Pregiudizio
di Giovanni Jervis
Alla lettera e in senso generale il pregiudizio è un giudizio anticipato rispetto alla valutazione dei fatti. Risponde a questa accezione l'uso comune del termine in locuzioni quali "esaminare un problema senza pregiudizi", o "essere spregiudicati". In senso più tecnico e restrittivo il vocabolo serve invece a designare, e inscindibilmente a connotare in senso negativo, qualsiasi atteggiamento sfavorevole o ostile, in particolare quando esso presenti, oltre che caratteri di superficialità e indebita generalizzazione (v. Allport, 1954), anche caratteristiche di rigidità, cioè quando implichi il rifiuto di metterne in dubbio la fondatezza e la resistenza a verificarne la pertinenza e la coerenza.Esistono rapporti strutturali tra il pregiudizio e la dinamica generale dell'atteggiamento, rapporti sottolineati in particolare da Gadamer (v., 1965²). Infatti, se si adotta una prospettiva ermeneutica, è possibile osservare che un'anticipazione critico-conoscitiva sommaria della natura di un oggetto sconosciuto, o ambiguo, si configura come (pre-)giudizio necessario, cioè come globale pre-cognizione intuitiva, ovvero come azzardo ipotetico generalizzante, sul quale successive verifiche opereranno eventuali correzioni. Qui il pregiudizio inteso in senso più restrittivo, dunque nel suo aspetto di chiusura ed errore, si configura come sottospecie del pre-giudizio come generalizzazione inevitabile e anticipazione di problemi ancora imperfettamente esplorati. Sarebbe quindi impossibile tracciare una netta linea di demarcazione tra gli aspetti non emendabili e quelli eventualmente condannabili del fenomeno.
Analogamente, ma su un piano socioculturale e storico, è possibile sostenere la non scindibilità delle conoscenze 'diffuse' e tramandate, viste come ricchezza di tradizioni culturali e di rappresentazioni sociali (v. Moscovici, 1984), dai loro aspetti eventualmente meno precisi, o più tipicamente caratterizzati da valenze di rifiuto come lo sono i pregiudizi in senso stretto.Alcuni aspetti del pregiudizio consentono peraltro di delimitarne meglio la natura specifica. Il pregiudizio nei confronti di un qualsiasi aspetto della realtà materiale o sociale presenta infatti dinamiche psicologiche che lo differenziano dalla maggioranza degli stati disposizionali, ovvero degli atteggiamenti elementari in genere. In questi ultimi esiste per lo più un interesse, pragmatico e conoscitivo, cioè una tendenza ('positiva') all'avvicinamento all'oggetto: si pensi agli atteggiamenti di simpatia, di curiosità, di immedesimazione, di desiderio e di disposizione al legame. Nel pregiudizio si ha invece una tendenza ('negativa') ad allontanarsi dall'oggetto. Qualsiasi opinione pregiudiziale tende perciò a rimanere, oltre che generica, poco modificabile: in pratica, per il fatto stesso di riguardare un aspetto della realtà classificato come negativo, il soggetto rifiuta di approfondirne la conoscenza.
