considerare automaticamente un attacco contro uno di loro come un attacco contro tutti gli altri. La struttura militare della NATO prevede infatti: meccanismi di consultazione permanente, sia politica che militare; comandi unificati sovranazionali in caso di guerra; forze armate militarmente più integrate di quanto non lo fossero mai state in alleanze passate. Con la fine della guerra fredda, all'inizio degli anni Novanta, la NATO sta attraversando una fase di ridefinizione del proprio ruolo nel contesto della p. internazionale. Nel dicembre del 1991, gli stati ex membri del Patto di Varsavia (v. oltre) sono stati invitati ad aderire al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico, un organismo consultivo creato per favorire e sviluppare un vasto programma di collaborazione, a carattere interdisciplinare, in materia di sicurezza intesa in senso lato. Alcuni di questi stati hanno successivamente chiesto di aderire alla NATO a pieno titolo.
All'integrazione della Germania occidentale nella struttura militare della NATO nel 1954 i sovietici risposero con la creazione dell'Organizzazione del Patto di Varsavia. Il Patto, come la NATO, prevedeva un'integrazione militare, consultazioni politiche e un impegno alla difesa reciproca tra URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania (che però ne uscì di fatto nel 1961 e formalmente nel 1968). A differenza di quanto avveniva nella NATO, i sovietici imposero una quasi totale standardizzazione degli equipaggiamenti, della dottrina e delle strategie e procedure militari sul modello sovietico, anche attraverso accordi di sicurezza bilaterali tra URSS e ciascuno dei paesi cosiddetti ''satelliti''. Il Patto in quanto tale serviva sempre più come sola copertura politica per dare una parvenza di pariteticità e collettività decisionale tra gli stati membri alle prese di posizione verso la NATO o verso gli stessi membri (per es., nel 1968 Mosca fece nominalmente decidere al Patto d'invadere la Cecoslovacchia). Con l'impossibilità da parte dei sovietici di mantenere l'egemonia sul blocco orientale, il Patto si poteva già considerare militarmente irrilevante nel 1990, quando ne uscì la dissolvenda Repubblica Democratica Tedesca, che ne era stata il bastione militare verso occidente. Dopo pochi mesi l'URSS accettò di evacuare le proprie truppe da tutti gli altri paesi membri entro il 1994 e il 1° aprile del 1991 il Patto di Varsavia venne formalmente sciolto.
Anche sul piano politico ed economico si registrò un'iniziativa di aggregazione internazionale senza precedenti storici. Alcuni stati europei occidentali (Italia, Francia, Germania federale, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) concordarono già dal 1951 d'istituire una Comunità Europea per il Carbone e l'Acciaio (CECA), primo esempio di stati membri deleganti a un'organizzazione internazionale (che, in questo caso, si può definire tendenzialmente sovranazionale) poteri d'interferenza nelle proprie scelte di politica economica interna riguardo alle due fondamentali materie prime, il controllo delle quali era stato una delle cause delle passate guerre in Europa. Dopo il fallimento, nel 1954, del progetto di Comunità Europea per la Difesa (CED) a causa della mancata ratifica del Parlamento francese, alla CECA seguirono, con fini analoghi, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l'Energia Atomica (EURATOM) create con i Trattati di Roma del 1957. Ai sei stati originari si aggiunsero intanto, in ordine cronologico, Regno Unito, Irlanda, Danimarca (nel 1973); Grecia (nel 1981); Spagna e Portogallo (nel 1986). Il processo continuò con fasi alterne fino all'adozione, nel 1986, dell'Atto Unico, premessa giuridica e politica sia per la completa eliminazione delle frontiere economiche nel corso degli anni Novanta, sia per l'avviamento dell'unione politica (si formalizzava nell'Atto la creazione di un organismo competente per la politica estera comune, la Cooperazione Politica Europea o CPE), che era sempre stato il fine ultimo della Comunità, anche se per molti anni considerato poco più che un'utopia. Al processo integrativo venne impartita un'ulteriore accelerazione con il Trattato di Maastricht, firmato nel dicembre del 1991 ed entrato formalmente in vigore il 1° novembre 1993, che stabilisce l'Unione Europea. Il trattato impegna gli stati membri: a coordinare le proprie politiche estere per ottenere una politica estera e di sicurezza comune (includendo in ciò, nel più lungo termine, una difesa comune); a coordinare il lavoro delle proprie forze di polizia; ad armonizzare una vasta gamma di legislazione, compresa quella riguardante l'immigrazione; e infine, entro la fine del 20° secolo, a creare una moneta unica.
L'Unione Sovietica, nella propria sfera imperiale, aveva provveduto già dal 1949 a creare il Consiglio di Mutua Assistenza Economica (COMECON), comprendente, oltre all'URSS, l'Albania (che però ne uscì nel 1961), la Polonia, la Cecoslovacchia, la Bulgaria, l'Ungheria, la Romania e la Germania orientale, cui poi si sarebbero aggiunti anche Mongolia, Cuba e Vietnam. Per quanto costituisse anch'esso un'organizzazione relativamente integrata se paragonata a qualsiasi esperienza pre-bellica, il COMECON differiva dalla Comunità in molti aspetti essenziali. In primo luogo si poneva fini esclusivamente economici, non avendo neanche come obiettivo di lungo termine l'unione politica. Inoltre, il COMECON doveva provvedere a regolare gli scambi tra i paesi socialisti sulla base non tanto di apertura commerciale e vantaggi comparati ma di quello che veniva chiamato ''aiuto fraterno'', il che significava una pianificazione centralizzata, in parte a livello bilaterale e in parte dall'URSS, di tutti gli scambi. All'inizio, questo voleva dire che Mosca poteva decidere arbitrariamente lo spostamento e l'allocazione di risorse all'interno del blocco, allo scopo di sviluppare le economie pianificate di tipo sovietico nella regione. In seguito divenne un metodo per sostenere e proteggere le economie più inefficienti con le risorse di quelle più forti. Questa distorsione commerciale degli scambi venne anche usata come strumento dei sovietici per sovvenzionare le economie più deboli con esportazioni agevolate di materie prime e importazioni, a prezzi artificialmente alti, di beni di qualità scadente che non avrebbero potuto essere piazzati sul mercato internazionale. L'URSS sovvenzionava i paesi del blocco per mantenere coesione, stabilità sociale e legittimità politica per i regimi che l'Armata Rossa aveva installato con la forza in Europa orientale. Queste differenze fanno classificare il COMECON come un'organizzazione di tipo essenzialmente amministrativo data la gestione imperiale dell'URSS, mentre gli altri stati membri non ne condividevano né gli scopi né i metodi. Il suo fine è stato essenzialmente politico: contribuire a controllare la sovietizzazione delle economie dei paesi membri. Sul finire degli anni Ottanta, tutti questi stati, compresa l'URSS, erano d'accordo sul fatto che il modus operandi tradizionale del COMECON non era più accettabile, e ne chiesero la riforma. L'adozione dell'economia di mercato, però, comportò nel 1991 il definitivo abbandono del Consiglio, con essa incompatibile, e l'orientamento dei membri verso più stretti legami con l'Unione Europea.
