Natura, protezione della
di Edward M. Nicholson e Massimo Severo Giannini
NATURA, PROTEZIONE DELLA
Conservazione della natura
di Edward M. Nicholson
sommario: 1. Introduzione. 2. Definizioni. 3. Evoluzione storica della conservazione: a) preistoria; b) transizione verso atteggiamenti moderni; c) antiche attività specialistiche rivolte alla conservazione; d) gli inizi della moderna conservazione della natura; e) inquinamento e risorse naturali; f) popolazione e profezie di disastri; g) i fatti essenziali della conservazione della natura; h) recenti mutamenti nell'azione e nei metodi; i) sguardo complessivo sul ruolo della conservazione. 4. L'applicazione dell'ecologia e i suoi limiti: a) riluttanza nell'accettare la guida dell'ecologia; b) successi e difficoltà dell'ecologia applicata; c) aspetti generali del problema. 5. La situazione nei vari continenti e oceani: a) Antartide e Australia; b) Africa; c) l'Asia e il Pacifico; d) Europa; e) le Americhe. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Da uno stadio di partecipazione diretta alla vita animale sulla Terra, l'evoluzione dell'uomo è approdata fino a una presunta emancipazione totale da tale condizione, emancipazione realizzata cercando di ‛conquistare' la natura; ma in tempi più recenti si è dovuto nuovamente constatare la effettiva dipendenza dell'uomo dalla biosfera e di conseguenza l'inadeguatezza della concezione antropocentrica dell'universo.
Perciò la conservazione della natura dev'essere compresa in primo luogo sul piano storico, nelle sue implicazioni filosofiche e sociali e nelle loro ripercussioni sui modi primitivi di pensare e sulle antiche credenze, e in secondo luogo nell'applicazione dell'ecologia e nei suoi limiti. Infine è necessario passare in rassegna ciò che è stato fatto nelle diverse parti del mondo. Il presente articolo è strutturato secondo i tre punti suddetti, ma è opportuno farlo precedere da alcune definizioni.
2. Definizioni
Si tenga presente che tutta la terminologia sull'argomento evolve rapidamente, via via che le conoscenze scientifiche chiariscono le realtà che sono alla base delle generalizzazioni e le analisi successive riescono a far luce sulle singole differenze soggettive che danno luogo a distinzioni verbali basate più che altro su atteggiamenti e impostazioni differenti, anziché su reali diversità dei fenomeni considerati.
Per esempio, la parola ‛natura', che ha molti significati, indica principalmente tutto ciò che è sorto e si perpetua spontaneamente e indipendentemente dall'iniziativa o dalla gestione dell'uomo. Tuttavia l'uomo stesso è originariamente parte della natura, e tale può restare, a meno che se ne voglia consapevolmente e attivamente rendere indipendente. L'uso del termine natura, perciò, indica una presa di posizione dell'uomo separata o avversa a essa. Un termine scientifico più moderno è quello di ‛biosfera', che indica l'intero sistema dei processi fisici che consentono la vegetazione sulla Terra attraverso la produzione primaria e la vita animale attraverso la produzione secondaria. L'antitesi della biosfera non è l'uomo, ma la ‛tecnosfera', che con i procedimenti di estrazione e di raccolta nell'ambito della biosfera, cioè con l'attività mineraria, agricola, della pesca e della caccia, dell'allevamento, con i metodi chimici o con altri metodi tende a trasformare i materiali inorganici e organici in prodotti utilizzabili che restano per un certo periodo nella tecnosfera prima di essere riciclati nella biosfera, spesso con modalità che tendono a degradare o a interrompere i processi normali. La presa di coscienza di tali problemi induce l'uomo a riflettere o ad agire sull'ambiente, che comprende la natura nel suo aspetto puro e in quello modificato dall'uomo, ivi comprese la tecnosfera nel suo significato più ampio e le strutture tangibili della società umana; per un'ulteriore estensione vi rientra poi la ‛qualità dell'ambiente', che include anche ciò che non è propriamente concreto e tangibile. Il termine ‛ambiente', a differenza del termine ‛natura', implica un punto di vista antropocentrico. Esso presuppone quasi sempre un atteggiamento interventista anziché passivo verso la natura. Queste tendenze interventiste conducono al moderno concetto di ‛sviluppo', che implica una gestione selettiva della Terra e della natura, generalmente allo scopo di migliorare fino all'optimum o al massimo dei desideri umani la raccolta di prodotti alimentari o di altre risorse. La pastorizia, l'agricoltura, l'attività mineraria e lo sfruttamento delle risorse naturali costituiscono generalmente le basi dello sviluppo, che è considerato o presentato come un modo più scientifico, equilibrato e produttivo di utilizzare la biosfera portandola al livello di tecnosfera. Ma poiché in molti casi importanti questa impostazione è stata attuata in modo rozzo e indiscriminato, tale da danneggiare o distruggere parti assai preziose della natura, l'uomo è passato alla ‛protezione' o difesa di particolari habitat o ambienti di specie animali e vegetali minacciate, di monumenti storici e culturali, di paesaggi. Tale atteggiamento ha sollevato le critiche di chi vedeva in questa attività una fossilizzazione di quei soggetti, trasformati quasi in musei, e ha dato luogo, per reazione, a un approccio alternativo, che è quello della ‛conservazione', definita in modo riduttivo come ‛saggia utilizzazione', ma che essenzialmente sta a significare una forma di gestione positiva, di adattamento, rinnovamento e indicazione di nuovi ruoli per le strutture, i luoghi, le forme di vita scelte per la protezione. La conservazione, senza peraltro trascurare i propri obiettivi, si propone di conciliare gli elementi essenziali della protezione in un atteggiamento flessibile e costruttivo che tenga conto del contesto economico e sociale. Tale attività richiede una comprensione più completa e dettagliata delle qualità e del funzionamento degli organismi e dei sistemi che si intende conservare; tutto ciò ha promosso il rapido sviluppo dell'ecologia, che è lo studio delle relazioni delle piante e degli animali fra loro e con l'ambiente. Giacché la conservazione non può essere attuata in modo completo e adeguato nell'ignoranza dell'ecologia, essa si può considerare in senso lato come ecologia applicata. L'ecologia comprende l'ecologia delle popolazioni, che implica lo studio delle comunità animali e vegetali, e l'ecologia della produttività, che implica lo studio dei flussi dell'energia e delle sostanze nutritive all'interno delle comunità mediante le catene alimentari e i cicli di nutrizione e di degradazione. Elementi importanti dell'ecologia sono l'identificazione degli ecosistemi e delle loro carattetistiche di composizione e di equilibrio, e l'esame degli habitat a cui le varie specie sono adattate. Per il fatto stesso di dover procedere all'analisi dei sistemi e basarsi su complesse relazioni sociali e competitive, l'ecologia sta influenzando in modo sempre crescente le scienze umane, compresa la filosofia. Il vivace risveglio dell'interesse pubblico per questo argomento ha determinato la richiesta di ‛studi sul terreno', che tendono a portare studenti di ogni età e livello scolastico al di fuori delle aule, per iniziarli alla conoscenza non solo di quanto accade nell'ambito della biosfera, ma dell'archeologia, della storia, dell'antropologia e dell'evoluzione sociale. Anche in questo caso, le iniziative, l'organizzazione e i metodi creati in risposta alle richieste per la conservazione della natura si sono rapidamente estesi in qualcosa di più vasto che è stato denominato ‛la scienza all'aperto'.
L'uomo, nel tentativo di conservare la natura, si ritrova ben presto come riflesso in uno specchio. La peculiare e intensa dinamica dell'attuale movimento per la conservazione e del vivace interesse che esso ha risvegliato in molti profani può essere compresa soltanto quando si faccia riferimento all'evoluzione storica della conservazione.
3. Evoluzione storica della conservazione
a) Preistoria
Per evolvere da una condizione subordinata all'interno degli ecosistemi di foresta e di savana dell'Africa tropicale (e forse di altre zone) a una di autonomia e di sfruttamento della natura, l'uomo preistorico deve aver compiuto uno sforzo formidabile per riuscire a capire e sfruttare le potenzialità del suo habitat naturale. Qualche traccia di questo sforzo può forse essere individuata nel profondo interesse per la vita primitiva e nell'intensa carica emotiva che ancora si manifesta nei rapporti che l'uomo stabilisce con la natura. L'uomo, che sostanzialmente dovrebbe essere l'animale più consapevole dal punto di vista ecologico, mentre da un lato è stato indotto per lungo tempo a commettere abusi ecologici di volta in volta più gravi in nome del proprio interesse, dall'altro lato sembra sia rimasto profondamente memore del suo lontano rapporto di interdipendenza con gli eventi naturali e della sua primitiva soggezione di fronte al senso di grandiosità e al fascino che la natura gli ispirava. Qui sta forse il segreto della coesistenza, da una parte, delle intense attività che si svolgono in tutta la Terra per sfruttare le risorse naturali senza tenere in alcun conto le possibili conseguenze negative di tali attività e, dall'altra, della rapida affermazione di opinioni e attività in favore della salvaguardia della natura e contro atteggiamenti avidi e sconsiderati.
Il coro apparentemente trascurabile e non rappresenta- tivo delle poche voci che si sollevarono nel tardo Otto- cento e ai primi del Novecento in favore della conservazione della natura esprimeva evidentemente forze profonde e universali, che giacevano sepolte nella memoria popolare e alle quali, man mano che cominciarono a liberarsi, venne data una nuova vitalità dal moderno dilemma sull'ambiente. Paradossalmente, le stesse influenze ataviche che hanno in molti casi promosso un impiego sostanzialmente aggressivo della tecnologia e dei processi economici potrebbero essere rivolte anche alla creazione di antidoti contro tali usi distorti. In questo modo si può comprendere come i principi e le idee dell'ecologia e della conservazione della natura abbiano superato le loro barriere specialistiche e tendano a influenzare sempre più l'opinione pubblica circa la reale possibilità di adattare i valori della civilizzazione ai limiti imposti dalla natura.
Tra gli aspetti della natura che devono aver impressionato profondamente l'uomo primitivo, vi erano senza dubbio l'immensità e la distanza del cielo stellato, le alte montagne e il mare aperto, la potenza del vento e dell'acqua, dei terremoti, dei vulcani, delle frane e delle sabbie mobili, l'avvicendamento delle stagioni, il rigoglio della vegetazione con i suoi frutti e la vita animale. Tutto ciò stimolava in vari modi la peculiare facoltà di provare stupore insita nell'uomo. Per condividere con altri uomini questo senso di stupore e per sublimare i timori ch'esso portava con sé si dovettero perfezionare i mezzi di comunicazione, specialmente per quanto riguarda l'astrazione e la generalizzazione al di là e al di sopra dell'esperienza quotidiana. Senza dubbio ciò consentì agli uomini più dotati di distinguersi in quelle attività che più tardi sarebbero state denominate poetiche, filosofiche, didattiche e sacerdotali, nelle quali la natura viene usata come materia prima per risvegliare ed educare l'immaginazione, la percezione, lo spirito e la coscienza etica e religiosa. L'influenza e il prestigio così acquisiti devono aver contribuito alla prima formazione di società umane in cui la forza bruta divenne almeno parzialmente subordinata ad altri valori. L'importanza attribuita all'eremitaggio durante i primordi del cristianesimo e di altre religioni mostra quanto alta fosse la fiducia nella natura sia come fonte di nutrimento che come guida della meditazione religiosa.
b) Transizione verso atteggiamenti moderni
Via via che gli strumenti del linguaggio, dell'arte e della filosofia si affinarono e diedero origine a una propria terminologia, diminuì gradualmente la dipendenza immediata dalla natura come fonte di ispirazione. Contemporaneamente, la progressiva conquista di fiducia in se stesso portò l'uomo a emanciparsi dalla paura degli aspetti sconosciuti e onnipotenti della natura, alla quale sostituì gradualmente la convinzione che essa fosse sottoposta al dominio dell'uomo. Fin dal IV secolo a. C. il taoista cinese Chuang Tsu deplorava la fine ‟dell'età della perfetta virtù", quando ‟gli uomini vivevano in comune con gli uccelli e le fiere" (v. Passmore, 1974). Tali convinzioni hanno persistito fino ai tempi moderni, per esempio nei monasteri buddhisti del Tibet. I cristiani, invece, come gli ebrei e i musulmani, pensavano che all'uomo spettasse il dominio della natura per diritto divino, ma per molte generazioni le possibilità di esercitare tale dominio furono assai limitate.
