PRETORE
Magistrato romano fra i maggiori. Il senso originario della parola praetor (da prae e ire: colui che va innanzi) è quello di comandante di un esercito; e fu infatti questo in origine il nome dei consoli, la cui funzione più importante (dal giorno della loro istituzione fino a Silla) fu appunto il comando delle legioni. Secondo la tradizione, i pretori-consoli furono istituiti, nel numero classico di due, nel 510 a. C., all'atto dell'espulsione dei re etruschi (Tarquinî): la magistratura fu sospesa per gli anni 451 e 450, per dar luogo a quella straordinaria dei decemviri, compilatori delle XII Tavole; restituita nel 449, fu subito nuovamente sospesa nel 448, perché le lotte fra patriziato e plebe rendevano difficili le elezioni, e sostituita dai tribuni militari con potestà consolare, in numero variabile da tre a sei; solo 80 anni dopo, nel 367 a. C., raggiuntosi un accordo fra le classi nel senso che uno dei due capi dello stato dovesse essere plebeo, la pretura-consolato fu ristabilita, per rimanere magistratura fondamentale ed eponima non solo per tutta l'età repubblicana, ma anche, salva la riduzione di potere risultante dalla sempre maggiore prevalenza del principe, nell'età imperiale. Nello stesso anno 367 sarebbe stato creato, sempre secondo la tradizione, un terzo pretore, collega minor degli altri due, con funzioni esclusivamente giurisdizionali: è a questo magistrato, e agli altri di pari grado successivamente istituiti, che il nome di pretore resta riservato.
Non tutti gli storici moderni considerano questa tradizione come degna di fede. A molti fa impressione la supposta interruzione di 80 o 83 anni (longum aevi spatium in un tempo in cui non ancora si conservava memoria scritta degli eventi); ad altri non riesce plausibile il salto dalla regalità ad una magistratura non solo elettiva e temporanea ma collegiale; a molti pare improbabile che l'esercito romano del sec. VI e V, comprendente con ogni probabilità una sola legione, abbia potuto avere due capi; e ancora si osserva che le liste dei magistrati eponimi (fasti) dal 510 al 452, redatte sul presupposto tradizionale dei due magistrati, presentano qualche garanzia di corrispondenza alla verità solamente quanto ad uno dei due nomi dati per ciascun anno. Altra questione, ancor più delicata, consiste nel domandarsi se il principio della par potestas (per cui ognuno dei magistrati componenti il collegio ha il potere di compiere da solo qualunque atto compreso nella relativa competenza, salvo all'altro il diritto di veto) sia a Roma veramente originario, o se rappresenti piuttosto il risultato di un compromesso: mentre deporrebbe nel primo senso l'analogia col regime solidale della comunità di famiglia, come oggi lo conosciamo attraverso una pagina delle Istituzioni di Gaio ultimamente recuperata, il dubbio è alimentato non solamente dal confronto con le inagistrature delle città osche e sabine, organizzate in collegi, ove uno dei capi è in situazione inferiore rispetto all'altro, ma anche da un'antica legge di Roma stessa, dove è menzionato un praetor maximus. Da ciò varie ipotesi, in parte conciliabili l'una con l'altra e in parte contrastanti: che la magistratura più antica sia stata la dittatura, sostituita poi dai tribuni militari e infine dai pretori-consoli, ai quali fin da principio si sarebbe aggiunto il terzo con funzioni giurisdizionali; oppure che i pretori siano stati originariamente tre, tutti di pari grado, e che nel 367 uno dei tre sia stato ridotto in posizione subordinata; o infine che il binomio costituito dal dittatore e dal maestro della cavalleria si sia trasformato in una pretura-consolato a potere diseguale, per modo che la posteriore riforma del 367 non consisterebbe già nella creazione della pretura minore, bensì nel raddoppiamento della maggiore secondo un nuovo principio di par potestas, restando la minore al suo rango, ma mutando funzione. V. anche console.