A livello paneuropeo, l'iniziativa che più ha contraddistinto l'evoluzione della p.i. è stata, nei primi anni Settanta, la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), un foro di dibattito politico permanente tra tutti i paesi europei (esclusa per lungo tempo la sola Albania, che vi accedette solo nel 1991) più USA e Canada, poi denominato ''processo di Helsinki'', dal nome della capitale dove avevano avuto luogo i primi negoziati. Un primo risultato si ebbe con la firma dell'Atto Finale della conferenza dei capi di stato e di governo di Helsinki, nel 1975, in cui si stabilirono i capisaldi della distensione tra Est e Ovest in materia di sicurezza, economia e diritti umani, che costituivano i tre ''cesti'' su cui si era imperniata la trattativa. Scopo dei sovietici, che per primi avevano promosso la CSCE alla fine degli anni Sessanta, era quello di veder indirettamente riconosciuta la loro posizione egemonica in Europa orientale con l'impegno degli occidentali a intavolare trattative sul controllo degli armamenti e sulla cooperazione economica senza pregiudiziali politiche. Gli scopi dell'Occidente erano molto diversi: in primo luogo, legittimare e consolidare la presenza politica e militare degli USA in Europa, in un momento in cui a Washington, dopo la disfatta in Vietnam, si rafforzava il partito neo-isolazionista; quindi, mettere sul tavolo la questione dei diritti umani nel blocco sovietico; in particolare, gli USA usarono la CSCE per stabilire un legame politico tra il progresso sovietico in questo campo e l'allargamento della cooperazione economica e tecnologica. Alla firma dell'Atto Finale seguirono periodiche conferenze di rassegna, durante le quali si ripropose invariabilmente il dissidio tra i due blocchi, con l'Occidente che contestava all'Est la mancata applicazione dei diritti umani (terzo ''cesto'') e l'Est che protestava, in particolare contro gli Stati Uniti, per la mancata applicazione dell'accordo di collaborazione economica e tecnologica (secondo ''cesto''). In materia di sicurezza (primo ''cesto''), il progresso verso la riduzione degli armamenti era ostacolato da una parte dalla rigidità negoziale e dall'ossessiva segretezza dell'Est, che non permetteva neanche di sapere esattamente quali e quanti fossero gli spiegamenti di forze sovietiche in Europa; dall'altra dalla mancanza di volontà politica in Occidente di spingere in vista di riduzioni che avrebbero potuto portare a un eccessivo ridimensionamento della presenza militare statunitense in Europa, che invece gli europei della NATO volevano mantenere.
Questo stallo negoziale si sarebbe sbloccato sul finire del periodo qui in esame: a partire dal 1990, da una parte l'Est in via di democratizzazione non poteva più essere accusato (se non in alcuni casi residui) delle plateali violazioni dei diritti umani di cui era responsabile l'URSS; dall'altra, in Occidente, non solo non si dibatteva più sull'opportunità di aprire commerci ed esportazioni di tecnologie civili all'Est, ma anzi ci si preoccupava di far giungere a quei paesi aiuti concreti al fine di favorire il recupero delle collassate economie ex pianificate, che si aprivano al mercato e all'iniziativa privata, prima che l'impoverimento progressivo causasse danni sociali catastrofici. Inoltre, pressanti problemi demografici e di bilancio spingevano un po' tutte le parti a ridurre le spese militari. Infine, una sostanziale riduzione della presenza militare statunitense in Europa occidentale appariva ormai inevitabile alla luce dell'imminente totale ritiro sovietico da quella orientale. Se a ciò si aggiunge che la nuova politica sovietica di glasnost' ("trasparenza") permetteva per la prima volta di avere una chiara cognizione delle forze militari sovietiche in campo, non sorprende che le due alleanze abbiano potuto trovare un accordo per iniziare il processo di riduzione degli armamenti. Già nel 1987 USA e URSS si accordarono sul totale ritiro dei missili nucleari a media gittata dall'Europa. Il vertice dei capi di stato e di governo di Parigi (novembre 1990), suggellò il nuovo assetto europeo con la firma del trattato CFE (Conventional Forces in Europe) per una riduzione sostanziale degli armamenti convenzionali in Europa, e di una più ampia ''Carta'' di mutua assistenza e cooperazione tra i paesi partecipanti.
Il ruolo della tecnologia. - L'ultimo e innovante elemento della p.i. del dopoguerra è stato il portentoso sviluppo tecnologico, sia sul piano militare sia su quello civile. Il livello raggiunto dalla competizione tecnologica militare ha stravolto ogni misura di correlazione delle forze fino allora impiegata per calcolare il potere militare relativo degli stati. In particolare, l'arma nucleare, specialmente dopo che negli anni Cinquanta era diventata testata di missili balistici intercontinentali, pose fine, almeno tra le maggiori potenze, alla guerra di tipo clausewitziano. Come K. von Clausewitz aveva teorizzato nel 19° secolo, la guerra era stata sempre uno strumento da utilizzare a fini politici, al pari della diplomazia e dell'influenza economica. Invece, con l'avvento di quella che B. Brodie appropriatamente ha definito l'arma "assoluta", in grado non solo e non tanto di vincere sul campo ma di annichilare intere città, la guerra ha perduto questa funzione, almeno per quanto concerne le grandi potenze che ne dispongono.
Nel lessico strategico diviene invece fondamentale il concetto di ''deterrenza'', per cui le armi nucleari servono principalmente, se non esclusivamente, a scoraggiare l'uso delle proprie da parte dell'avversario; una volta usate da una sola delle parti, infatti, lo scopo delle armi risulta fallito per entrambe. Da ciò trae valore essenziale il concetto di ''stabilità strategica'' che le armi devono poter fornire e che è più importante della loro potenza distruttiva, dell'affidabilità tecnica e della quantità disponibile. In questo nuovo contesto tecnologico, la stabilità strategica è definita come l'eliminazione dei vantaggi che ciascuna parte potrebbe trarre dal fatto di colpire per prima nell'eventualità di una crisi. Quindi diventa essenziale che potenziali potenze nucleari siano in condizione non tanto di usare per prime o più efficacemente le proprie armi nucleari l'una contro l'altra, quanto di poter replicare a un eventuale loro primo uso nemico in ogni possibile circostanza. In altre parole, i vertici decisionali delle due (o più) parti contrapposte devono convincersi di non avere alcun interesse a effettuare per prime un'escalation nucleare, anche se ciò dovesse significare assorbire il primo colpo della parte avversa. Sapendo questo, nessuna delle parti, in una crisi in cui la tensione politica sia alta, troverebbe utile colpire per prima, in quanto questo non potrebbe comunque prevenire una risposta della parte attaccata. La ricerca di questo tipo di stabilità, all'interno di quello che A. Wohlstetter definì "l'equilibrio del terrore" (ma che, più propriamente, T. Schelling chiamò "l'equilibrio della prudenza") ha costituito la sfida principale degli strateghi del dopoguerra.
In campo civile, va notato il ruolo della tecnologia dell'informazione nella p. internazionale. La diffusione dei transistor prima, di fotocopiatrici ed elaboratori elettronici personali dopo, ha reso enormemente più difficile, per i regimi che avessero interesse a farlo, nascondere o distorcere la realtà allo scopo di meglio controllare la società.