Durante il tardo Medioevo, il pensiero occidentale si orientò in misura crescente a considerare l'uomo come centro dell'universo e si impegnò in aspre controversie sul problema dei rapporti dell'uomo con Dio. Alcuni di coloro che adottarono su questo problema i punti di vista più radicali si orientarono nuovamente a favore di una dipendenza dalla natura come fonte e maestra della conoscenza scientifica. Nello stesso tempo la poesia e l'arte si indirizzarono verso motivi ispirati al paesaggio naturale. La convergenza di queste due tendenze è adeguatamente espressa in una lettera, datata giugno 1541, dello svizzero Konrad Gessner, uno dei precursori della zoologia, che scrive quanto segue: ‟Se si considera che qui tutte le potenze degli elementi e della natura sono combinate in un sol luogo, non ci si deve meravigliare del fatto che gli antichi attribuissero poteri divini alle montagne e ne facessero l'abitazione di molte divinità montane, come Pan [...]. Questi è il Dio che si credeva ispirasse il terrore, perché alla contemplazione delle altitudini boscose il cuore era invaso da un senso di sgomento innaturale, aldilà di qualunque sentimento ispirato da cose materiali". Gessner esprime le sue reazioni anche con termini più eloquenti: ‟Che gioia, che piacere per un'anima attenta, fissare con ammirazione i massicci montani come se si trovasse in un teatro e volgesse lo sguardo al cielo. Non so spiegare come avvenga che alla vista di queste altitudini incredibili tutto l'essere sia assalito da tremore come fosse conquiso dai gloriosi splendori della creazione [...] dev'essere un nemico della natura colui che non crede che valga la pena concedersi la profonda contemplazione delle maestose montagne. È così che l'uomo può capire l'immensa grandezza della terra come natura che si disvela gradualmente dandoci una dimostrazione del potere ch'essa ha di sollevare tali masse [...]. Non v'è dubbio che le montagne devono la loro creazione e la loro esistenza all'effetto del fuoco [...] esse ricevono considerevole nutrimento non soltanto dalle sorgenti, ma anche dalle violente precipitazioni atmosferiche e dalle masse di neve, le quali ultime sono le più attive poiché si sciolgono gradualmente e penetrano in profondità nella terra anziché cadere subitamente come un'unica massa d'acqua [...]".
La lettera ora citata, da cui sono tratti questi brani illuminanti (v. Maeder, 1968), comprende alcuni spunti che vanno dalla mitologia classica a idee molto progredite per il loro tempo, anticipando sia il movimento romantico di due secoli fa, sia l'impostazione moderna dell'ecologia e della conservazione. Essa è notevole per quello che rivela delle intense passioni per la natura selvaggia che sono alle origini della scienza moderna, prima dell'avvento dei fisici, dei chimici e dei matematici. Già allora, più di quattro secoli fa, benché non fosse ancora chiaramente individuata la necessità della conservazione, era però presente la sua motivazione.
c) Antiche attività specialistiche rivolte alla conservazione
In alcune regioni fin da tempi molto antichi si svilupparono attività particolari per la conservazione. I primi governanti dell'Egitto e del Vicino Oriente crearono giardini, parchi e luoghi di diletto destinati a serre, a giardini zoologici e a riserve per la selvaggina. Ricerche eseguite su reperti preistorici dell'Iran sudoccidentale indicano che alcune delle specie più comuni di selvaggina cominciarono a scomparire già intorno al 7000-7500 a. C. La riserva per animali selvatici creata da san Cutberto intorno al 680 nelle isole Farne riuscì a resistere più in forza di un senso spontaneo di rispetto che di leggi restrittive: le numerose foreste reali del Medioevo, nelle quali la selvaggina era tutelata per l'attività venatoria dei monarchi, in Inghilterra e altrove, si conservarono invece mediante la sorveglianza poliziesca e pene severissime. La prima legge per la conservazione promulgata in Inghilterra fu un Atto del parlamento del 1534 inteso a ‟evitare la distruzione degli uccelli selvatici"; si trattava però in sostanza di una legge per la caccia, fatta nell'interesse dei falconieri.
Questi gruppi privilegiati, che si costituivano via via che, con l'aumentare della popolazione, si sviluppava una indiscriminata attività venatoria incompatibile con la sopravvivenza della selvaggina, erano interessati a quella che oggi chiameremmo conservazione e a studi completi sull'argomento, come dimostra ottimamente nel XIII secolo la dotta opera sulla falconeria dell'imperatore Federico II, re di Sicilia. La caccia sviluppò ben presto sue proprie regole e una sua autodisciplina; è stata anche avanzata l'ipotesi, assai plausibile, che la struttura delle prime associazioni di cacciatori e i loro rapporti sociali abbiano lasciato un'impronta che si riflette ancora nelle associazioni attuali, anche per quanto riguarda la loro conduzione con criteri moderni. Mentre la selvaggina diminuiva ed era riservata a un'élite sociale ed economica, gli sport all'aria aperta acquistavano valore di simbolo sociale, ed erano perfino promossi da capi di Stato quando dovevano intrattenere ospiti illustri. Col mutare dei gusti, con l'aumento dei costi e la riduzione delle occasioni di fare abbondanti carneficine fuori del pubblico controllo, in molti paesi si è recentemente verificato un notevole cambiamento della moda: osservazione e fotografia hanno in parte soppiantato la caccia col fucile. Le due attività tendono oggi a coesistere, benché i loro rapporti reciproci non siano sempre facili.
Sebbene la caccia sia una delle attività che hanno dato origine alla moderna conservazione della natura, essa è connessa solo indirettamente con altre attività che hanno avuto una funzione analoga, come ad esempio la silvicoltura. Nel XVII secolo, in Inghilterra, uno dei fondatori della Royal Society di Londra come accademia scientifica fu John Evelyn, che aveva ereditato una piccola fortuna derivante dall'abbattimento di un vastissimo bosco per ricavare polvere da sparo: questo delitto era stato perpetrato da gruppi di speculatori e spinto tanto oltre da danneggiare i rifornimenti di legno di quercia stagionata necessari alla Marina Reale. Evelyn promosse una campagna per porre fine alla distruzione delle foreste meridionali e incoraggiare il rimboschimento e ciò richiese la promulgazione di severe leggi sulla conservazione che costrinsero gli speculatori a interrompere le loro devastazioni. Uno di questi, Abraham Darby, reagì con un'innovazione tecnologica, introducendo l'uso del carbon fossile al posto del carbone di legna nella fusione dei lingotti di ferro, e aprì in tal modo la via alla moderna industria dell'acciaio. Purtroppo il successo delle campagne per nuove piantagioni e l'interesse crescente per il problema dei costi e dei mercati determinarono un'ulteriore distruzione delle antiche foreste che furono sostituite piantando alberi esotici su tutto il territorio inglese. Il fenomeno non ha avuto un uguale estensione nell'Europa continentale.
Le ricerche archeologiche hanno spostato sempre più indietro nel tempo l'inizio delle attività umane volte a addomesticare gli animali e a coltivare i cereali. All'origine queste attività devono essere state più vicine, almeno per alcuni aspetti, alla conservazione degli animali e delle piante allo stato di natura che non alle moderne operazioni di allevamento degli animali e di coltivazione. Esse devono aver comportato uno studio continuo, e ricerche e sperimentazioni assidue sul materiale fornito dalla natura. Va ad onore dell'abilità sviluppata dall'uomo preistorico in tutte le regioni del globo il fatto che le generazioni recenti, con tutte le risorse scientifiche a loro disposizione, abbiano potuto aggiungere solo poche specie animali e vegetali di valore economico alle molte che l'uomo preistorico trovò e utilizzò tanto tempo fa.
Mentre le antiche tradizioni vanno rapidamente scomparendo, sopravvive ancora qualche traccia della loro memoria e forse non è azzardato pensare che gli attuali responsabili delle riserve naturali e dei parchi nazionali si siano adattati ai loro nuovi doveri con una facilità e una rapidità che deriva dalle innumerevoli generazioni durante le quali i loro antenati furono impegnati a svolgere attività similari. Il desiderio di trovare e acclimatare piante e animali di terre straniere si può far risalire, in base a documenti storici, a Tiglatpilèser I a Babilonia (1100 a. C.), al faraone egiziano Thotmes III (circa 400 anni prima) e a Sennacherib a Ninive (circa 400 anni dopo). Esso raggiunse l'acme nel XIX secolo, per esempio con l'introduzione in Australia del coniglio e in America dello storno europeo e del passero comune. Oggi, con il turismo di massa, nonostante i divieti l'introduzione accidentale di piante e di animali che possono produrre epidemie è diventata più facile e talvolta quasi inevitabile.
d) Gli inizi della moderna conservazione della natura
È possibile individuare alcune antiche leggi di diversa efficacia volte alla protezione, ma la conservazione della natura in quanto impegno organizzato della comunità risale a poco più di un secolo fa. I successivi stadi del suo sviluppo non sono stati il prodotto di iniziative particolari, ma il risultato di risposte nuove e diverse a situazioni critiche che si sono succedute nel tempo. Tuttavia la posizione difensiva assunta dalla conservazione della natura nel suo sviluppo storico non ha impedito ai suoi promotori di prendere iniziative strategiche quando il momento lo richiedeva e di denunziare le debolezze e le incongruenze delle posizioni contro le quali essi combattevano. La documentazione dimostra che gli sforzi per conservare la natura tendono di solito a oltrepassare i confini specialistici da cui avevano preso le mosse fino a comprendere posizioni e programmi più vasti e articolati allo scopo di individuare quali siano i fattori socioeconomici responsabili del danneggiamento o della distruzione della natura.
Quando la conservazione della natura si è limitata a stare sulla difensiva, senza cercare di capire e contrastare con azioni preventive le forze economiche o sociali ostili ai suoi programmi, raramente ha ottenuto qualcosa di più che successi limitati. Quando invece ha portato la ‛guerra' nel campo ‛nemico', com'è avvenuto nel caso dell'inquinamento, essa si è dimostrata capace non solo di conquistare l'opinione pubblica, ma anche di stimolare molti ripensamenti nel fronte avverso. Proprio per questi motivi la conservazione della natura si è sviluppata più rapidamente in quei paesi, come l'Olanda, l'Inghilterra e gli Stati Uniti, dove la tecnologia si era sviluppata precocemente e su larga scala e la tradizione della libertà di associazione aveva incoraggiato quanti erano sensibili e preoccupati a promuovere iniziative organizzate e pubblici dibattiti contro questo tipo di abusi.
Tra i fenomeni che, storicamente, hanno avuto più importanza nello stimolare la crescita di movimenti impegnati a favore della conservazione si devono citare l'inquinamento, specialmente per quanto riguarda la sua incidenza sulla salute pubblica, l'indiscriminato ed eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la massiccia distruzione del mondo animale e dell'assetto paesistico.
e) Inquinamento e risorse naturali
L'inquinamento, il suo studio e il suo controllo costituiscono un settore limitato nell'ambito della conservazione della natura, ma hanno assunto un'enorme importanza a causa del loro impatto sulla salute pubblica e sulla qualità della vita. Qui spesso causa ed effetto sono chiari a tutti e il rimedio per alleviare le sofferenze umane si presenta evidente e alla portata dell'uomo. Mentre l'inquinamento è dovuto a ignoranza, inerzia o avidità, le misure per attuare i rimedi implicano normalmente dei costi, che possono essere notevoli, e cambiamenti di abitudini, che possono risultare difficili e impopolari. Ne consegue che spesso casi circoscritti di inquinamento danno luogo ad aspre lotte che coinvolgono le autorità politiche e giudiziarie. Queste costituiscono una delle più importanti occasioni per sensibilizzare l'opinione pubblica nei confronti dei conflitti fra tecnosfera e biosfera e per far sviluppare nuove politiche e nuove leggi destinate a risolvere tali conflitti. Ancor prima che si formasse una pubblica coscienza della conservazione della natura, la diffusione del colera e di altre malattie, verso la metà del XIX secolo, servì a far adottare in Inghilterra più adeguate misure legali e amministrative, atte ad assicurare al paese i rifornimenti di acqua potabile. Visto retrospettivamente, questo tipo di legislazione ambientale rientra nel movimento per la conservazione, giacché non si può tracciare una linea netta tra misure destinate semplicemente a proteggere la salute e il benessere e misure che hanno come finalità la protezione della natura contro l'azione dell'uomo.