Checché sia di ciò, è certo che anche la pretura nel senso classico della parola (la minore) divenne presto una magistratura collegiale. Infatti nel 243 a. C., accrescendosi il numero delle relazioni giuridiche con stranieri o fra stranieri facenti capo a Roma, fu creato il pretore peregrino, avente appunto la giurisdizione nei processi fra persone (per lo più commercianti) di diversa nazionalità: sicché le elezioni cominciarono a farsi annualmente per due pretori, salvo a ripartire fra i due eletti le competenze. Poco più tardi, essendo state create le due provincie di Sicilia e di Sardegna (227 a. C.), per avere i magistrati che annualmente le governassero si portò il numero dei pretori a quattro; nel 197, annesse le due Spagne, lo si portò a sei, numero che rimase per oltre un secolo invariato, che anzi si tentò perfino di ridurre, nonostante il continuo aumento delle cariche da affidarsi ai pretori: soltanto Silla, nell'atto d'imporre alla pretura l'ulteriore onere della presidenza delle numerose giurie criminali da lui istituite, portò a otto i membri del collegio (81 a. C.). Ulteriori variazioni si ebbero al tempo di Cesare; Augusto ritornò al numero fissato da Silla, ma per superarlo in seguito ancora una volta.
Per tutta l'epoca repubblicana e sotto Augusto, l'elezione dei pretori si fa nei comizî centuriati, salva la successiva formalità dell'acclamazione per parte dell'assemblea delle curie: in principio le elezioni si facevano insieme con quelle dei consoli, poi si usò farle qualche giorno dopo, ma sempre in estate e normalmente in luglio. Le condizioni di eleggibilità sono fissate dalla lex Villia annalis del 180, sia quanto alla posizione della carica nel cursus honorum (dopo l'edilità e il tribunato della plebe, prima del consolato, e sempre con l'intervallo minimo di due anni), sia quanto all'età minima dei candidati (non sappiamo però se questa sia stata sempre, com'era all'età di Cicerone, di 40 anni). Come tutti i magistrati ordinarî e permanenti, anche i pretori entrano in carica alla mezzanotte del 31 dicembre per scadere al 31 dicembre successivo, salva la possibilità di essere ancora adoperati come propretori.
Da taluno si nega che alla pretura si applichi il principio romano della collegialità, il quale importa, in massima, che ciascun magistrato possa di suo arbitrio compiere qualunque atto di competenza della sua magistratura, salvo il veto (intercessio) di uno fra i colleghi. In realtà, il principio vige per i pretori non meno che per i consoli e per i tribuni della plebe; sennonché, mentre per queste ultime magistrature soltanto l'impossibilità materiale può limitare l'iniziativa, fra i pretori ha luogo una determinazione preventiva degl'impieghi, per modo che ciascuno si trova escluso da qualsiasi attività positiva già assegnata ad altro collega: resta peraltro intatta la possibilità dell'intervento negativo mediante l'intercessio, e le fonti dimostrano che all'occasione se ne faceva uso. Naturalmente, il diritto di veto può essere esercitato contro il pretore anche da un console, maior potestas, o da un tribuno della plebe, in corrispondenza con la generale competenza negativa di questa magistratura.
L'assegnazione delle provinciae praetoriae (nel senso originario del termine), cioè dei varî impieghi, ha luogo ogni anno, dopo le elezioni, in senato, con un procedimento che in parte s'ispira alle esigenze politiche e militari dell'ora, in parte è rimesso alla sorte. Dopo l'assegnazione dei maggiori comandi ai consoli e proconsoli, il senato stabilisce quali tra le funzioni considerate come proprie dei pretori e quali comandi militari rimasti vacanti siano da assegnare ai nuovi eletti, quali ai pretori dell'anno precedente, da adoperarsi come propretori: ai pretori vanno necessariamente affidate le funzioni giurisdizionali, ma fra le amministrazioni di oltremare e gli eventuali comandi il senato ha libera la scelta. Una volta stabilita in massima la lista degl'impieghi di spettanza degli eletti, l'attribuzione a ciascuno si fa mediante sorteggio. All'occasione, più funzioni si cumulano nella stessa persona: così la pretura urbana può essere unita alla peregrina, l'una o l'altra alla presidenza di una o più giurie criminali o a comandi militari temporanei; e accade sovente che il pretore peregrino sia considerato a disposizione del senato per tutti gl'impieghi non prevedibili all'atto del sorteggio. Il regime descritto fu però mutato dalla legge di Silla (81 a. C.): in base a questa, fra gli otto pretori si sorteggiano soltanto gli uffici giurisdizionali, mentre le amministrazioni provinciali sono tutte sorteggiate fra i pretori dell'anno precedente (propretori).