Tutto ciò è, grosso modo, il contrario di quello che aveva previsto G. Orwell quando, agli albori della guerra fredda e del periodo qui in esame, aveva scritto del pericolo che lo svilupparsi e il diffondersi della tecnologia dell'informazione avrebbe costituito per la democrazia. Questa tecnologia, ipotizzava Orwell, avrebbe messo in condizione i regimi totalitari di controllare le proprie società così capillarmente da non tralasciare neanche le sfere più intime della vita privata della persona. Questa capacità avrebbe permesso a quei regimi di prevalere sulle democrazie, non organizzate a fare questo e perciò meno efficienti nell'incanalare le energie nazionali verso i fini di politica di potenza stabiliti dal potere politico.
Lo sviluppo e la diffusione della tecnologia dell'informazione sono in realtà avvenuti in termini sorprendentemente simili a quelli previsti da Orwell negli anni Quaranta. Ma, contrariamente ai suoi timori, sono state le democrazie ad avvantaggiarsene. È vero che i regimi autoritari per decenni hanno potuto utilizzare meglio le tecnologie informatiche a fini di propaganda sia sul piano interno sia su quello internazionale, per es. facendo appello diretto alle popolazioni degli stati democratici senza far filtrare altrettanto l'informazione di questi verso le proprie. Ma questo vantaggio si è rivelato effimero quando alla diffusione capillare della tecnologia dell'informazione ha corrisposto quella della comunicazione orizzontale, per cui non solo i governi e i regimi autoritari, ma anche gruppi di dimensioni più ridotte e persino singole persone vi hanno avuto accesso facile ed economico. Alla fine del periodo in esame, contrariamente a quanto temuto da Orwell, il potere centralizzato risulta sempre più impotente di fronte al dilagare della capacità degli individui di sapere, di comunicare e quindi di decidere. Anche i regimi più centralizzati, negli anni Novanta, non possono più controllare l'immane mole d'informazione libera che circola tramite i moderni media.
Interdipendenza internazionale. - Lo sviluppo delle tecnologie civili e di quella militare appena descritte, assieme all'aumento del numero di attori statali e al consolidamento delle organizzazioni internazionali, sono stati tutti fattori che hanno contribuito a produrre una crescente interdipendenza nella società internazionale, prima di tutto tra paesi alleati, con valori e sistemi sociali comuni, e quindi anche tra avversari politici. Questa interdipendenza si è rivelata da una parte inevitabile, dall'altra molto utile. Si è cioè affermata una nuova concezione della p.i., non più vista come gioco a ''somma zero'', in cui i vantaggi acquisiti da uno degli attori equivalgono, per definizione, a quelli persi da uno o più degli altri; o addirittura a ''somma negativa'', dove i vantaggi di una parte sono inferiori agli svantaggi procurati alle altre. Al contrario, nel periodo qui in esame si è diffusa, se pur in modo non uniforme e non lineare, la presa di coscienza che le problematiche internazionali della seconda metà del 20° secolo richiedono un'azione internazionale congiunta per ottenere indispensabili effetti sinergici; impongono cioè di vedere la p.i. come gioco a ''somma positiva'', in cui i benefici di una parte non solo non sono incompatibili con quelli delle altre, ma anzi possono essere favoriti da appropriate sinergie. Nei paragrafi che seguono s'indicherà brevemente come questa azione comune si sia concretizzata.
In campo militare, l'interdipendenza nella sicurezza internazionale è diventata inevitabile con l'introduzione delle armi nucleari negli arsenali. Fino al 1945 ciascuno stato o alleanza poteva pensare di provvedere ai propri interessi militari unilateralmente, a scopi sia offensivi che difensivi; l'unico requisito era quello di dotarsi di una forza armata adeguata agli scopi che ci si prefiggeva di raggiungere. Con l'avvento dell'arma nucleare, invece, si è presto verificata da una parte l'impossibilità pressoché assoluta di proteggere città e industrie da un attacco nemico, dall'altra, come conseguenza, l'inutilità di tali armi per usi militari tradizionali come conquistare o difendere un territorio. Quindi l'obiettivo della sicurezza diventa raggiungibile non più impedendo, ma solamente scoraggiando un eventuale attacco, cioè dimostrando credibilmente di poter rispondere con una forza parimenti devastante a un'eventuale offesa. Di qui l'importanza di avere un arsenale sufficiente a far sì che, dopo un primo attacco nucleare nemico, per quanto efficace, la parte attaccata possa essere in grado di rispondere con forze sufficienti a infliggere danni inaccettabili all'attaccante; in questo modo, si realizzerebbe una condizione strategica di "Mutua Distruzione Assicurata" (Mutual Assured Destruction, MAD), come la chiamò il ministro della Difesa statunitense R. S. McNamara negli anni Sessanta, nella quale nessuna delle parti potrebbe avere alcun interesse a lanciare un attacco contro l'altra.
Questo criterio d'interdipendenza non è stato universalmente accettato, e in particolare è stato messo in questione dall'una e dall'altra parte: sia cioè da chi sosteneva la necessità di ricercare la superiorità militare in campo nucleare, così come si era sempre fatto con le armi convenzionali prima dell'avvento delle armi nucleari; sia da chi sosteneva l'auspicabilità di sviluppare una capacità difensiva contro di esse. In particolare, la scelta di abbandonare, in quanto futile e destabilizzante, il perseguimento della difesa antinucleare ha incontrato, sia in USA che in URSS, fortissime resistenze, a livello politico, intellettuale e militare, prima di essere ufficialmente accettata come necessaria (alla fine degli anni Sessanta) e resa operativa nelle dotazioni degli arsenali e nelle dottrine militari delle due superpotenze. Con la firma del trattato ABM (Anti-Ballistic Missile) nel 1972 USA e URSS codificavano la reciproca vulnerabilità nucleare sine die. Anche dopo di ciò si sono tuttavia verificati rigurgiti di velleità unilateralistiche e difensivistiche, che cercando di eludere l'interdipendenza obbligata dalla mutua vulnerabilità nucleare, hanno perseguito il miraggio della difesa contro l'arma assoluta: l'Iniziativa di Difesa Strategica (SDI) statunitense degli anni Ottanta è stata l'ultima manifestazione di questa corrente di pensiero. Più in generale, espressione di queste resistenze è stata la cosiddetta ''corsa agli armamenti nucleari'', sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, con cui le due superpotenze hanno cercato, invano, di acquistare un vantaggio significativo sull'altra. A questa corsa non si sono associate, soprattutto per mancanza di disponibilità economiche, le altre potenze nucleari, quali Francia, Regno Unito e Cina.
