Prossemica
Il termine inglese proxemics, derivato di proximity, "prossimità", è stato introdotto dall'antropologo americano E.T. Hall negli anni Sessanta del 20° secolo per indicare lo studio dello spazio umano e della distanza interpersonale nella loro natura di segno. La prossemica indaga il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell'uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale, il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologico. Nell'impostazione filosofica della fenomenologia, il riconoscimento dell'intenzionalità della coscienza conduce alla nozione di una spazialità umana non geometrica ma vissuta, che non può essere esplorata al di fuori del rapporto costitutivo con il mondo.
l. Distanze e valori semantici
La prossemica vuole essere una semiologia dello spazio in quanto individua in esso un vero e proprio canale di comunicazione e, nei modi differenti del suo essere organizzato, scopre una serie di messaggi interpretabili con un codice antropologico che, stabilendo regole di equivalenza tra significanti e significati, attribuisce alle varie distanze un diverso valore semantico, sul quale influiscono determinate condizioni di ordine etnologico e psicosociologico. In questo senso si può sostenere che la prossemica riconosce, accanto alle tre note dimensioni dello spazio, l'esistenza di una quarta dimensione di natura culturale (Eco 1996). Su tale persuasione del carattere culturale della percezione dello spazio e del modo con cui gli individui conferiscono un senso al mondo, si fonda la prossemica come studio comparato della comunicazione interumana di tipo non verbale, rispetto alla quale i diversi sistemi di comportamento presuppongono solo in parte la medesima fisiologia, trattandosi piuttosto di differenti mondi sensoriali che possono restare tra loro separati, non integrati. Ciò mette in crisi la convinzione che si possa far riferimento a una medesima esperienza sensoriale che accomuni indistintamente tutti gli uomini. In realtà l'esperienza vissuta da ciascun individuo è profondamente caratterizzata dalla cultura di appartenenza oltre che dalla lingua, e la percezione dello spazio e la funzione della distanza interumana sono un caso eclatante di come a differenti mondi culturali corrispondano differenti mondi percettivi. Questo è un fenomeno che si può constatare anche confrontando tra loro le diverse lingue, le quali non servono soltanto a dire le stesse cose con parole diverse, ma piuttosto manifestano altrettanti modi di percepire e ordinare significativamente il mondo (Cardona 1976); in tale prospettiva, la conoscenza delle lingue straniere ci offre la mera illusione di essere perfettamente in grado di comprendere il significato delle parole e dei gesti di culture altre dalle nostre. La percezione non è riducibile a un fenomeno di natura esclusivamente fisiologica, né la categorizzazione del corpo e delle sue parti, peraltro così determinante per la concezione dello spazio, risponde nelle diverse culture agli stessi criteri, essendo il 'corpo culturale' qualcosa di diverso dal 'corpo anatomico' (Cardona 1985). Anche se il corpo umano resta il modello per la rappresentazione dello spazio e per la collocazione degli oggetti, secondo un sistema di coordinate che si riferisce alla nostra possibilità di orientamento di natura essenzialmente proiettiva, in virtù della quale l''avanti' indica generalmente ciò che è di faccia, il 'dietro' ciò che è alle spalle, la 'destra' e la 'sinistra' ciò che si trova di fianco, l''alto' ciò che è sopra la testa e il 'basso' ciò che è sotto i piedi, tuttavia la concezione che ogni gruppo umano ha elaborato dello spazio, per quanto sembri fare riferimento alla medesima immagine di uomo, in realtà si differenzia per una sempre particolare assimilazione e codificazione di natura culturale, in cui gioca il tipo di procedimento astrattivo messo in atto, cui finisce per riferirsi la lingua. Articolando le proprie riflessioni in un confronto costante con i risultati delle indagini etologiche, E.T. Hall, nel saggio La dimensione nascosta (1966), ha proceduto a una classificazione delle distanze sulla base del loro diverso valore semantico. Anzitutto, e partendo dal mondo animale, egli ha rilevato l'esistenza di una distanza di fuga e di una distanza critica che valgono per individui di specie diverse, nonché di una distanza individuale e di una distanza sociale che riguardano membri della stessa