Sotto il principato, si verificano fenomeni caratteristici di tutte le magistrature repubblicane conservate: aumento di posti, grande diminuzione di autorità. Le funzioni giudiziarie si moltiplicano, costituendosi tribunali speciali per ogni materia di diritto privato da regolarsi secondo forme di procedura diverse da quelle contemplate nell'albo del pretore urbano (onde la pretura tutelare, la fedecommissaria, quella che presiede alle cause di libertà e schiavitù, il praetor hastarius, che dirige il tribunale dei centumviri per le questioni ereditarie, ecc.); ma, tolta alla pretura il governo delle provincie, e ridotta sempre più l'efficienza delle giurie criminali in confronto della libera coercizione del principe, le cariche speciali non sono sufficienti ad occupare tutti i magistrati, tanto più che il loro numero fu presto portato a sedici. A quelli che rimangono senza impiego si comincia ad affidare la costosissima impresa dei giuochi pubblici, riservata per lo innanzi agli edili. La carica è però ancora ambita: non solo per vanità, ma per i posti lucrosi che sono riservati agli ex-pretori, specie nel governo delle provincie e nell'amministrazione imperiale. L'elezione non si fa più dai comizî ma dal senato, per lo più su raccomandazione (commendatio) dell'imperatore, il quale si riserva ordinariamente di presentare all'approvazione formale dell'alta assemblea i tre quarti dei nomi.
Nel Basso Impero, di funzioni giurisdizionali non rimangono ai pretori che la sorveglianza sulla gestione delle tutele e le cause di libertà: tuttavia si continua a nominarne parecchi, per il solo titolo del censo e allo scopo d'infligger loro la grossa spesa dei giuochi. Sicché la pretura finisce per essere considerata come una delle maggiori piaghe delle classi abbienti, stremate dalle cariche onerose e liturgie.
Fra tutti gl'impieghi pretorî dell'età repubblicana, quelli che presentano la maggiore importanza storica sono gl'impieghi giurisdizionali, pretura urbana e peregrina. La iuris dictio di questi magistrati, che originariamente si riduceva a sorvegliare le parti di un processo nell'impostazione di una controversia secondo formularî preparati altrove e nella scelta dell'arbitro, si trasformò in seguito per modo da lasciare ad essi larghissimi poteri discrezionali; nell'esercizio di questi, i pretori arrivarono a riformare radicalmente il diritto privato.
In principio le dichiarazioni solenni che le parti dovevano pronunciare davanti al tribunale (azioni, o azioni della legge), nonché le eventuali dichiarazioni del magistrato stesso, erano preparate dal collegio dei pontefici, e il pretore non faceva che vigilare sull'esattezza della ripetizione. Ma nel 304 a. C. (ad opera, si dice, di Gneo Flavio, liberto di Appio Claudio Cieco) le azioni furono rese di pubblica ragione; e da questo momento si ammise che non solo i pontefici, ma ogni cittadino che si sentisse particolarmente versato nelle delicate sfumature del formalismo giuridico potesse venire adattando le azioni a nuove esigenze della vita sociale, entro i limiti segnati dalle rarissime leggi e dal costume, e sotto il controllo del pretore. Il lento ma sicuro svolgimento che così si viene compiendo entro il sistema del diritto civile è però considerato essenzialmente come opera dei giuristi, in quanto la funzione del magistrato rimane piuttosto negativa che positiva, limitandosi a respingere le audacie eccessive, e in ogni caso assai remissiva in confronto alla fama di cui godevano gli esperti.
Una prevalenza del magistrato comincia invece a delinearsi subito nel tribunale del pretore peregrino. Qui non è possibile ricorrere all'azione solenne, sia perché l'uso di essa è riservato ai cittadini romani, sia perché i contratti praticati nelle relazioni di affari formali riconosciuti dal vecchio costume romano e dalle leggi: le parti sono perciò ammesse ad esprimere liberamente il contenuto delle loro pretese, ed è il magistraio che le traduce in un documento scritto, da rimettersi all'arbitro (o collegio arbitrale) e sul quale i contendenti si accordano. Per questa via sono riconosciuti i contratti che per la loro origine internazionale vengono riportati al cosiddetto ius gentium: anche quando il pretore urbano, sollecitato dai giuristi, accorda la sua protezione a convenzioni dello stesso genere intervenute fra cittadini romani, questo fatto viene ricondotto, piuttosto che alla discrezione del pretore stesso, ad una recezione consuetudinaria dei contratti del commercio internazionale nel diritto civile romano.