L'atteggiamento pregiudiziale si struttura e cerca allora giustificazioni in quel sentimento di coappartenenza che accomuna chi concordi sulla necessità di respingere fenomeni minacciosi. La condivisione consensuale del pregiudizio è qui parte integrante della sua forza. Occorre sottolineare che questo consenso è, di necessità, legato a giudizi che si esprimono in formule semplificate, cioè in stereotipi. Il rifiuto nei confronti dell'oggetto, infatti, oltre che tradursi in un rifiuto di conoscerlo in dettaglio, fa sì che il soggetto che così si esprime difenda - spesso in modo esplicito - il proprio diritto di liberarsene in un modo generalizzante. Non soltanto, dunque, la rozzezza della formulazione del pregiudizio è parte della sua essenza di fenomeno aggressivo, ma si può anche osservare che, paradossalmente, il carattere liquidatorio del giudizio verso l'oggetto vuole qualificare (favorevolmente) il soggetto. Se infatti, come accade in generale in molti atteggiamenti, è vero che l'enunciato definisce chi lo esprime, il pregiudizio esplicitato ambisce a potenziare l'immagine dell'individuo che emette il giudizio nel momento stesso in cui squalifica l'oggetto del giudizio. Il pregiudizio apertamente esibito, insomma, vuole essere un'affermazione di forza dell'io giudicante.Questo fatto spiega come il pregiudizio (per esempio il pregiudizio etnico) possa venir espresso non solo in modo apparentemente neutrale e obiettivo ('non ho niente contro di loro, ma è evidente che anche quella gente ha i suoi limiti'), ma anche, e in modo più tipico, con una marcata accentuazione soggettivistica ('mi danno fastidio a pelle, non mi piacciono, io dico solo questo: tornino a casa'), che sconfina nell'aggressività esplicitata.Nella sociologia e nella psicologia sociale lo studio del pregiudizio ha oggi grande rilievo per le sue implicazioni pratico-politiche, soprattutto in rapporto ai problemi di convivenza che vengono posti dai pregiudizi etnici e, fra questi ultimi, dalla xenofobia e soprattutto dal razzismo. Per questo motivo spesso i pregiudizi vengono identificati con i pregiudizi sociali: anche se per comprendere la natura del fenomeno è utile ricordare che il pregiudizio può riguardare anche oggetti e realtà non strettamente sociali, bensì di tipo culturale o naturale.
Sono comuni, per fare solo alcuni esempi, i pregiudizi verso oggetti eterogenei come i serpenti, i pipistrelli, la letteratura poliziesca, i filosofi, le ricerche in campo genetico o gli psicofarmaci.
Lo studio dei pregiudizi sociali ha acquistato importanza crescente negli ultimi decenni del XX secolo. Occorre ricordare che le cause di questo fatto sono molteplici. A parte i conflitti generati dai crescenti fenomeni migratori e dal moltiplicarsi delle realtà multiculturali, la cui importanza è ben nota, non si possono non segnalare altri fattori quali: 1) il decadere delle conflittualità tradizionali basate sulla contrapposizione tra progetti opposti di sviluppo economico - ad esempio quello capitalistico e quello socialista - e l'emergere, invece, di nuove conflittualità a base regionale, nazionale, razziale e, soprattutto, religiosa, in cui entrano in gioco fattori a forte componente psicologico-emozionale e a debole struttura razionale, come appunto i pregiudizi; 2) la crescente importanza delle differenze culturali e, al loro interno, delle mentalità e degli atteggiamenti sociali diffusi, non soltanto in funzione dei problemi di convivenza, ma anche come fattore di successo o di insuccesso dei singoli popoli o gruppi sottoprivilegiati negli sforzi verso lo sviluppo economico ed educativo; in quest'ambito si impone oggi agli studiosi una più acuta attenzione verso i problemi creati dalle diffidenze diffuse, e quindi anche dai variabili pregiudizi che ostacolano l'introduzione di semplici misure igieniche, di strutture di cooperazione, di tecniche razionali di riciclaggio dei rifiuti, di forme di prestito e di impresa, e così via; 3) i nuovi problemi derivanti dalle difficoltà, rivelatesi maggiori del previsto, nel superare annose discriminazioni etniche e pregiudizi razziali mediante provvedimenti di educazione delle masse e di facilitazione nell'ambito scolare: il problema si è posto in particolare per il mancato successo del più importante progetto di integrazione interetnica dell'Occidente, quello iniziato negli anni sessanta negli Stati Uniti in favore della minoranza nera e noto come affirmative action.