specie. In merito alla distanza di fuga va detto che l'uomo, a differenza degli altri animali, è stato costretto a ridurla di molto con il passare del tempo, e ciò a causa di un sempre crescente sovraffollamento degli spazi abitati. Ma, prima ancora di procedere a una classificazione più dettagliata delle varie distanze, occorre indagare il ruolo che assolvono i recettori sensibili nella percezione dello spazio. Hall ha distinto i componenti dell'apparato sensoriale umano in recettori di distanza (occhi, orecchi, naso) orientati verso oggetti lontani, e recettori immediati (pelle, membrane, muscoli) riferiti all'ambiente circostante più prossimo. Su di essi vengono a influire una diversa metamorfosi evolutiva, correlata con un lento e faticoso processo di adattamento, da cui dipende la loro conformazione attuale, e un condizionamento culturale al quale ciascun individuo è esposto dalla nascita e che si fa sempre più determinante sotto il peso dell'educazione. Questa consapevolezza della presenza di elementi fisiologici e culturali interagenti nella percezione dello spazio consente di individuare almeno tre manifestazioni prossemiche generali: una infraculturale, che riguarda il comportamento nel suo stadio più basso di organizzazione e si radica nel passato biologico dell'uomo; una preculturale, che concerne la costituzione fisiologica dell'uomo, con particolare riferimento allo stadio più recente del suo sviluppo; e infine, una manifestazione microculturale, più ricca delle due precedenti e rivolta allo studio dello spazio così come esso viene organizzato secondo sistemi evoluti. In tale organizzazione è possibile distinguere uno spazio preordinato, in base al quale vengono regolate le attività individuali e sociali (come, per es., accade con la divisione delle stanze di una casa o con la sistemazione semistabile del mobilio); uno spazio semideterminato, in cui la distribuzione degli spazi e la dislocazione degli oggetti sono tali da favorire dinamiche di fuga sociale (per es., le sale d'aspetto delle stazioni ferroviarie) o di attrazione sociale (per es., le terrasses dei caffè francesi); uno spazio informale, il più importante dal punto di vista della vita interumana, in cui i confini e le distanze tra gli individui sono regolati da processi non necessariamente consci che restano per lo più inespressi, ma profondamente determinanti così da consentirne una classificazione. Una tipologia possibile delle distanze umane, ricavata da Hall utilizzando un campione di individui americani, tuttavia troppo esiguo perché essa si possa estendere a tutto il genere umano, né sufficientemente confortata dal punto di vista sperimentale (Cook 1971), comprende i casi di seguito elencati, all'interno dei quali è possibile distinguere una fase di vicinanza e una fase di lontananza.
a) Distanza intima. La fase di vicinanza è il caso del contatto erotico o della lotta, o comunque quello di un alto grado di coinvolgimento corporeo diretto, in cui i recettori dell'odore e del calore forniscono impressioni vivaci e la distanza è così ravvicinata da impedire una visione chiara e distinta. La fase di lontananza riguarda una distanza compresa tra i 15 e i 45 cm. Entro questo spazio sono ridotti i contatti del capo, delle cosce o delle parti pelviche, ma le mani possono ancora raggiungere e afferrare le estremità dell'altro, di cui restano deformati i tratti fisici a causa di una visione ancora troppo ravvicinata e per questo fastidiosa; ciò spiega, per es., perché per molte persone l'irruzione inopportuna di qualcuno nella propria sfera intima sia ritenuta un segno di maleducazione.
b) Distanza personale. La fase di vicinanza va da 45 a 75 cm; resta ancora possibile toccare o afferrare l'altro per le estremità e la visione si fa meno distorta, anche se non del tutto rilassata a livello muscolare; a questa fase appartiene ancora una certa intimità di coinvolgimento: si tratta di quella distanza che, per es., può concedersi in modo esclusivo una moglie con il proprio marito, laddove l'eventuale intromissione di un'altra donna sarebbe invece interpretata come una vera e propria minaccia. La fase di lontananza va da 75 a 120 cm; costituisce il limite del 'dominio fisico', e l'altro può essere toccato al massimo sfiorando le sue dita a braccia tese; la visione si fa più nitida e non si avverte più il calore corporeo, mentre l'olfatto percepisce quasi esclusivamente l'odore dei cosmetici o quello del respiro.