Nonostante queste resistenze, la progressiva comprensione dell'interdipendenza in materia di sicurezza si è riflessa nell'andamento dei negoziati sul controllo e la riduzione degli armamenti nel periodo in esame, che sono proceduti in parallelo alla corsa agli armamenti di cui sopra. Per la prima volta nella storia molti stati hanno riconosciuto che i propri interessi di sicurezza avrebbero potuto essere meglio garantiti rinunciando a massimizzare il potenziale bellico, offensivo e difensivo, dei propri arsenali. Le principali tappe di questo processo sono state il Trattato di Nonproliferazione nucleare (TNP), negoziato negli anni Sessanta ed entrato in vigore nel 1970, con cui quasi tutti gli stati del mondo, all'infuori dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, rinunciano al possesso dell'arma nucleare e accettano controlli sul proprio territorio per verificare che tutti i materiali nucleari ivi presenti non siano utilizzati che a fini civili. A distanza di più di vent'anni dall'entrata in vigore del trattato, è abbastanza sorprendente che non ci siano nuovi stati con comprovati arsenali nucleari (anche se Israele probabilmente ne è in possesso e India e Pakistan potrebbero ottenerlo in breve tempo); e che nessun paese firmatario si sia ritirato dal trattato, anche se nel 1992 la Corea del Nord ha minacciato di farlo. Altra tappa importante ha costituito il Trattato sui sistemi Anti-Missili Balistici (ABM) negli anni Settanta, con il quale USA e URSS rinunciarono a dotarsi di difese contro i missili balistici intercontinentali, accettando così il principio di perseguire il mantenimento della pace tramite una reciproca vulnerabilità. Da ultimo, il citato Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF) del 1987 che ha segnato il primo passo verso la riduzione degli arsenali offensivi delle superpotenze, riconosciuti come largamente in esubero rispetto a qualsivoglia esigenza di deterrenza o di MAD.
In campo convenzionale, l'interdipendenza militare ha contorni meno definiti, e si manifesta soprattutto nella misura in cui questa categoria di armamenti assorbe enormi quantità di risorse economiche che devono essere sottratte al settore civile. Solo nel 1990 si è concordato, in occasione del Vertice della CSCE di Parigi di cui si è detto sopra, un primo trattato per sostanziali riduzioni convenzionali in Europa: il Trattato sulle forze convenzionali in Europa (Conventional Forces in Europe, CFE) per la prima volta ha imposto ampi tagli nella dotazione di forze blindate, corazzate, aeree, e di artiglierie dei paesi della NATO e del Patto di Varsavia. Con lo scioglimento di quest'ultimo, nel 1991, è caduta la logica portante dell'accordo, che si basava su un equilibrio quantitativo tra le due alleanze contrapposte. Il trattato resta comunque in vigore, ma è stato opportunamente modificato nel 1992 per riallocare la quota di armamenti, permessa per l'URSS, ai relativi paesi che hanno preso corpo dalla sua dissoluzione.
In campo economico, l'interdipendenza internazionale ha assunto dimensioni ancora più evidenti. Tra i paesi più sviluppati, essa si è resa obbligata dalla crescente sofisticazione delle economie e dalla conseguente necessità di specializzazione per lo sfruttamento delle economie di scala e dei rispettivi vantaggi comparati. In questo caso, la resistenza è stata strenua e palese: infatti, il progressivo sviluppo dell'interdipendenza economica toccava non tanto concetti astratti come la stabilità strategica, ma, più tangibilmente, i profitti delle industrie, il tasso di occupazione e il tenore di vita generale delle popolazioni. Per questo, il protezionismo è rimasto forte nel periodo in esame e i negoziati sull'abbattimento delle barriere commerciali e dei sussidi alle imprese non competitive hanno proceduto lentamente, sia a livello regionale (per es. in ambito comunitario) sia sul piano globale in ambito GATT (General Agreement on Tariffs and Trade).
In quest'ultimo caso, solo nel dicembre 1993, dopo oltre sette anni di trattative, si è raggiunto un accordo per una parziale liberalizzazione dei commerci e riduzione dei sussidi. In Europa, vi fu negli anni Cinquanta una forte opposizione delle industrie alla creazione della CEE. Gli industriali più deboli (tra cui molti italiani) avevano timore di perdere fette del mercato nazionale che era stato fino ad allora protetto dall'agguerrita concorrenza europea, ma infine prevalse la volontà politica di affrontare la sfida, nella consapevolezza che avrebbe comportato sacrifici nel breve termine. L'obiettivo, poi raggiunto, era quello di obbligare le imprese a una maggiore efficienza economica, e quindi, a fronte di sacrifici immediati, a raggiungere un miglioramento del tenore di vita generale nel medio e nel lungo termine. L'apertura al commercio e agli investimenti internazionali si è rivelata quindi non solo la migliore, ma l'unica via per mantenere uno sviluppo organico in un'economia internazionale sempre più complessa e specializzata, dove ogni forma di autarchia è fatalmente penalizzata. Corollario di ciò è stato il prevalere, quantitativo ma soprattutto qualitativo, delle economie di mercato su quelle pianificate, incapaci di adattarsi, e competere, con la rapidità di ritmi imposta dall'accelerazione dell'innovazione tecnologica.
Tra i paesi industrializzati e quelli meno sviluppati, l'interdipendenza economica si è manifestata soprattutto con la necessità, per i paesi industrializzati, di creare mercati stabili e forniture affidabili di materie prime; e per i paesi meno sviluppati, di ricevere assistenza manageriale, tecnologica e finanziaria. Il forte squilibrio della leva negoziale tra Nord e Sud portava a una relazione che molti definivano, più che d'interdipendenza, di dipendenza del Sud dal Nord o di ''neocolonialismo'', con l'effetto non solo di perpetuare la subordinazione dei paesi di nuova indipendenza a quelli ex coloniali, ma anche di accrescere il divario del tasso di sviluppo tra i primi e i secondi. Ne è nata la necessità per il Nord, anche nel proprio interesse, di fornire un sostegno allo sviluppo del Sud, per mantenere l'efficienza di economie naturalmente complementari. Si è così gradualmente sviluppato a partire dagli anni Sessanta, specie nei paesi più ricchi, un consenso sulla desiderabilità di ingenti ''aiuti allo sviluppo''. Il problema più grave in questo contesto è stato e continua a essere anche quello di rendere efficaci tali aiuti, in quanto spesso ingenti risorse vengono sprecate, sia a causa della mancanza di strutture e capacità dei paesi ricettori di utilizzarle, sia perché spesso le condizioni di utilizzo imposte dai paesi donatori prevedevano appalti per le imprese degli stessi paesi donatori, con scarso vantaggio per le economie dei paesi destinatari.
Inizio dell'erosione del bipolarismo. - L'erosione del sistema bipolare è iniziata quasi subito dopo l'instaurarsi del sistema stesso, e comunque prima che il sistema si fosse completamente stabilizzato. Ha cominciato a sgretolarsi anzitutto, ma più lentamente, l'egemonia statunitense nel polo occidentale, e solo successivamente, ma più rapidamente e in modo radicale, quella sovietica nel polo orientale.
L'erosione dell'egemonia statunitense ha avuto inizio in campo strategico verso la fine degli anni Cinquanta e in quello economico dalla metà degli anni Sessanta. Nell'ambito della NATO sorse il problema della credibilità della ''deterrenza estesa'', e cioè della volontà degli USA di estendere la capacità deterrente del proprio arsenale nucleare anche agli alleati europei. Dopo essere stata quasi al di sopra di ogni sospetto durante i primi anni della guerra fredda, tale credibilità fu gradualmente ma gravemente erosa dalla crescita degli arsenali strategici sovietici, simbolizzata dal lancio (nel 1957) del primo missile nello spazio. Dal momento che i sovietici erano in grado di colpire gli USA con i loro vettori intercontinentali, non era più accettabile per Washington minacciare di rispondere a un attacco sovietico contro l'Europa con una propria rappresaglia contro l'URSS, dato che questo avrebbe logicamente portato a una controrisposta sovietica direttamente contro gli Stati Uniti.
