POMPEI (A. T., 27-28-29)
Cittadina della provincia di Napoli, distante da questa metropoli 25 km. È sorta, può dirsi da pochi anni, col nome di Valle di Pompei, intorno al famoso Santuario della Madonna del Rosario, fondato da Bartolo Longo nel 1876 e divenuto in seguito basilica pontificia; si stende alle falde meridionali del Vesuvio, a 24 metri s. m., nel piano adiacente alle rovine dell'antica città, e a qualche chilometro dal corso del Sarno. Vive principalmente della vita del Santuario anzidetto, il quale dalla fondazione ai nostri giorni è andato sempre più arricchendosi di nuovi edifici, per i laboratorî più diversi, e di opere di pietà con varî asili e ospizî; l'importanza dei quali, anche dal punto di vista filantropico e sociale, è grandissima. Per la scienza, conta un osservatorio meteorico-geodinamico e un museo vesuviano. Pompei mostra, specie nella grande piazza del santuario e nelle vie adiacenti, l'aspetto vario e vivace di una città sempre in festa, essendo meta quasi giornaliera di pellegrinaggi, che vi arrivano da ogni parte d'Italia e anche dall'estero. Pertanto l'industria meglio sviluppata è quella turistica: ma la "Fonte Salutare" offre ai visitatori un'altra ricchezza del luogo, una sorgente di acqua carbonica, alcalina e ferrata.
La. vicinanza di Castellammare da un lato e dall'altro lato di Torre Annunziata - di cui l'abitato era prima una frazione - vi ha fatto nascere varie industrie alimentari, come fabbriche di paste e di biscotti. Col r. decr. 28 aprile 1928, Valle, insieme con la plaga ove giace la città antica e con altre terre vicine, formò il comune di Pompei, il cui territorio (kmq. 12,41) è coltivato a cereali, agrumi e frutta varie, ma produce specialmente uva e vini rinomati. La popolazione nel 1931 risultò di 10.071 abitanti, dei quali 5656 nel centro.
La città antica.
La città (lat. Pompeii; gr. Πομπηία) era nell'antichità sull'unica grande arteria litoranea che da Neapolis, attraverso Ercolano e i pagi e le villae disseminate sulle basse pendici del Vesuvio, ha costituito, fino all'impianto delle prime linee ferroviarie, la sola grande via di comunicazione fra Napoli e il mezzogiorno della penisola. Fra il piccolo centro abitato di Oplonte, che sembra corrispondere all'odierna Torre Annunziata, la città di Stabiae (odierna Castellammare di Stabía) appartata fra le selvose colline dei Lattari, e la potente Nuceria Alfaterna che chiudeva lo stretto valico verso il golfo di Salerno, Pompei, costruita sull'ultimo basso contrafforte sud-occidentale del Vesuvio, in prossimità del mare e del fiume Sarno, veniva a costituire il naturale sbocco della fertile vallata che, fra i monti di Nola, di Sarno e di Nocera, si apre a nord e a sud del Vesuvio, e a essere il più importante centro marittimo dell'estrema insenatura orientale del golfo di Napoli.
Ma più che per la sua ubicazione e per la sua funzione d'importante sbocco di traffico marittimo e stradale, Pompei, fra quante città vanta il mondo antico, conserva, per il tragico evento della sua distruzione e per il miracoloso suo disseppellimento, un insostituibile primato di documentazione storica e umana della vita degli antichi, quello cioè di poter offrire il quadro ancora integro di una fiorente città, la cui vita si arrestò improvvisamente e tragicamente per una delle più violenti convulsioni telluriche che la storia ricordi: l'eruzione del Vesuvio nell'anno 79 d. C. Così Pompei è anche, al di là di ogni interesse antiquario, fonte incomparabile di comprensione o di rievocazione degli aspetti più intimi e più umani della vita antica. La mirabile cornice dei luoghi e i cento aspetti che il Vesuvio e i monti e il mare offrono dalle strade e dall'interno delle case, completano il fascino della città dissepolta, e rendono ragione dell'interesse sempre vivo che essa ha suscitato e suscita nell'animo di scrittori, di poeti e di artisti.
Cenno storico. - Pompei (secondo alcuni - H. Nissen, A. Sogliano - dalla voce greca πέμπω-πομεῖον, secondo altri - A. Mau - o dal numerale osco pompe = lat. quinque o dal nome di una gens italica Pompeia), fu fondata dalle genti osche della Campania. I più antichi avanzi dei suoi monumenti (tempio dorico e resti della cinta murale di età presannitica), non ci consentono di risalire oltre il sec. VI a. C., quando la città aveva già la completa difesa delle sue mura primitive e il suo primo regolare impianto; ma un più antico nucleo di abitato, formato dalle popolazioni agricole della valle del Sarno, dovette preesistere al suo sviluppo urbanistico fino almeno dal sec. VIII a. C., poiché, offrendo la foce del fiume un favorevole punto di approdo ai navigatori greci e fenici, l'altura su cui sorse Pompei, imminente sulla rada e sul fiume, non poteva non servire di natural posto di vedetta e di difesa.
Dominavano nel sec. VI a. C., lungo tutto il golfo di Napoli, da Cuma all'estrema punta della Campanella, i Greci; e Pompei, città litoranea, non poteva sfuggire anch'essa all'egemonia greca; minacciata dagli Etruschi, signori del retroterra della Campania e stretti dal bisogno di avere, nel golfo di Napoli o di Paestum, uno sbocco a mare, la nascente città osca dové stringere alleanza difensiva con i Greci di Neapolis e di Cuma e rientrare nell'orbita politica dello stato cumano. Ciò dà ragione della presenza di un tempio dorico arcaico sulla terrazza del Foro Triangolare, e spiega anche perché il sistema più antico della cinta murale sembra rispondere più al tipo della fortificazione greca che di quella italica.
Ancora oscuro e dibattuto è il problema delle origini, della forma primitiva dell'impianto della città, del suo originario carattere etnico, delle vicende politiche e delle correnti di civiltà a cui Pompei fu esposta nei primi secoli della sua esistenza. Mentre da un lato, sulla fede della testimonianza di Strabone (V, 247), in base al carattere del piano regolatore, alla denominazione di alcune parti essenziali della casa (atrium tuscanicum: v. atrio) e a controversi e discussi elementi architettonici, quali la cosiddetta colonna etrusca e i capitelli di pilastro di un edificio della Reg. I, ins. I, n. 5, la maggior parte degli studiosi resta fedele al convincimento di un deciso predominio etrusco nel sec. VI a. C. a Pompei, altri (F. von Duhn), basandosi sulla presenza del tempio greco arcaico del Foro triangolare, o anche (A. Maiuri) sul risultato delle esplorazioni di questi ultimi anni, è d'avviso che per il sec. VI e V, fino all'avvento dei Sanniti, a Pompei, città di tipo italico e con popolazione osca, ma sottoposta all'egemonia marittima di Cuma e di Neapolis, fosse prevalente l'influenza delle colonie greche della Campania.
Verso la fine del sec. V a. C., mentre gli Osci aborigeni non avevano saputo resistere all'invasione dei Greci e degli Etruschi, sorse contro gli uni e gli altri una popolazione italica più agguerrita: i Sanniti. Pompei, al pari di tutte le altre città campane, fu vinta, e fece parte della prima unificazione politica della Campania compiuta da genti italiche. La città venne in gran parte ricostruita secondo tipi e forme di architettura più schiettamente italici: costituzione, lingua, costumi, religione, furono quelli delle genti di stirpe sannitica.
Pochi avvenimenti storici conosciamo della vita della città.
Nell'anno 310 Pompeiani e Nucerini dovettero respingere dal loro territorio un'incursione delle ciurme della flotta romana scese a terra a far preda (Liv., IX, 38, 2); durante le guerre sannitiche sarebbe stata occupata temporaneamente dai Romani e, in seguito, compresa in un trattato di alleanza insieme con altre città della Campania: avvenimenti questi ai quali Pompei aveva più che altro passivamente partecipato, mantenendosi anche, durante la guerra annibalica, prudentemente estranea al duello fra Roma e Cartagine. Il primo intervento diretto e decisivo si ebbe nella grande guerra sociale mossa dagli Italici contro Roma, nella quale Pompei s'impegnò con estremo vigore. Nell'aprile dell'anno 89 a. C., L. Silla, dopo aver espugnata la vicina Stabia, poneva l'assedio a Pompei; l'intervento degli eserciti italici, al comando di L. Cluenzio, valse a distogliere le truppe romane dall'assediata città, ma la disfatta degl'Italici presso Nola fu grave e irreparabile. Interrotto l'assedio per la sopraggiunta campagna mitridatica, Pompei visse ancora pochi altri anni di regime autonomo; ma al ritorno di L. Silla vincitore di Mitridate, e al nuovo scoppiar della guerra sociale, Pompei aprì le porte al dittatore (anno 80 a. C.). Così la città osca e sannitica divenne colonia romana, e prese dal nome gentilizio del dittatore e dal culto novellamente instaurato della Venus Pompeiana, il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum.
Il dittatore, installato buon numero di veterani nella città e nell'agro pompeiano, lasciò al nipote P. Silla l'incarico di attendere al nuovo ordinamento della colonia. Compito non facile era quello di conciliare gl'interessi dei conquistatori con quelli dei cittadini originarî, e un'eco dei dissensi e delle dispute, a cui dava luogo quel primo assetto della Pompei romana, si ha nella difesa che Cicerone pronunciò della condotta politico-amministrativa di P. Silla contro le accuse di L. Torquato. Ma il processo di unificazione e di assimilazione fu qui, come altrove, assai rapido: la città veniva ormai assumendo non solo negli ordinamenti municipali, ma nella lingua, nei costumi, nell'edilizia, l'aspetto di una città romana. Eppure, nonostante l'unificazione romana, qualcosa restava ancora nella plebe pompeiana del vecchio spirito regionale: se ne ebbe una prova nel tragico episodio del 59 d. C. quando, durante uno spettacolo nell'anfiteatro, per una di quelle lievi contese facili a sorgere dal favore popolare per questo o quel gladiatore, scoppiava una sanguinosa zuffa fra Pompeiani e Nucerini presenti allo spettacolo: i Nucerini, massacrati e cacciati a furore di popolo, ebbero la peggio. Nerone deferì il grave fatto al senato, e questi non esitò a decretare la chiusura dell'anfiteatro per dieci anni e l'esilio per i provocatori della sedizione (Tac., Ann., XIV, 17). Nel 63 d. C., Pompei, insieme con molte altre città della Campania, veniva colpita e gravemente danneggiata dal terremoto (Seneca, Nat. Quaest., VI, I, 1-2 e Tac., Ann., XV, 22). Abbattuta, ma non prostrata, la città veniva alacremente ricostruendosi dalle sue rovine, quando nel 79 d. C., regnando Tito, il 24 di agosto, sopravvenne l'estrema rovina.
L'eruzione del 79 d. C. - Il Vesuvio, che gli antichi si erano ormai avvezzi a vedere sotto il pacifico e sereno aspetto di un monte ammantato di vigneti e di boschi, si risvegliava improvvisamente, riversando tutto all'intorno un nembo immane di ceneri, di lapilli e di scorie. Fu l'eruzione di cui Plinio il Giovane, che in quei giorni dimorava a Miseno nella villa dello zio, Plinio il Vecchio, comandante della flotta, ci ha lasciato una descrizione tanto viva e drammatica in due lettere a Tacito: nella prima (VI, 16) egli descrive l'improvviso apparire, le spaventose manifestazioni del fenomeno vulcanico e il pronto accorrere e la morte a Stabiae del grande naturalista; nella seconda (VI, 20) gli effetti di quella eruzione a Miseno, la drammatica fuga con la madre e il triste ritorno fino alla notizia della morte dello zio.
Il disseppellimento di Pompei offre, con la stratificazione dei materiali eruttivi, con gli edifici che ne riemergono, con la tragica documentazione delle vittime che vi furono sepolte, la più evidente e compiuta testimonianza e del fenomeno dell'eruzione e della descrizione pliniana. Dall'immane atra nube che coronava l'eccelso pino vulcanico, quale Plinio scorse dal lido di Miseno un'ora circa dopo mezzogiorno (hora fere septima), cominciò, su tutte le campagne sottoposte e sui tetti e sulle terrazze delle case di Pompei, la spaventosa gragnuola di lapilli minuti, misti a pomice e a pezzi di scorie vulcaniche ancora infocate e alcune di notevole grandezza, tanto che, crivellate e spezzate le coperture, tutte le aree ne furono ricoperte per 1-2 e più metri di altezza. Seguì poco dopo, densa e impalpabile, la pioggia di cenere, tale da oscurare completamente l'aria e da raggiungere, indurita e consolidata dalle acque, l'altezza di m. 1,50 e, nei punti più bassi della città, di m. 2, preservando i corpi delle vittime, di cui oggi è possibile rilevare lo stampo per mezzo del gesso liquido colato nelle cavità lasciate dalle ceneri. Inoltre le profonde alterazioni prodotte dalla caduta di fulmini su varî oggetti di metallo, di vetro, di terracotta, e il violento sollevarsi delle soglie di molte case e botteghe e il crollo di muri e di balconi, attestano che fulmini e terremoti si accompagnarono alla spaventosa eruzione, secondo quanto lo stesso Plinio riferisce.
Pompei restò dunque sepolta per 4-5 m. di altezza sotto uno strato di lapilli e di ceneri, al quale i secoli hanno aggiunto altri 2 metri in media di terreno vegetale.