c) Distanza sociale. La fase di vicinanza (da 1,20 a 2,10 m) è la distanza a cui si trattano gli affari impersonali ed è di solito mantenuta negli incontri occasionali o durante i convenevoli; a questa distanza un dirigente, per es., può rivolgersi a un suo impiegato e comunicargli tutto il potere che il proprio ruolo gli conferisce solo guardandolo dall'alto in basso. La fase di lontananza (da 2,10 a 3,60 m) riguarda gli incontri e le trattative di carattere molto formale; viene, per es., rispettata nella sistemazione delle sedie rispetto alle ampie scrivanie dietro cui si trincerano persone importanti, alle quali viene così consentito di tenere l'interlocutore a una distanza tale da poter interrompere la comunicazione anche solo orientando lo sguardo di qualche grado rispetto al volto di colui che gli sta di fronte.
d) Distanza pubblica. La fase di vicinanza (da 3,60 a 7,50 m) riguarda riunioni assai informali, come quella di un relatore di fronte a un modesto uditorio, ciò che comporta da parte di chi parla una scelta più accurata delle parole e delle frasi del discorso, servendosi di un tono di voce più alto anche se non a pieno volume. La fase di lontananza (da 7,50 m in poi) è la distanza della massima inaccessibilità pubblica, come nel caso degli uomini politici, ma non solo; essa implica un'esaltazione generale della mimica, della postura e della modulazione vocale, dal momento che a tale distanza si adombrano i caratteri somatici individuali e si rende così necessario marcare la presenza di sé per renderla meglio percepibile. La disposizione dei corpi nello spazio esprime anche il diverso tipo di relazione sociale che è in atto di volta in volta; gli individui, infatti, organizzano lo spazio circostante come spazio sociale secondo i diversi status di appartenenza, cosicché, per es., a relazioni di uguaglianza o di disuguaglianza corrisponderà da parte dei soggetti un modo di disporsi simmetrico o asimmetrico, oppure scaturiranno tendenze all'avvicinamento o all'allontanamento (Danziger 1976). Allo stesso modo, il mantenimento del medesimo ordinamento spaziale all'interno di un gruppo sarà segno di una certa reciprocità a livello di intimità, di dominanza o di altre dimensioni dell'interazione, laddove i mutamenti dell'organizzazione dello spazio attesteranno un eventuale cambiamento della partecipazione e del consenso (Ricci Bitti-Cortesi 1977). Oltre alla vicinanza, e quindi alla distanza interpersonale propriamente detta, sono state riconosciute come dimensioni significative del comportamento spaziale anche l'orientazione, cioè l'angolazione con cui due persone si situano spazialmente l'una rispetto all'altra, che può comunicare il loro grado di intimità o di interesse; l'altezza, che uno può variare stando in piedi o restando seduto, modificando il tacco delle scarpe o la postura, oppure usando un palco o sedendo sul pavimento; il movimento nell'ambiente fisico, dove aree diverse sono in rapporto a posizioni e ruoli sociali diversi, come, per es., accade con l'occupazione delle poltrone a un concerto o a una conferenza, ovvero con la distribuzione dei posti in un'aula di tribunale; le modificazioni dell'ambiente fisico, che consistono nello spostamento o nell'inserimento di oggetti all'interno di uno spazio, tali da delimitare il proprio territorio e produrre tipi differenti di interazione sociale (Argyle 1975). Lo studio prossemico tuttavia, almeno nelle intenzioni originarie del suo iniziatore, oltre a descrivere il tipo di relazione sociale e di dinamica psicologica in atto nella divisione e nell'utilizzo dello spazio umano, avrebbe dovuto contribuire anche al miglioramento delle condizioni di vita delle società, soprattutto di quelle caratterizzate da una forte promiscuità razziale e culturale. In tal senso, il misconoscimento degli schemi prossemici e delle differenze culturali nella percezione e nella gestione dello spazio potrebbe facilmente indurre progettisti e architetti all'errore di costruire città nelle quali l'incuranza dei bisogni e dei linguaggi delle varie etnie rischierebbe di forzare intere popolazioni a un modello di vita innaturale, causa quindi di un disadattamento e di uno stress socialmente pericolosi.