A fronte di ciò, Francia e Regno Unito decisero di dotarsi di un deterrente nucleare nazionale. Gli altri paesi della NATO, non volendo o non potendo fare altrettanto, soprattutto per motivi politici, dovettero continuare a fare affidamento nell'ombrello nucleare statunitense, per quanto permeabile potesse essere diventato. Come correttivo, dagli anni Sessanta gli USA proposero la strategia della ''risposta flessibile'', per cui a un attacco sovietico contro l'Europa gli USA avrebbero risposto non già contro l'URSS, ma contro le sole truppe sovietiche che avanzassero in Europa, cercando cioè non tanto una ritorsione totale contro l'attacco originale, quanto di neutralizzarlo e restaurare una condizione di deterrenza. Si disse che si passava dalla deterrenza ''di punizione'' (dell'aggressore) a quella ''di diniego''(dei suoi obiettivi). Gli europei in genere opposero resistenza a questo cambiamento, sia per l'impossibilità tecnica di realizzarlo con danni collaterali alle popolazioni civili che fossero accettabili, sia per l'improponibilità politica di una strategia ''flessibile'' che facesse dell'Europa un campo di quella che qualcuno paventava che potesse divenire una ''guerra nucleare limitata''. Gli europei non poterono peraltro proporre alternative migliori, e dovettero, loro malgrado, accettare questa impostazione strategica come il danno minore rispetto alla possibilità di dover rinunciare del tutto alla copertura nucleare degli Stati Uniti. Il cambiamento denotava comunque la fine del predominio strategico assoluto degli USA, il cui territorio era per la prima volta diventato vulnerabile ad attacchi esterni. La fine dell'egemonia strategica statunitense fu ulteriormente accelerata da fattori esogeni quali l'avanzata dei comunisti in Vietnam, le crisi petrolifere degli anni Settanta e il terrorismo, tutte minacce contro cui la potenza militare USA era inutile, a cominciare dalla completa irrilevanza dell'impiego delle armi nucleari per queste contingenze.
La fine dell'egemonia statunitense nel campo occidentale fu confermata anche a livello economico, con l'indebolimento del dollaro che, dichiarato non più convertibile in oro nel 1971, portava di fatto alla fine del regime degli accordi di Bretton Woods. Successivamente, il consolidarsi del Giappone come nuova superpotenza economica da una parte e la formazione di un polo economico in Europa occidentale dall'altra, crearono una nuova condizione tripolare, in cui gli USA rimanevano la maggiore economia del pianeta ma dovevano confrontarsi su un piano di parità con gli alleati europei e asiatici (per maggiori dettagli sull'erosione dell'egemonia economica statunitense v. economia internazionale, in questa Appendice).
Dopo quarant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, così come le grandi potenze coloniali avevano visto finire il loro ruolo globale come conseguenza delle loro ''vittorie'' nelle due guerre mondiali, così pure gli Stati Uniti videro ridimensionato il loro ruolo in concomitanza col successo della rinascita economica e politica dei paesi alleati, cui gli stessi USA avevano contributo in modo determinante a partire dagli aiuti forniti all'Europa nell'immediato dopoguerra tramite il cosiddetto ''Piano Marshall''. Tuttavia, a differenza di quanto era capitato in precedenti periodi alle grandi potenze coloniali, il ruolo globale degli Stati Uniti è proseguito negli anni Novanta. Questo è avvenuto per vari motivi. In primo luogo, in virtù del vuoto geopolitico creatosi con il ritiro sovietico, contemporaneo al venir meno dell'ideologia marxista. In secondo luogo, a causa del mancato emergere di nuove superpotenze strategiche. Infine, in ragione della preponderanza statunitense nel campo della cultura di massa, che, nei campi più diversi e non senza controversie, ha perseguito e ottenuto diffusione capillare e globale.
L'erosione dell'egemonia sovietica nel blocco orientale è stata di natura completamente diversa ed è cominciata molto tempo dopo quella degli USA in Occidente, sia perché si fondava su un sistema più coercitivo e perciò più resistente, sia perché le carenze del sistema sociale ed economico dell'URSS sono emerse in modo significativo solo più tardi. Una volta palesatesi, però, queste carenze si sono immediatamente dimostrate non solo molto più gravi e rapidamente degeneranti di quelle statunitensi, ma assolutamente incurabili, tanto da portare a un crollo più rapido e completo dell'egemonia sovietica che su quel sistema si fondava.
La prima manifestazione dell'insostenibilità dell'egemonia sovietica fu la rottura, ideologica e politica, con la Cina comunista di Mao Zedong. Questa, già pochi anni dopo la rivoluzione del 1949, e in particolare dopo la morte di Stalin nel 1953, mirava a una propria autonomia politica nazionale che non si conciliava con la pretesa di Mosca di continuare a dirigere il blocco geopolitico comunista così come aveva potuto fare Stalin con i partiti del movimento comunista internazionale. Gli attriti si manifestarono per la prima volta a proposito della richiesta di Pechino di assistenza sovietica nella produzione della bomba nucleare cinese, a cui Mosca si oppose. Contemporaneamente, l'URSS, alla ricerca di quella che Chruščëv chiamò la "coesistenza pacifica", rifiutò di assecondare l'avventurismo cinese contro l'Occidente, e in particolare contro gli USA. La rottura divenne definitiva nel 1960. Gli attriti si prolungarono per circa vent'anni, quando le parti s'invertirono, con i Cinesi del postmaoismo impegnati nel tentativo di migliorare i rapporti con l'Occidente, delle cui tecnologie avevano bisogno, e i sovietici del periodo tardobrežneviano alla vana ricerca di ulteriore espansione geopolitica, soprattutto in Africa e in Afghānistān. Più o meno contemporaneamente alla maturazione della rottura con Pechino, le prime riforme economiche e politiche nell'Europa orientale comunista (soprattutto in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia) iniziarono il processo di destalinizzazione sfidando così l'egemonia sovietica mediante cambiamenti che minavano in vario modo la natura marxista-leninista dei paesi satelliti. L'egemonia sovietica si dimostrò quindi da una parte meno schiacciante di prima (di pari passo alla trasformazione del sistema dal totalitarismo staliniano all'autoritarismo dei suoi successori), ma dall'altra più resistente a innovazioni e cambiamenti radicali.
Accanto ai fattori di erosione delle egemonie statunitense e sovietica ora descritti, che si potrebbero classificare come ''endogeni'' ai due blocchi, va considerato anche l'emergere di nuovi importanti gruppi di attori nello scenario internazionale. Ne ricordiamo qui quattro.
Il più importante è quello dei paesi arabi, emerso con la cosiddetta ''prima crisi petrolifera'' degli anni Settanta. Alla quadruplicazione del prezzo del petrolio da parte dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) seguì un rapido aumento del potere finanziario e, di riflesso, anche politico, dei paesi arabi costituenti l'ossatura di quella organizzazione. Le economie occidentali erano impreparate, e ne soffrirono gravemente, mentre i sovietici, primi produttori di idrocarburi del mondo, ne trassero un inaspettato beneficio finanziario (autorevoli economisti ex sovietici sostengono che l'enorme introito di valuta pregiata negli anni successivi avrebbe permesso alla dirigenza sovietica di rinviare quelle riforme economiche che altrimenti sarebbero state inevitabili molto tempo prima di Gorbačëv). Nel 1979 la rivoluzione iraniana portò a un ulteriore raddoppio del prezzo del petrolio. La ''seconda crisi petrolifera'' che ne derivò ebbe effetti molto più attenuati sulle economie occidentali, che dopo il 1973 avevano provveduto, pur in modo non uniforme, a mettere in atto misure per la riduzione dei consumi, a sviluppare fonti primarie alternative di energia (prima fra tutte quella nucleare), ad accumulare scorte strategiche e a diversificare la gamma dei fornitori. Tuttavia, il gruppo dei paesi esportatori di petrolio, e soprattutto quelli arabi all'interno dell'OPEC, sarebbero stabilmente rimasti attori fondamentali della politica, del commercio e della finanza internazionali.