Ma più tardi (pare, nella seconda metà del sec. II a. C.) una legge Ebuzia (v.) trasportò nel tribunale del pretore urbano, e per ogni genere di processi, la forma di procedura affermatasi presso il collega; nel senso di far lecito alle parti di esporre le loro pretese senza alcuna formalità, per poi fissarle, sotto il controllo e con l'aiuto del magistrato, in un piccolo programma scritto (formula; v.) da servir di traccia al giudice privato. Per dare ai cittadini la maggior certezza nella pratica applicazione del diritto, prima cura del pretore fu quella di trasfondere in formule tipiche le dichiarazioni solenni, che le parti pronunciavano per l'innanzi nell'instaurare le controversie a cui danno luogo gl'istituti del diritto civile, e di trascrivere tali formule in un albo (edictum) esposto nel tribunale, affinché le parti stesse vi scegliessero volta per volta il modulo più della legge, se Aulo Agerio, l'attore, pretendeva da Numerio Negidio convenuto diecimila sesterzî come dovutigli in forza di una stipulazione, citava costui in tribunale e ivi pronunciava: "Io dico che tu mi devi dare diecimila sesterzî in forza di una stipulazione; ti domando se lo affermi o lo neghi". E se il convenuto negava, l'attore ripigliava: "Poiché tu neghi, io prego te, o pretore, di assegnare un giudice". Sul consenso del magistrato, espresso probabilmente con un semplice "do", il giudice veniva scelto; e spettava ai testimonî presenti alla scena di raccontargli in quali termini si era svolta, cioè quale era l'oggetto della controversia. Nel nuovo sistema, invece, l'Editto porta una formula così concepita: "Sia giudice il tale. Se risulta che Numerio Negidio deve dare ad Aulo Agerio diecimila sesterzî in forza di una stipulazione, lo condanni; se non risulta, lo assolva"; volta per volta, le parti, esposta bonariamente la situazione di fatto, chiedono che questa formula sia messa a loro disposizione coi necessarî ritocchi (sostituendo cioè i loro nomi ai convenzionali, e la somma che si pretende essere stata promessa ai diecimila sesterzî).
I vantaggi processuali erano evidenti: liberazione delle parti dall'onere di recitare a memoria formularî spesso complicati, e dalle gravissime conseguenze che ogni più piccolo errore avrebbe potuto portare; sicura informazione del giudice privato sui termini in cui la controversia era stata impiantata. Ma inoltre cominciò a penetrare nell'opinione pubblica la persuasione che signore del processo era il magistrato; e che perciò gli era lecito servirsi della sua autorità e della tecnica formulare per proteggere rapporti sociali più o meno analoghi a quelli del diritto civile, o anche totalmente nuovi e diversi, e perfino per impedire l'attuazione pratica di una norma rigorosa di diritto, quando fosse per risultarne una conseguenza iniqua. Nell'ultimo secolo della repubblica, l'azione spiegata in questi sensi dal pretore urbano fu varia e molteplice. Laddove i requisiti fissati dalla legge e dal costume per la nascita di un diritto o di un obbligo sembrano troppo rigorosi, egli crea accanto alla formula ordinaria un'altra formula, detta utile, che fittiziamente identifica nuovi presupposti con quelli già riconosciuti; laddove un'obbligazione è stata contratta da un figlio di famiglia o da uno schiavo in condizioni tali da doversi considerare impegnato il padre o padrone, egli adatta la formula del relativo contratto in modo da dirigerla contro costoro; laddove un negozio giuridico è stato concluso facendo violenza ad una delle parti, o in frode dei creditori, egli rimette le cose in pristino, offrendo agl'interessati mezzi giudiziarî ove quel negozio si considera come non mai avvenuto; in altri casi e negli stessi, egli promette a chi abbia contratto l'iniquo debito e non l'abbia ancora pagato di opporre al creditore attore un'eccezione, con la quale, pur riconoscendo sussistente il credito per diritto civile, si arriva tuttavia all'assoluzione del debitore. Per creare obblighi giuridici totalmente nuovi, si possono ancora sfruttare i negozî solenni del diritto civile, costringendo uno degl'interessati a promettere all'altro, nella forma della stipulazione, un certo comportamento, col risultato che contro l'inadempiente sarà applicabile l'azione che nasce da qualsiasi stipulazione; ma meglio giova, in casi sempre più numerosi, l'impiego delle cosiddette formule in factum conceptae, dove il giudice è invitato a condannare o ȧssolvere secondo che certi fatti, finora non considerati dall'ordinamento giuridico, si siano o non si siano verificati.