Nonostante il termine prossemica non compaia mai come tale, possiamo riconoscere anche alla fenomenologia il merito di aver indagato, con il suo proprio metodo, il problema dello spazio umano e della distanza in modo totalmente rilevante. Anzitutto si deve alla ricerca fenomenologica la scoperta che il corpo umano è fondamentalmente trascendenza, apertura originaria rispetto a cui soltanto può dischiudersi un 'mondo', il quale non è la semplice somma degli enti, bensì la modalità del loro darsi rispetto alla nostra possibilità di essere orientati nella direzione del 'progetto' esistenziale. Il corpo, pertanto, nel suo essere perennemente 'fuori di sé' dispiega uno spazio in un modo suo proprio; uno spazio però non geometrico, non neutro e quindi non qualitativamente indifferente, ma, al contrario, uno spazio vissuto, rispetto a cui le cose non solo vi restano semplicemente collocate, ma ricevono la loro posizione e il loro senso a partire dal 'qui' di un corpo concepito come 'punto zero' dell'orientazione (Husserl 1983). La spazialità umana non può essere indagata al di fuori del rapporto costitutivo con il mondo; la vicinanza o la lontananza sono decise dal modo di prendersi cura di ciò che è anzitutto utilizzabile, vale a dire alla nostra portata: così, per es., si può dire che per quanto la strada che posso calpestare camminandoci sopra sia spazialmente più vicina dell'amico che mi viene incontro in lontananza, in realtà essa risulta al contrario assai più lontana di quello, verso cui io sono orientato dall'intenzionalità disallontanante della 'cura', rispetto alla quale la vicinanza spaziale resta così secondaria (Heidegger 1927). È infatti il prendersi cura e non il corpo-cosa ciò che in questo caso decide della vicinanza. In altre parole, l'esserci non è spaziale perché è corporeo, semmai la corporeità è possibile solo in quanto l'esserci è originariamente un ente 'concedente-spazio'. All'uomo appartiene così una 'gittata' (Reichweite), la quale fa sì che il confine del corpo inanimato (Körper) non coincida con il confine del corpo vivente (Leib): infatti, se il confine del corpo inanimato è la pelle, quello del corpo vivente invece muta costantemente con la gittata (Heidegger 1987), di cui non si dà alcuna misura geometrica. Evidentemente, la scoperta di uno spazio vissuto rivela di conseguenza quella di una distanza vissuta. Questa, in quanto qualitativamente differente dalla distanza geometrica, non può ridursi mai del tutto, come invece accade con due corpi fisici qualsiasi. Di essa si può dire che leghi più di quanto separi, né cresce o diminuisce in rapporto all'avvicinamento o all'allontanamento degli oggetti, ma al contrario 'si sposta con noi' (Minkowski 1968). Pertanto, tale distanza non è per es. maggiore in un deserto a causa della quantità di spazio a disposizione rispetto a una strada affollata, dove si è invece costretti a scansare i passanti. Anzi, proprio lo spazio sconfinato del deserto finisce per restringere la distanza vissuta a causa dell'isolamento che esso provoca, laddove il contatto molto ravvicinato nella strada piena di gente lascia essere progettualmente più liberi. La conformazione spaziale prevalentemente non geometrica dell'essere umano risalta maggiormente nei casi di gravi psicosi, dove si assiste a una trasformazione radicale dello spazio vissuto, rispetto a cui ciò che è vicino e ciò che è lontano perdono la loro autonomia e il loro senso, mentre lo spazio esterno finisce per confluire e assediare lo spazio interno, o viceversa, assoggettando l'individuo a una permeabilità senza limiti (Callieri 1996). In tali casi, il soggetto può arrivare ad abolire quasi del tutto quella distanza fondamentale tra sé e l'oggetto, al punto che l'io finisce per identificarsi in ciò che lo circonda, a