Degli abitanti, la maggior parte, involatasi con la fuga durante la prima fase della caduta dei lapilli e delle pomici, trovò la morte lungo il litorale e sulle vie che conducevano al porto, a Stabia, a Nocera; quanti rimasero o per terrore, o per irresolutezza, o per deliberato proposito, nella vana speranza di trovar scampo nei sotterranei e nei cellai delle case protetti da robuste vòlte, egualmente morirono per le esalazioni velenose che ammorbavano l'aria, quando ai lapilli seguì, implacabile, la pioggia delle ceneri: si colgono infatti sulle forme umane, tratte dal cavo delle ceneri, i segni convulsi della morte per asfissia.
Per quanto tremenda e superiore a ogni possibilità di umano rimedio fosse apparsa l'eruzione ai contemporanei, non mancarono speciali provvidenze di governo: secondo Svetonio (Tit., VIII, 4), l'imperatore nominava dalla classe dei consolari una commissione di curatores restituendae Campaniae, assegnando, con provvedimento d'eccezione, i beni di coloro che erano morti senza eredi a ristorare i danni delle devastate città. Ma i pochi avanzi di edífici e i pochi sepolcri che si sono fin oggi rinvenuti nell'area della città al disopra dello strato del 79, l'accenno di qualche tardo storico (Floro), della Tabula Peutingeriana e di un passo di Martino monaco relativo a un avvenimento dell'anno 838, non autorizzano a pensare a una rinascita di Pompei. La funzione economica e marittima di Pompei fu ereditata da Stabia e, nell'età moderna, da Torre Annunziata; e del sito preciso della città sulla collina La Civita si era perduta ogni memoria fino a che gli scavi, con la scoperta delle prime iscrizioni, non l'ebbero rivelato.
Lo scavo. - Il non completo seppellimento della città (restarono per alcun tempo emerse al disopra delle ceneri le parti più alte degli edifici), rese possibile ai pochi scampati e ai ricercatori clandestini l'opera di ricupero delle masserizie più preziose e l'asportazione di oggetti d'arte dagli edifici pubblici più facilmente riconoscibili e da talune delle case più nobili e sicuramente identificabili. Ciò spiega la quasi completa spoliazione di statue di marmo e soprattutto di bronzo dalla grande piazza del Foro, e la parziale spoliazione di molte case, i cui muri appaiono perforati da brecce, aperte dai ricercatori. Di queste ricerche resta persino una testimonianza epigrafica nell'iscrizione domus pertusa, in lettere greche, che gli scavatori lasciarono graffita presso la porta dell'abitazione di N. Popidio Prisco, quasi volessero indicare l'inutilità di ulteriori ricerche.
Scomparsa ogni traccia e memoria della città, e trasformata Pompei nella deserta collina della Civita, la prima scoperta si deve ai lavori di bonifica della valle del Sarno iniziati nel sec. XVI. Scavandosi fra gli anni 1594-1600 un canale di derivazione del Sarno, attraverso la Civita, s'imbatté l'architetto D. Fontana in alcune iscrizioni e in edifici con le pareti affrescate.
Ma la prima vera esplorazione ebbe luogo nel marzo del 1748, sotto il regno di Carlo di Borbone, quando, essendosi già iniziati gli scavi di Ercolano, l'ingegnere Alcubierre, ispezionando il canale del Fontana, ebbe l'impressione di trovarsi innanzi a un centro archeologico non meno importante di Ercolano. Dal 1740 al 1763 i saggi si limitarono all'area dell'Anfiteatro, e alla Via delle Tombe presso Porta ercolanese; si tornarono invece a seppellire, dopo una sistematica spoliazione delle pitture e delle opere d'arte, due importanti edifici: la Villa di Giulia Felice (presso l'Anfiteatro) e la cosiddetta Villa di Cicerone fuori Porta ercolanese.
Scoperta nel 1763 l'iscrizione di Suedio Clemente nella zona del pomerio, e identificato il sito della sepolta città in quello di Pompei, veniva alacremente ripreso e condotto lo scavo della Via delle Tombe, della Villa di Diomede, della zona dei Teatri, sotto la direzione di tecnici esperti, ma non sempre forniti delle necessarie cognizioni storiche ed archeologiche.
Le immense difficoltà che offriva lo scavo di Ercolano fecero sì che Pompei, che viceversa presentava grande facilità di lavoro, prendesse presto il sopravvento, e assumendo il carattere di uno scavo continuativo, diventasse l'impresa (ormai secolare) più grandiosa che mai sia stata condotta in fatto di scavi di antichità. Grande impulso venne impresso ai lavori nella prima metà dell'Ottocento; tali lavori misero in luce la maggior parte degli edifici pubblici del Foro e alcuni fra i più importanti edifici della Regione VI.
Ma l'inizio di scavi più sistematici e razionali, condotti senza saltuarietà e discontinuità, integrati dalle necessarie opere di protezione e di restauro, e gradualmente perfezionati nel loro metodo, si ebbe nel 1860 con la direzione di Giuseppe Fiorelli. Si hanno così dal 1895 in poi il mirabile insieme della Casa dei Vettii, della Casa delle Nozze d'Argento, degli Amorini dorati, di Lucrezio Frontone, e, in questi ultimi decennî, i nuovi scavi della Via dell'Abbondanza, lo scavo della Villa dei Misteri, della Casa del Menandro, di un tratto della via pomeriale, e il restauro del tribunal della Basilica.
Lo scavo è inteso ormai al fine essenziale della visione integrale degli edifici scoperti: vengono salvati e ricollocati al loro posto tutti gli elementi superstiti delle strutture superiori: la decorazione parietale e musiva dei pavimenti viene lasciata in situ con le necessarie opere di protezione, ed egualmente anche quella parte della suppellettile artistica e domestica, che più intimamente sia connessa con il carattere dell'abitazione e degli ambienti a cui apparteneva. Così ogni casa, ogni bottega, ogni officina, offre un compiuto quadro di vita, e il visitatore, che si sia un po' familiarizzato con gli aspetti esteriori degli edifici, può senza sforzo ricostruire a ogni passo la vita e l'ambiente della città antica. Ciò si osserva soprattutto in quel settore della Via dell'Abbondanza di cui s'iniziò lo scavo nell'anno 1911-12; in circa 500 metri di strada riappare il quadro vivo e palpitante di una via dei quartieri più commerciali della città: tutti i più abili accorgimenti e tutta la matura esperienza del passato sono stati impiegati per raccogliere e ricomporre elementi che sarebbero andati altrimenti dispersi. Le tettoie, con le tegole e i coppi restaurati, riprendono il loro posto al disopra delle botteghe; balconi e ballatoi tornano a sporgere dal corpo della facciata; loggiati a esili colonnine di tufo si sopraelevano nei piani superiori; i battenti delle porte, ricalcati in gesso dal cavo lasciato nello strato di cenere, si adornano ancora delle loro borchie bronzee; e infine, in luogo della scheletrica ossatura dei muri, la più ricca decorazione dipinta all'interno e all'esterno delle case, e la più eloquente documentazione epigrafica nelle iscrizioni dipinte sugl'intonachi.
Di grande importanza, per lo studio del periodo delle origini, sono state le esplorazioni condotte in questo ultimo decennio nel sottosuolo della città. Esse hanno messo in luce presso Porta Ercolanese e Porta Vesuvio i tratti più antichi della cinta murale, e nell'area del Foro triangolare e del Tempio d'Apollo una ricca messe di terrecotte architettoniche dei sec. VI e V a. C., appartenenti alla decorazione del tempio dorico e di un più antico santuario di Apollo, da ricollegarsi pertanto al culto dell'Apollo cumano.
Lo scavo ha messo finora in luce, in poco meno di due secoli d'ininterrotto lavoro, circa 3/5 dell'area della città; ma, tenendo presente il maggior tempo richiesto dal perfezionato sistema di scavo e di restauro, è ovvio pensare che al discoprimento completo della città e delle sue immediate adiacenze suburbane, occorrerà più tempo di quel che non sia occorso a scavarne la parte fino a oggi dissepolta (v. città, X, tav. CXXI).
Topografia generale. - La città è costruita su un contrafforte formato dallo scorrimento di una colata lavica, eruttata dal Vesuvio in età preistorica, e su cui si sono successivamente distesi altri terreni di natura tufacea, che ne hanno in parte colmato le asperità. Il terreno, assai ineguale, presenta un forte pendio da nord a sud verso il golfo e l'ultimo tratto del corso del Sarno (quota massima m. 42,526 a Porta Vesuvio, quota minima m. 8,745 a Porta di Stabia); il fronte della lava, arrestatosi bruscamente sul lato di S. e di O., costituiva con la sua parete a picco un naturale baluardo volto verso il mare. La sola parte pianeggiante della città si ha nel settore sud-occidentale, dove sorsero il quartiere del Foro e degli edifici pubblici e il quartiere più regolare dell'abitato (Regio VI); altre terrazze minori si hanno sul ciglio meridionale, dove sorsero, nell'angolo sud-ovest, l'area del Tempio di Venere, e, più verso sud-est, l'area del Tempio greco e del Foro triangolare; infine, l'estremo angolo sud-est del perimetro delle mura, dove il terreno maggiormente si rispiana, venne più tardi riserbato alla costruzione dell'anfiteatro. Tutto il resto dell'area è in più o meno forte declivio e la costruzione delle case dovette affrontare e risolvere o con terrapieni, o con robuste sostruzioni di vòlte e di cellai sotterranei, o, sul fronte stesso della collina, con vere e proprie abitazioni a terrazze, il problema del primitivo impianto e dei necessarî ampliamenti. Lungo la linea del più forte pendio, dovuto probabilmente a un canalone della corrente lavica, passa la Via di Stabia.
Avendo l'eruzione del 79 e l'immenso scarico delle terre di scavo alterato all'esterno la forma originaria del terreno, il perimetro delle mura (3 km. e 220 metri), riconoscibile in tutta la sua estensione per quanto non ancora interamente scavato, permette di rilevare l'esatta configurazione ed estensione della città (superficie mq. 662.684): è un poligono irregolare di forma quasi ellittica, che presenta una massima estensione lungo l'asse dei decumani (da est a ovest), e una minima lungo l'asse dei cardines (da nord a sud). Nel poligono delle mura si aprono, in corrispondenza delle principali arterie stradali, otto porte, delle quali cinque scoperte e comunemente denominate dalla loro orientazione (Porta Marina, Porta Ercolanese, che è l'ant. Porta Saliniensis, Porta Vesuvio, Porta di Nola, Porta Stabiana), e tre sufficientemente individuate: Porta di Capua, P. di Sarno (Urbulana), P. di Nocera; una porta si apriva anche in origine lungo l'asse della Via di Mercurio, ed una allo sbocco occidentale della Via di Nola.
Mura e porte, con le trasformazioni subite nell'impiego dei materiali e nelle strutture e nei mezzi difensivi, contrassegnano la storia politica e militare della città, dal suo primo impianto, nella seconda metà del sec. VI a. C., fino all'espugnazione di Silla e alla parziale demolizione della cinta murale nell'età augustea per effetto dell'incremento urbanistico. I massicci bastioni, con la doppia cortina muraria rafforzata da pilastri, costruiti in un primo tempo nel duro conglomerato calcareo del Sarno e poi nel grigio tufo di Nocera, ci riportano all'influenza delle cinte murali delle vicine città greche; il possente aggere di terra che sta a rincalzo delle mura ripete invece il tradizionale sistema della palizzata italica; le torri infine, a cavaliere delle mura, e i vasti tratti di cortina rifatti in opera a getto di malta e di pietre vulcaniche, ci richiamano all'ultima fase di costruzione, poco innanzi all'ultimo assedio.
Restando la grande piazza del Foro in posizione eccentrica rispetto all'agglomerato urbano, e le minori aree del Foro triangolare e del Tempio di Venere in posizione periferica, né osservandosi nel fitto agglomerato delle case altre aree libere, all'infuori dei quadrivî e dei trivî all'incrocio delle strade, il piano regolatore della città viene a essere essenzialmente costituito dalla rete stradale, e sovrattutto dalle tre arterie maggiori: la Via di Nola e la Via dell'Abbondanza, correnti quasi parallelamente da ovest a est, la Via di Stabia, attraversante la città nel suo asse minore da nord a sud. Queste stesse arterie, oltre al minore cardo fra Porta di Capua e Porta di Nocera, sono state prese a base per la divisione sistematica e generalmente adottata della città in nove regioni: ogni regione si compone di più insulae, formate generalmente di più case ed eccezionalmente di una sola grande abitazione (Casa di Pansa, Casa del Fauno), per modo che ogni edificio di Pompei viene ad essere convenzionalmente contrassegnato da tre numeri: il numero della regione, quello dell'insula, e quello del suo vano principale d'ingresso.