In tutta questa attività, che attraverso i rimedî giudiziarî riforma ogni parte del diritto privato materiale, solo in un senso formale si può dire che, il diritto costituito rappresenti un limite alla discrezionalità del magistrato. Certo vi sono leggi comiziali, come quelle che stabiliscono un massimo, per i legati e le donazioni e vietano l'usura e determinano il modo di nomina dei tutori, alle quali il pretore è tenuto ad uniformarsi; ma per quel che riguarda i presupposti fissati dall'antico costume, e perfino dalla legge delle XII Tavole, per l'acquisto della proprietà e del titolo di erede, ecc., il limite all'attività del magistrato è solamente formale, nel senso che non possa privare il proprietario o l'erede di questo titolo, né possa investirne persone che il diritto civile non conosce: ciò non gl'impedisce, peraltro, di attribuire o garantire con i suoi mezzi alle persone che il rinnovato sentimento giuridico designa, il godimento pieno e definitivo della cosa o del patrimonio ereditario, così da ridurre a un vano nome il titolo intangibile attribuito dal diritto civile.
Le sole riserve che praticamente funzionino tendono ad assicurare i cittadini contro i colpi di testa improvvisi: perciò il pretore è tenuto a pubblicare, all'inizio dell'anno di carica, l'Editto, nel quale vanno indicati i criterî a cui si atterrà nell'esercizio della giurisdizione, con le formule-tipo corrispondenti a tutte le situazioni giuridiche protette; e le deroghe ai principî così stabiliti furono sempre mal viste, anche prima che una legge (la Cornelia del 67 a. C.) le vietasse. Anzi, l'Editto, che in origine si chiamava "perpetuo" soltanto nel senso che durava tutto l'anno, era nella maggior parte delle sue disposizioni veramente perpetuo, in quanto ogni pretore prendeva a modello l'Editto del predecessore, modificandolo solo in minima parte, e conformemente ai consigli dei giuristi più reputati. È perciò che già verso la fine dell'epoca repubblicana il diritto privato era considerato come risultante della giustapposizione di due sistemi, quello del diritto civile e quello del diritto pretorio (od onorario, da honor "carica"). La sistemazione definitiva dell'Editto si ha sotto Adriano, che lo fece ritoccare dal giurista Salvio Giuliano e approvare dal senato; ma anche dopo questa stabilizzazione i due sistemi continuarono ad essere considerati dalla giurisprudenza come aventi ciascuno il suo proprio vigore. Soltanto nella compilazione giustinianea i due sistemi si fondono in uno solo, senza però rinunciare in pieno alla differente terminologia né a un certo criterio di gerarchia fra le norme di diversa provenienza.
Cfr. per molti particolari: editto; roma: Diritto. Per il diritto moderno, v. competenza: Diritto processuale civile; danno: Azione di danno temuto, App., p. 158 seg.; giudice; giudiziario, ordinamento; opera nuova, denunzia di; possesso: Azioni possessorie.
Bibl.: V. Arangio-Ruiz, Corso di storia del dir. rom., Napoli 1931, p. 21 segg., 117 segg.; K. J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlino 1926, p. 225 segg.; E. Betti, La creazione del diritto nella iurisdictio del pretore romano, in Studî in onore di G. Chiovenda, Padova 1927, p. 345 segg.; Ch. de Boeck, Essai sur le préteur pérégrin, Parigi 1882; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1905, p. 414 segg., cfr. Riv. di filol. class., n. s. VII (1929), p. 1 segg.; H. Erman, Recht und Praetor, in Zeitschr. Savigny-Stift., XXV (1904), p. 316 segg.; H. Foss, Quaestiones criticae de praetoribus Romanorum qui sub imperio fuerunt, Altenburg 1837; A. Josserandot, L'Édit perpétuel restitué et commenté, Parigi 1883; E. Labatut, Histoire de la préture, Parigi 1868; C. Lécrivain, Praetor, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr. et rom., IV, i, p. 628 segg.; O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3ª ed., Lipsia 1927; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3ª ed., II, i, Lipsia 1887, p. 193 segg.; L. Wenger, Praetor und Formel, in S.-B. wiener Akad., 1924, i.