causa di una liquefazione e di una dissolvenza dello spazio che gettano l'uomo in una esistenza pietrificata e alla mercé di una progettualità senza progetto e di una temporalità senza futuro. Tale permeabilità, però, non si limita solo al corpo proprio, bensì si estende anche allo spazio vissuto e agli oggetti in esso intenzionati: accade, infatti, che in alcuni casi di schizofrenia si manifesti un vero e proprio 'delirio orifiziale' (Pélicier 1983), durante il quale il paziente individua per es. nelle finestre della propria casa dei 'buchi', attraverso cui il suo vicino può fare irruzione spiandolo, insultandolo, anche solo con lo sguardo. Sempre al di là delle limitazioni imposte da una concezione esclusivamente geometrica dello spazio, la prossimità può essere inoltre pensata in maniera etica, quale dimensione ontologicamente originaria e irriducibile dell'essere umano (Lévinas 1978). Questa prossimità, non riducibile alla semplice vicinanza spaziale di un io con il suo altro, si configura ancora una volta come trascendenza. L'altro, allora, resta assolutamente invisibile e tuttavia costituisce già da sempre la mia più antica 'ossessione', nel senso che esso mi concerne già prima di potergli manifestare il mio amore, il mio odio o la mia indifferenza. In questo rapporto originario con l'altro la prossimità diventa inoltre 'responsabilità', intesa come un coinvolgimento non intenzionale e per di più anteriore a qualsiasi incontro: un coinvolgimento, un intrico che si configura a sua volta come 'sostituzione', cioè come un 'essere-l'uno-per-l'altro' reso possibile dall'aver l'altro nella propria pelle, come un''incarnazione' a cui non ci si può sottrarre essendo essa legata alla nostra stessa corporeità.
m. argyle, Bodily communication, London, Methuen, 1975 (trad. it. Il corpo e il suo linguaggio, Bologna, Zanichelli, 1978).
b. callieri, Psicopatologia fenomenologica dello 'spazio vissuto', in Esistenza. I vissuti: 'tempo' e 'spazio', a cura di A. Dentone, Foggia, Bastogi, 1996, pp. 33-47.
g.r. cardona, Introduzione all'etnolinguistica, Bologna, Il Mulino, 1976.
id., I sei lati del mondo, Roma-Bari, Laterza, 1985.
m. cook, Interpersonal perception, Harmondsworth, Penguin, 1971 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1973).
k. danziger, Interpersonal communication, Oxford, Pergamon Press, 1976 (trad. it. Bologna, Zanichelli, 1982).
u. eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1996.
j. fast, Body language, New York, Pocket Book, 1971 (trad. it. Milano, Mondadori, 1971).
u. galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1987.
e. goffman, Behavior in public places, New York, Free Press of Glencoe, 1963 (trad. it. Torino, Einaudi, 1971).
e.t. hall, The silent language, New York, Fawcett, 1966 (trad. it. Milano, Bompiani, 1969).
id., The hidden dimension, New York, Doubleday, 1966 (trad. it. Milano, Bompiani, 1996).
m. heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1927 (trad. it. Milano, Longanesi, 1976).
id., Zollikoner Seminare, Frankfurt a.M., Klostermann, 1987 (trad. it. Napoli, Guida, 1991).
e. husserl, Studien zur Arithmetik und Geometrie, Den Haag, Nijhoff, 1983 (trad. it. Il libro dello spazio, Milano, Guerini, 1996).
e. lévinas, Autrement qu'être, Den Haag, Nijhoff, 1978 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1995).
e. minkowski, Le temps vecu, Losanna, Delachaux & Niestlé, 1968 (trad. it. Torino, Einaudi, 1971).
y. pélicier, Le voisin, in Espace et psychopathologie, éd. Y. Pélicier, Paris, Economica, 1983, pp. 73-79.
p. ricci bitti, s. cortesi, Comportamento non verbale e comunicazione, Bologna, Il Mulino, 1977.
r. sommer, Personal space, New York, Prentice Hall, 1969.
o. watson, Proxemic behavior, The Hague, Mouton, 1970 (trad. it. Milano, Bompiani, 1972).