Un altro attore che è emerso contribuendo all'erosione del bipolarismo è stato, negli anni Settanta e Ottanta, il Giappone, nuova superpotenza economica, seconda solo agli stessi USA, e maggiore creditore mondiale. La memoria storica del disastro bellico ha reso però Tokyo riluttante ad assumersi responsabilità politiche, e meno che mai militari, commensurate alla nuova statura economica. Questa timidezza politica sta tuttavia svanendo nel corso degli ultimi anni. Un fatto spesso dimenticato è che dalla metà degli anni Ottanta le forze armate del Giappone sono diventate le più potenti del mondo dopo quelle delle cinque potenze nucleari. Nel 1992 il Giappone, per la prima volta dal 1945, ha inviato forze militari all'estero (se pur non in ruoli di combattimento) nell'ambito di missioni internazionali di pace con mandato ONU.
Un terzo fattore di erosione del bipolarismo è stato il crescente peso politico assunto dal cosiddetto ''movimento dei paesi non allineati'' (v. non allineati, Paesi, in questa Appendice). Fondato a Bandung (Indonesia) nel 1955, questo si propose di favorire la cooperazione politica tra paesi, soprattutto del Terzo Mondo, che non volevano accettare la logica bipolare dei blocchi. Spiccavano, nel movimento, il ruolo dell'India e quello della Iugoslavia, che più di tutti contribuirono a consolidarne la statura e a svilupparne l'iniziativa politica internazionale, conquistando anche il rispetto delle superpotenze e degli stati appartenenti ai due blocchi. Fallirono invece i ripetuti tentativi, soprattutto cubani, di avvicinare il movimento alle posizioni dell'URSS, che L'Avana voleva fosse considerato un ''alleato naturale'' dei non allineati contro l'imperialismo degli USA. Il movimento ha perduto ragion d'essere con la fine della guerra fredda, e ha cessato di operare all'inizio degli anni Novanta.
Ultimo fattore di erosione del bipolarismo è stato il rafforzamento politico ed economico della Comunità Europea, divenuta con l'entrata in vigore del trattato di Maastricht (1° novembre 1993) Unione Europea, soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta. Pur deludendo le aspettative dei federalisti più convinti, la Comunità si è gradualmente rafforzata e ha contribuito a emancipare gli europei occidentali dall'egemonia economica e politica statunitense. Allo stesso tempo, dopo l'emancipazione dalla tutela sovietica favorita dal gorbačëvismo, la speranza di riallacciarsi all'Occidente faceva divenire l'Unione Europea un polo d'attrazione anche per gli stati dell'Europa orientale (e per molti di quelli neoindipendenti succeduti all'URSS).
Ma il fatto forse più notevole del processo di erosione del bipolarismo è che esso sia avvenuto in buona parte non solo senza l'ostacolo, ma anzi con l'auspicio di entrambe le superpotenze. Queste, a differenza delle potenze egemoni di passati ordinamenti internazionali, e se pur in modo molto diverso, hanno generalmente incoraggiato gli stati che erano sotto la loro tutela egemonica ad assumersi maggiori responsabilità, sia per la propria economia, sia per la difesa. E ciò per due ordini di motivazioni: in primo luogo, USA e URSS sono diventate sempre più incapaci di sopportare il peso economico della propria egemonia. In Occidente ne è stato un sintomo il prolungato dibattito, alla NATO, sulla ripartizione degli oneri della difesa, con gli USA costantemente alla ricerca di argomenti per far aumentare i bilanci militari dei recalcitranti alleati. Di conseguenza, gli alleati europei della NATO hanno acquisito, nel tempo, anche una maggiore responsabilità nella gestione dell'Alleanza. Nel blocco sovietico, il problema per Mosca era rappresentato soprattutto dall'onere delle sovvenzioni al commercio con gli alleati del COMECON, di cui si è detto.
In secondo luogo, la fine del bipolarismo è stata auspicata dalle due superpotenze anche a causa dell'emergere di nuovi interessi comuni. Tra questi si può individuare la cosiddetta ''minaccia'' dal Sud del mondo, identificata nell'accresciuta potenzialità di molti paesi poveri ma militarmente sempre più evoluti grazie alla proliferazione delle tecnologie militari, favorita anche da un'esportazione di esse non abbastanza discriminante dai paesi del Nord. Questa percezione di minaccia si è acuita negli anni Ottanta per il diffondersi del fondamentalismo islamico a seguito della rivoluzione iraniana. Inoltre, sono cresciute le minacce non militari: per es., la pressione demografica dei paesi del Sud è diventata sempre meno contenibile per il Nord e sempre più concorrenziale per l'Est, che ha bisogno degli stessi aiuti che il Nord tradizionalmente assegnava al Sud. Inoltre, il degrado dell'ambiente, contro il quale ogni egemonia è inutile, è stato sempre più riconosciuto come un nuovo, grave pericolo per l'umanità del 21° secolo; per affrontarlo, è indispensabile la cooperazione anche dei paesi in via di industrializzazione. Corollario di questa nuova comunanza di interessi è quindi il sorgere della necessità per le potenze ex egemoni, e più in generale per i due ex blocchi del Nord, prima di tutto di cooperare bilateralmente, e quindi anche di usare persuasione, incentivazione e pressioni politiche per far cooperare anche gli altri stati.
La politica internazionale dopo il bipolarismo. - Si è detto come la fine del bipolarismo nell'assetto geopolitico mondiale non sia stata simmetrica. Alla fine del periodo in esame l'URSS si è dissolta, ma già dagli ultimi anni Ottanta essa aveva rinunciato al ruolo egemone che aveva avuto in Europa orientale dopo la fine della seconda guerra mondiale, e non sosteneva più né l'opportunità politica né la possibilità pratica di esportare il proprio modello ideologico ed economico nel Terzo Mondo. Dopo la liberalizzazione interna iniziata dall'ultimo presidente sovietico M. S. Gorbačëv, l'egemonia sovietica in Europa orientale, già economicamente gravosa, era diventata per Mosca insostenibile anche politicamente. Al contrario, gli USA hanno potuto constatare una crescente accettazione in tutto il mondo industrializzato, pur con notevoli variazioni, delle premesse fondamentali del modello di democrazia liberale capitalistica. Tuttavia, anche per gli USA si è posto il problema di quella che P. Kennedy ha chiamato la "sovradistensione imperiale", dovuta all'eccesso di impegni politici e militari nel mondo in rapporto alle capacità dell'economia di sostenerli. Conseguentemente, gli Stati Uniti sono entrati negli anni Novanta come l'unica superpotenza con interessi globali, ma l'erosione del loro potere egemonico, cominciata già vent'anni prima, continua.