Uno sguardo alla piantina schematica mostra quanto, nonostante acute e dotte indagini, sia ancora arduo ricostruire la forma del primitivo impianto della città, e quanto sia arbitrario supporre un unico impianto dovuto a Greci o ad Etruschi. L'andamento irregolare, curvilineo, che si osserva nella maggior parte delle strade del quartiere intorno al Foro, la frequente deviazione dagl'incroci ad angoli retti, la perfetta regolarità delle insulae e delle strade della Regione VI e il loro diverso orientamento rispetto alle insulae delle altre regioni, e infine la diversa estensione e forma delle insulae, tutto ci porta, nonostante la fondamentale gravitazione verso un cardo maximus, a un sensibile distacco dalle piante geometricamente regolari così di Neapolis e di Ercolano, come dell'etrusca Marzabotto. Sembra dunque di dover scorgere in Pompei un graduale processo evolutivo del piano regolatore, avvenuto entro il circuito di una cinta murale già costituita in età presannitica (prima metà del secolo V a. C.), come mostrano gli avanzi delle mura e delle porte scoperti presso Porta Ercolanese, Porta Vesuvio e Porta Stabiana. Solo la prosecuzione degli scavi, nel sottosuolo della città già dissepolta, potrà risolvere l'ancora oscuro problema.
Completano il quadro generale della città le tombe e le ville nell'immediato suburbio e i pagi, dei quali conosciamo l'ubicazione del pago marittimo (v. appresso) e, in base a soli dati epigrafici, del Pagas Augustus Felix suburbanus.
Il orto. - Intimamente connesso con la vita della città era il porto, che Pompei possedeva a breve distanza dalle mura, presso la foce del Sarno, e che, secondo una preziosa notizia di Strabone (V, 247), sarebbe stato comune scalo marittimo non solo della vicina Nocera, ma anche delle più lontane Nola e Acerrae, per quanto queste due ultime città fossero più vicine a Napoli. Era probabilmente un porto-canale ricavato nel braccio stesso della foce del fiume, e dovè servire a raccogliere tutto il traffico della valle del Sarno, disimpegnandola da esazioni tributarie verso il grande porto di Napoli. Pur essendo stato oggetto di ripetute e pazienti esplorazioni lda L. Rossini a M. Ruggiero 1879, al Matrone 1903, a L. Jacono 1931), non è ancora chiara la primitiva forma del lido pompeiano e, conseguentemente, la precisa ubicazione e forma del porto, poiché l'eruzione del 79 e il trasporto dei materiali alluvionali, hanno allontanato di 1 km. almeno la linea del lido (attualmente a 2 km. circa dalla città), che doveva addentrarsi fra Torre Annunziata e Castellammare e avvicinarsi alle mura occidentali e alla cosiddetta Porta Marina. Resti dell'antico borgo marinaro con depositi di anfore, strumenti di pesca e un'ancora, avanzi di ville e di fattorie, sono venuti in luce presso il Molino Bottaro e il Molino De Rosa (ora Fienga) a sud-ovest di Pompei, lungo quella che si presume essere stata la linea del lido. Non lungi dal porto, presso gli stagni del litorale, erano le Salinae Herculeae ricordate da Columella (X, 135), al cui esercizio era addetta la corporazione dei Salinienses, e che prendevano il nome dal mitico fondatore della città, sopravvivente anche nel nome del vicino scoglio di Revigliano-Petra Herculis.
Materiali ed epoche di sostruzioni. - Pompei non ci si presenta con una fisionomia uniforme di materiali e di strutture; ché anzi, nell'apparente uniformità dell'aspetto esteriore delle strade e delle insulae, si alternano i più diversi tipi di costruzione: solenni e massicci prospetti di case in opera quadrata di pietra calcarea, tratta dai depositi alluvionali del Sarno, o di tufo bigio cinereo tratto dalle cave della lontana Nuceria; tessiture murarie in opus incertum con materiali di pomici, tufi e lava cementati da ottima malta; cortine accuratamente eseguite in reticolato, dove il costruttore ha voluto ricavare elementi di decorazione cromatica e geometrica alternando tufi e pietre di diverso colore; cortine di laterizî ben rifinite utilizzando tegole smarginate e risecate; e, infine, facciate intonacate e dipinte con gli stessi procedimenti che ricorrono nell'interno delle case. E lo stesso si dica dell'interno degli edifici, dove l'occhio esercitato non stenta a riconoscere elementi diversi di strutture murarie e architettoniche, a volte inorganicamente giustapposte e collegate, testimonî di restauri o di ampliamenti. Questa discontinuità di strutture è uno degli aspetti essenziali dell'edilizia pompeiana: è la documentazione più sicura del suo sviluppo urbanistico, perché, nella diversità dei materiali e nel diverso carattere delle costruzioni, abbiamo chiaramente espressa la storia edilizia della città attraverso più di sei secoli di vita.
Tenendo conto degli avvenimenti della vita politica della città e del suo sviluppo architettonico e urbanistico, le epoche di costruzione possono essere indicate approssimativamente così:
I. Epoca presannitica (500-420 a. C.). - Materiale quasi esclusivamente calcareo e strutture in opera quadrata (tempio dorico nel Foro triangolare; mura presannitiche; residui di materiali utilizzati nelle costruzioni posteriori).
II. Prima epoca sannitica (420-250 a. C.). - Materiale prevalentemente calcareo a blocchi parallelepipedi e inizio della costruzione in tufo: strutture in opera quadrata e in opera incerta (rifacimento della cinta murale; costruzione delle case ad atrî calcarei; piano regolatore di alcuni quartieri e completamento della rete stradale; tempio di Giove, tempio di Apollo [I periodo]).
III. Seconda epoca sannitica (250-80 a. C.). - Materiale prevalentemente tufaceo: strutture in opera quadrata e in opera incerta. È il grande periodo urbanistico di Pompei, innegabilmente influenzato, durante i secoli II-I a. C., dalle architetture delle città ellenistiche (secondo e terzo rifacimento della cinta murale con cortine di tufo e aggiunta delle torri; sistemazione del Foro; costruzione del Teatro; e, successivamente, costruzione dei portici del Foro, del Tempio di Apollo, del Foro triangolare, della Palestra; terme Stabiane [I e II periodo]; basilica [I periodo]; case con portici [case del Fauno]; capitelli figurati; inizio e sviluppo della decorazione di I stile e della pavimentazione musiva).
IV. Inizio della colonia romana (80-23 a. C.). - Materiale in quasi-reticolato e in opera incerta e primo impiego di laterizî negli spigoli murarî. (Periodo breve ma intenso di costruzioni: terme del Foro, teatro piccolo, anfiteatro, comitium, tempio di Venere Pompeiana, tempietto di Zeus Meilichios, sistemazione dei pozzi pubblici; rifacimento delle porte della città; inizio della decorazione di II stile).
V. Età augustea e giulio-claudia (fino al terremoto del 63 d. C.). - Strutture a reticolato di tufo (età augustea), e a reticolato con immorsature di laterizî (di età generalmente post-augustea), a cortina vista o in opera incerta e rivestimento a stucco e pittura (età claudia e neroniana); colonne in opera laterizia o in opera mista (conci di tufo e laterizî) rivestite di stucco; impiego del marmo per rivestimento di pareti di edifici (tempio della Fortuna Augusta; anno 3 a. C.) e di elementi decorativi della casa (impluvî, fontane di giardino); sviluppo della decorazione dipinta di II, III e IV stile: decorazione a stucco; decorazione musiva dei pavimenti e delle pareti (a paste vitree); acquedotto, fontane e canalizzazione urbana. Edifici pubblici lungo il lato meridionale e orientale del Foro; rifacimento struttivo e decorativo della maggior parte degli altri edifici pubblici.
VI. Prima età flavia (63-79 d. C.). - S'inizia un più largo impiego dell'opera laterizia per risarciture, robustamento e ampliamento degli edifici rovinati dal terremoto. Ricostruzione del Tempio d'Iside e costruzione, non finita, delle grandi Terme Centrali e delle aule della Curia.
I monumenti pubblici. - Nella pianta generale di Pompei, i monumenti pubblici vengono a distribuirsi intorno ai due massimi centri della vita della città: il grande Foro civile e il minore Foro triangolare; si staccano solo da questi nuclei le terme e l'anfiteatro.
Una grande piazza rettangolare (m. 38 per m. 142) orientata con il suo asse maggiore da nord a sud, circondata anticamente da portico e da loggiato, e fiancheggiata all'intorno dai più importanti monumenti pubblici dell'età preromana e romana, fu il centro della vita religiosa, politica ed economica della città: Capitolium sacro e sede delle magistrature civili; area, secondo il costume italico, di ludi, di riti e di cerimonie solenni; luogo di pubbliche riunioni e di comizî elettorali; tribunale e mercato e, infine, ordinario luogo di convegno della vita quotidiana. Chiuso da ogni lato al traffico dei carri e degli animali da soma, dominato da un lato dalla mole del Tempio di Giove, fiancheggiato dall'altro dalle statue bronzee di Augusto e della famiglia imperiale, il Foro doveva rassomigliare al peribolo sacro di un tempio, in cui la vita si svolgesse sotto lo sguardo delle due potenze supreme della divinità di Giove e della potestà imperiale.
Arduo, e non ancora del tutto chiarito, è il problema del primitivo impianto e del successivo graduale sviluppo del Foro di Pompei, da semplice area di mercato e di riunione dei primitivi abitatori della città osca a grande piazza porticata e architettonicamente monumentale della città sannitica e romana. Mancando sicure tracce di edifici dell'età calcarea, si deve ritenere che nella prima metà del sec. III il Foro fosse ancora un'area aperta di mercato, in mezzo alla quale emergevano i due templi di Giove e di Apollo nella loro prima fase di costruzione: limite meridionale erano probabilmente la Via Marina e la Via dell'Abbondanza, non ancora troncate dal successivo ampliamento dell'area. La prima trasformiazione in area chiusa si ebbe con la costruzione dei pilastri del recinto del Tempio di Apollo, che mirano precisamente a correggere, con il diverso spessore delle murature, il diverso orientamento del peribolo di quel tempio rispetto all'area del Foro (2ª metà del sec. III); e il Foro dovette avere, in quel primo periodo, schietto carattere italico di una piazza contornata da pilastri in opera quadrata di tufo, tra i quali si aprivano gl'ingressi a edifici pubblici o a tabernae. Nel corso del sec. II, quando invalse l'uso di decorare le aree pubbliche e i giardini delle case con portici di tipo ellenistico, si contornò anche l'area del Foro con un portico a colonne doriche e con un loggiato a colonne ioniche (150 a. C.), e a questa costruzione viene riferita generalmente l'iscrizione in latino arcaico del questore Vibio Popidio figlio di Epidio; comunque nella stessa metà del sec. II venne architettonicamente sistemato anche l'estremo settore merídionale del Foro, con la costruzione della Basilica e si dovette dare al più vetusto Tempio di Giove il suo ultimo assetto. Nella prima età imperiale si venivano sostituendo il portico e il loggiato di tufo, sull'epistilio sorretto da architrave ligneo, con colonne e trabeazione di travertino; e se ne era già compiuto quasi tutto il lato occidentale, quando il terremoto del 63 e l'eruzione del 79 troncarono per sempre il compimento dell'ultima trasformazione del Foro. Ma all'età romana (repubblicana e imperiale) si deve completamente la costruzione degli edifici pubblici che fiancheggiano il lato orientale e meridionale del Foro, e cioè il Macellum, il Sacrario o Atrio dei Lari pubblici, il Tempio al Genio di Augusto, l'Edificio di Eumachia, il Comitium, la Curia e, infine, sul lato occidentale, un portico a pilastri laterizî per vendita di cereali: completarono la decorazione della grande piazza i due archi trionfali ai lati del Capitolium e la pavimentazione a lastre di travertino. Tutta una serie di basi per statue onorarie era disposta innanzi ai colonnati: tra esse, al centro del lato orientale, si distingue per l'ampiezza e per la sua caratteristica forma, la tribuna degli oratori (suggestum). Diamo un breve cenno degli edifici pubblici disposti nell'area del Foro civile e del Foro triangolare e degli altri quartieri della città.
Il Tempio di Giove, di tipo italico, su alto podio sagomato da severe cornici di tipo tuscanico, con doppia gradinata, profondo pronao con 6 colonne corinzie di tufo sul fronte e 5 sui lati, triplice cella con colonnato all'interno a doppio ordine, era sacro alla Triade Capitolina: gravemente danneggiato dal terremoto del 63, come mostra il rilievo della Casa di L. Cecilio Giocondo, era ancora in stato di grave rovina al momento dell'eruzione del 79. Nello stato attuale la sua costruzione rispecchia il periodo dell'ultima sistemazione architettonica del Foro nel 2° periodo sannitico, e le inevitabili modifiche che dovette subire all'inizio della colonia romana: ma le incoerenze che si notano fra i muri della cella, lo stilobate e i muri delle favissae sottostanti, attestano l'esistenza di un tempio più antico (forse del sec. III a. C.) meglio rispondente al canone vitruviano del tempio etrusco-italico.
Il Tempio d'Apollo, sul lato occidentale del Foro e con esso originariamente comunicante, con la sua area chiusa e circoscritta da un portico di 48 colonne, con la cella innalzata su alto podio e circondata da un periptero di colonne corinzie, a 6 colonne sul pronao, è, nonostante la rovina dell'anno 63, il meglio conservato dei grandi santuarî di Pompei: oltre all'ara di travertino, a un orologio solare, ad are minori di divinità associate, varie sculture in bronzo e in marmo (Apollo, Artemide, Afrodite, Ermafrodito e Maia) decoravano gl'intercolunnî del portico. Il tempio, innalzato in età sannitica, subì parziali trasformazioni nell'età augustea, e più profonde modificazioni decorative nell'età neroniana: capitelli e trabeazione in tufo vennero rivestiti di fini ma leziose decorazioni a stucco. La scoperta recente di terrecotte decorative di un sacello arcaico permettono di ricondurre l'introduzione del culto di Apollo a Pompei al tempo dell'egemonia greca nel sec. VI-V a. C.