Differenti considerazioni sorgono riguardo allo sfruttamento indiscriminato o eccessivo delle risorse naturali, per il quale si pongono problemi di estrazioni o di consumi distruttivi che minacciano l'esaurimento delle limitate riserve utilizzabili, e problemi di scorte di rifornimenti per usi particolari per i quali non esistono fonti alternative: tutti questi problemi inseriscono nell'economia e nella pianificazione a lungo termine molti fattori nuovi e insoliti che derivano dal mondo della natura. Quasi insensibilmente gli economisti si sono trovati all'improvviso nell'obbligo di riconsiderare le loro convinzioni fondamentali, dovendo riconoscere i ‛limiti' della Terra e di conseguenza i guasti e gli errori della ricerca di una crescita esponenziale. Il movimento per la conservazione ha mosso i suoi primi passi in tempi in cui era considerato nient'altro che un fastidio locale, è passato poi a contestare lo sfruttamento avventato dell'energia idroelettrica, delle ‛zone umide' e di alcuni minerali e ha raggiunto infine il cuore dei processi economici obbligando a una revisione delle antiche opinioni. Il Club di Roma, che si costituì nel 1968 nel corso di un convegno all'Accademia dei Lincei organizzato da Aurelio Peccei e ha continuato ad agire come associazione internazionale non ufficiale, ha svolto un ruolo preminente in questa trasformazione (v. Meadows e altri, 1972). In parte per questa iniziativa, in parte per le energiche misure internazionali emanate nel 1972 dalla Conferenza di Stoccolma sull'ambiente umano, in parte come conseguenza dell'impatto che ha avuto in tutto il mondo la crisi del petrolio, il problema dell'inquinamento è stato di recente messo in ombra da quello dell'energia, che ha occupato una posizione di punta nella pressione esercitata dal movimento per la conservazione allo scopo di adattare le nuove economie a un saggio uso delle risorse naturali. Tale pressione ha un'area di diffusione molto più vasta e un'azione più profonda che non le campagne contro l'inquinamento. Vi è anche una tendenza crescente di queste attività a sfuggire dalle mani di quanti operano nel campo della conservazione e a integrarsi con i poteri decisionali dei singoli governi e delle industrie nazionali man mano che essi recepiscono il messaggio. Forse non è lontano il giorno in cui tutti potremo dirci implicati nella conservazione.
f) Popolazione e profezie di disastri
Fin dalla metà di questo secolo quanti operano nel campo della conservazione si sono molto preoccupati del problema della cosiddetta esplosione demografica, che ha determinato una crescente invasione degli habitat naturali ancora intatti. Gli esperti hanno sempre sostenuto e dichiarato pubblicamente che tutti i successi riportati dall'opera di conservazione sarebbero risultati effimeri di fronte ai problemi non risolti della fame, della casa e della occupazione per miliardi di uomini. Mentre vi è stata disparità di opinioni sulle tattiche e sulle priorità, si è raggiunto un ampio accordo nel riconoscere che la stabilizzazione della popolazione del globo nel suo complesso e nelle singole regioni costituisce un aspetto vitale per la conservazione. È chiaro però che l'intenso sviluppo della natalità potrà diminuire soltanto gradualmente e non improvvisamente ovunque. In gran parte dell'Europa nordoccidentale l'aumento della popolazione tende virtualmente allo zero; questo fatto, sommato con l'attuale tendenza alla diminuzione o all'annullamento della crescita del consumo materiale pro capite, fa sperare che potranno essere evitate le temute conseguenze catastrofiche. Le profezie apocalittiche che scaturirono dai circoli favorevoli alla conservazione agli inizi degli anni settanta si sono oggi ridotte notevolmente avendo raggiunto il loro scopo primario: creare uno stato d'allarme nell'opinione pubblica.
Tra le prime opere che agirono in questo senso vanno ricordate: Our plundered planet di Fairfield Osborn (New York 1948) e Silent spring di Rachel Carson (New York 1962). La pubblicazione di quest'ultima opera fu per varie ragioni un avvenimento importante per lo sviluppo del movimento per la conservazione della natura. Rachel Carson aveva un'esperienza professionale specialistica come biologa avendo lavorato nel Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti e in più un'esperienza di scrittrice: un suo libro era stato per 86 settimane nella lista dei best sellers. Ancora una volta la conservazione della natura ‛ebbe fortuna', perché propose al momento giusto un libro su un problema scottante, scritto da un autore che riuniva in sé la più alta competenza biologica e una grande abilità letteraria. Si presentava per la prima volta l'occasione, che fu subito afferrata, di insegnare al pubblico i fondamenti dell'ecologia sotto forma di una storia drammatica e avvincente e di un violento atto d'accusa contro forti interessi economici. Negli Stati Uniti gli ambienti legati a tali interessi reagirono vigorosamente. Nonostante che il libro avesse avuto una larga vendita e fosse stato accettato incondizionatamente dall'opinione pubblica, negli Stati Uniti anche gli abusi più gravi che vi erano stati denunciati furono colpiti, come stiamo per esporre, soltanto molti anni dopo la sua pubblicazione e dopo molte esitazioni. Questi limitati successi pratici furono ampiamente compensati dal fatto che con il libro della Carson era stato pubblicato il primo lavoro fondamentale sull'ecologia che avesse raggiunto una larga massa di pubblico. Un esperto di pesticidi, Robert Rudd, scrisse quanto segue: ‟Silent spring è un ammonimento biologico, un commentario sociale, un discorso morale. L'autrice rivolge all'uomo tecnologico un insistente invito a fermarsi e riflettere" (v. Graham, 1970). L'importanza storica di opere di questo tipo sta in gran parte nel fatto che da esse in poi l'uomo occidentale ha dovuto cambiare il suo modo di intendere il proprio rapporto con la natura. Se non hanno dato vita a una letteratura ecologica popolare, esse hanno senza dubbio demolito tutta una struttura culturale basata sull'ignoranza ecologica. Tuttavia, organi governativi, industrie, uomini politici, pubblicisti, economisti del mondo accademico continuarono a seguire antichi schemi programmatici e a compiere le relative azioni pratiche, senza rendersi conto della gravità dell'allarme ecologico e sperando che esso svanisce. Tutto ciò determinò un senso di sfiducia nei gruppi responsabili e questo a sua volta non solo produsse disaccordo su problemi particolari e rinunce a progetti importanti, ma ingenerò anche nelle autorità competenti la sensazione di una sempre maggiore ingovernabilità. A ciò corrispose nei cittadini una profonda delusione circa le capacità e l'integrità del governo, indipendentemente dal risultato delle elezioni. Per aver disprezzato e disconosciuto così palesemente il problema ecologico, dopo che esso era stato largamente accettato da persone che l'opinione pubblica riteneva influenti e non legate ai partiti, i politici e i grandi uomini d'affari assunsero una posizione reazionaria di rifiuto che accentuò l'ostilità del pubblico nei loro confronti, anche per settori diversi da quello ecologico e per i quali i loro interventi avrebbero forse meritato di godere maggior credito. Ancora una volta, dunque, le circostanze concorsero a trasformare un fatto originariamente circoscritto e marginale in un altro di portata molto più ampia.
g) I fatti essenziali della conservazione della natura
Questa diffusione di interesse però non si tradusse affatto nel reperimento di fondi sufficienti a finanziare le attività essenziali necessarie per la conservazione della natura. D'altra parte, grazie a un gran numero di programmi televisivi e film di ottima qualità, come quello di Bernard Grzimek Il Serengeti non deve morire, un numero sempre crescente di persone negli anni cinquanta si dedicò a osservare e fotografare la natura. Intorno al 1960 i tempi erano ormai maturi per creare una grande organizzazione internazionale in grado di raccogliere i cospicui fondi necessari per il finanziamento di progetti di conservazione di vasta portata, fornire pareri di esperti, sostenere gli sforzi delle persone maggiormente impegnate per la conservazione in tutti i continenti, svolgendo ampie campagne pubblicitarie e organizzando una serie di visite ad alto livello allo scopo di promuovere inchieste e ispezioni. Di fatto, quando nel 1961 si istituì in Svizzera il World Wildlife Fund (WWF), la sua creazione avvenne attraverso un'inevitabile dispersione di sforzi, competizioni, mancanza di comunicazione e rivalità fra gruppi impegnati a raccogliere fondi valendosi di organizzazioni dilettantesche e assai ristrette. Se l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (UICN), fondata a Fontainebleau nel 1948, aveva svolto una pregevole opera missionaria e pionieristica di analisi delle varie situazioni, di formulazione di opportune raccomandazioni ai governi, di organizzazione di consulenze scientifiche, non aveva però mai raggiunto una vera solidità finanziaria né una capacità operativa tali da influenzare fortemente l'opinione mondiale. Il World Wildlife Fund fu istituito con funzioni analoghe e nello stesso tempo complementari: assicurare continuità agli utili interventi dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e compensarne i difetti. Per quanto i rapporti tra le due organizzazioni non siano stati esenti da difficoltà, l'azione comune ha tuttavia avuto successo almeno per quanto riguarda l'obiettivo di riuscire a tenere unito un movimento mondiale con un grado di sviluppo che può ben essere invidiato da molti altri settori.
Un'eccezione alquanto sorprendente è stata l'insuccesso, prima dell'UICN, poi di una recente iniziativa patrocinata dalla International Union of Biological Sciences per costituire un efficiente corpo internazionale di ecologi finanziato da tutti i paesi partecipanti. Dato che la conservazione della natura è ecologia applicata e l'ecologia pura è il suo fondamento, si deve riconoscere che la conservazione, dal punto di vista organizzativo, è come un edificio costruito sulla sabbia. In pratica però ciò non ha costituito un gran danno, poiché è stato quasi sempre possibile ottenere senza difficoltà ottime consulenze scientifiche da parte di singoli ecologi o di istituti. Così è stato, per esempio, nel caso del salvataggio delle specie minacciate dagli effetti delle sostanze chimiche tossiche e nella regolamentazione della cattura e del commercio di animali selvatici destinati alla cattività.
L'Unione Internazionale per la Conservazione (originariamente Protezione) della Natura si è costituita in modo singolare e forse unico, nel senso che la sua formazione è il risultato di una raccolta eterogenea di rappresentanti governativi e di rappresentanti non ufficiali, con diritti di voto non omogenei; questa organizzazione è collegata sia con l'International Council of Scientific Unions (ICSU), sia con organismi internazionali come l'UNESCO e la FAO, e più recentemente con la United Nations Environment Programme (UNEP). Le singole rappresentanze nazionali dell'UICN, tuttavia, dipendevano completamente dagli organi ufficiali dei diversi paesi, a differenza del WWF che fin dall'inizio ha controllato direttamente i propri gruppi nazionali.
Dal 1963 la UICN collaborò, attraverso l'ICSU, a va- rare la Conservation Terrestrial Section dello International Biological Programme, che durò fino al 1972. L'intendimento di questa sezione era di mettere in luce i principali punti deboli della base ecologica della conservazione a livello mondiale, attraverso un esame e una classificazione della distribuzione dei restanti campioni degli ecosistemi naturali, allo scopo di riconoscere quelli più adatti a essere conservati per una testimonianza duratura. Si raggiunsero alcuni risultati utili, ma l'obiettivo generale di questo programma si dimostrò troppo lontano sia dall'opinione della massima parte dei biologi, che non erano ancora preparati ad assumersi la responsabilità di conservare aree di studio per il futuro, sia da quella della maggior parte delle persone che operavano nel campo della conservazione, le quali non erano affatto disposte ad affidarsi a criteri ecologici per la scelta dei luoghi da conservare.
h) Recenti mutamenti nell'azione e nei metodi
I primi sforzi per la conservazione furono diretti soprattutto ad assicurare la sopravvivenza di specie rare e si basarono su leggi che ne impedivano la distruzione per scopi commerciali (per esempio uccelli acquatici o uccelli cacciati per le penne e il piumino) o per scopi sportivi, come la caccia grossa, o anche per la protezione delle messi o degli armenti, come nel caso delle aquile e dei coyote. In un buon numero di casi questa protezione legale si dimostrò efficace, purché applicata severamente, ma in altri ebbe scarso effetto, sia per il prevalere degli interessi degli speculatori, sia per le difficoltà di controllo, come nel caso delle balene, oppure più frequentemente perché la minaccia alla vita di molte specie non derivava tanto da distruzione diretta, quanto dall'alterazione dell'habitat, dall'inquinamento o da altri fattori.