L'insieme di questi fattori spiega per quali motivi il tema scientifico del pregiudizio tenda ormai a superare i confini posti dalla sua tradizionale - e un po' restrittiva - associazione con il problema dell'eguaglianza. Fino ad anni recenti, infatti, si riteneva che il problema fondamentale posto dal pregiudizio, e in particolare da quello razziale, fosse quello di combattere la diffusione della tendenza (pregiudiziale appunto) a negare l'eguaglianza tra gli esseri umani. Ciò che ora emerge è una tematica più complessa, che impone di approfondire il concetto stesso di eguaglianza e di esaminare altri aspetti sinora trascurati del problema.
Analizzare la struttura del pregiudizio significa distinguerne i seguenti aspetti: a) gli aspetti motivazionali, in particolare le motivazioni a carattere affettivo e più precisamente emotivo; qui vanno ricordate in primo luogo le componenti aggressive del pregiudizio, e dunque il suo rapporto con il problema dell'aggressività; b) gli aspetti cognitivi ed eventualmente dichiarativi, per cui il pregiudizio si esprime in opinioni più o meno sistematizzate; infine c) gli aspetti pragmatici, o operativi, dove esso è riconoscibile in azioni sia individuali che collettive.
Nella loro dimensione cognitivo-dichiarativa i pregiudizi sociali si esprimono in enunciati caratterizzabili come stereotipi. Il rapporto tra pregiudizio e stereotipo è assai stretto. Per stereotipo si intende una credenza condivisa, data per ovvia in un determinato ambiente culturale, che si esprime in convinzioni sempre generalizzanti, sempre semplificative e talora - ma non necessariamente - erronee. La funzione più evidente degli stereotipi è quella di ancorare un insieme di persone a una cultura di base, facilitando sentimenti di appartenenza e iniziative comuni.
Gli stereotipi più tipici riguardano realtà sociali; peraltro è bene qui ricordare che gli stereotipi in generale possono riguardare ambiti più vasti: per esempio tematiche psicologiche popolarizzate (come lo stereotipo: "la sofferenza rende più maturi"), realtà naturali (come: "è meglio curarsi con le erbe che con sostanze artificiali"), oppure realtà sociali trattate - almeno tendenzialmente - come realtà naturali ("i siciliani sono di natura focosa") oppure ancora realtà storico-sociali trattate come tali ("i marocchini sono un popolo di guerrieri").I più tipici pregiudizi, almeno nel loro aspetto cognitivo-dichiarativo, sono una sottospecie degli stereotipi sociali, e precisamente sono stereotipi sfavorevoli: essi possono riguardare, di volta in volta, categorie universali (come 'i giovani', beninteso quando siano visti in senso negativo), categorie professionali (ad esempio i carabinieri, gli insegnanti), o anche determinati strati sociali (i capitalisti, i nullatenenti, gli immigrati) e così via. I pregiudizi sociali, quando riguardino popoli o culture, si configurano come una varietà degli stereotipi etnici. Esistono peraltro stereotipi etnici non sfavorevoli ma al contrario ammirativi e idealizzanti, quali si osservano tra i popoli vinti nei confronti delle caratteristiche psicologiche e culturali degli oppressori.
Le caratteristiche negative o 'respingenti' che i pregiudizi etnici attribuiscono a gruppi e popoli possono essere di volta in volta riferite, da chi esprime il pregiudizio, a cause educative-culturali, oppure a cause biologiche. Esempi di pregiudizi etnici a carattere prevalentemente culturale sono enunciati quali "i russi bevono vodka sin dall'infanzia", "gli zingari rubano", "gli ebrei sono condizionati da una cultura del sospetto", "gli italiani sono malati di mammismo". Esempi di pregiudizi etnici a carattere prevalentemente biologistico sono: "i negri sono poco intelligenti"; "i meridionali sono indolenti per natura". Solo in quest'ultimo caso si può parlare di stereotipi etnici di tipo razzista.Sebbene non tutti gli stereotipi etnici siano sfavorevoli, la tendenza spontanea a stereotipizzare - in qualunque senso, anche elogiativo e favorevole - gruppi e popoli viene correntemente considerata, di per sé, fonte di pregiudizi e quindi di conflitti sociali. Infatti gli errori di imprecisione e di rigidità potenzialmente inerenti a qualsiasi atteggiamento sociale inteso come sforzo di previsione generalizzante sono particolarmente gravi e frequenti, nonché fonte di conflitto, qualora rispondano a una tendenza classificatoria nei confronti di gruppi etnici piuttosto che di altri tipi di realtà. Qui la formulazione di giudizi sommari nei confronti di gruppi etnici (e non solo di giudizi negativi ma eventualmente anche positivi), è di fatto funzionale alla difesa dell'idea generale di una gerarchia di popoli, ed è inscindibile dalla tendenza ad accentuare, e a giustificare, la stigmatizzazione di gruppi considerati 'inferiori'.