L'edificio architettonicamente più importante del Foro, che può darci appieno l'idea dell'efficienza mercantile della città, è la Basilica, sede del tribunale e aula per le contrattazioni e per le relative vertenze giudiziarie. È un grande edificio rettangolare (m. 55 × m. 24), preceduto da un vestibolo a pilastri in tufo (chalcidicum), diviso all'interno in tre navate da un grandioso colonnato di colonne laterizie, che consentiva lo sviluppo di un loggiato sulle navate minori laterali, mentre sulla parete di fondo s'innalza il fronte architettonico del tribunal. Il tipo della costruzione e della decorazione, la testimonianza di un graffito con data consolare (78 a. C.), fanno risalire la costruzione alla fine del sec. II a. C.; danneggiato gravemente dal terremoto del 63, non se ne era ancora nel 79 iniziato o completato il lavoro di restauro. Molto si è discusso sull'architettura e sulla forma di copertura di questo edificio. Saggi di scavo recenti hanno mostrato due epoche e due diverse fasi di sviluppo: mentre cioè la basilica primitiva non era che una grande area scoperta, circondata da portico e loggiato, simile cioè a un peristilio ellenistico, nel secondo periodo, che viene a corrispondere allo schema vitruviano della Basilica di Fano, con la costruzione di grandi colonne laterizie che eguagliarono per altezza i due ordini del portico e del loggiato, si addivenne anche alla copertura della navata centrale, per modo che l'interno, idealmente ricostruito, viene a presentare la stessa disposizione di una costruzione basilicale cristiana.
Ai templi di Giove e di Apollo si aggiunsero, in età romana, lungo il lato E., altri due edifici, ambedue, sembra, di carattere sacro. L'uno di essi, che si apre come un grande sacello scoperto, chiuso al fondo da una grandiosa abside con edicola e fiancheggiato da due ambienti rettangolari simili alle alae di un atrio, con basi ed edicole minori per statue, ha fatto pensare a un sacrario dedicato ai pubblici Lari della città; mentre da altri meno verosimilmente si è supposto destinato a tabularium o biblioteca. Il secondo (cosiddetto Tempio di Vespasiano), eretto a proprie spese dalla sacerdotessa Mamia (fra gli anni 7-2 a. C.) al Genio di Augusto, è pervenuto nel rifacimento completo che se ne fece dopo il terremoto del 63, restando dedicato, con la sua bell'ara marmorea, al Genio degl'imperatori (v. camillo, VIII, p. 540). E ad un culto di età augustea, e intimamente connesso con quello della famiglia imperiale, si deve anche la costruzione del piccolo tempio della Fortuna Augusta, eretto dalla munificenza del duumviro Marco Tullio nel 3 a. C., non lontano dal Foro, presso il quadrivio sulla Via di Nola: il culto era affidato al collegio dei ministri Fortunae Augustae, composto di liberti e di schiavi, e le epigrafi ce ne attestano il regolare funzionamento fino all'anno 61 d. C.
Al Tempio di Giove si contrapponeva, dall'opposto lato meridionale della piazza, l'edificio della Curia, divisa in tre aule, delle quali quelle laterali erano probabilmente destinate ai duumviri e agli edili e la centrale, più spaziosa e più ricca, doveva essere aula di riunione dell'ordo decurionum: l'accurata struttura delle cortine laterizie accusa qui, come nelle terme centrali, una delle ultime costruzioni pubbliche delia città.
Capitolium e sede di pubblici poteri, il Foro di Pompei restò anche nell'età romana, per vetusta tradizione italica, il mercato, il luogo delle contrattazioni e degli affari; cosi, insieme con la Basilica e con la mensa ponderaria ridotta, dall'unità di misura osco-italica, all'unità di misura romana, per il controllo delle misure di capacità per liquidi e per cereali, troviamo altri due grandiosi edifici di carattere commerciale: il macellum (dell'età tiberiana o claudia), che venne, con il mercato coperto dei commestibili, a sostituire, almeno in parte, il mercato girovago e a creare uno dei servizî essenziali per l'approvvigionamento della città, e il più grandioso edificio che la sacerdotessa Eumachia aveva consacrato, nell'età di Tiberio, alla Concordia Augusta e alla Pietà, personificazioni forse di Livia, destinandolo al deposito e alla vendita delle stoffe.
Fuori dell'area del Foro, ben poco resta del Tempio di Venere che Osci, Sanniti e coloni romani eressero, e trasformarono in successive fasi di rinnovamento, alla divinità italica di Herentas, assunta a divinità protettrice della città, e venerata in sacelli e pitture murali sotto il nome di Venus Pompeiana. Ne è stato identificato il sito nella terrazza, prominente anch'essa, come quella del Foro triangolare, dal ciglio meridionale della collina, quasi intenzionalmente contrapposto al tempio arcaico greco: quel che avanza dopo il terremoto del 63, e cioè le fondazioni di due porticati e il nucleo sconvolto dei muri della cella, accenna a due epoche di costruzione e ad un ultimo più grandioso rifacimento che non poté essere compiuto.
Fosse o no l'area del Foro triangolare, come alcuni studiosi sostengono, il nucleo più antico della città, certo è che qui troviamo le venerande reliquie di un tempio dorico della fine del sec. VI a. C., indistruttibile testimonianza dell'influenza che architettura e religione greca ebbero sulla più antica città. Dedicato forse a Ercole, mitieo fondatore di Pompei, si allineava con uno dei lunghi lati del suo perittero di 11 colonne sul ciglio della collina, mentre rivolgeva il possente prospetto del suo pronao eptastilo verso il lato di mezzogiorno: per le dimensioni della cella rispetto al colonnato rispondeva al tipo del tempio pseudodittero. Saggi di scavo praticati nel 1889, e più metodicamente nel 1927, hanno messo in luce la decorazione fittile del tempio dal sec. VI fino al III a. C. In quest'ultimo periodo, e nel secolo seguente, dovette iniziarsi la completa trasformazione di tutto il quartiere Sud-orientale della città, e del vetusto tempio non restò che la platea di fondazione e la cella del nume consacrata e associata ad altre divinità e ad altri culti. L'area del tempio, preceduta da propilei, contornata da un portico di 95 colonne e comunicante con gli edifici pubblici del Teatro e della Palestra, venne quasi a essere il secondo Foro della città, e il naturale centro religioso dei pubblici spettacoli e delle feste, fino a che, nel sec. I dell'impero, la passione per i ludi non finì per far gravitare tutto l'interesse pubblico verso l'anfiteatro. Ma il complesso degli edifici, Portico triangolare, Palestra, Teatro grande con quadriportico, e Teatro piccolo (Odeon), che, sul modello delle grandi città ellenistiche, si vennero sviluppando lungo il fianco orientale della terrazza del tempio dorico fra il sec. III a. C. e il primo sorgere della colonia romana, rappresenta, insieme con la sistemazione del Foro civile, il più grandioso e organico sforzo che la città abbia fatto per dare decoro e grandiosità architettonica alle manifestazioni della sua vita pubblica e religiosa. Ed è innegabile la diversa fisionomia che presentano i due centri principali della città. Mentre nel Foro civile il carattere costruttivo d'insieme resta schiettamente italico nel periodo sannitico, e diventerà innegabilmente romano, nel periodo della colonia, nel Foro triangolare, rimasto al di fuori del movimento commerciale e demografico, sopravvive il carattere di un vero e proprio quartiere di città ellenistica.
Seguendo le norme dei teatri greci ed ellenistici, anche il Teatro grande di Pompei (di cui la prima costruzione può essere riferita agl'inizî del sec. II a. C.) adattò la sua cavea in una naturale insenatura della collina aperta verso la valle del Sarno e verso lo sfondo dei Monti Lattari. Della storia più antica dell'edificio è solo possibile discernere qualche elemento nelle trasformazioni subite dalla scena e dall'orchestra; del resto esso ci appare quale venne trasformato e ampliato dall'architetto Marco Antonio Primo, al tempo di Augusto, a spese della famiglia degli Olconi, quando, aggiunta o rifatta la galleria superiore (crypta) di sostegno della summa cavea, adattato a palchi lo spazio sopra ai fornici delle parodoi (tribunalia), e sostituiti ai gradini di tufo quelli di travertino, rifatto il fronte della scena, che restò peraltro fedele al tradizionale schema ellenistico, il teatro poteva accogliere non meno di 5000 spettatori. E alle spalle della scena, la grande piazza porticata, prima che nell'età neroniana fosse trasformata a uso di caserma e di palestra per le familiae dei gladiatori assoldate per i ludi dell'anfiteatro, ripeteva anch'essa con la porticus post scaenam un tema architettonico comunemente accettato dalle città ellenistiche.
Meglio conservato nella sua organica unità struttiva e architettonica è l'Odeon, che i ricchi magistrati M. Porcio e C. Quinzio Valgo, noto questo ultimo per i larghi profitti fatti nei torbidi politici dell'età sillana, costruirono a fianco del teatro verso l'anno 80 a. C.: destinato a un pubblico più ristretto e più intellettuale (non più di 1500 spettatori), doveva essere riserbato a rappresentazioni musicali, recitazioni mimiche e forse anche a declamazioni letterarie e poetiche (v. atlante, V, tav. LVIII).
Greca, o ispirata alle idee greche che collegavano gli spettacoli teatrali alle esercitazioni della palestra, era infine la piccola palestra costruita alle spalle della cavea del teatro dal questore sannitico Vibio Vinicio, e destinata al sodalizio della gioventù pompeiana per gli esercizî della lotta (vereia), associazione che, nell'età romana, si trasformò nel sodalizio della iuventus.
A Zeus Meilichios era dedicato il tempietto che si apre all'angolo della Via d'Iside con la Via di Stabia; il culto è greco e di età preromana, come sicuramente attesta l'iscrizione viaria osca della Porta stabiana: il carattere dell'attuale costruzione ci riporta invece all'origine della colonia romana, e va messo in rapporto con la costruzione dell'Odeon. Il ritrovamento di due grandi simulacri fittili di Giove e di Giunone, e di un busto di Minerva, ha fatto supporre che dopo il terremoto del 63, in questo tempietto venisse provvisoriamente trasferito dal grande Tempio del Foro il culto della triade capitolina.
Il culto d'Iside a Pompei forse era già professato, come a Puteoli, prima dell'occupazione romana. Il Tempio d'Iside ci è pervenuto nella quasi completa ricostruzione che se ne fece dopo il 63 a spese di N. Popidio Celso, ed è il meglio conservato dei templi della città. Il santuario, chiuso da alte mura, si compone del tempietto ad alto podio con pronao e stretta cella rettangolare, dove erano esposti i simulacri e i sacri strumenti del culto: l'altare principale si trova di fianco alla gradinata; nell'angolo sud-est, un tempietto, decorato di rilievi a stucco, raccoglieva l'acqua lustrale; alle spalle del tempio, un grande ambiente ricavato da una parte dell'area della vicina palestra, era la sala di riunione degli associati isiaci; infine, a oriente, si trovano addossate alle costruzioni del teatro poche stanze di abitazione per i sacerdoti. Elementi della costruzione più antica sono riconoscibili in alcune colonne di tufo del portico, nel restauro posteriore rivestite di stucco, così come avvenne per il portico del tempio di Apollo.
L'Anfiteatro (v., tav. LII) all'estremo angolo sud-est dell'abitato, appoggiato con la curva meridionale dell'ellisse alla cinta murale e circondato per il resto da una grande piazza, nella quale sboccavano più vie, per la chiara testimonianza epigrafica lasciata dai duumviri C. Quinzio Valgo e M. Porcio, gli stessi costruttori del Teatro piccolo, e per il carattere stesso della pianta e delle strutture dell'edificio, è inequivocabilmente il più antico degli anfiteatri stabili che si conoscano: la costruzione della massa muraria è infatti dei primi anni della colonia romana; ma le gradinate vennero portate a compimento successivamente con i contributi di altri duoviri e dei magistri del pago suburbano Augusto Felice, e cioè non prima dell'anno 7 a. C. (Corp. Inscr. Lat., X, 853-7). Ciò che lo distingue dal tipo più comune degli anfiteatri di epoca imperiale, è la mancanza di sotterranei al disotto del piano dell'arena, segno che gli spettacoli di venationes non avevano, al momento della costruzione, assunto quell'importanza predominante che presero più tardi; le grandi scale di accesso alla summa cavea non sono ricavate nello spessore della costruzione, ma appaiono invece addossate, a doppia rampa, al muro esterno della costruzione; infine, quel che avanza delle gradinate ci richiama ancora, nel taglio e nel profilo, alla costruzione coeva del Teatro piccolo. Restano lungo il coronamento superiore della galleria grossi anelli in pietra per l'infissione delle armature necessarie alla manovra del velarium.