Com'è già stato detto, la tutela della selvaggina ha utilizzato contemporaneamente, fin dai tempi antichi, misure protettive, e relative penalizzazioni, e conservazione di vasti territori indisturbati adibiti a parchi, foreste e riserve di caccia. I primi parchi nazionali furono creati nel corso del XIX secolo e alcuni di essi ospitarono forme spettacolari di vita selvatica, specialmente nell'Africa orientale e meridionale, mentre altri ebbero prevalentemente una funzione di conservazione del paesaggio o di ricreazione. A partire dalla metà del XX secolo fu dato nuovo impulso alla creazione e all'ampliamento dei parchi nazionali, specialmente per le sollecitazioni rivolte dalla UICN alle Nazioni Unite, per cui la Commissione per i parchi nazionali dell'Unione redasse un elenco mondiale su basi critiche e selettive. Nello stesso tempo, in vari paesi si verificò una grande proliferazione di riserve naturali, oasi di protezione degli uccelli e altri luoghi protetti e custoditi. In molti casi, particolarmente nelle oasi di protezione, si stabilì una stretta correlazione fra la protezione dell'habitat e quella di specie rare; in altri casi questo rapporto fu più remoto e problematico. Ambedue i tipi d'azione dettero spesso adito al dubbio se, per l'incompletezza dei dati ecologici, le misure adottate o la dimensione delle aree prescelte fossero veramente adeguate agli scopi perseguiti.
In altri casi non vi fu alcun interesse per la protezione della fauna, e la conservazione fu intesa semplicemente come protezione del paesaggio. Questa fu la ragione per cui i primi parchi nazionali negli Stati Uniti, nella Nuova Zelanda e altrove vennero istituiti nella seconda metà del XIX secolo, quando i valori paesaggistici e naturali avevano un'importanza prevalente. A quell'epoca, l'idea di salvare popolazioni animali e i loro habitat e rendere accessibile lo spettacolo della vita di animali selvatici non rientrava negli obiettivi dei parchi nazionali. In realtà esiste tuttora a questo proposito una differenza tra i parchi nazionali americani e le loro dirette imitazioni, come per esempio i parchi africani, che s'interessano molto più degli animali e molto meno del paesaggio. Per molto tempo pochi parchi ebbero fra il proprio personale naturalisti e biologi qualificati. Soltanto verso la fine dei primi cent'anni di storia dei parchi, le ricerche ecologiche o di altri rami della scienza furono assunte come base per la loro gestione.
i) Sguardo complessivo sul ruolo della conservazione
Per completare questa breve sintesi degli aspetti storici della conservazione della natura, si può concludere che il concetto di conservazione intesa come entità autonoma rappresenta soltanto un errore di breve durata, commesso durante l'ultima fase dell'era industriale conclusasi negli anni sessanta e caratterizzata da un accentuato materialismo e dal predominio della tecnologia.
Non appena si costituì un movimento per promuovere la conservazione della natura in senso stretto, la consapevolezza del crescente pericolo che minaccia sia il futuro del nostro pianeta sia la possibilità stessa della sua gestione da parte dell'uomo costrinse gli animatori del movimento per la conservazione a intensificare i propri sforzi tesi a far nascere nuovi comportamenti e nuovi modi di pensare in sostituzione di quelli che si rivelavano manifestamente molto pericolosi per la stessa sopravvivenza dell'uomo. Si può prevedere che quando il messaggio sarà stato totalmente recepito l'interferenza delle attività per la conservazione della natura con le altre attività dell'uomo non avrà più un valore negativo, poiché sorgeranno gruppi di amministratori e di gestori ecologicamente preparati e capaci di guidare la comunità internazionale in modo da evitare la corsa verso i limiti delle possibilità offerte dal globo; ciò permetterà agli ecologi e a quanti si occupano della conservazione della natura di ritornare a dedicarsi interamente allo studio e alla ricerca nel loro campo specifico. D'altra parte, una presentazione corretta della portata e del significato della conservazione della natura deve tener conto appieno delle sue responsabilità e funzioni, sia quelle permanenti e dirette, sia quelle indirette e transitorie. A questo punto quindi la riflessione può rivolgersi all'applicazione dell'ecologia e ai limiti del contributo che essa può arrecare al problema della conservazione della natura.
4. L'applicazione dell'ecologia e i suoi limiti
a) Riluttanza nell'accettare la guida dell'ecologia
L'uomo primitivo, come abbiamo detto, fu spesso un diretto, acuto osservatore e interprete dei processi ecologici; i suoi successori (pastori, coltivatori, cacciatori e pescatori) svilupparono proprie regole empiriche e credenze le quali, benché apparentemente efficaci in tempi brevi, risultarono spesso dannose o addirittura disastrose in tempi lunghi. L'eccessivo sfruttamento dei pascoli, gli incendi delle foreste, le azioni che favoriscono l'erosione, la creazione di condizioni che facilitano la diffusione di parassiti e malattie infettive, e molte altre attività sconsiderate poterono svolgersi fino a tempi recenti senza che le loro conseguenze fossero prese in esame e adeguatamente studiate. In realtà, fino alla metà di questo secolo, tecnici improvvisati che rappresentavano organizzazioni internazionali come la FAO hanno contribuito all'avanzata dei deserti, al moltiplicarsi delle frane e alla riduzione delle falde d'acqua, e ciò per non aver voluto tenere in alcun conto i risultati delle ricerche ecologiche.
Vi è stata, fino ai nostri giorni, un'incapacità a riconoscere che tutte le attività umane volte a controllare o modificare i meccanismi della biosfera sono forme di ecologia applicata, lo vogliano o no ammettere i responsabili. L'opinione contraria è talmente radicata che perfino quanti si occupano di conservazione della natura hanno perseverato, in molti paesi, nell'adozione di pratiche prescientifiche che è facile dimostrare erronee e spesso controproducenti. Agricoltori e forestali si sono convinti, in tempi recenti, ad agire in base a consulenze scientifiche; tuttavia queste sono talmente focalizzate su problemi particolari che spesso i fattori ecologici fondamentali risultano trascurati. I ‛progettisti del paesaggio' sono più inclini ad accettare consulenze di carattere ecologico in quanto non hanno interessi con esse incompatibili, ma purtroppo, a differenza degli agricoltori e dei forestali, essi non hanno alcun potere di controllo diretto sui settori ai quali sono interessati e pertanto la loro possibilità di diffondere una coscienza ecologica resta assai limitata. Le industrie della pesca (come anche gli stessi cacciatori) hanno imparato a proprie spese quanto sia sbagliato trascurare le limitazioni che regolano queste forme di sfruttamento prolungato; ma i progressi dell'ecologia applicata sono purtroppo molto lenti, soprattutto perché coloro che dovrebbero servirsene sono ostinatamente riluttanti a farlo. Ne deriva che, mentre una corretta pratica di conservazione della natura dovrebbe dipendere da un'ampia esperienza ecologica, coloro che se ne occupano sono rimasti invece più indietro degli agricoltori e di altri utenti nel richiedere la consulenza degli ecologi; fanno eccezione pochi casi, come quello del Nature Conservancy Council in Gran Bretagna che aveva un proprio staff di ecologi e disponeva di proprie stazioni sperimentali, fino a quando, in una recente riorganizza- zione, queste non ne furono inopportunamente separate. Oltre al Nature Conservancy Council, il miglior esempio di conservazione basata su una seria ricerca ecologica è dato probabilmente dalla gestione dei parchi nazionali dell'Africa orientale alla fine degli anni cinquanta, quando, per una fortunata combinazione, alla disponibilità di borse di studio Fulbright si accompagnò quella di un buon numero di ricercatori molto esperti, disposti a fare turni di servizio in quei luoghi. Uno dei più importanti risultati di questi studi è stata la sperimentazione intelligente del- l'uso dei narcotici, che ha permesso per la prima volta di avvicinare animali selvatici feroci e di grande mole. Altri risultati sono stati la dimostrazione delle capacità delle praterie di nutrire grandi ungulati e lo studio dei rapporti fra predatori e popolazioni che servono da preda.
b) Successi e difficoltà dell'ecologia applicata
Negli Stati Uniti i biologi del Fish and Wildlife Service e di numerose università hanno svolto studi d'avanguardia sulla dinamica delle popolazioni di anatre, oche e altre specie di selvaggina, e questi studi hanno trovato diretta applicazione nell'istituzione di limiti annui al ‛carniere' dei singoli cacciatori. Nell'Unione Sovietica sono state fatte importanti ricerche, che hanno avuto immediati risultati pratici, per ricostituire le popolazioni di alcune specie che si erano assai ridotte numericamente, come l'antilope saiga (Saiga tatarica). In Gran Bretagna sono stati ottenuti notevoli successi nell'aumentare il numero delle oche artiche che svernano nell'isola istituendo una serie di oasi di rifugio e adottando misure protettive legali e spontanee che lasciavano tuttavia spazio anche all'attività venatoria. Negli anni sessanta l'elenco dei successi ottenuti dalle misure di conservazione basate su dati scientifici si è notevolmente accresciuto; sono però dovuti passare ancora vari anni prima che fossero abolite alcune pratiche tradizionali ormai immotivate, come l'attribuzione di un premio a chi uccideva animali ritenuti nocivi e l'introduzione arbitraria di specie esotiche considerate ornamentali o di qualche utilità.
Molti dei primi successi delle nuove pratiche di conservazione basate sull'ecologia si ottennero nell'ambito dell'ecologia della popolazione. Qui il carattere quantitativo e misurabile dei problemi e il numero limitato delle possibili spiegazioni e soluzioni facilitarono lo studio e resero più semplice la dimostrazione e l'applicazione dei suoi risultati. Molto più difficili sono stati i casi relativi a ecosistemi ‛malati' o danneggiati, in cui il carattere dell'habitat originario si andava manifestamente degradando a causa di cambiamenti del regime idrico, della morte degli alberi o di altre forme di vegetazione predominante, o dell'invasione di specie estranee. Tali situazioni dipendono da un complesso gioco di forze, spesso nato al di fuori della riserva, del parco o delle altre aree colpite. Talvolta lo scenario particolare che aveva attirato l'attenzione di coloro che avevano deciso di acquisire una data area si era poi dimostrato essere uno stadio puramente transitorio e seriale di una successione ecologica, come nel caso di una palude in via di essiccamento o di una zona arbustiva trasformatasi poi in bosco. In altri casi, alcune catastrofi ecologiche come gli incendi, le inondazioni, o gli uragani, oppure la scomparsa di animali che esercitano un controllo sulla vegetazione, come i conigli per effetto della mixomatosi, o ancora l'aggressione di alcuni agenti patogeni devastatori, mettono le capacità di intervento di fronte a problemi per i quali la scienza può non avere ancora soluzioni. Talvolta l'improvviso inquinamento dell'aria o dell'acqua o la contaminazione della terra da parte di sostanze tossiche può degradare drasticamente la fauna e la flora.
L'integrità di un'area naturale può anche essere improvvisamente minacciata dall'installazione nelle sue vicinanze di grandi stabilimenti industriali, di aeroporti, di autostrade o di linee elettriche; prima di procedere a queste installazioni sarebbe necessario uno studio preventivo delle loro possibili ripercussioni, nonché una prescrizione delle misure precauzionali o dei rimedi atti a ridurre al minimo gli eventuali danni. Tali fattori sfatano l'antico pregiudizio secondo cui le aree naturali richiedono soltanto di essere conservate nelle loro condizioni presenti, provvedendo alla loro recinzione e facendole controllare da guardie che impediscano i danni più comuni come il bracconaggio, la raccolta illegale e gli incendi. Alcune montagne, i deserti, le isole sperdute e altri tipi di habitat sono protetti naturalmente, ma in altri casi il regime naturale è precario e vulnerabile e richiede interventi che, se incauti, possono fare molto più male che bene.
In teoria, molte aree sono gestite come riserve naturali, ma se non se ne impedisce totalmente l'accesso è difficile assicurare una protezione assoluta dalle influenze umane nocive. Anche il passaggio di una sola persona in un anno può aprire la via a piante estranee che ne seguono letteralmente le orme. I veicoli meccanici spesso determinano uno schiacciamento del suolo, inquinamento e distruzione della vegetazione; e inoltre, anche a distanza, disturbano gli animali selvatici. Per queste ragioni sono stati vietati in alcuni parchi nazionali come la foresta di Bialowieża in Polonia; in almeno un caso, nell'America settentrionale, è stato necessario impedire agli aerei privati di sorvolare il territorio della riserva a bassa quota. Nel passato vi è stata la tendenza a usare senza alcuna necessità per lavori sperimentali ‛sul terreno' delle aree che sarebbe stato opportuno non venissero utilizzate, né da parte degli scienziati né da parte del pubblico. A ben considerare, dovrebbe essere sempre possibile trovare luoghi meno importanti per eseguire studi che comportino il pericolo di serie interferenze con gli animali, le piante e i loro habitat; ma i ricercatori fanno spesso i loro programmi in ritardo e mal sopportano l'eventuale rifiuto di permessi speciali che essi, per primi, non dovrebbero richiedere quando si tratti di luoghi in cui è essenziale evitare ogni disturbo.