Ma su questo punto si impongono anche considerazioni più caute. Si è qui di fronte a un tema che, insieme ad altri visti in precedenza, invita alla prudenza circa la possibilità di separare nettamente stereotipi e pregiudizi etnici da forme più esatte di conoscenza. Infatti gli stereotipi etnici (come: "gli italiani sono faciloni", "i sardi sono orgogliosi", "gli svizzeri sono precisi", ecc.) per quanto rozzi e indebitamente generalizzanti non sono quasi mai del tutto infondati, e anzi richiedono nuova attenzione per la loro capacità di alludere a reali ed eventualmente importanti caratteristiche delle culture.
I tipi di mentalità e di personalità prevalenti, e le percezioni sociali all'interno di una data cultura (v. Moscovici, 1984), per quanto siano difficili da obiettivare sembrano avere una significativa incidenza sulle prospettive di sviluppo dei popoli; in quanto aspetti 'sovrastrutturali', infatti, queste caratteristiche diffuse di costume e di mentalità ci appaiono oggi più resistenti ai cicli economici e ai mutamenti 'strutturali' di quanto non ritenessero gli scienziati sociali influenzati da idee marxiste o dai presupposti ideologici egualitaristi e anti-etnocentrici del relativismo culturale degli anni cinquanta e sessanta.Il fatto, dunque, che possano esistere non soltanto aspetti di errore all'interno di giudizi stereotipici correnti su popoli e gruppi sociali, ma anche aspetti, per quanto rozzi, di verità, rende inevitabile rivalutare la presenza di germi di fondatezza anche in molti atteggiamenti aggressivamente pregiudiziali, e invita a considerare con attenzione la loro possibile funzionalità all'interno del più vasto tessuto degli equilibri sociali.
Né d'altro canto è sempre facile depurare da questi giudizi le eventuali scorie razziste. La possibilità di separare in modo più o meno netto un (pre-)giudizio negativo espresso su un dato aggregato di individui visto come cultura (storicamente determinata) da un (pre-)giudizio altrettanto negativo espresso sullo stesso aggregato di individui visto questa volta come razza (biologicamente determinata) implica la possibilità di una distinzione che, di fatto, non è sempre netta, e soprattutto non è sempre facile da operare. Del resto, termini come etnia e in particolare stirpe si situano sulla linea di confine fra il giudizio socioculturale e quello biologico. Ma soprattutto questa separazione presuppone, quando si intenda chiarirla, il possesso di strumenti articolati di analisi della realtà. Va osservato che per distinguere ciò che è psicologico da ciò che è sociale, e ambedue da ciò che è biologico, occorrono strumenti intellettuali e culturali che sono raramente prerogativa di chi più attivamente esprime e diffonde pregiudizi etnici. In più occorre sottolineare che il carattere fortemente emozionale delle manifestazioni di pregiudizio etnico concorre a cancellare, in chi le esprime, la percezione dell'opportunità stessa di operare la distinzione tra il giudizio su una cultura e il giudizio su una razza.