Per l'Occidente, la conseguenza più rilevante del declino sovietico, durante gli anni Ottanta, è stata che il dominio dell'URSS sull'Europa orientale, da fattore geopoliticamente stabilizzante, è diventato fonte d'instabilità. L'Unione Sovietica ha accettato il ridimensionamento del proprio potere internazionale, e quindi anche la propria dissoluzione, con rapidità e non conflittualità sorprendenti, senza paragone nella storia recente. A seguito di ciò, il mantenimento della stabilità internazionale ha richiesto e richiede all'Occidente non più la protezione dello statu quo (politica inevitabile quando cercare di modificarlo significava correre il rischio di provocare una guerra mondiale) ma un'accorta gestione del cambiamento geopolitico, soprattutto in Europa, reso oggi necessario dal vuoto di potere creato dal declino sovietico. Nel lungo termine, se le riforme economiche in Russia avranno successo e se nel frattempo il paese non subirà processi di disgregazione, esiste la possibilità di un futuro risorgere di opportunità espansionistiche e anche egemoniche per Mosca. Questo timore è il motivo per cui nei primi anni della perestrojka si discuteva se l'aiutare il Cremlino a rifondare un'Unione Sovietica più efficiente, ricca e tecnologicamente avanzata, anche se più liberale, fosse poi nell'interesse dell'Occidente. Tuttavia, dopo il 1989, con l'inizio del ritiro sovietico dall'Europa orientale, si è formato un consenso sul fatto che il problema più urgente è aiutare Mosca a gestire la crisi della propria egemonia geopolitica, minimizzando i pur necessari scossoni economici e sociali che potrebbero pericolosamente ripercuotersi anche al di fuori di quel paese. Alla fine del periodo in esame, questa rimane la questione più critica di quelli che finora si erano chiamati i ''rapporti Est-Ovest''. Paradossalmente, nel 1994, l'Occidente ha rafforzato il suo sostegno per il presidente russo El'zin proprio mentre egli sanzionava la proiezione degli interessi della Russia nelle aree dell'ex URSS, riaffermando così una politica di potenza regionale che fa presagire come non sempre le priorità internazionali dell'Occidente potranno coincidere con quelle della Russia postsovietica.
Con il crollo dell'egemonia sovietica si è quindi superata la divisione militare dell'Europa. Ciò ha creato alcune condizioni necessarie, anche se non ancora sufficienti, per un ulteriore superamento delle barriere, politiche, economiche e culturali, che sono tuttavia rimaste nel continente. Alle opportunità che si schiudono corrispondono però altrettanti rischi, che non sono meno gravi di quelli della contrapposizione tra i blocchi che l'Europa ha appena risolto.
Il pericolo principale, ormai imminente, è che il superamento della divisione geopolitica dell'Europa venga salutato come l'occasione per una generalizzata restaurazione, acritica e nostalgica, dei valori politici e culturali antecedenti a quella divisione. Questi erano i valori degli stati-nazione, pienamente sovrani e impegnati solo a massimizzare la propria influenza sugli altri. Se così fosse, invece che l'unità del continente, alla divisione in due blocchi potrebbe subentrare una frammentazione, che sarebbe foriera di ulteriore instabilità, potenzialmente meno apocalittica di quella nucleare ma più probabile e meno prevedibile. In Europa, parallelamente alla graduale erosione dell'influenza delle superpotenze, si assiste già a una rinazionalizzazione della p. internazionale. Il risorgere del nazionalismo è già divenuto altamente conflittuale, soprattutto in alcune parti dell'Europa orientale e, in modo drammatico, nei Balcani. Quello che avrebbe potuto essere il caso più preoccupante a questo riguardo, e cioè il revanscismo tedesco nei confronti dei territori perduti dopo la seconda guerra mondiale, è stato risolto in modo prevedibilmente definitivo con l'unificazione tedesca e la conseguente firma a questo riguardo di trattati con Polonia e URSS.
Meno prevedibili sono invece gli sviluppi in Europa orientale. Qui, a causa del prolungato asservimento forzato all'URSS, ogni forma di integrazione internazionale è vista in sé e per sé come asservimento al potere straniero. Antichi contenziosi irrisolti rendono pericoloso il probabile riaprirsi di questioni di frontiera e di rapporti con le minoranze etniche, di cui è disseminata la regione. I paesi ex membri del patto di Varsavia chiedono di essere integrati nelle strutture di sicurezza occidentali (prima fra tutte la NATO), soprattutto come garanzia contro un possibile risorgere della minaccia russa.
Il caso più grave di conflitto successivo alla fine del bipolarismo è dovuto, più che alla restaurazione dei valori nazionali, addirittura alla loro esasperazione nel tribalismo: dal 1991 in poi si è assistito all'implosione della Iugoslavia, causata dalla crisi economica interna e successivamente favorita dall'incoraggiamento che le maggiori potenze estere (prima fra queste la Germania da poco riunificata) hanno dato alle diverse forze secessioniste. La guerra iugoslava, che è appropriato definire guerra civile (alcune parti in lotta appartengono in linea di massima alla stessa etnia e parlano la stessa lingua), rappresenta il primo caso in cui l'Occidente non è intervenuto per gestire, come avrebbe forse potuto, la crisi nelle sue fasi iniziali, con pressioni politiche, economiche e militari sulle parti; e neanche è intervenuto successivamente, quando i costi economici e militari sarebbero stati maggiori, calcolando che questi costi non erano giustificati dal rischio di conflagrazione del conflitto al di fuori dell'ex Iugoslavia. Conseguentemente a questo atteggiamento attendista da parte dei principali stati occidentali e della Russia, le istituzioni preposte alla sicurezza collettiva (ONU e OCSE) si sono limitate a pochi interventi a carattere umanitario e di monitoraggio e, di concerto con l'Unione Europea, a continuati quanto vani sforzi di mediazione diplomatica.
La stabilità della p.i. del mondo industrializzato è stata prodotta per quattro decenni dalla sinergia tra bipolarismo politico, effetto deterrente delle armi nucleari e crescente ruolo delle istituzioni internazionali, che hanno favorito il consolidarsi di una sempre maggiore interdipendenza. Si deve peraltro ricordare che questi tre fattori non hanno inibito lo svilupparsi di situazioni instabili in alcune aree del Sud del mondo, dove la guerra ha continuato a essere uno strumento della politica tra potenze minori, soprattutto in Asia e in Africa, e dove le stesse grandi potenze si sono combattute indirettamente, come in Corea, in Vietnam, nel Corno d'Africa, nelle molteplici guerre ''di liberazione'' e, da ultimo, in Afghānistān. Negli anni Novanta, sul finire del periodo in esame, il primo dei tre fattori ha esaurito la propria funzione e quella del secondo è molto ridimensionata: nel decennio in corso la stabilità dovrà essere ricercata dunque soprattutto in un maggiore ruolo per le istituzioni internazionali.
Considerazioni conclusive. - La divisione dello scenario internazionale in due blocchi ha contribuito alla stabilità per oltre quarant'anni e per questo le parti non hanno osato alterarla, pur professando entrambe la sua inaccettabilità morale. I centenari conflitti nazionalistici tra i popoli dell'Europa centro-orientale sono stati repressi dall'uniformazione ideologica, imposta dall'URSS, e dalla presenza delle forze armate sovietiche. Tali questioni, congelate per quarantacinque anni ma non per questo risolte, risorgono negli anni Novanta e devono essere gestite nel merito.