Una difficoltà molto seria che si incontra in ogni programma di conservazione della natura consiste nel fatto che l'evoluzione di un ecosistema avviene in tempi lunghi e ciò comporta la chiusura delle aree interessate per tempi molto più lunghi di quelli abitualmente richiesti per il la- voro d'un singolo ricercatore. Anche su basi istituzionali, non è facile mantenere vivo l'interesse e fare continui e accurati rilievi che siano comparabili fra loro per tutto il tempo richiesto affinché possa essere chiara la situazione dei cambiamenti ecologici. Un'ulteriore difficoltà si incontra poi nei finanziamenti, che raramente si possono ottenere da fonti esterne per impegni a tempo indeterminato o per impegni di breve periodo i quali, per la natura dello studio, non possano conseguire risultati chiari nel tempo stabilito.
Tali complicazioni possono spiegare, almeno parzialmente, ma non giustificare, la tendenza a gestire aree naturali senza tener conto della consulenza scientifica e delle informazioni disponibili. Si deve però osservare che le responsabilità non ricadono tutte sui gestori dei parchi e delle riserve. Molti ricercatori non vogliono affrontare le difficoltà del lavoro ecologico applicato, oppure pretendono facilitazioni e condizioni di lavoro quali si possono trovare soltanto in un laboratorio ben attrezzato e ben finanziato. Fortunatamente non mancano eccezioni esemplari, ma si deve ammettere che in molti casi, quando si gesti- scono le aree naturali con i criteri dell'ecologia applicata, la pratica è tuttora in ritardo rispetto alla teoria. La soluzione ideale sarebbe quella di svolgere soltanto quei programmi atti a dare risultati sicuri impiegando metodi già convalidati dall'esperienza. Probabilmente non sono molte le aree in cui i sistemi di gestione adottano in misura superiore al 50% tecniche che possono essere considerate valide secondo questi criteri. In altre parole, si può dire che l'arte di gestire le aree naturali non è ancora matura e che si devono ancora escogitare i mezzi per far sì che le soluzioni scientifiche relative ai problemi della conservazione vengano elaborate e applicate.
c) Aspetti generali del problema
Può far stupire, se si considera lo stadio alquanto primitivo dell'ecologia applicata, il notevole sviluppo conseguito da principî generali e impostazioni concrete che appaiono scientificamente ben fondati e che sono stati rapidamente adottati da parte dei competenti. La conservazione della natura ha acquisito una chiara strategia internazionale che sembra funzionare bene, anche se la sua traduzione in tattica risulta ancora frammentaria rispetto a molti problemi e a numerose situazioni. Il progresso però è stato meno imponente per quanto concerne la preparazione professionale degli agronomi, dei forestali e dei direttori dei parchi. Nel caso particolare degli specialisti dei problemi della pesca, la chiara lezione fornita dai casi di eccessivo sfruttamento ha spinto autonomamente verso l'adozione di regolamenti di ecologia applicata.
Richieste di consulenza scientifica nell'ambito di alcune professioni legate allo sfruttamento delle risorse vennero avanzate per la prima volta in alcuni paesi una quarantina d'anni or sono e inizialmente riguardavano solo problemi pratici. Gli aspetti fondamentali dell'ecologia non furono quindi attivamente coltivati né da quanti lavoravano in questi settori, né da coloro che a essi si erano rivolti per consigli. Molto importante avrebbe potuto essere la sollecitazione da parte dei gestori delle aree naturali, ma questa spesso è mancata. Tale lacuna è stata ampiamente colmata dalla crescente domanda di informazioni da parte del pubblico, che ha stimolato i ricercatori a soddisfarne le richieste. Questa azione dell'opinione pubblica ha indotto molti direttori di aree naturali, che non avevano sentito la necessità di tali consulenze, a richiederle e a utilizzarle. Tale sistema, benché illogico e spurio, ha funzionato piuttosto bene.
Le scienze biologiche, nel frattempo, hanno risentito dell'impatto dei nuovi indirizzi e sono arrivate a formulare modelli di ecosistemi, attraverso la ricostruzione dei cicli di nutrizione e di degradazione, nonché dei flussi di energia all'interno delle catene alimentari. Tali orientamenti della ricerca, benché essenziali, hanno condotto in breve tempo a una confusione fra ecologi da campo ed ecologi da tavolino; questi ultimi talvolta sono stati lenti nel riconoscere la complessità dei problemi e la difficoltà di ottenere misure comparabili, difficoltà caratteristica di molti dati per lo più frammentari che si ricavano dagli studi sul terreno. A una conferenza organizzata dalla NATO a Reykjavik nel 1976 il problema fu dibattuto da rappresentanti di diverse scuole e si concluse che i dati ecologici disponibili sono tuttora troppo frammentari e incerti per poter servire come base alla formulazione di modelli validi per la maggioranza delle diverse situazioni.
L'ecologia, a differenza della fisica e della chimica, ha a che fare col comportamento di unità autonome che spesso funzionano in un contesto sociale strutturato e rispondono a stimoli simili in modo diverso a seconda delle stagioni e dello stadio vitale. Il fatto che l'ecologia sia ancora ben lontana dal raggiungere la precisione e la possibilità di predizione che hanno altre scienze naturali non è quindi sintomo di una sua presunta inferiorità, né sta a indicare che il suo oggetto di studio esuli dalla scienza, ma è piuttosto la dimostrazione delle particolari difficoltà che essa incontra con tecniche e concetti scientifici ancora immaturi. Anche se l'ecologia non richiede attrezzature tanto elaborate e costose quanto quelle usate dalla fisica nucleare, la sua complessità e i tempi lunghi necessari per lo studio dei problemi relativi impongono la disponibilità di risorse finanziarie molto più ampie di quelle finora concesse. Per quanto molte nuove nozioni scientifiche, e in particolare quelle relative alla conservazione della natura, siano state ampiamente divulgate e accolte con favore dall'opinione pubblica, si deve però tener presente sia il lungo tempo necessario affinché le ricerche ecologiche di base diano risultati attendibili sia il ruolo molto più ampio che l'ecologia dovrebbe svolgere nell'apprezzamento stesso degli scopi e dei valori della nostra civiltà. In questa prospettiva, si può certamente affermare che la qualità e la quantità delle ricerche ecologiche in corso appaiono assolutamente inadeguate.
5. La situazione nei vari continenti e oceani
Per concludere presentiamo una rassegna di alcune delle più note caratteristiche e realizzazioni della conservazione della natura nel mondo.
a) Antartide e Australia
Cominciamo dall'Antartide, un continente che non ha mai avuto stanziamenti umani permanenti e che per una convenzione internazionale è ‛consacrato' alla scienza ed è soggetto a parecchie misure severe di conservazione; queste furono stabilite nel Trattato Antartico del 1959 che fu ratificato da 12 nazioni e si articola in una serie di misure concordate per la conservazione della fauna e della flora antartiche. Le clausole relative indicano come ‟interferenze pericolose" azioni quali permettere ai cani di correre liberamente, sorvolare il territorio con elicotteri o altri apparecchi in modo da allarmare inutilmente gli uccelli e le popolazioni di foche, nonché il disturbo che potrebbe essere arrecato alle colonie di uccelli e di foche da parte di eventuali visitatori durante il periodo della riproduzione. È un fatto unico che queste sagge e lungimiranti regole siano state adottate prima che si sviluppassero nell'Antartide interessi turistici o di sfruttamento delle risorse. Il rispetto delle disposizioni è facilitato dalle norme del diritto internazionale sulle ispezioni e dal fatto che quanti visitano il continente per periodi di una certa durata lo fanno sotto la responsabilità dei diversi governi.
L'Australia è stata il primo paese a organizzare ampie inchieste allo scopo di stabilire quante e quali specie di piante e di animali sono o dovrebbero essere protette nei parchi e nelle riserve esistenti o previsti per il futuro, e quali ecosistemi vi sono rappresentati. L'obiettivo era quello di creare una rete di riserve che raccogliesse tutti i principali ecosistemi del continente.
La grande inchiesta nazionale, che costituisce uno dei contributi dell'Australia all'International Biological Programme, è stata pubblicata in un volume di 667 pagine intitolato Conservation of major plant communities in Australia and Papua-New Guinea. Questa impresa, che si riferisce a circa 900 associazioni vegetali che rappresentano più o meno 15.000 specie di piante vascolari (delle quali più dell'85% sono endemiche in Australia e 1.668 sono considerate rare o in pericolo), è la più ampia e radicale finora realizzata a livello di continente per la conservazione su grande scala. Durante la sua realizzazione la percentuale del territorio australiano destinato a parchi e riserve si accrebbe da 8,54 milioni di ettari (1,1% dell'area totale) nel 1968 a poco meno di 16 milioni di ettari (2,1%) nel 1972. Non meno importante della vastità dell'inchiesta è stata la risoluzione di numerosi problemi metodologici e pratici precedentemente sconosciuti, problemi che si sono rivelati importanti anche per altri continenti. R. L. Specht e i suoi colleghi australiani hanno introdotto, fra gli altri perfezionamenti, un'importante scala di attendibilità per i dati utilizzati, distinguendo il livello ‛buono' (basato su fotografie aeree e/o rilievi sul terreno), ‛sufficiente' (basato sulla conoscenza delle riserve o su dati ricavati da una letteratura attendibile), ‛insufficiente' (basato soltanto sulle conoscenze relative al distretto) e l'‛assenza d'informazione'. Fu anche determinato il grado di efficienza della conservazione per ogni regione di ogni Stato.
b) Africa
Nell'Unione Sudafricana la conservazione trova una base eccezionale nelle mappe di vegetazione, ricostruite confrontando lo stato della coltre vegetale per un periodo di parecchi secoli a partire dall'arrivo degli europei. Queste mappe illustrano la progressiva riduzione delle foreste e l'allargamento del karrù, un tipo di terreno semidesertico.
Molti dei parchi nazionali e delle riserve di caccia del Sudafrica furono costituiti nel secolo scorso e furono i primi esempi di parchi destinati a mostrare il grandioso spettacolo degli animali selvaggi per il quale l'Africa è famosa. Essi hanno anche contribuito notevolmente al progresso delle tecniche di gestione dei parchi.
I parchi nazionali del Congo Belga (attualmente Zaire) hanno aperto la via alla ricerca scientifica tramite l'opera dell'Institut des Parcs Nationaux du Congo Belge, al quale si deve la pubblicazione di circa 300 volumi in cui sono descritte 4.500 nuove specie. Questa ricerca, tuttavia, era stata intrapresa a scopo puramente scientifico e non per facilitare l'impostazione scientifica dei problemi di gestione dei parchi. Il suo maggiore contributo, sotto la direzione di V. van Straelen, fu forse quello di guadagnarsi la stima della comunità scientifica e di far considerare i parchi nazionali come possibili centri per importanti ricerche. Con la collaborazione di J. Huxley, J. Dorst e altri, van Straelen applicò poi quelle esperienze al parco nazionale delle Galapagos nello Stato dell'Ecuador, parco realizzato con l'aiuto della Fondazione Charles Darwin: qui il programma scientifico servì a guidare la gestione del parco e pianificare molti lavori di interesse scientifico intrinseco.
Una stazione di ricerca anche più grande, che portò avanti entrambi questi compiti, fu creata nel 1965 a Seronera nel parco nazionale di Serengeti, per venire incontro alle esigenze scientifiche presenti e future di tutti i parchi nazionali della Tanzania. Sempre in Tanzania si trova il parco nazionale di Ngurdoto, fondato nel 1962, il primo parco creato con l'aiuto del World Wildlife Fund. Nello stesso periodo si svolsero anche importanti lavori nei parchi nazionali del Kenya e dell'Uganda, lavori che fornirono le prime dimostrazioni delle possibilità dei parchi nazionali di sviluppare il turismo in misura significativa per il bilancio nazionale.
Numerose esperienze condotte in diversi territori africani contribuirono poi a dimostrare che la caccia di selvaggina autoctona, scientificamente regolata, può fornire maggior quantità di carne per unità di territorio che non i comuni allevamenti di bestiame, conservando anche la fauna naturale e facendo risparmiare le pesanti spese dei servizi veterinari e d'altro genere. La creazione in varie parti dell'Africa di ampi laghi artificiali condusse, sia pure con qualche ritardo, all'individuazione dei relativi problemi di ecologia applicata e di conservazione e a sviluppare indagini scientifiche che estesero notevolmente l'ambito delle esperienze di conservazione.
c) L'Asia e il Pacifico
Parecchi paesi asiatici hanno promosso importanti programmi di conservazione fra i quali ricordiamo l'efficientissimo Project Tiger in India, attualmente uno dei più ambiziosi progetti del mondo inteso a salvare una specie minacciata. Nell'Iran il vasto programma rivolto a creare un'adeguata base di osservatori esperti prevede, fra l'altro, la pubblicazione di una serie di guide illustrate. In questo paese è stata stipulata nel 1971 la convenzione internazionale di Ramsā'r per la conservazione delle oasi di protezione degli uccelli.