Essenziale per la storia dell'architettura termale romana è lo studio delle terme pompeiane, che ci offrono elementi struttivi e funzionali, architettonici e decorativi, unici in tutta la vasta serie degli edifici balneari dell'Italia e dell'impero, tanto più preziosi per la loro assoluta priorità cronologica rispetto alle Terme di Roma. Oltre ai molti bagni privati che si osservano nelle più nobili case della città (Casa del Fauno, del Centenario, delle Nozze d'Argento, ecc.) e nelle ville suburbane di Diomede e di Boscoreale, Pompei possiede, finora scoperti, tre pubblici edifici termali, che corrispondono a tre distinti periodi del suo sviluppo urbanistico: 1. le Terme stabiane, all'incrocio del decumano inferiore con il cardine massimo, rimontano con il loro piano di assieme al periodo più fiorente dell'età sannitica (sec. II a. C.), ma sembrano conservare sul lato di nord un nucleo più antico: rifatte e ammodernate nell'età romana, gravemente danneggiate dal terremoto del 63, costituiscono sempre il più antico monumento dell'edilizia termale (v. bagno, V, tav. CLXXVII); 2. le Terme del Foro, all'incrocio del decumano superiore con il cardine della Via del Foro, appartengono ai primi anni della colonia romana, e conservano mirabilmente gl'impianti di riscaldamento e la decorazione a stucco dell'età neroniana (v. bagno, V, tav. CLXXVII); 3. le Terme centrali, all'incrocio del grande quadrivio del decumano superiore con il cardine' massimo, iniziate poco prima dell'eruzione, quando cioè la città, dopo il disastro del 63, si accingeva a riformare radicalmente la sua edilizia termale dietro l'esempio della metropoli e delle altre ricche città della Campania.
La casa. - Ma più che nei monumenti, è nella casa che si riassume e si esprime l'interesse sommo di Pompei, perché oltre alla copiosa documentazione che ci viene, da tutta una città, di schemi e di forme varie di abitazione, oltre alla preziosa testimonianza della decorazione delle pareti e dei pavimenti, solo a Pompei è possibile studiare l'abitazione privata degli antichi nel suo naturale processo di evoluzione, dal tipo della casa italica, del sec. IV-III a. C., fino al tipo della casa romana della metà del sec. I dell'impero; processo struttivo e architettonico, strettamente connesso con lo sviluppo della pittura parietale e del musaico e, nel tempo stesso, processo demografico, economico, spirituale e culturale dei suoi abitanti.
Senza soffermarci sull'oscura e controversa questione delle origini (vedi casa), il tipo più antico della casa a Pompei ci appare, nei materiali e nella tecnica delle strutture e nell'impianto, già perfettamente definito nella sua ossatura architettonica e nella distribuzione dei suoi ambienti: segna cioè la fine e non l'inizio di un remoto e lento periodo di sviluppo. Tipo fondamentale è la cosiddetta Casa del Chirurgo, con la sua massiccia facciata in opera quadrata di calcare sarnense e con il suo atrio di tipo tuscanico (vedi atrio); a essa si ricollegano le altre case ad atrî calcarei esistenti in tutti i quartieri della città, riconoscibili dalle caratteristiche strutture a blocchi o listoni di pietra di Sarno, anche quando vennero parzialmente o radicalmente trasformate nelle età seguenti. Può farsene risalire l'origine alla prima occupazione sannitica e il pieno sviluppo al sec. III a. C.
Su questo tipo semplice e austero più vetusto, che conserva il carattere del costume familiare della gente italica, esercitò la sua innegabile influenza la corrente ellenistica, che nel sec. III e II trovò favorevole campo di sviluppo nella Campania e nel Lazio. E Ia casa pompeiana, pur restando sostanzialmente fedele alla sua pianta primitiva, si amplia in profondità con l'aggiunta di un portico che circonda l'antica area dell'hortus, adotta talvolta per l'atrio la copertura tetrastila, arricchisce di elementi architettonici i portali della facciata, amplia e distende i suoi appartamenti di alloggio e di ricevimento lungo i lati del portico, separa, nelle case patrizie, nettamente il quartiere di residenza padronale dal quartiere servile: la trasformazione architettonica è contrassegnata dal diverso impiego del materiale di costruzione: e cioè il tufo vulcanico di Nocera, più facile alla lavorazione, all'intaglio, alla decorazione, sostituisce la scabra pietra di Sarno. E la parete completa l'armonia architettonica delle varie parti della casa, perché stucco e colore imitano plasticamente e cromaticamente le partiture architettoniche e le preziose incrostazioni marmoree del rivestimento; musaici di grande finezza, spesso d'arte alessandrina, formano il lussuoso pavimento degli ambienti più nobili. Talvolta l'abitazione si estende a tutt'intera una insula, diventa un palazzo. Tale ci si presentano la Casa del Fauno (v. casa, IX, p. 261), la Casa di Pansa, la Casa delle Nozze d'Argento (v. abitazione, I, tavola X; casa, IX, pagina 260; compluvio, XI, p. 3); e accanto a esse vanno ricordate per nobiltà di forme, la Casa di Sallustio, la Casa del Labirinto e la Casa di Meleagro con le loro sale a colonne, la Casa di Epidio Rufo, (vedi atrio, V, tav. LXVII), con il suo atrio polistilo; e vanno pure ricordate le case di Arianna, dei Capitelli figurati e del Torello, per la decorazione dei capitelli che ne ornano i portali d'ingresso.
Nell'età romana lo sviluppo delle forme struttive e decorative seguì anche più fedelmente le vicende dell'abitazione della metropoli. Dall'età sillana all'augustea, al periodo neroniano e flavio, se la casa non si amplia e non si nobilita più di vaste e grandiose proporzioni architettoniche, anche perché l'incremento urbanistico porta a una necessaria costrizione di spazio, si ha invece un gusto sempre crescente per la decorazione; ad aree minori e ad ambienti più piccoli, anche se moltiplicati di numero, corrisponde una maggiore ricercatezza nella decorazione delle pareti e nell'apparato scenografico dell'insieme. Il colore, l'ornamentazione, la ricerca dell'effetto dei giardini e delle fontane, finiscono per soverchiare la bellezza della composizione architettonica: le maggiori esigenze di una borghesia raffinata e arricchita finiscono per aver ragione della disposizione tradizionale della vecchia casa italica, e spesso gli ambienti mutano natura e destinazione. E incomincia, sotto l'impulso del ceto mercantile, la lenta trasformazione della casa patrizia, indivisibile nella sua unità organica, in più case frazionate e intramezzate da botteghe, che cercano sempre più di compensare la diminuita disponibilità di superficie con la sopraelevazione del piano terreno, ricorrendo a espedienti di scale, ballatoi e avancorpi, costruiti generalmente con muri e tramezzi leggieri, a intelaiatura di legno e murature povere (opus craticium). E quando il cittadino o il mercante arricchito ha bisogno di più ampia dimora, si accontenta di comprare più case e le aggrega l'una all'altra con semplici vani di passaggio (Casa delle Vestali, dell'Ancora, di Castore e Polluce, di Sirico, del Citarista, dell'Efebo). Tipicamente rappresentative delle forme e degli aspetti, che venne assumendo la casa postaugustea a Pompei, sono le universalmente note Casa dei Vettii, Casa degli Amorini Dorati (v. giardino, XVII, p. 66), Casa del Poeta Tragico, Casa di Lucrezio Frontone, e le numerose abitazioni scoperte nei nuovi scavi lungo la Via dell'Abbondanza, dove anche più appariscenti si notano le trasformazioni edilizie apportate negli ultimi anni di vita della città; serba invece ancora il suo carattere patrizio e signorile la grandiosa abitazione di Quinto Poppeo, detta Casa del Menandro.
Eppure, nonostante la varietà e complessità degli aspetti, nonostante le infinite sovrapposizioni e trasformazioni, non abbiamo ancora a Pompei la grande casa d'affitto divisa in appartamenti, con più scale, quale abbiamo a Ostia e che doveva esser comune nella Roma imperiale. A Pompei l'evoluzione della casa si arresta a uno stadio di transizione, fra il tipo cioè della domus patriarcale e il tipo della casa d'affitto. È conseguenza dell'eruzione dell'anno 79 se Pompei, a differenza di tante altre città dell'impero, in luogo di un tipo uniforme di ampî caseggiati a più piani, ci presenta ancora il quadro più istruttivo e più completo dell'evoluzione della casa italica e romana sul territorio della Campania e dell'Italia (v. anche cenacolo, IX, p. 727).
La decorazione. Pittura e musaico. - All'evoluzione delle strutture e delle architetture si accompagna, dalla metà almeno del sec. II a. C., lo sviluppo della decorazione nelle pareti e nei pavimenti, e la conservazione delle pitture costituisce il grande, essenziale e impareggiabile interesse d'arte del disseppellimento di Pompei. Poiché, se è vero che la pittura pompeiana rientra nel quadro generale dello sviluppo della pittura antica, e non può essere pertanto disgiunta dai monumenti coevi dell'Oriente ellenistico, dell'Egitto e soprattutto di Roma, non è men vero che, innanzi alla rarità e discontinuità delle opere pittoriche altrove superstiti, solo Pompei può darci, con la documentazione della sua pittura d'arte e della sua pittura popolare, una visione compiuta del valore della pittura antica nella sua essenziale funzione d'arte decorativa, soprattutto da quando, dopo la scoperta della Casa dei Vettii, i dipinti (pur non senza pericolo di deterioramento) sono lasciati in situ, e i quadri figurati non sono più avulsi dal loro complesso decorativo. E solo a Pompei è ancora possibile seguire la naturale evoluzione delle forme e dei motivi della composizione, della tecnica e dello stile della pittura per più di due secoli di sviluppo, sulla base non solo dell'esame stilistico e formale, ma sulla testimonianza altrettanto preziosa delle strutture murarie a cui il rivestimento pittorico è applicato. Ma nonostante l'immensa dovizia della documentazione d'arte, la pittura pompeiana, rimasta per gran tempo oggetto di esegesi mitografica, solo da non molti anni è divenuta oggetto di esame storico e stilistico, nei riguardi soprattutto della genesi e della formazione dei cosiddetti quattro stili pompeiani, per meglio determinarne il reale valore e la funzione nello sviluppo della pittura antica. Tale valore di documentazione è accresciuto inoltre dalle scoperte già mirabili delle ville suburbane dell'agro pompeiano, e dal fatto che della pittura pompeiana vengono naturalmente a far parte le pitture stabiane ed ercolanesi e di tutta la zona vesuviana, produzioni anche esse di un'unica corrente d'arte.
E per quanto non più interamente accettabile nella sua rigidità schematica di formulazione e di datazione, torna ancora utile, ai fini di un orientamento fra tanta ricchezza di pitture (in parte in luogo e in parte nel Museo Nazionale di Napoli), esporre, con qualche modifica ed esemplificazione, la classica definizione di A. Mau dei quattro stili della pittura pompeiana.
Tipi della decorazione parietale. - I stile (o stile a incrostazione). - La decorazione a stucco imita con lo spartito a zoccolo, a riquadri e a bugne, a pilastri e a cornici, il rivestimento architettonico e, con la varietà di colore, il rivestimento marmoreo delle pareti: nessun quadro figurato, e solo qualche elemento decorativo (Casa di Sallustio, Casa del Fauno; 150-80 a. C.).
II stile (o stile architetturale). - La decorazione non si limita a imitare il rivestimento di superficie, ma crea con il giuoco delle prospettive l'illusione delle composizioni architettoniche a due o più piani di profondità. Oltre a ciò la parete apre il campo ai soggetti figurati o con grandi quadri di composizione di soggetto mitico, eroico o religioso, o con quadretti minori, intercalati, a forma di pannelli, fra gli elementi architettonici (casa di Obellio Firmo, del Labirinto, delle Nozze d'Argento, del Criptoportico, Villa dei Misteri, ecc.; 80 a. C.-14 d. C.).
III stile (o stile ornamentale ed egittizzante). - Lo schema architettonico della parete, che nello stile precedente derivava i suoi motivi dalla realtà struttiva, conservandone la plasticità con il giuoco delle prospettive, si appiattisce e assume, nella composizione d'assieme e nei particolari, un valore più che altro ornamentale: colonne, fasce e fregi si arricchiscono di minuziosità decorative, trattate con estrema finezza e perizia di colore; il quadro figurato, al centro della parete tripartita, entro edicola, assume valore preponderante sul complesso della decorazione (casa di Spurius Mesor, Casa di Cecilio Giocondo e Casa di M. Lucrezio Frontone; dalla prima età imperiale al 63 d. C.).
IV stile (o stile illusionistico). - Tutto il campo della parete è concepito come una composizione semplicemente decorativa, senza più netto distacco fra quadro figurato ed elementi architettonici. Le architetture che inquadrano il soggetto figurato, pur ricollegandosi, per il giuoco schematico delle prospettive, a quelle di II stile, lontane da ogni realtà struttiva, hanno mero valore illusionistico: sono schemi fantastici, sovraccarichi di elementi ornamentali; e i quadri figurati s'inseriscono nel fondo della parete come veri e proprî pannelli, senza aggiunte di prospettive e di architetture; spesso, lavorati a parte nella tecnica più preziosa dell'encausto, vengono inseriti nel vuoto della parete resecata. È lo stile dell'ultimo periodo pompeiano, ed è quello che meglio rende il carattere lussuoso e mercantile della casa di Pompei prima dell'eruzione. Tipicamente dimostrativo è l'esempio della Casa dei Vettii (v. affresco, I, tav. CVII; auge, V, p. 333; biga, VI, pp. 986 e 987; danza, XII. p. 362; dedalo, XII, p. 475; dirce, XII, pagina 974; ercole, XIV, tav. XI; giove, XVII, tav. LXXXIV). Dall'età claudia al 79 d. C.