In questo periodo l'Occidente ha pagato con la moneta dell'ipocrisia, al riparo delle proprie istituzioni esclusive e dell'ombrello della deterrenza fornita dagli Stati Uniti, il prezzo della pace bipolare e nucleare. Da una parte, ha invocato i valori del diritto e della pace, e ha accusato l'Unione Sovietica di avere mire espansionistiche, imperialistiche o ideologiche poco importa, volte ad alterarli; dall'altra, ha riconosciuto di fatto lo statu quo dell'espansione sovietica già avvenuta negli anni Quaranta in Europa orientale, dove lo stato di diritto era umiliato e subordinato all'ideologia totalitaria. Alla luce di quello che avrebbe potuto essere il costo di un conflitto con l'URSS, questa ipocrisia è stata un prezzo relativamente modesto per pagare il potere stabilizzante dell'oppressione sovietica in Europa orientale e allo stesso tempo impedirne l'espansione più a ovest. Oggi il bipolarismo è finito, da almeno vent'anni sul piano economico, con il crollo dell'impero sovietico e la riunificazione tedesca sul piano politico.
Rimane, in parte, la valenza della deterrenza nucleare, secondo pilastro della stabilità, ma essa è lungi dall'essere la panacea da molti per lungo tempo sperata. Si è dimostrata infatti inutile per prevenire i conflitti definiti, spesso impropriamente, ''minori'', che non coinvolgono cioè direttamente le superpotenze l'una contro l'altra e che si svolgono in aree non coperte dalle loro alleanze, e questo anche nel cuore dell'Europa. Le potenze ex egemoni non sono più in condizioni d'imporre la pace nucleare. Le armi nucleari sono chiaramente sempre più inutilizzabili come strumento militare, come è dimostrato dal fatto che si sono rivelate inutili persino contro chi non le possiede (come hanno imparato la Francia in Algeria, gli USA in Vietnam, l'URSS in Afghānistān, la Cina ancora in Vietnam nella guerra del 1979, il Regno Unito nelle Falkland/Malvine, e tutto il mondo nella crisi del Golfo Arabico causata dall'invasione irachena del Kuwait dell'agosto 1990). Esse continueranno ad avere un ruolo in extrema ratio come deterrente se non altro perché non possono essere disinventate e sarà quindi necessario accordarsi per un adeguato controllo della relativa tecnologia, con adeguate verifiche, sine die. Nella misura in cui le armi nucleari saranno controllate e strutturate in quantità e caratteristiche tali da non essere utilizzabili per scopi offensivi, esse potranno continuare a fornire un contributo alla stabilità internazionale, sia come garanzia che nessuno stato potrà unilateralmente decidere di dotarsene e usarle di sorpresa, sia per mantenere evidente il fatto che ogni tentativo di risoluzione violenta dei conflitti continuerebbe a comportare almeno il rischio di una escalation inaccettabile. Nonostante la riduzione delle tensioni internazionali, alla loro continuata esistenza si associerà sempre un rischio, anche se minimo, di guerra accidentale, o di acquisizione di esse da parte di attori, statali e non, che potrebbero essere guidati da governi instabili o ispirati a fanatismo politico o religioso, e che potrebbero non riconoscere le regole ''razionali'' della deterrenza. Sarà questo un rischio che bisognerà imparare a gestire con l'accordo di tutte le attuali potenze nucleari, e cioè con l'accordo dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Il terzo pilastro della stabilità della p.i., le istituzioni internazionali, dovranno avere per il futuro un ruolo crescente, anche se diverso da quello avuto finora. Questo vale in Europa, dove solo le istituzioni potranno garantire che l'emergere del multipolarismo politico e di una Germania come superpotenza non produca instabilità geopolitica. L'Unione Europea è a questo proposito un insostituibile punto di riferimento. Ma c'è necessità di forti istituzioni anche fuori dall'Europa, per contribuire a controllare l'esplosività di zone ad alta conflittualità dove continuano a proliferare, in qualità e quantità, le tecnologie militari. L'ONU potrebbe svolgere in ciò un ruolo di primo piano, soprattutto con la fine della guerra fredda, che ha permesso di sbloccare le decisioni operative del Consiglio di Sicurezza, in passato troppo spesso paralizzato dal diritto di veto sovietico. La sfida delle maggiori potenze per gli anni Novanta sarà quella di coagulare sufficiente volontà politica per fornire all'ONU i mezzi necessari a intervenire, direttamente o indirettamente, prima che una crisi degeneri: ciò è avvenuto nel caso dell'῾Irāq nel 1990 e in parte anche in Cambogia nel 1992, per citare solo due dei numerosi casi d'intervento tempestivo da parte o in nome dell'ONU. Non è stato ancora possibile trovare questa comune volontà politica nel caso della Iugoslavia dal 1991 in poi. La guerra di Bosnia era peraltro testimone, nel marzo 1994, di operazioni della NATO che, per la prima volta nella sua storia, intraprendeva un'azione di combattimento. Alcuni aerei da caccia, decollati da basi italiane, abbattevano quattro aerei da guerra serbo-bosniaci che avevano violato il divieto di volo sulla Bosnia loro imposto dall'ONU. Questa azione rimaneva però un'eccezione della regola di generale attendismo operativo da parte delle maggiori potenze, che non davano mandato all'ONU, o alla NATO per suo conto, di intervenire in modo militarmente decisivo.
Nel corso degli anni Novanta, l'elemento più importante della p.i. sarà l'emergere politicamente di Germania e Giappone, che farà seguito alla loro affermazione economica negli anni passati. Il pericolo principale potrebbe essere un eventuale riflesso a livello militare, anche se quei paesi hanno finora rifiutato ogni tentazione unilateralistica. La Germania è fermamente ancorata nel sistema politico occidentale e ha scelto di voler far parte di un'Europa sovranazionale. Il Giappone è saldato economicamente e politicamente agli Stati Uniti, anche se a differenza della Germania non è impegnato in un progetto sovranazionale analogo all'Unione Europea. Se questo orientamento dovesse cambiare, per motivi interni o esterni a quei paesi, l'unica possibilità per l'Occidente per fermarne la destabilizzante ascesa egemonica dipenderebbe dal grado d'integrazione internazionale che nel frattempo si sarà realizzato. Terminata la guerra fredda, questo dipenderà più dai legami economici e culturali che da quelli militari. La conflittualità economica internazionale non si è infatti ridotta con la fine del bipolarismo nucleare; al contrario, la riduzione combinata della minaccia nucleare e del potere delle potenze egemoni potrebbe farla aumentare. Ma questa, a differenza del passato, sarà tale da non poter essere risolta con la forza a vantaggio di nessuno. In un mondo in cui una parte sempre crescente della ricchezza è costituita non da territorio o da materie prime e neanche dalla capacità industriale degli stati, ma dalla cultura dell'informazione e dalle conoscenze tecnologiche, che non sono conquistabili militarmente, la risoluzione violenta dei conflitti non potrebbe che riportare verso il tradizionale, e quanto mai indesiderabile, gioco politico internazionale a somma negativa, che ha caratterizzato l'era prenucleare.
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