Inoltre è bene rilevare qui un problema metodologico di un certo rilievo. Non è affatto scontato che i pregiudizi etnici (per esempio quelli che tendono a strutturarsi secondo linee razziste) siano sempre la causa dei conflitti che esplodono tra popoli conviventi su uno stesso territorio; essi ne possono essere invece la conseguenza. Infatti questi pregiudizi possono essere frutto di contrasti preesistenti. Per esempio i conflitti e gli odi tra asiatici, neri e latinoamericani in alcuni grandi agglomerati urbani degli Stati Uniti possono acquistare - nei momenti di acuzie- aspetti di odio razziale che non erano presenti quando le conflittualità erano meno violente, essendo dovute queste ultime non tanto a pregiudizi (razziali o meno) o a fattori culturali, quanto a fattori materiali, come la competizione per l'accesso a risorse scarse. Altre volte i conflitti in cui talora si manifestano aspetti acuti di odio razziale possono essere causati da contrasti culturali privi di aspetti propriamente razzisti, come quelli che nascono dalle difficoltà incontrate da gruppi diversi quando si trovano a dover far coesistere in un dato territorio abitudini di vita, valori e fedi politiche e religiose eterogenei. Altre volte ancora, come è accaduto in alcune zone della ex Iugoslavia, gruppi etnici diversi conviventi da secoli cominciano a manifestare atteggiamenti di reciproco razzismo quando siano trascinati in conflitti e violenze dovuti ad altre cause.
L'idea che la causa dei conflitti in cui emergono componenti di odio razziale sia da ricercarsi necessariamente nel razzismo è dunque un esempio di pseudospiegazione a carattere stereotipico che può rivelarsi inadeguata alla realtà dei fatti. Questa pseudospiegazione dipende dall'errore mentalistico, tipico della psicologia ingenua, di considerare sempre, nell'eventuale associazione tra certi stati d'animo e certi comportamenti, i primi come causa dei secondi.Considerazioni analoghe valgono non solo per il razzismo, ma anche per i pregiudizi in generale. Se ne ha un esempio nel caso delle discriminazioni sociali, fenomeno che va separato dai pregiudizi, anche se può esserne una causa importante. Per discriminazione sociale si intende qualsiasi provvedimento atto a sfavorire un determinato gruppo indipendentemente dalla valutazione che si dà dei suoi singoli membri. Ora, molti provvedimenti discriminatori non sono dovuti a pregiudizi; per esempio, una nazione ha in genere interesse a selezionare determinate categorie di immigrati in funzione delle proprie esigenze, per cui in una data epoca può favorire immigrati adatti a lavori manuali nell'edilizia, discriminandone altri, mentre in un'epoca successiva può discriminare i non laureati, oppure i laureati non tecnici per favorire invece l'ingresso di certe categorie di laureati tecnici, senza che tutto ciò comporti l'entrata in causa di meccanismi pregiudiziali di alcun tipo. Le discriminazioni politico-amministrative sono peraltro causa di pregiudizi sociali, secondo lo schema visto poco sopra a proposito del razzismo; il fatto stesso di dividere le popolazioni in gruppi aventi maggiori diritti e in altri gruppi meno privilegiati viene a facilitare razionalizzazioni e semplificazioni secondo cui i minori diritti di alcuni gruppi sarebbero giustificati da loro caratteristiche culturali o antropologiche intrinsecamente più deboli.