Vanno infine considerati al di fuori d'ogni classifica di stile i quadri di soggetto popolare (pitture e manifesti di botteghe, rappresentazioni di scene di osteria e di officina, pitture di Lararî [v.] e di cerimonie sacre), che interessano soprattutto l'ambiente e il costume sociale (v. anche chirurgia, X, p. 155, commedia, X, p. 937; dioniso, XII, p. 946; grecia, XVII, p. 876 e tav. CLXXXVII; icaro, XVIII, p. 695).
La decorazione della casa è completata dal musaico, che non manca mai nelle case nobili e ricche, ma che si trova anche in forme più modeste nelle case più umili. Quasi inesausta è la ricchezza dei tipi del pavimento pompeiano: dal più semplice primitivo tipo in cocciopesto (opus signinum) si passa gradualmente, attraverso i pochi esempî di lithostroton composto di pietruzze bianche screziate di pietre colorate, al vero e proprio musaico a tessere bianche e nere o policrome con una ricchissima varietà di schemi geometrici, e spesso con scene ed emblemi figurati tolti dal mito, dal mondo naturale o da soggetti di genere. Talvolta al centro dei più nobili ambienti campeggia un quadro di tecnica più fine con soggetti esotici, che tradiscono l'influenza o la diretta importazione di maestranze o di officine musive alessandrine. Esempio unico, di vero e grande valore d'arte pittorica, è il musaico della battaglia di Alessandro nella finissima tecnica dell'opus vermiculatum, scoperto il 24 ottobre 1831 nel tablino della Casa del Fauno, al quale si ricollegano per finezza tecnica gli altri preziosi musaici della stessa casa, e i quadretti di soggetto teatrale della cosiddetta Villa di Cicerone. Più tardi, nell'età dei Flavî, all'opera musiva si sostituiranno i pavimenti ad intarsio (opus sectile), contesti di marmi rari e composti a disegno geometrico. Ed anche qui, come sulle pareti, si manifesta quella predilezione per l'accentuazione cromatica che contrassegna tutto l'ultimo periodo della vita della città. Infine anche Pompei, insieme con Ercolano, ci offre, con il rivestimento di nicchie e di pareti di ninfei in musaico a pasta vitrea i più antichi preziosi esempî fin oggi superstiti del musaico parietale (cfr. musaico).
Arte e arti minori a Pompei. - Le sculture in bronzo e in marmo che Pompei, nonostante le spoliazioni subite dopo la catastrofe, ha restituite in buon numero, e l'immensa quantità di suppellettile, prodotto delle arti minori, in oro, in argento, in bronzo, in terracotta, in vetro, in osso e in avorio, non solo valgono a darci un'idea di quel che erano i gusti e il mercato d'importazione di una ricca città campana del sec. I dell'impero, ma giovano a integrare la visione dell'ambiente intimo della casa, dando a questa il suo ornamento più raro con qualche pregevole scultura e il suo necessario mezzo di vita con le sue suppellettili. Ma mentre le poche grandi opere d'arte ricuperate escono dal quadro troppo ristretto della vita d'una città di provincia, la serie delle statue e delle ermeritratto, la serie più numerosa delle piccole sculture decorative e quella innumerevole dei prodotti delle arti industriali, sono del più alto interesse per delineare il quadro dell'ambiente sociale, economico e artistico di Pompei, e in genere della società romana di una città di provincia, dall'età augustea alla prima età flavia. La ricchezza e la varietà del materiale consentono inoltre la più larga possibilità di studio di tipi, di forme, di tecnica.
Come a Roma, così nelle città campane troviamo il più largo eclettismo nella scelta delle opere d'arte da officine di bronzisti e di copisti statuarî. Così, accanto ad opere dell'arcaismo maturo e del periodo prefidiaco, quali abbiamo nei due bronzi dell'Apollo Citaredo (dalla Casa del Citarista) e dell'Efebo (dalla Casa di P. Cornelio Tegete) e nella graziosa statuetta dell'Artemide pompeiana (v. artemide, IV, tav. CXL), o accanto a una buona replica del Doriforo di Policleto (dall'edificio della Palestra, e al minore Efebo di bronzo con tracce di argentatura (fuori Porta Vesuvio), di scuola policletea, abbiamo il gruppo di Apollo e Artemide saettanti (dal recinto del tempio di Apollo), appartenti a un gruppo di Niobidi di rielaborazione di officine italiote, e una copia in bronzo dell'Ercole epitrapezio di Lisippo (dal pago marittimo di Pompei).
Più ricco e vario è il patrimonio d'arte ellenistica, con statuette di piccolo modulo, ornamento di fontane, di peristilî, di giardini e di triclinî: tale è la mirabile serie di piccoli bronzi del Fauno danzante (dalla Casa del Fauno), del Satiro con l'otre (dalla Casa del Centenario), del Sileno ebbro (dalla Casa dei Marmi), del cosiddetto Narcisso (dalla Reg. VII, ins. 12, n. 21), della statuetta di Nike volante, del gruppo grottesco dei quattro placentarî (dalla Lasa dell'Efebo) di schietto sapore alessandrino, del Pescatore seduto (dalla Casa della Fontana a musaico); a questi occorre associare la serie degli animali, ornamento di fontane, come il "cinghiale assalito dai cani" (dalla Casa del Citarista).
Ma alla piccola scultura in marmo e all'arte decorativa del rilievo era affidata soprattutto la funzione di abbellire la casa pompeiana e in particolar modo i giardini, dei quali crebbe nell'età neroniana il gusto ricercato e manierato: si moltiplicano le erme generalmente bifronti di tipo bacchico, le statuette di amorini, di satiri e di animali, i rilievi con maschere teatrali (v. maschera, XXII, p. 484) gli oscilla e le maschere sospese fra gl'intercolunnî dei portici (Casa dei Vettii, Casa degli Amorini Dorati, Casa dell'Efebo, Casa di Loreio Tiburtino); e, fra molti prodotti di semplice valore decorativo, si nota spesso un'eco dell'originale creazione ellenistica o di una fine rielaborazione neoattica.
L'arte romana ci ha dato a Pompei con la statua di Livia (dalla Villa dei Misteri; v. livia), con il Marcello (dal Macellum) e con ritratti minori di marmo e di bronzo della gente giulio-claudia, non ancora sicuramente identificati, nobilissimi esempî dell'iconografia imperiale. Ma più preziosa è la documentazione dell'iconografia privata. Qui, alle poche grandi sculture sopravvissute di Olconio Rufo (dal quadrivio della Via dell'Abbondanza), della sacerdotessa Eumachia (dall'Edificio di Eumachia), di Marco Tullio (dal tempio della Fortuna), di Suedio Clemente (dal pomerio fuori P. Ercolanese), occorre associare un gruppo di ritratti su erme, che sono fra le più vigorose espressioni del ritratto romano, quali, ad es., di bronzo, il ritratto di Gaius Norbanus Sorex (dal tempio d'Iside) e del banchiere Lucio Cecilio Giocondo e, di marmo, i ritratti del cosiddetto Bruto Minore, del triumviro M. Antonio e le erme di Cornelio Rufo e di Vesonio Primo.
Meno rappresentata è l'iconografia greca: ricorrono tuttavia anche qui, come a Ercolano, Epicuro, Metrodoro, lo Pseudo-Seneca e Demostene in una serie di bustini, e qualche personaggio del mondo letterario greco appare su medaglioni e ritratti di maniera, privi di vero valore iconografico; notevole fra tutti, come testimonianza delle predilezioni letterarie della società colta pompeiana, il ritratto di Menandro nella Casa del Menandro (v. anche canaco, VIII, p. 623).
Ma è soprattutto nelle arti minori del mobilio e del vasellame che Pompei offre l'immensa dovizia del suo patrimonio.
Le tavole marmoree degli atrî (cartibula) e dei giardini hanno i trapezofori elegantemente scolpiti in forma di grifi, di sfingi, di leoni o del frigio Attis; i letti, finemente niellati, hanno i pulvini e il capezzale decorati con busti di amorini, di sileni, di menadi sbalzati nel bronzo; l'illuminazione delle case offre ai bronzisti, con le lucerne a sospensione, a lampadario e su candelabri, il campo più vasto alla creazione d'arte decorativa, dal lucerniere foggiato a tronco d'albero e dal candelabro a fusto raccorciabile, alla lucerna grottesca, apotropaica e oscena; il riscaldamento degli ambienti e delle vivande presenta la serie dei bracieri, anch'essi decorati di emblemi figurati, e delle stufe; le casse (arcae) hanno, sulla solida ossatura di ferro, borchie e medaglioni con figure di divinità, i battenti delle porte e i cofanetti solide ed eleganti maniglie di bronzo; infine tutto il vasellame di bronzo della casa, dalla situla a tronco di cono e dal grande vaso da acqua alle eleganti brocche da vino e da olio, dalle ceste con i manici snodati alle forme di pasticceria, dalle patere ai colatoi finemente traforati, è tutta una mirabile esemplificazione di gusto e di perfezione tecnica tanto nelle forme struttive dell'oggetto, quanto nei suoi elementi figurati e decorativi (v. arredamento, IV, tavv. CXX, CXXI, CXXII; banchetto, VI, tav. VI; bronzo, VII, tav. CCIX).
E poiché viva e profonda era nella ricca società romana la passione per le argenterie, scelta e preziosa è la suppellettile argentea. Tali sono le coppe della Casa dell'Argenteria, e soprattutto i tesori della Villa della Pisanella presso Boscoreale e della Casa del Menandro, che costituiscono due completi servizî di mensa con vasellame corrente e d'arte (v. argento).
L'arte vetraria è rappresentata da pezzi unici, quali il Vaso di vetro azzurro (da un sepolcro di Porta ercolanese), da vetri policromi, che imitano nella tonalità dei colori e nel disegno i vasa murrhina, da vetri intarsiati o dorati, quali quelli del cubicolo della Casa degli Amorini Dorati, da medaglioni dipinti con finissima arte miniaturistica, dalla innumerevole serie dei vetri bianchi trasparenti, e infine dalle terrecotte invetriate, in parte di origine esotica e in parte di fabbriche campane. Gli ornamenti della toletta femminile appaiono nelle oreficerie, che sembrano preannunciare, nella massiccia pesantezza delle collane e delle armille e nella già larga applicazione di perle e di paste vitree, le oreficerie bizantine e barbariche, e, soprattutto, nella ricca serie di oggetti e utensili da toletta d'osso e d'avorio, tra i quali figurano in buon numero placchette (crustae) di applicazione per cofanetti intarsiati.
Quanto di tutto questo materiale di piccola arte industriale si possa attribuire a maestranze locali, è difficile dire: i centri di produzione del bronzo, del vetro, della ceramica a rilievo erano, nella Campania, Capua, Puteoli, Cales; ma il commercio dei prodotti d'arte era tanto vivo e intenso nei porti e nelle città della Campania, che non è sempre facile distinguere i prodotti locali da quelli dei più lontani centri di produzione.
popolazione. - Nell'ultimo ventennio, quando la città cominciava ad estendersi oltre la vecchia cinta murale, e si sopraelevavano ovunque le abitazioni, la popolazione di Pompei poté ascendere a un massimo di 20-22.000 ab.: dopo il terremoto del 63 e la rovina di molte case, si dovette avere una sensibile contrazione, presto seguita da una rapida ripresa, attestata dal vivo incremento edilizio degli ultimi anni. Oltre al vecchio ceto patrizio dell'età sannitica, oltre alle molte famiglie romane venute dal tempo della conquista sillana in poi, popolavano la città mercanti e liberti d'origine campana, liberti e schiavi d'origine greca ed asiatica, richiamati soprattutto dal carattere industriale che la città veniva sempre più assumendo. Alla popolazione residente si aggiungeva la massa della popolazione fluttuante, ai cui bisogni erano soprattutto rivolte botteghe, osterie e alberghi, e la cui presenza e condizione sociale ci è attestata da numerose iscrizioni graffite.
Vita economica e mercantile. - La vita economica e mercantile della città (v. bottega, VII, p. 579) ci appare saldamente organizzata in numerose corporazioni professionali di arti e mestieri, molte delle quali ricorrono sui pubblici affissi elettorali nella consueta forma della rogatio per l'uno o per l'altro candidato; segno evidente della viva partecipazione e dell'effettiva influenza che tali corporazioni avevano nel reggimento amministrativo con la designazione del candidato preferito, patrocinatore degli interessi della corporazione. Così, ad es., i lavoratori dei campi e i produttori di industrie agricole sono rappresentati dalle associazioni degli agricolae, dei caeparii (orticoltori), dei pomarii (fruttivendoli), dei gallinarii (pollaiuoli), dei vindemitores; pescatori e pescivendoli dalla corporazione dei piscicapi, all'industria dei trasporti erano addetti i muliones (mulattieri) e i saccarii (facchini), i quali avevano la sede del sodalizio presso il Foro con l emblema parlante del loro umile e faticoso mestiere, e i lignarii, i lignarii plostrarii ed i cisiarii (carpentieri e facocchi) installati, com'era naturale, presso le porte della città; alla redditizia industria del pane i pistores, delle focacce i clibanarii, alle pubbliche saline i salinienses; alle cure della persona i vestiarii, i tonsores e gli unguentarii; ad arti più nobili gli aurifices e i librarii; al patrocinio di cause giudiziarie, o, come altri vuole, all'esercizio del commercio ambulante, i forenses; né mancavano speciali sodalizî di giuochi, quali dovevano essere gli alearii (giocatori di dadi) e i latruncularii (giuoco affine a quello degli scacchi).