Il contributo più importante e caratteristico del Giappone ai recenti progressi della conservazione è stata la creazione di parchi marini, 22 dei quali fondati nel 1972; tali parchi comprendono spiagge e territori costieri, oltre a specchi d'acqua poco profondi come barriere coralline e lagune. La necessità di questo tipo di parchi si è resa più impellente in seguito alle distruzioni dovute alla pesca subacquea e agli sviluppi turistici sconsiderati, quali alberghi e altre imprese commerciali, da cui derivano inquinamento e turbamenti dell'equilibrio naturale. Un caso particolare che ha determinato iniziative specifiche in Malaysia, in America Centrale e altrove è quello della protezione delle tartarughe, le quali depongono in massa le loro uova sulle spiagge.
Un altro caso caratteristico è quello della protezione di isole particolarmente vulnerabili, come l'isola di Cousin nelle Seychelles; la vicina isola di Aldabra è stata invece salvata dalla Royal Society di Londra dalla minaccia di utilizzarla per costruire un aeroporto militare costoso e non necessario. Qui, come nel caso delle Galapagos, vi è stata un'importante fioritura di ricerche scientifiche. Durante l'attuazione dell'International Biological Programme, come risultato delle conclusioni del Pacific Science Congress di Tōkyō del 1966, fu compilato un elenco completo e commentato degli aspetti ecologici conosciuti dell'Oceano Pacifico e dello stato attuale o potenziale della conservazione in tutte le isole dislocate in tale oceano. I maggiori sforzi per la conservazione degli oceani e dei mari non sono stati diretti verso la gestione e la protezione di aree localizzate, ma verso la stipulazione di convenzioni internazionali rivolte a tutelare sia alcuni mari come il Mediterraneo sia alcune specie o gruppi particolarmente vulnerabili come le balene e le foche, ovvero a combattere specifiche minacce come l'inquinamento da petrolio o una pesca troppo intensiva. Tali sforzi, come nel caso della pesca, si sono spesso avvicinati, o hanno anche superato la linea di confine tra la conservazione della natura e l'oculata gestione di operazioni commerciali. In alcuni casi essi si sono trasformati in controversie internazionali, come nel caso della ‛guerra del merluzzo' tra il Regno Unito e l'Islanda.
d) Europa
In Europa il passaggio dalle antiche preoccupazioni di conservazione della selvaggina alla moderna conservazione della natura avvenne nel momento in cui ci si orientò esplicitamente, a livello internazionale, a favore della protezione degli uccelli migratori considerati utili all'agricoltura. Uno schema di convenzione fu fatto circolare nel 1876 in vari paesi europei, ma esso fu coinvolto in una lotta per la priorità dell'iniziativa diplomatica fra l'Ungheria, che stava istituendo un centro statale per le ricerche di ornitologia economica, e l'Austria. Il fatto che l'erede al trono imperiale, il principe Rodolfo, fosse un ornitologo entusiasta mantenne la questione ad alti livelli ed ebbe come risultato l'istituzione di congressi ornitologici internazionali, che inizialmente furono interessati alla protezione degli uccelli europei e che in seguito furono sostituiti dall'International Council for Bird Preservation e dallo International Waterfowl Research Bureau, che operano entrambi anche al di fuori dell'Europa.
La Svizzera e l'Olanda si mossero attivamente all'inizio del secolo per stimolare un'intesa internazionale per la conservazione della natura; tale intesa si realizzò nella fondazione dell'International Union for the Protection (poi Conservation) of Nature. Nei due paesi questa iniziativa fu collegata con l'istituzione nel 1914 del Parco Nazionale Svizzero dell'Engadina e nel 1905 della riserva naturale di Naardermeer in Olanda; questa fu acquistata per contrastare la proposta di farne un luogo di accumulo di rifiuti per Amsterdam. Durante questo periodo furono creati diversi parchi nazionali anche in Svezia, paese che è stato in seguito all'avanguardia nelle iniziative internazionali per la conservazione. In Germania l'iniziativa privata istituì all'incirca negli stessi anni le riserve di Lüneburger Heide e di Hohe Tauern, mentre altre furono create in Francia e in Inghilterra.
Dopo una completa interruzione durante e dopo la prima guerra mondiale, vi fu una ripresa dell'attività protezionistica in Europa accompagnata da una grande varietà di progetti ufficiali e non ufficiali. Alcuni parchi furono istituiti anche durante la guerra: due per esempio nel 1916 (Siberia e Mongolia) e tre anni dopo nell'Astrakhan. Fra i pochi progetti europei di una certa importanza del periodo postbellico è da segnalare la riserva zoologica e botanica della Camargue (1928).
In Inghilterra l'attività di conservazione della natura è stata molto ridotta fino alla seconda guerra mondiale; in seguito sono stati fatti rapidi progressi soprattutto dopo l'istituzione, nel 1949, di un organo ufficiale (la Nature Conservancy) e di una commissione per i parchi nazionali. Venne varato un ampio programma per l'acquisizione di riserve naturali, programma basato sui migliori esempi relativi ai principali tipi di habitat. Fu energicamente incoraggiata la preparazione di ecologi, furono organizzati corsi per la conservazione a livello postuniversitario e si formarono numerosi gruppi volontari, sia a livello nazionale sia a livello locale, per acquistare e gestire riserve naturali. Furono dati validi contributi alle organizzazioni internazionali per la conservazione e alla realizzazione di efficaci collegamenti con altri tipi di interessi legati all'uso del terreno. Il numero delle persone interessate a questi problemi si accrebbe con straordinaria rapidità e vi fu parallelamente un rapido aumento del numero degli iscritti alle società interessate alla conservazione. In conseguenza di tutto ciò, le iniziative governative in questo settore divennero molto più frequenti e lungimiranti.
Anche in molti altri paesi europei si manifestò un interesse crescente per questi problemi; in Spagna, per esempio, pur essendovi una situazione di partenza molto arretrata, si registrarono notevoli sviluppi a partire dal 1960. Nonostante questi progressi, s'incontrarono molte difficoltà per assicurare l'integrità dell'area più importante e meglio conosciuta, il Parque Nacional y Reserva Biológica de Doñana, alle foci del Guadalquivir.
e) Le Americhe
Anche in America settentrionale, interesse e attività crebbero intensamente e rapidamente. Ciò avvenne per merito dei grandi servizi federali, National Parks, Forests and Fish e Wildlife, di innumerevoli associazioni a carattere volontario e di istituzioni universitarie. Furono anche dati maggiori contributi tecnici e finanziari alle iniziative per la conservazione che nascevano in altre parti del mondo: nonostante l'illuminato sostegno da parte della presidenza e del Congresso, forze ostili rimasero però fortemente radicate nel paese.
Dal 1960 in poi, lo sviluppo dell'attività di conservazione cominciò a interessare tutto il continente americano: dal Canada, che aveva istituito un servizio parchi prima degli Stati Uniti, fino all'Argentina. Tuttavia, nonostante i molti progressi a livello locale, il programma di conservazione relativo a tutta l'area continentale, lanciato già nel 1916 con il North American Migratory Birds Treaty, non riuscì a raggiungere l'ideale lungamente vagheggiato. L'attiva partecipazione del Canada all'International Biological Programme, e in particolare ai programmi sul bioma delle tundre, costituì invece una buona premessa per l'istituzione di un sistema nazionale di riserve organizzate su basi ecologiche, in particolare in alcune provincie come la Columbia Britannica.
Non è possibile, nei limiti di un articolo, passare in rassegna in modo esauriente l'ampia serie di attività per la conservazione della natura che si svolgono nel mondo. Gli esempi citati potranno tuttavia servire a illustrare sia la portata universale di questa attività che i suoi aspetti diversi e ramificati.
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Protezione dell'ambiente naturale
di Massimo Severo Giannini
sommario: 1. Dibattiti e dichiarazioni internazionali. 2. Le tematiche. 3. I beni ambientali. 4. I parchi naturali. 5. Altri istituti attinenti alle cose. 6. La gestione del territorio ordinata alla protezione dell'ambiente naturale. □ Bibliografia.
1. Dibattiti e dichiarazioni internazionali
La protezione dell'ambiente naturale è oggetto di un dibattito che si è aperto subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e che tuttora prosegue, e anzi si allarga ai ceti politici e culturali dei paesi che si avviano all'industrializzazione e alla trasformazione delle tecniche di agricoltura. Sembrava che quantomeno un punto fermo avrebbe potuto essere segnato dalla Dichiarazione di Stoccolma (16 giugno 1972) sull'ambiente, ma non è stato così, perché - come è noto - per ottenere l'adesione di paesi collettivisti, del Terzo Mondo e industrializzati, queste dichiarazioni sono state concepite più in termini politici che istituzionali. Con il risultato che esse somigliano assai poco a quella ‛dichiarazione dei diritti della natura', cui pensavano alcuni francesi.
Della materia tratta infatti il principio 2 (le risorse naturali del globo, comprese l'aria, l'acqua, la terra, la flora e la fauna, in particolare le zone rappresentative di ecosistemi naturali, devono essere preservate nell'interesse delle generazioni presenti e future, mediante pianificazioni o gestione oculata, a seconda dei casi). Però ne trattano anche i principî 4 e 6, il primo attinente alla flora e alla fauna ‛selvagge' e al loro habitat, che si dice debbano essere conservate e debbano ‟occupare un posto importante nelle pianificazioni dello sviluppo economico"; il secondo attinente alle emissioni tossiche e caloriche non neutralizzabili, che si dice debbano essere fatte cessare per non danneggiare in modo grave e irreversibile gli ecosistemi, ove si voglia incoraggiare la lotta contro gli inquinamenti.
Nessuno direbbe che questi sono dei modi di parlar chiaro, in ispecie gli enunciati dei principî 4 e 6; ché se poi si estendesse l'esame ad altri enunciati del testo, la confusione si aggraverebbe ancora. Però si sa che nella Dichiarazione di Stoccolma il termine environnement è usato in modo promiscuo, nei diversi significati che esso (così come ‛ambiente', il suo corrispondente italiano) possiede nel linguaggio corrente, che è atecnico. Se i diversi significati fossero dei semplici accadimenti semantici, nulla di particolare, esistendo una quantità di vocaboli che hanno significati diversi nei diversi linguaggi scientifici e correnti (basterebbe ricordare termini come ‛decentramento', ‛transazione', ‛negozio', ‛capitale', e simili); senonché qui, invece di significati, si tratta di diverse realtà istituzionali, e quindi giuridico-economiche.
I significati sono almeno tre, che si potrebbero esprimere, usando ambiente come esponente comune, con ambiente-zona, ambiente-qualità della vita, ambiente-territorio; la tendenza più recente è di far cadere l'uso dell'esponente, per dire, più semplicemente, zone ambientali, qualità della vita, gestione del territorio; in questa più immediata dizione già si è in grado di scorgere come si sia in presenza di fatti istituzionali tra loro distinti. Le zone ambientali si incentrano infatti su una particolare disciplina giuridica a cui sono assoggettati le cose e i beni immobili che sono compresi nella zona; laddove la regolazione della qualità della vita si incentra in regole di comportamento a cui devono sottostare uomini, come persone fisiche, come imprenditori, come abitanti, come pubblici ufficiali, nello svolgere talune loro attività, che vanno da quelle minime del vivere fino alla produzione agricola e industriale; mentre infine la gestione del territorio si esprime in regole per le scelte urbanistiche (di pianificazione del territorio, secondo altra dizione), e quindi soprattutto per la formazione degli strumenti urbanistici, e poi nell'attuazione di questi o delle scelte direttamente, e nell'applicazione concreta delle proposizioni prescrittive deliberate.
Invero non manca chi, soggiacendo alle servitù di linguaggio, vorrebbe ritrovare in questi tre gruppi di istituti un filo o un qualche concetto comune; ma quando non sono esercitazioni nozionali, siffatte ricerche altro non vengono a dire se non che fra i tre gruppi di istituti vi sono dei collegamenti e delle implicazioni reciproche, ossia una cosa abbastanza ovvia se si considera che i tre gruppi di istituti hanno un'identità oggettuale, perché tutti e tre attengono al territorio: le zone ambientali sono porzioni di territorio, la tutela della qualità della vita attiene ad attività materiali che si svolgono in luoghi territorialmente determinabili, la gestione del territorio per definizione riguarda l'assetto e l'uso di ampio territorio. Ciò peraltro non basta per unificare istituti eterogenei, essendo sufficiente considerare come il territorio sia riferimento oggettuale anche di altri istituti, attinenti ad altre attività: gli insediamenti abitativi e produttivi, i trasporti, l'uso delle acque, l'approntamento delle infrastrutture di opere pubbliche, e così via.