In conclusione, un esame anche sommario della struttura del pregiudizio dimostra che le caratteristiche e i confini del fenomeno sono meno netti di quanto appaia dall'uso corrente del termine. Questo fatto diviene ancora più evidente quando il pregiudizio venga scomposto nei suoi aspetti costitutivi, e analizzato alla luce dell'evoluzione degli studi che lo concernono. Storicamente il pregiudizio è stato analizzato nell'ottica della psicologia individuale, in quella della psicologia interpersonale o dei gruppi, e infine nell'ottica più propriamente collettivistica o ideologico-politica. La psicologia individuale si occupa degli aspetti cognitivi ed emozionali del fenomeno; la psicologia dei gruppi analizza soprattutto il rapporto tra la genesi del pregiudizio e la divisione consensuale dello spazio sociale in spazio domestico e spazio estraneo (o in un''area sociale dell'interesse' e un''area del rifiuto'); la psicologia collettiva si occupa più in generale della nascita e della diffusione degli atteggiamenti e delle opinioni sociali. La sociologia, infine, esamina le correlazioni tra il diffondersi dei pregiudizi e una serie di variabili di natura economica, ideologica ed educativa.
Gli studi sul pregiudizio possono essere divisi in due categorie: quelli che analizzano gli aspetti cognitivi del modo di formarsi dei pregiudizi, e quelli che si occupano degli aspetti emozionali della loro genesi.
Lo studio degli aspetti cognitivi della formazione dei pregiudizi risale a Sumner (v., 1906), cui spetta il merito di aver sviluppato e chiarito non solo il concetto di etnocentrismo, ma anche la distinzione tra in-group e out-group, mostrando che la coesione del gruppo può dipendere dal mantenere viva la coscienza della presenza di un nemico esterno.
Questo approccio - mettendo in luce l'aspetto funzionale, e più specificamente difensivo, del pregiudizio come forma di organizzazione e categorizzazione spontanea del modo di vedere la realtà - ha interagito, in particolare negli anni trenta e quaranta, con gli studi sulla genesi emozionale del fenomeno, di ispirazione psicanalitica, e a partire dagli anni sessanta si è ricollegato allo sviluppo degli orientamenti cognitivisti, e poi costruzionisti, in psicologia. Questi indirizzi interpretativi considerano il pregiudizio come parte dell'organizzazione spontanea delle conoscenze, e rientrano in quel tipo più generale di orientamento, in senso lato strutturalista, secondo cui nella specie umana (e dunque sia nei singoli individui che nei gruppi) l'organizzarsi delle conoscenze presenta vincoli e invarianti a carattere universale. In quest'ottica la conoscenza del mondo sociale si struttura spontaneamente, e non solo nell'adulto ma già nel bambino e persino negli animali, secondo gerarchie e categorizzazioni di valori. Le dinamiche del pregiudizio sono allora considerate parte integrante delle sistematizzazioni spontanee del reale secondo categorie di importanza e gradienti di approvazione e disapprovazione.
Lo studio degli aspetti emozionali del modo di formarsi dei pregiudizi risale a Freud (v., in particolare, 1921 e 1930). L'ottica freudiana è incentrata sull'universalità delle dinamiche istintuali inconsce proprie dell'individuo; e ciò vale anche quando Freud si occupa dei fenomeni di gruppo e subisce l'influenza di alcuni dei primi psicologi del comportamento sociale, segnatamente Le Bon.
Secondo l'impostazione psicanalitica freudiana, ciò che caratterizza l'atteggiamento dello studioso è l'orientamento avalutativo. Tale orientamento contrasta con la denuncia 'ingenua' degli aspetti eventuali di errore nella valutazione del reale, e quindi si pone al di fuori della logica della semplice ripulsa 'morale' nei confronti del pregiudizio e dei danni che esso provoca. In Freud (ma in parte già in Sumner) una impostazione dell'indagine improntata a un netto pessimismo antropologico tiene conto dell'ipotesi che l'aggressività, la conoscenza incompleta dei propri moventi e l'autoinganno sui propri fini - e quindi, tra l'altro, il pregiudizio - siano caratteri costitutivi della natura umana.Occorre ricordare che l'influenza dell'emozionalità inconscia sulla ragione, e i compromessi che ne derivano, si articolano per Freud in meccanismi di difesa, tra i quali spiccano per la loro importanza, oltre alla rimozione, quelli di razionalizzazione e di proiezione.