Di gran lunga più importanti erano le corporazioni che facevano capo all'industria e al commercio del vestiario, e che ci si presentano in quelle degli operai tessili (textores), dei cardatori (lanifricarii), dei tintori (infectores e offectores), o dei fabbricanti di tessuti di lana pesanti o di feltri (coactiliarii), e, soprattutto, nell'associazione e nell'industria principe di tutta la vita economica pompeiana, quella dei fullones, di quelli cioè, che lavoravano i tessuti grezzi in tessuti raffinati, attraverso un complicato processo di lavaggio e di purgamento entro vasche mediante la pigiatura dei piedi, d'imbiancamento con vapori di zolfo, di battitura di cardatura e di cimatura fino alla premitura e alla stiratura sotto il torchio (v. cucina, XII, p. 75; fullonica). Prove dell'importanza che i fullones assumono nella vita pubblica di Pompei si hanno non solo nel numero notevole di fulloniche installate in case d'abitazione nei varî quartieri della città, nel ricorrere del ńome della corporazione nei programmi elettorali, ma soprattutto nell'edificio monumentale che la sacerdotessa Eumachia aveva eretto nel Foro ad uso dei fulloni e che, simile ai fondachi del Medioevo, doveva raccogliere tutta la produzione di questa potente corporazione. Significativa testimonianza del grado sociale e politico della classe offre la casa e l'officina di Vesonio Primo, che, duumviro in carica nel 34 d. C. e proprietario di una fullonica, non disdegnava in un programma elettorale la qualifica di fullo.
Ma anche più eloquente dei dati epigrafici è il cogliere dall'aspetto stesso della città, dalle botteghe e dalle officine, il processo della graduale trasformazione edilizia, sociale ed economica di una Pompei di carattere patrizio, vivente quasi esclusivamente sul reddito della proprietà terriera e sul regime della clientela, ad una Pompei industriale, mercantile, nelle mani di una classe di mercatores arricchiti, di liberti procaccianti e astuti, di corporazioni di artigiani, di una plebe avida e irrequieta, e in mezzo a un contado dove, al regime patriarcale della vita e della fattoria, si sostituiva l'industrializzazione agricola dei prodotti del suolo.
Officine e laboratorî s'installano nel pianterreno delle case, ne occupano la parte architettonicamente più fastosa, il peristilio col giardino, e vi adattano tettoie, impalcature e fornaci, si affacciano sulla strada per necessità di réclame e per le esigenze del commercio. Le botteghe si moltiplicano lungo i margini delle insulae e lungo le strade di maggior traffico; distruggono gli alti portali delle vecchie case patrizie per aprire le loro basse e larghe porte e mettere bene in vista la merce sul banco di vendita; spesso la bottega è bottega al pianterreno e abitazione nel piano superiore, e viene a invadere e trasformare gradatamente il corpo della ricca casa vicina, e il mercator arricchito non disdegna, vivendo negli agi di una sontuosa dimora, di sorvegliare personalmente, o per mezzo di liberti procuratores, la sua azienda. E la réclame diventa strumento essenziale del commercio; il venditore non si contenta di gridare la bontà della sua merce, di adescare i passanti; ma tappezza i muri esterni dell'officina e della bottega con insegne e con pitture tali da richiamare l'attenzione dei viandanti e soprattutto degli stranieri e dei villici del contado: da un lato, mentre con le immagini degli dei, e soprattutto della Venus pompeiana e dei Lari, pone il suo commercio sotto la protezione dei Numi, si difende dal malocchio con gli amuleti apotropaici di rito, e fa appello alla religione della sua eventuale clientela, dall'altro illustre descrive, nel dipinto dell'insegna, l'arte sua e il processo tecnico della lavorazione, quasi a garantire la bontà del prodotto e l'onestà dell'industriale e del rivenditore. Tale è il singolare spettacolo che ci offrono alcune botteghe ed officine della Via dell'Abbondanza, con l'officina del vestiarius Verecundus e con le altre botteghe che la fiancheggiano.
Oltre alle fulloniche e alle tintorie, ai molini e alle panetterie, che sostituiscono negli ultimi tempi della città la panificazione domestica, abbiamo una conceria presso Porta di Stabia, e, non meno necessarî per una città di transito e di traffico, stalle ed alberghi (stabula e hospitia) in buon numero, disposti a preferenza presso le porte della città e nei quartieri popolari intorno al Foro.
Fra l'innumerevole serie di botteghe, le osterie (cauponae) si riconoscono agevolmente non solo per il caratteristico banco di vendita che ne occupa il fronte, ma anche per la suppellettile necessaria alla mescita delle bevande, per il deposito delle anfore vinarie, per le stanze che formano il retrobottega e che erano destinate ad accogliere gli avventori. Spesso l'osteria non si limita allo spaccio del gradito liquore, ma è trattoria, bisca, albergo e convegno più o meno clandestino di facili amori. E le qualità morali e sociali delle persone che frequentavano questi ritrovi ci appaiono dalle iscrizioni e dai graffiti, dai quadretti realistici con cui l'oste ha fatto decorare le pareti delle stanze predilette degli avventori (osteria del Vicolo di Mercurio). Tipicamente dimostrativo dell'assetto del banco di vendita di un'osteria pompeiana è un thermopolium nella Via dell'Abbondanza per mescita di bevande calde e fredde, trovato con tutte le sue suppellettili in bronzo e fittili, e con il numerario riscosso dalle ultime mescite, ancora intatto: i nomi esotici di donne che si leggono sulla parete esterna, lasciano supporre che il locale dovesse soprattutto la sua fortuna alle facili grazie di queste fanciulle, adibite al servizio dell'osteria e della locanda del piano superiore. Giuoco e libertinaggio dovevano trovare infine compiacente albergo in una delle bische (taberna lusoria) più frequentate della ciità, lungo la Via di Stabia (Reg. VI, ins. 15, n. 28), chiaramente indicata dall'emblema del biscazziere.
La grande quantità di anfore per vino e per olio, di dolî per la conservazione e la vendita di cereali, dei vasi minori per le olive in conserva e per salse e salamoie, e le iscrizioni che, simili alle etichette di fabbrica, accompagnano generalmente su queste anfore la spedizione della merce dal luogo di produzione fino al committente, dànno una sufficiente idea del commercio dei commestibili per l'approvvigionamento della città. Per quanto l'agro pompeiano fosse particolarmente vinicolo, il commercio del vino non si presenta a Pompei in forma di una potente organizzazione industriale; prevale una varietà infinita di prodotti e di proprietarî contraddistinti dal fondo da cui il vino proveniva: talvolta ricorre una data consolare. Lo stesso vale per l'olio di oliva, di cui negli ultimi anni s'iniziava la manipolazione in città oltre che nelle fattorie di campagna: un negozio di olearius è stato identificato sulla Via degli Augustali, e se n'è potuto ricostruire il torchio a vite; altri torcularia si trovano in case private per la produzione domestica. Notorietà e credito commerciale sembra che raggiungesse il garum o liquamen, una qualità di salamoia di pesci che veniva prodotta a Pompei, e che Plinio annovera fra le marche più pregiate del suo tempo. Organizzatore e monopolizzatore di tal genere d'industrie fu Umbricio Scauro, proprietario di più fabbriche con prodotti di diversa qualità, di cui la più raffinata era il gari flos. Le ricchezze accumulate permisero ad Umbricio Scauro di farsi editor munerum, e alla sua munificenza dobbiamo se il suo sontuoso sepolcro sulla Via delle Tombe ci ha dato, in un fregio a stucco, l'illustrazione più completa degli spettacoli che si tenevano nell'anfiteatro di Pompei.
Necropoli. - Della più antica necropoli, del periodo osco e del primo periodo della conquista sannitica, essendo rimaste sepolte le aree al di fuori delle mura sotto i materiali di scarico degli scavi, nulla ancora si conosce. Un piccolo gruppo di tombe sannitiche, a cassa di lastroni di tufo, con scarsa e tarda suppellettile di ceramiche italiote della fine del sec. IV e del principio del III a. C., venne in luce nel 1874 all'estremità occidentale della Via dei Sepolcri: altre 14 tombe dello stesso periodo apparvero nel 1907 nella stessa zona, nell'area della Villa delle Colonne a musaico, e infine un gruppo di 44 tombe preromane, parte a cassa e parte a semplice inumazione nel terreno, si scoprì fortuitamente nel 1911 a mezzo km. dalla Porta di Stabia. La necropoli di Pompei è soprattutto di età romana, ed essa si estendeva, con sepolcri e mausolei di carattere architettonico e monumentale, lungo i margini delle strade che conducevano ai sobborghi: l'area del pomerio extramurale veniva riservata a sepolcri onorarî, concessi, per pubblico decreto, a cittadini insigni. Tali si presentano le aree dissepolte fuori delle porte della città: ma nessuna di esse e poche altre città antiche possono offrire la suggestiva visione della via detta dei Sepolcri, che partendo dalla Porta ercolanese conduceva con più diramazioni alle ville, ai pagi e, lungo il litorale, a Neapolis. Gli scavi condottivi fra il 1763 e il 1838, misero in luce circa 300 metri di strada e, lungo di essa, cospicue ville signorili e sepolcri monumentali pubblici e privati. L'architettura funeraria offre a Pompei una varietà di tipi e di forme ellenistiche e romane, quale non abbiamo in Neàpolis e neppure in necropoli anche più sontuose di altre città antiche: tombe a sacello, a tempietto, a cella tutta chiusa, ad altare funerario sopraelevato su podio, ad alto podio con colonna sovrimposta e vaso cinerario collocato sul capitello della colonna, a camera con i loculi per le urne dei familiari, a grande nicchia absidata, piramidata a gradini, ad esedra, a letto tricliniare. Sembra quasi che questa singolarmente varia commistione di forme e di tipi di sepolcri, rispecchi insieme con le case della città, la doppia corrente verso forme dell'architettura ellenistica e romana e, nello stesso tempo, il disorientamento spirituale di un'età, in cui norma ed ispirazione per la costruzione del sepolcro erano soprattutto l'ambizione, l'orgoglio di sopravvivere e la ricerca di forme singolari e nuove per meglio imporsi all'attenzione dei viandanti e dei posteri.
Le "villae". - Pompei offre, nelle immediate vicinanze dell'abitato, e più estesamente nel suo fertile agro, dal lido marittimo fino alle pendici del Vesuvio, la più copiosa documentazione di villae private che il suolo della Campania e, per molti riguardi, dell'Italia antica ci abbia dato: dalla modesta fattoria destinata alla gestione di una piccola azienda agricola alla grandiosa villa patrizia, che amplifica lo schema tradizionale dell'abitazione urbana e gradualmente lo adatta alle particolari esigenze di un soggiorno suburbano, provvisorio o abituale e. comunque, prediletto. E nello stesso modo che per le case di città, così anche per le villae, Pompei, con la documentazione delle strutture e della decorazione parietale e musiva, ci offre il modo di poter seguire la graduale evoluzione della dimora suburbana dal secolo III a. C. fino al suo massimo sviluppo nell'età giulio-claudia, e fino al suo lento declinare e trasformarsi in azienda industriale agricola nell'età flavia.
Carattere più schiettamente signorile hanno le villae in vicinanza della città, quali la cosiddetta Villa di Cicerone, la Villa delle Colonne a mosaico, la Villa di Diomede e la Villa dei Misteri (v. decorazione; maschera, XXII, tav. CX) fuori Porta ercolanese lungo la Via dei Sepolcri; ma non mancavano in zone più lontane, più apriche e più panoramicamente belle, quali la Villa di Fannio Sínistore (v. cetra, IX, p. 901) e la Villa di Agrippa Postumo presso Boscoreale. Altre, già in via di completa trasformazione agricola, hanno restituito istallazioni e suppellettili di gran lusso: quale, ad es., la villa rustica di Boscoreale che, insieme con la sua grandiosa cella vinaria apprestata per la raccolta imminente, ci ha dato il più perfetto e completo bagno privato che una ricca dimora potesse avere, e l'inestimabile tesoro di un lussuoso servizio di argenterie da mensa. Ma la maggior parte erano villae rusticae, con gli ambienti generalmente distribuiti intorno ad una corte scoperta: non manca mai il prelum per le uve e spesso appare il trapetum e il torcularium per lo snocciolamento e la pressa delle olive.
V. tavv. CLXXXVII-CXCVIII.
Iscrizioni e graffiti. - L'epigrafia di Pompei non è rappresentata soltanto dalle iscrizioni di carattere pubblico e monumentale incise sulla pietra, sul marmo o sul bronzo; la città non ha offerto in questo campo, all'infuori di un buon gruppo d'iscrizioni in lingua osca del periodo preromano, una documentazione di singolare importanza. L'epigrafia pompeiana è invece soprattutto epigrafia d'occasione: è dipinta o graffita sui muri, all'esterno soprattutto degli edifici pubblici e privati, e, sotto questo riguardo, può ben dirsi che tutta la città sia un solo immenso archivio, di cui occorra pazientemente raccogliere la documentazione, prima che il tempo e le intemperie ne abbiano obliterato i segni. Tutti gli avvenimenti grandi e piccoli della cronaca cittadina (le elezioni a cariche municipali, gli spettacoli dell'anfiteatro, le locazioni di case e terreni, il bando per una bestia da soma smarrita), avevano per pubblica affissione l'intonaco delle pareti e tutta una classe di scriptores addestrati nella scrittura in lettere capitali, dipinte a color rosso sull'intonaco bianco, o talvolta a color bianco sul rosso, erano gli artefici necessarî di questa pubblicità murale.