Del resto lo sviluppo della legislazione e degli istituti da questa congegnati, in ogni parte del mondo, tende a differenziare sempre più profondamente gli istituti medesimi. La tutela della qualità della vita sta in moltissimi paesi assumendo dimensioni ragguardevoli, con incidenze economiche e politiche non più trascurabili, nelle normative che vanno sotto il denominatore corrente di leggi contro gli inquinamenti (v. inquinamento ambientale), alle quali si devono però affiancare le normative dette correntemente sulle fabbricazioni e commercializzazioni di prodotti, cioè quelle che regolano imperativamente la composizione di prodotti a uso alimentare, domestico, agricolo e industriale, vietando o imponendo l'impiego di talune componenti, o prescrivendo regole sia di produzione che di uso (per un caso che ha provocato molti dibattiti, v. pesticidi). Similmente la materia della gestione del territorio si inserisce ormai interamente nella normativa urbanistica, che è divenuta una delle normative fondamentali degli Stati moderni, specie nei paesi industrializzati, e si è sviluppata in istituti di non comune complicatezza (v. territorio).
Per completare i profili superstatali, occorre ricordare che la Comunità Economica Europea, già prima di Stoccolma, aveva affidato a sue commissioni lo studio della materia dell'ambiente. Gli elaborati presentati dalle commissioni sono assai pregevoli: si sono orientati per la costituzione di linguaggi e di ordini concettuali uniformi per gli Stati che compongono la Comunità, e questo è già di per sé un risultato importante; dopodiché presentano suggerimenti per l'adozione di strutture amministrative e di procedimenti amministrativi anch'essi uniformi quanto alle linee generali; prevedono organismi comunitari per l'elaborazione di metodi uniformi di raccolta e analisi dei dati, e altresì come banche di dati. Si è ormai maturi per l'adozione, da parte degli organi della Comunità, di atti formali, quali regolamenti o raccomandazioni. Alcune raccomandazioni, del resto, in tema di parchi naturali, già esistono. È pertanto prevedibile che nel prossimo futuro l'azione della CEE avrà un ruolo importante, anche se si concentrerà in prevalenza sulla qualità della vita, in particolare gli inquinamenti, che sono in effetti le vicende più preoccupanti e anche le più dibattute dal punto di vista scientifico.
2. Le tematiche
La protezione dell'ambiente naturale, da quanto si è già detto, risulta essere materia di assai incerta sostanza, per la semplice ragione che gli scienziati non sanno, o non sanno ancora, dirci cose precise. Biologi, botanici, chimici, ecologi, hanno prodotto e seguitano a produrre una vasta letteratura di doglianza, spesso suggestiva, talora irritante in quanto tenta di riversare su altri loro errori e omissioni (esempi vistosi, i dibattiti postumi sulla diga di Assuan, la diga del Caroní, il petrolio del Mare del Nord, e così via), talora infine sospetta di collusioni interessate (per es., le polemiche contro le centrali nucleari, contro il DDT, contro talune materie plastiche). È ovvio che il non scienziato dovrà, in proposito, fare due tare, la prima, maggiore, sulla incertezza della conoscenza scientifica, la seconda, minore, sul contrasto fra scuole: sono due costanti ineliminabili in ogni vicenda di pensiero scientifico; quel che però colpisce è la sterilità propositiva del dibattito, al punto che ormai i più consapevoli fra gli scienziati chiedono solo quelli che, sotto l'aspetto istituzionale, si definiscono come strumenti procedimentali. Quindi per es., per stare alla qualità della vita, che è ormai la punta più avanzata di tali tematiche, non norme che impongano parametri in ordine alle immissioni inquinanti, ma un'autorità centrale avente potestà di fissare e variare parametri, mediante provvedimenti propri da adottare in base a procedimenti aperti e complessi.
Si spiega così perché l'inventiva in materia istituzionale non sia particolarmente brillante, e si muova più nel senso di perfezionare istituti vecchi ormai di decenni che nel reperimento di istituti nuovi. Fa eccezione la materia urbanistica, della quale però, secondo quanto ora si spiegherà, la protezione dell'ambiente naturale è solo una parte.
Secondo alcuni, le medesime ragioni spiegherebbero perché la protezione dell'ambiente naturale non si esprima in un istituto unitario generale, o almeno in un gruppo di istituti omogenei collegati, ma si articoli in più istituti eterogenei. È però difficile consentire con questo modo di vedere, che non proviene da giuristi e da politologi, perché la sistemazione istituzionale positiva di materie tecnicamente complesse di regola si esprime in istituti differenziati, e spesso eterogenei: si considerino, quali termini di raffronto, la sanità o il commercio interno che si articolano ormai in una decina di istituti differenziati.
Non c'è quindi da stupirsi se la protezione dell'ambiente naturale si articola su due distinte tematiche, che attengono l'una alla gestione del territorio, l'altra alle cose ambientali, questa seconda essendo la meno recente in ordine di tempo, e oggi in larga parte inquadrabile nella prima. Gli istituti attinenti alle cose ambientali sono, nel nostro ordinamento positivo, i beni ambientali, i parchi naturali e le riserve, le zone di bonifica, le zone di riassetto idrogeologico, e altri minori. Quelli attinenti alla gestione del territorio sono gli strumenti urbanistici e i piani di intervento.
Vi è anche chi reputa che il quadro delle tematiche debba essere più ampio. Se si ragiona in termini di risultati ciò può anche essere vero, ma se si ragiona in termini istituzionali, non lo è né può esserlo. Se si tiene presente che la protezione dell'ambiente naturale è uno dei fatti del territorio, così come avviene per ogni fatto del genere, esso subisce le conseguenze, in positivo e in negativo, di qualsiasi altro fatto del territorio. Così quando, nel quadro di un piano di bonifica montana, si provvede a imbrigliare un torrente, uno dei risultati è anche un miglioramento della protezione dell'ambiente naturale (almeno secondo l'opinione più diffusa: v. comunque più oltre), pure se l'opera è finalizzata a regolare il regime delle acque, non a proteggere l'ambiente naturale; così l'attività volta alla tutela della qualità della vita, che tanto spesso si mette a fuoco, non è ordinata alla protezione dell'ambiente naturale, ma a impedire che qualunque ambiente, naturale e/o artificiale, corrompendosi o degradandosi, aggredisca la vita degli uomini, degli esseri viventi, delle piante, anche se è indiscutibile che, per es., il disinquinamento atmosferico cui si proceda per un aggregato produttivo industriale refluisca sull'ambiente naturale, interrompendone le cause di degrado. Ma come sono vere queste vicende, sono vere anche quelle inverse; l'esecuzione di riforestazioni in zone di riassetto idrogeologico, che è opera di protezione ricostitutiva dell'ambiente naturale, refluisce sul regime idrico, sulle attività produttive agricole, e così via. Detto in termini generali, tutti i fatti del territorio si collegano tra loro, nel senso che anche se è poco accettabile che essi siano sempre in implicazione reciproca come taluni tuttavia reputano - è però certo che l'avveramento di una modificazione di uno di essi produce un risultato modificato degli altri; variano il numero e l'entità delle modificazioni indotte, e questo è il discorso che l'urbanistica e l'ecologia stanno tessendo da alcuni decenni, con fatica e sinora senza risultati di rilievo (v. ecologia).
Fissati questi termini di riferimento, dobbiamo subito precisare che, sia nelle tematiche della gestione del territorio che in quelle delle cose ambientali, la protezione dell'ambiente naturale costituisce un settore privo di connotazioni specifiche.
3. I beni ambientali
I beni ambientali sono, in certo modo, una particolarità dell'ordinamento italiano, e sono quei beni che la legge 29 giugno 1939 n. 1497 chiama bellezze naturali, e che poi la Commissione Franceschini (1968) propose di chiamare beni culturali ambientali. La legge 1497 individua le ‟bellezze naturali" come ‟cose immobili aventi cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica", e le giustappone alle ville, ai giardini e ai parchi di ‟non comune bellezza", ai ‟complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale", e infine alle bellezze panoramiche ‟considerate come quadri naturali" nonché ai ‟punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze". Dalle disposizioni delle norme appare quindi subito evidente che solo i beni del primo gruppo sono ambiente naturale (bellezze naturali e singolarità geologiche), mentre quelli del secondo e del terzo gruppo sono bellezze opera dell'uomo (ville e giardini, luoghi caratteristici, come quartieri storici, vie e piazze, aggregati di case rurali, castelli isolati, e simili), e le ultime - le bellezze panoramiche o paesistiche - possono essere tanto naturali quanto artificiali quanto composite (ed è questa la specie di gran lunga più frequente).
È stato chiarito dagli interpreti che il legislatore ha voluto tutelare, accanto alle cose d'interesse archeologico, storico, artistico, ecc. (legge 1939, n. 1089), anche le cose aventi pregio estetico o della natura, o, se dell'uomo, composte di più cose costituenti come insieme unità estetica (la via caratteristica, il punto panoramico, la bellezza paesistica); quindi il concetto di fondo sarebbe il medesimo: il pregio estetico della cosa o del complesso di cose. Per cui l'ambiente naturale è qui tutelato in quanto pregiato: è una ‟bellezza" della natura o un bel paesaggio, un parco di ‟non comune bellezza", una singolarità di particolare pregio.
La legge 1497 è invecchiata per più aspetti; prevedeva un procedimento complesso, con una proposta di ‟dichiarazione di particolare interesse", fatta da una commissione provinciale, al ministro dell'Educazione Nazionale (oggi al ministro per i Beni Culturali); contro la proposta si dava ricorso al medesimo ministro; questo, espletata l'istruttoria, sentito il Comitato per i beni ambientali, emetteva la dichiarazione, da pubblicare nella Gazzetta ufficiale. Oggi provvede (d.p.r. 1977 n. 616, v. oltre) l'autorità regionale, e ogni Regione dovrà adottare o modificare le norme della legge 1497. Il punto fermo resta quello attinente alla ‟dichiarazione": suo effetto è costituire un obbligo di conservare le cose che compongono il bene ambientale così come si trovano al momento della dichiarazione medesima, salvo autorizzazione a opere di modifica (mutamento di costruzioni, nuove costruzioni, abbattimenti, apertura di strade, ecc.), che rilascia il sovrintendente ai monumenti competente per territorio. Spetta al sovrintendente un potere di vigilanza circa la conservazione delle cose; gli spettano anche poteri di intervento repressivo in caso di inadempienza (ordini di non fare, di ripristinare, di demolire, ecc.).
La dichiarazione di notevole interesse, come bellezza naturale o come bellezza panoramica o paesistica, vale nei confronti di chiunque; riguarda soggetti pubblici e soggetti privati, beni pubblici e beni privati; è quindi indifferente chi sia proprietario del bene, e quale sia il genere di diritto dominicale su di esso, anche se poi in concreto, se il bene è demaniale o patrimoniale indisponibile, il cosiddetto vincolo funziona secondo procedimenti di uffici statali interni. La dichiarazione è comunque trascritta nei registri immobiliari e presso la sovrintendenza dovrebbe esser tenuto un elenco pubblico dei beni dichiarati.
Tralasciando le moltissime questioni di diritto positivo che si sono poste, perché di carattere specialistico, i punti nodali della normativa sono due. Il primo è il contenuto dell' obbligo di conservazione. Esistono due interpretazioni, l'una rigoristica, ossia nulla si può modificare senza autorizzazione del sovrintendente; l'altra limitativa, ossia occorre l'autorizzazione per modificare aspetti essenziali della cosa. Nella prassi, la prima è seguita soprattutto per i beni che potrebbero dirsi urbani, la seconda per quelli naturali. Per i beni urbani le sovrintendenze richiedono autorizzazioni, per es., per rifare pavimentazioni, restaurare tetti e infissi, modificare vetrine e insegne di negozi, ecc., mentre per i beni naturali non si richiede autorizzazione per mutare tipo e aspetto di coltivazioni, scavare fossi d'irrigazione, piantare alberi, ecc. In astratto è più fondata la prima interpretazione, che ogni tanto viene riaffermata. La prassi conosce altresì le autorizzazioni condizionate, che sono divenute preziosi strumenti di gestione anche attiva del bene (per es., si autorizzano lavori in una villa a condizione che si proceda a una ripiantazione di alberi di tal specie in tal luogo, oppure a condizione che si demoliscano certe tettoie o baracche, e simili).