Analogamente a Sumner, Freud (v., 1930) afferma che la coesione ('amorosa') interna del gruppo è funzione della possibilità di rivolgere l'aggressività verso l'esterno; in più, però, Freud ricollega alcuni aspetti di questa dinamica al bisogno del singolo di scaricare quell'aggressività che deriva dall'interdizione dei propri bisogni libidici da parte dell'autorità, e quindi al bisogno del singolo di deflettere all'esterno le cariche distruttive, e in più di proiettare illusoriamente nelle intenzioni del nemico esterno le caratteristiche negative (come la distruttività stessa) di cui egli rifiuta di ammettere la presenza all'interno di sé. Ma soprattutto, Freud non ignora la necessità universale di dare di questi fenomeni spiegazioni di comodo, in sostanza razionalizzazioni condivise caratterizzate da inconscia malafede. Nell'ottica freudiana il pregiudizio è un fenomeno inevitabile, e non già una deformazione emendabile delle forme sociali della conoscenza.
Da quest'ottica si distaccheranno gli sviluppi postfreudiani del pensiero psicanalitico, destinati ad acquisire, almeno per un certo periodo, non solo caratteristiche meno descrittive e dunque più operative, ma anche connotazioni nettamente più ottimiste. Negli Stati Uniti, in particolare, prende forma soprattutto a partire dagli anni trenta la ricerca di fattori psicologici specifici in grado di spiegare le implicazioni sociali del fenomeno generale dell'aggressività - e al suo interno in particolare del fenomeno del pregiudizio - sullo sfondo dei problemi di integrazione multiculturale tipici di quella nazione. Una volta messa in sordina la concezione freudiana di una istintualità 'primaria', 'non emendabile' - con la sua universalità tinta di biologismo ed eventualmente con i suoi aspetti di positivismo ingenuo ma anche con il suo realismo - la ricerca postfreudiana americana si dedicò a esaminare il problema dell'aggressività soprattutto nei suoi aspetti contingenti, e dunque come tali potenzialmente emendabili, facendo leva sul carattere reattivo dell'aggressività stessa, e in particolare esprimendo, non sempre peraltro esplicitamente, fiducia nel carattere non strutturale ma accidentale, 'non primario' ma 'derivato' del pregiudizio.
Nella sintesi di Dollard e Miller (v. Dollard e altri, 1939) entravano, oltre a tematiche freudiane, anche aspetti ideologici di orientamento pragmatista e specifici contributi tecnici della scuola comportamentista. La genesi dell'aggressività era ricondotta dai due autori a meccanismi di risposta alla frustrazione, e quest'ultima era vista come una condizione psicologica conseguente all'impossibilità di portare a termine istanze di autoaffermazione. Il tema del pregiudizio sembrava così aver trovato una sua nuova cornice tecnico-scientifica, oltre che un opportuno terreno di intervento ai fini generali di un miglioramento della convivenza umana. Il fatto stesso di riferire il pregiudizio a deflessioni aggressive della frustrazione invitava a provvedimenti sociali che rendessero meno frustrante, e dunque soprattutto più autopropositiva, più 'efficace', la vita quotidiana dei gruppi socialmente non privilegiati (v. anche Berkowitz, 1962).
A questo proposito si deve ribadire come dagli anni trenta sino agli anni settanta il problema sia stato impostato, soprattutto negli Stati Uniti, con un senso assai acuto della sua importanza nel nascere di taluni conflitti sociali, ma anche in un'ottica correttiva che finiva per accentuarne le caratteristiche negative, anzi 'abnormi' o addirittura patologiche. Veniva perciò sottovalutato, e talora ignorato, ciò che non era sfuggito né a Sumner né a Freud, e cioè il legame strutturale del pregiudizio con le forme normali, naturali e ordinarie della conoscenza del mondo sociale, e al tempo stesso con le forme, altrettanto normali, ordinarie e quotidiane, della gestione della vita emozionale e affettiva nel singolo e nei gruppi. In più, la tendenza generale a spiegare taluni conflitti sociali (come i conflitti interetnici) con fattori psicologici, e in subordine con fattori psicosociali come appunto le dinamiche del pregiudizio, anziché con fattori economici, storici e ideologici, contribuiva a mantenere il problema del pregiudizio all'interno di un sistema di connotazioni di biasimo, che non di rado era surrettiziamente di tipo moralistico anziché scientifico. Ne risultava compromessa la possibilità stessa di capire il fenomeno nella sua complessità.