Più varia, più intima, più umana è l'epigrafia graffita, incisa cioè con la punta dello stilo, o di un qualsiasi strumento aguzzo, sul vivo dell'intonaco, in carattere corsivo e il più delle volte in lettere capillari. La rarità e il costo del materiale scrittorio facevan sì che al papiro e alle tabulae ceratae venisse riservata la più nobile funzione di raccogliere testi letterarî o documenti amministrativi di carattere giuridico; tutto il resto era più agevolmente affidato alla punta dello stilo e all'intonaco dei muri: l'oste segnava i conti della bottega sul muro accanto al banco di vendita; il biscazziere le entrate dell'esercizio e i debiti della clientela; gl'innamorati pensieri, inviti e ricordi d'amore; i ragazzi di scuola i segni abbecedarî e i primi imparaticci di versi; la turba degli oziosi e dei girovaghi, contumelie, caricature e minacce; gli spettatori dell'anfiteatro le acclamazioni al campione preferito e il vilipendio ai seguaci dell'altra fazione; i frequentatori di angiporti e di case malfamate, motti osceni e salaci. Così l'umanità della città riecheggia ancora con le sue mille voci in ogni angolo dissepolto. Il genere più in vista dell'epigrafia pompeiana è quello dei programmi elettorali; ne sono tappezzate le facciate degli edifici soprattutto di quelli dei cittadini più influenti. Viene scritto a lettere capitali più grandi il nome del candidato, la carica alla quale egli aspira, e infine l'appello, espresso in sigla, al pubblico favore (oro vos faciatis); spesso al nome del candidato segue quello di un cittadino o di una corporazione che appoggia la candidatura.
Alla classe dei pubblici affissi appartengono anche gli annunzî di spettacoli anfiteatrali.
Ma innumerevoli erano le iscrizioni graffite, che sfuggono, per la difficoltà e la capillarità della scrittura, al comune visitatore della città; i monumenti pubblici più frequentati erano anche quelli più soggetti alle esercitazioni e ai ricordi degl'improvvisati scriptores (v. graffito).
Bibl.: Pompei è stata ed è tuttora uno dei più vasti e fruttuosi campi di ricerca e di divulgazione scientifica: della vastissima letteratura si daranno qui solo le opere essenziali. Valgono come orientamento le bibliografie particolari: F. Furchheim, La bibliogr. di Pompei, Ercolano e Stabia, Napoli 1891; A. Mau, Anhang zur 2e Auflage, 1913 (Appendice bibliografica a A. Mau, Pompeij, 2ª ed., v. sotto); A. W. van Buren, A Companion to the study of Pompeji and Herculaneum, American Acad. in Rome, 1933; cfr. A. Mau, Katalog d. Bibliothek d. deutsch. arch. Inst. con i supplementi di E. v. Mercklin e F. Matz.
Opere generali: F. Mazois, Les ruines de Pompéi, voll. 4 (con rilievi planimetrici e architettonici), Parigi 1824-1838; F. e F. Niccolini, Le case ed i monumenti di Pompei disegnati e descritti, voll. 4, Napoli 1854-1896; G. Fiorelli, Gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872, Napoli 1873; H. Nissen, Pompeianische Studien zur Städtekunde d. Altertums, Lipsia 1877; Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio nell'anno MCCMLXXIX (Memorie e notizie pubblicate dall'Ufficio tecnico degli scavi), Napoli 1879; J. Overbeck e A. Mau, Pompeji in seinen Gebäuden, Alterthümern u. Kunstwerken, Lipsia 1884; A. Mau, Pompeji in Leben u. Kunst, 2ª ed., Lipsia 1908. Di carattere divulgativo e informativo: G. Boissier, Promenades archéolog., Parigi 1880 (ed. ital. Rusconi, 1907); P. Gusman, Pompéi. La ville, les møurs, les arts, Parigi 1899; F. von Duhn, Pompei. Eine hellenistische Stadt in Italien, 3ª ed., Lipsia 1918; E. Pernice, Pompeij (Wissenschaft u. Bildung, n. 220), ivi 1926; A. Maiuri, Pompei, Novara 1928 (ingl., franc. e ted., 1931-32); oltre a una numerosa serie di Guide e Itinerarî compilati in varie lingue.
Storia delle scoperte: Preziosa e ancora inesausta miniera è la raccolta delle relazioni e dei rapporti fino al 1860; G. Fiorelli, Pompeianarum antiquit. historia, I-III, Napoli 1860-64 (mancante di indici): cfr. per il periodo più antico Corp. Inscr. Lat., IV, p. 2311. Relazioni di scavo e studî sulle scoperte si hanno nel: Boll. dell'Ist. di Corr. arch., 1829-1885, e Röm. Mittheil., 1886 segg.; nel Bull. arch. napoletano, I-VI (1842-48) e n. s., I-VIII (1853-63); Bull. arch. ital., 1861-62; e Giornale degli scavi di Pompei, Napoli 1861-65, e n. s., I-IV, 1868-79; dal 1876 e le relazioni ufficiali degli scavi vengono periodicamente pubblicate sulle Notizie d. scavi (indice di ciascun volume e indici generali: v. soprattutto A. Sogliano, G. Spano, M. Della Corte, A. Maiuri). Alcuni periodi di scavi sono riassunti da: G. Fiorelli, Gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872, Napoli 1873; L. Viola, Gli scavi di Pompei dal 1873 al 1878, in Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879; A. Sogliano, Gli scavi di Pompei dal 1873 al 1900, in Atti del Congr. storico di Roma, V (1904), pp. 295-349.
Topografia generale: Pianta: G. Fiorelli, Tab. Colon. Vener. Corn. Pompeis (42 fogli; rilievo dell'anno 1859) e Corp. Inscr. Lat., IV, suppl. (in base all'ottimo rilievo del Tascone dell'anno 1885); sul primitivo impianto e piano regolatore v.: H. Nissen, Das Templum, Berlino 1869, pp. 63-81; G. Fiorelli, Gli scavi cit., App., pp. 10-12; F. von Duhn, op. cit.; A. v. Gerkan, Griech. Städteanlagen, Berlino 1924; K. Lehmann Hartleben, Städtebau, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III A, col. 2016 segg.; A. Maiuri, La fortificazione di Pompei, in Mon. d. Lincei, XXXIII (1929), pp. 113-290. Sulla cosiddetta fase etrusca di Pompei v., oltre A. Mau, Anhang cit., p. 3 e A. Sogliano, in Studi etruschi, I (1927), pp. 173-185, e il risasunto critico di A. Maiuri, Aspetti e problemi dell'arch. campana, in Historia (1930), la discussione Maiuri-Patroni sulla cosiddetta colonna etrusca (ibid, 1931), R. C. Carrington, in Antiquity, VI (1932), pp. 5-23 e A. Boethius, in Symbolae Philol. Danielsson octogenario dicatae, Upsala 1932.
Sul porto di Pompei, v.: M. Ruggiero, Del sito di Pompei e dell'antico lido del mare, in Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879, p. 8 segg.; A. Sogliano, in Not. d. scavi, 1901, pp. 420-40; L. Iacono, in Neapolis, I (1914), pp. 353-71; M. Della Corte, in Not. d. scavi, 1928, p. 369 segg.; M. Baratta, Il porto di Pompei, in Athenaeum, XI (1933), p. 250 segg.
Sui monumenti e gli edifici privati, oltre all'ampia letteratura raccolta da A. Mau (Anhang cit.): A. Sogliano, Il Foro di Pompei, in Memorie dell'Accad. d. Lincei, s. 6ª, I (1925), pp. 217-272; M. Della Corte, Il pomerio di Pompei, in Rend. Lincei, s. 5ª, XXII (1913), pp. 261-308; A. W. van Buren, in Memoirs of the Amer. Acad. in Rome, II (1918); V (1925) e X (1932); A. Maiuri, La Villa dei Misteri, voll. 2 (testo e tavole in tricromia), Roma 1931; id., La Casa del Menandro, voll. 2 (testo e tavole), Roma 1933: id., Nuove ricerche ed esplorazioni intorno al Tempio di Apollo in Pompei, in Mon. Lincei (in corso di pubblicazione, 1935). Problemi particolari allo sviluppo della casa, in G. Patroni, Porticus, in Rend. Ist. lomb. sc. lett. LXIV, p. 6; O. Elia, I cubicoli nelle case di Pompei, in Historia, VI (1932), p. 394 segg.; A. Maiuri, Contributi allo studio dell'ultima fase edilizia a Pompei, in Atti I Congr. st. rom., 1929, p. 161 segg.; R. C. Carrington, The ancient Ital. Town-House, in Antiquity, giugno 1933.
Pittura e musaico: W. Helbig, Wandgemälde der von Vesuv verschütteten Städte Campaniens, Lipsia 1868; A. Sogliano, Le pitt. murali campane scoverte ngli anni 1867-79, in Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio, Napoli 1879; A. Mau, Gesch. d. Dekor. Wandmalerei in Pompeji, Berlino 1882; P. Herrmann, Denkmäler der Malerei des Altert., Monaco 1906-1931; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung d. Griechen, ivi 1923; P. Marconi, La pittura romana, Roma 1929; G. E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Milano 1929; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Lipsia 1929. Per la pittura di paesaggio v. M. Rostowzew, Die hellenistisch-römische Architekturlandschaft, in Röm. Mitteil., XXVI (1911); per i quadri di natura morta, H. G. Beyen, Über Stilleben, L'Aia 1928: per la Villa dei Misteri, v. Maiuri, op. cit.; su problemi particolari di composizione e di stile, v. G. Rodenwaldt, Komp. d. pomp. Wandgem., Berlino 1909; A. Ippel, Der dritte pomp. Stil, Bonn 1910; H. Diepolder, Unters. z. Komp. d. röm.-camp. Wandgem., in Röm. Mitteil., XLII (1927), pp. 1-83; A. Ippel, Wandgem. u. Archit., in Röm. Mitteil,. XLII (1927), pp. 1-83; A. Ippel, Wandgem. u. Archit., in Röm. Mitteil., XLIV (1929), pp. 43-58. - Per i musaici un primo lavoro di classifica e di composizione è in M. E. Blake, in Memoirs of the Americ. Acad. in Rome, VIII (1930).
Arte e arti minori: Per la statuaria e l'iconografia v. A. Mau (Anhang, p. 61 seg.) e van Buren, op. cit., p. 24; uno sguardo d'assieme è in J. Overbeck e A. Mau, op. cit., pp. 532-563. Per la suppellettile in bronzo e in marmo, oltre alla sempre pregevole pubbl. del Real Museo Borbonico, I-XVI, Napoli 1824-57, v. sopra tutto, J. Winter e E. Pernice, Die hellenist. Kunst in Pompeji, IV Berlino-Lipsia 1925; Gefässe u. Geräte aus Bronze (Pernice); V, Tische, Zisternenmündungen, Beckenuntersätze, Altäre u. Truhen (Pernice); per la suppellettile argentea v. la bibliografia alla voce argento.
Sulla vita economica, mercantile e sulle corporazioni di arti e mestieri: T. Frank, Vita economica di Roma (vers. ital.), Firenze s. a. (1924), p. 177 segg.; 2ª ed., Berkeley 1927; M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano (trad. ital.), Firenze 1932, p. 111 segg. e altrove (con ricca bibliografia); M. Della Corte, Case ed abitanti (estr. da Neapolis, II, 1914 e Riv. Indo-greco-italica, III-IX, 1919-25); E. Magaldi, Il commercio ambulante di Pompei, in Atti Acc. Pontaniana, LX (1930). - Sull'agricoltura, ville e fattorie, v. soprattutto Rostovzev, op. cit.; M. Della Corte, Ville del suburbio pompeiano, in Not. d. scavi, 1921, 1922, 1923; A. Maiuri, La Villa dei Misteri (con un excursus sull'origine della villa), Roma 1931; cfr. R. C. Carrington, in Antiquity, VII (1933), pp. 133-152. - Sulla necropoli preromana v. la letteratura raccolta in F. v. Duhn, Italische Gräberkunde, I, Heidelberg 1924, p. 621 segg.; sulla necropoli romana manca, dopo il Mazois, op. cit., uno studio sui tipi e le forme dell'architettura funeraria.
Iscrizioni e graffiti: Le iscriz. osche nelle raccolte di J. Zvetaieff e di B. S. Conway e le più recenti nelle relazioni delle Not. d. scavi; le iscr. latine su pietra (travertino, marmo, ecc.), in Corp. Inscr. Lat., X, pp. 89-124, nn. 787-1079 e p. 967, nn. 8143-8157 e p. 1006, nn. 8348-8361 (instrum. domesticum); le iscrizioni dipinte e graffite in Corp. Inscr. Lat., IV (a cura dello Zangemeister, 1871) e Corp. Inscr. Lat., IV, suppl. (Mau-Zangemeister, 1898), oltre alla già copiosa serie che viene pubblicandosi nelle Not. d. scavi (Sogliano-Della Corte); cfr. E. Dlehl, Pomp. Wandinschriften, Berlino 1930; F. Buecheler, Carmina Lat. Epigr., III, Lipsia 1926; F. Wick, Vindiciae carm. pompeianorum, in Atti R. Accad. di Napoli, XXV (1908), pp. 203-236. Una particolare trattazione è in E. Magaldi, Le iscr. parietali pompeiane, con particolare riguardo al costume, in Atti R. Acc. di Napoli, n. s., XL (1929-1930), parte 2ª, pp. 13-160.