La lotta per emancipare individui e popoli dalle pastoie dei pregiudizi in quanto 'errori estirpabili' poteva dunque assumere aspetti esortativi: l'invito più o meno esplicito a liberarsene, e in particolare a liberarsi dagli stereotipi razziali, finiva per dare per scontata l'idea che si trattasse di scorie, di distorsioni incresciose della volontà, se non addirittura di una sorta di epidemia di idee malsane. Questo orientamento non favoriva lo studio né dei pregiudizi, né dei conflitti sociali. Anche al di fuori degli Stati Uniti, un modo di interpretare in senso moralistico e psicologistico il problema dei pregiudizi etnici (e in particolare di quelli a componente razzista) si è ripresentato e si ripresenta tuttora ogni volta che si rivelino carenti gli strumenti scientifici di interpretazione del fenomeno, e quando i mezzi di comunicazione di massa acquistino un peso eccessivo nel far prevalere temi popolarizzati a carattere sensazionalistico.
I tentativi principali di evitare o di combattere questi pericoli si sono avuti nello studio di particolari dinamiche del pregiudizio, piuttosto che nella ricerca sul pregiudizio in generale. Una parte delle indagini moderne, a partire dagli anni quaranta, ha riguardato il rapporto tra pregiudizio, struttura della personalità e meccanismi di difesa (v. sopra), sulla base dell'ipotesi che alcuni individui siano, per motivi psicologici, più inclini di altri a esprimere ostilità pregiudiziali. Lo sforzo in questo senso storicamente più importante, anche se ormai datato, rimane quello degli studiosi della Scuola di Francoforte (v. Adorno e altri, 1950), che cercarono di fondere in modo critico la lezione del marxismo - e dunque il terreno 'strutturale', storico e materiale sul quale emerge il problema - con certi contributi della psicanalisi - e dunque con l'autonomia del terreno 'sovrastrutturale', psicologico ed educativo, che condiziona le forme e la diffusione degli atteggiamenti. La ricerca di Adorno e dei suoi collaboratori, che aveva come scopo immediato un tentativo di spiegazione dell'antisemitismo in Germania, mirava a verificare la presenza di una relazione causale tra un'educazione rigida, gerarchica, ipersensibile ai rapporti di dominanza-sottomissione, e la comparsa di una mentalità autoritaria, matrice a sua volta di pregiudizi etnici.
Gli studi sul pregiudizio degli ultimi decenni hanno portato contributi prevalentemente settoriali, nessuno dei quali decisivo, e su un piano generale hanno dato luogo a una diffusa consapevolezza dell'impossibilità di identificare un unico centro del problema. Prevale oggi l'ipotesi che le categorizzazioni pregiudiziali, peraltro non sempre ben delimitabili rispetto ad altri fenomeni psicosociali (v. sopra), possano dipendere da universali esigenze cognitive anche in assenza di conflitti (v. Tajfel, 1981), eventualmente in rapporto al problema della ricerca di identità sociale (v. Dovidio e Gaertner, 1986), e che possano essere facilitate sia da fattori conflittuali intergruppo (come dimostrano le classiche ricerche di Sherif: v., 1966), sia da un insieme complesso di fattori educativi (basso livello di istruzione) e di variabili culturali qualitative (v. Bagley e Verma, 1979).
(V. anche Atteggiamento; Discriminazione razziale; Etnocentrismo; Razzismo).
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