Il secondo punto nodale è quello della natura del bene ambientale. Si diceva che nel sistema della normativa esso è tale per i suoi valori estetici, ed è costante l'interpretazione che esso sia una specie del genere bene culturale, ritenendosi che, per il suo valore estetico, il bene ambientale sia testimonianza avente valore di civiltà. Il che ha dato luogo a perplessità per i beni culturali che qui interessano: quelli puramente naturali; ma si è detto che il loro pregio estetico non può intendersi se non in quanto essi siano inseriti in un determinato tessuto culturale. Ammesso comunque che i beni ambientali siano una categoria dei beni culturali, si pone anche per essi la difficile problematica che è propria dei beni culturali, in ordine ai quali le tesi più recenti sono quella secondo cui essi sarebbero una specie di proprietà funzionalizzata alla conservazione del bene per i valori estetici che esso possiede, e quella secondo cui essi sarebbero dei beni immateriali, che ineriscono a cose le quali a fini giuridici diversi, costituiscono beni privati, beni pubblici, beni collettivi, e così via : l'inerenza alla cosa della qualità di bene culturale comporta limiti alla fruizione del bene in quanto oggetto di diritti reali di proprietà o di altro tipo. Giusta la seconda tesi, la ‟bellezza naturale" della specie più complessa, qual è la bellezza paesistica, non sarebbe la giustapposizione materiale delle cose che la compongono i terreni col loro andamento, le alberature, le acque, le costruzioni - ma il valore estetico che il complesso sprigiona, per la sua attitudine a suscitare reazioni emozionali.
Non senza una ragione ci si è ora riferiti alle bellezze paesistiche - o paesaggistiche, come altri preferisce - perché esse hanno costituito il punto di crisi della nozione di bellezza naturale-bene culturale ambientale. Certamente questi beni, specie negli ultimi decenni, sono molto cresciuti di numero, e oramai in ogni zona del nostro territorio si trovano parecchie ‟zone vincolate dalle sovrintendenze", come correntemente si usano chiamare; però è parimenti vero che le bellezze paesistiche sono molto più numerose delle bellezze paesistiche dichiarate, cioè, in termini rigorosi, dei beni culturali ambientali nella specie di beni paesistici. Ne è venuto fuori un dibattito che, per grandi linee, ha visto schierati urbanisti contro sovrintendenti e storici dell'arte.
La tesi dei primi è che lo strumento del bene culturale ambientale è superato, perché il paesaggio, il panorama, la singola bellezza naturale (quel tratto di fiume, quell'insieme di rocce, quel tratto di costiera marina, ecc.) sono elementi del territorio che vanno tutelati con strumenti urbanistici. Lo stesso legislatore se ne è reso conto - essi dicono - allorché ha stabilito che per le zone costituenti bellezze paesistiche di notevole ampiezza possano esser elaborati dei piani paesistici, che poi dovrebbero esser recepiti nei piani regolatori generali dei comuni: ora i piani paesistici non sono anch'essi degli strumenti urbanistici, anche se adottati da poteri pubblici diversi dai comuni (e anzi proprio perciò anomali e disturbanti)? La tecnica che è propria delle dichiarazioni di bellezza naturale - essi soggiungono - non può consentire che protezioni lenticolari, circoscritte a zone di non vasta estensione; senonché il vincolare, per es., una certa linea di colline ma non quella vicina, può produrre risultati disorganici, e talora anzi negativi, se la linea non vincolata si va a popolare di case o di stabilimenti. Inoltre accanto a paesaggi bellissimi ve ne sono altri di minore ma non ancora di scarso o minimo pregio, i quali restano abbandonati. Invece con un uso razionale o almeno accurato degli strumenti urbanistici, si può provvedere a una tutela globale, organica, graduata, raggiungendo risultati migliori o comunque eguali a quelli che si ottengono con la dichiarazione di bene culturale ambientale.
Ma proprio quest'ultima affermazione è negata dai secondi, i quali osservano che mentre lo strumento urbani- stico disciplina l'uso del territorio, la dichiarazione di bene culturale ambientale permette una vigilanza continua sulle cose, che altrimenti non sarebbe possibile. Se, ad es., in una zona dichiarata bellezza paesistica il proprietario di un edificio a suo tempo regolarmente autorizzato vuole spiantare pini o altri alberi mediterranei e piantare baobab, e poi tingere la costruzione in rosso e giallo, il sovrintendente lo può fermare, e anzi gli può imporre ripristini, perché si tratta di cosa compresa nel perimetro di un bene ambientale, mentre il sindaco è impotente: la legislazione urbanistica non gli dà poteri di intervento, se non quando viene modificato il costruito. Rispondono gli urbanisti che tutto questo è vero in teoria, perché le sovrintendenze non hanno né possono avere personale per una così assidua vigilanza; replicano gli altri che affidarsi ai comuni sarebbe peggio ancora, perché il personale comunale sarebbe ancor più scadente.
A complicare la controversia sono sopravvenute le Regioni, che hanno ricevuto - e giustamente poiché si tratta di urbanistica - la competenza ai piani paesaggistici, ma hanno richiesto che fosse loro attribuita la materia dei beni ambientali, in quanto investe funzioni attinenti al territorio, e perciò di loro spettanza, secondo i principi della legge 1975 n. 382. La legge delegata sul completamento dell'ordinamento regionale (d.p.r. 1977 n. 616) ha così delegato alle Regioni tutta la materia dei beni ambientali (art. 82), lasciando al ministro per i Beni Culturali dei poteri di intervento correttivo e sostitutivo. Ha insieme disposto che per il 31 dicembre 1979 sia emanata una legge organica per tutti i beni culturali. Dimodoché i beni ambientali e il paesaggio sono oggi materia di attribuzione regionale (in quanto attinente al territorio regionale), e spetterà alle Regioni adottare norme che sostituiscano la legge 1939 n. 1497.
In fatto le amministrazioni regionali si sono poste in posizione collaborativa con lo Stato, ma i risultati non sono ancora rilevanti.
Quel che è certo è che la materia esige una radicale revisione, poiché chi si ponga come terzo imparziale non può non riconoscere che sono fondati ambedue gli ordini di critiche che reciprocamente si rivolgono urbanisti e non urbanisti, e c'è effettivamente da chiedersi se la nozione di bene culturale ambientale, naturale e non, non sia superata, e non siano invece da prevedere strumenti più duttili da un lato, più ampi dall'altro, in una rinnovata normativa urbanistica, statale e regionale. Si dovrà tornare su tali prospettive più oltre (v. sotto, cap. 6).
4. I parchi naturali
Nella tematica delle cose ambientali, i parchi naturali costituiscono l'istituto di maggior rilievo, ormai adottato da tutti i paesi, dopo positive esperienze nordamericane ed europee, e dopo raccomandazioni di organismi internazionali, come l'UNESCO, la CEE, e l'opera di associazioni per la difesa della natura.
L'esistenza di legislazioni di più Stati permette di poter dare delle linee generali dell'istituto. I parchi naturali sono vaste aree aventi un vincolo di destinazione conservativa, specificamente finalizzata alla conservazione di elementi naturali. Con riserva di quanto si dirà appresso, si può dire che è questo tratto finalistico ciò che contraddistingue i parchi naturali rispetto ad altre specie di aree aventi destinazione conservativa, come per es. quelle che riguardano i beni culturali artistici (la chiesa, il castello, ecc.), o storici (la casa della tal celebrità), i beni culturali ambientali (dei quali si è già detto), alcuni beni produttivi (per es., le foreste), i beni a fruizione collettiva (per es., lido del mare, strade), le aree a destinazioni conservative urbanistiche (per es., centri e quartieri storici, zone a verde, ecc.), o sanitarie (cosiddette zone di rispetto), e così via.
Peraltro il vincolo di destinazione alla conservazione di elementi naturali non va inteso in maniera rigida, gli ordinamenti positivi dei singoli Stati presentando una grandissima varietà di soluzioni. Così ad es., negli ordinamenti nei quali non esistono i beni naturali ambientali come istituto volto alla tutela di valori estetici di luoghi costituenti bellezza naturale o paesaggio, questi valori possono venir assorbiti nell'istituto parco naturale, che diviene in tal modo direttamente conservativo di ambienti e di bellezze naturali nonché di paesaggi. Però può accadere - e l'ordinamento italiano ne è un esempio - che pur conoscendosi l'istituto del bene culturale ambientale naturale, si istituiscano parchi naturali per zone dichiarate già (o insieme) beni culturali ambientali naturali in tal caso, in quell'ordinamento positivo, le aree costituenti parco naturale ricevono un duplice vincolo di destinazione, quello alla conservazione della natura e quello alla conservazione del bene culturale ambientale (è inutile dire che questa soluzione complica i problemi, specie di natura operativa). Altro esempio si trae dal regime delle foreste: vi sono ordinamenti nei quali la conservazione delle foreste si consegue solo con la costituzione del parco naturale; altri nei quali le foreste, o almeno quelle più importanti, sono gravate da vincoli di destinazione conservativa del loro essere foreste, senza che con ciò sia peraltro escluso che alcune foreste possano essere immesse in perimetri di parchi naturali, e perfino anche dichiarate beni culturali ambientali, ricevendo in questi ultimi casi ben tre vincoli di destinazione conservativa, in presenza dei quali diviene arduo per gli stessi pubblici poteri sapere chi deve agire.
Anche altri tratti dell'istituto dei parchi naturali, oltre questo teleologico, presentano pari latitudine. Così per quanto attiene all'appartenenza delle aree costituenti il parco si hanno legislazioni nelle quali i parchi sono tutti di appartenenza pubblica, altre nelle quali sono comprese nei parchi anche aree di appartenenza privata, altre nelle quali il parco è di appartenenza pubblica, ma tutt'intorno è integrato da aree la cui appartenenza è giuridicamente neutra, sottoposte a regimi speciali di protezione. Vi sono inoltre legislazioni che distinguono tra parchi naturali e riserve naturali, queste ultime finalizzate specificamente alla conservazione di simbiosi fiorifaunistiche, o di varietà animali o vegetali, ben determinate. (Forse non è superfluo avvertire che le riserve naturali non vanno confuse con le riserve di caccia; in esse vi sono divieti permanenti di caccia, pesca e asportazione di piante, mentre le riserve di caccia, pur quando sono insieme zone di ripopolamento, sono ordinate proprio all'esercizio della caccia, come esercizio che non sia puramente distruttivo).
Quando l'area del parco è interamente di appartenenza pubblica, l'unica questione che si pone è quella, di mero diritto interno, dell'ascrizione di esso a una delle categorie formali dell'appartenenza pubblica, quali, per es., demanio, patrimonio indisponibile, bene collettivo, o altro. Quando invece l'appartenenza è mista, i beni oggetto di appartenenza privata divengono proprietà private funzionalizzate all'inerenza dell'interesse pubblico alla conservazione dell'elemento naturale oggetto dei fini del parco. Quindi, come avviene in tutte le specie di proprietà private funzionalizzate, si costituisce un rapporto giuridico tra il privato proprietario e il pubblico potere-autorità del parco, nel quale il primo è in posizione di soggezione nei confronti delle potestà che le norme attribuiscono al secondo. Sono, ancora una volta, le legislazioni positive a determinare il contenuto delle potestà pubbliche dell'autorità del parco; i contenuti usuali sono: a) i divieti di distruzione di fauna e di flora, quindi divieti di caccia, di abbattimento di alberi o almeno di certi alberi, di raccolta di erbe, e simili; b) i divieti di modificazione dello stato storico dei luoghi, quindi di nuove costruzioni, di modificazione di costruzioni esistenti, di procedere a movimenti di terra e ad alterazioni di andamenti di terreno, di scavare fossi e modificare l'andamento delle acque; alcuni di questi divieti sono rimovibili mediante autorizzazioni. Meno frequenti le potestà attinenti alle attività produttive (divieti di coltivazione, di impianti di trasformazione di prodotti agricoli, di cava, di attingimento di acque); meno ancora le potestà che comportano obblighi di fare (ordini di coltivazione, di piantazione, di assetti di regimi idrici).
Quando poi si dispone che attorno ai parchi si costituiscano fasce di protezione, funzione di queste è di integrare (integrazione funzionale) l'area del parco; per cui, di regola, si stabiliscono divieti di caccia e divieti di usi nocivi per le aree del parco, come per es., di opere o di attingimenti incidenti sui regimi idrici del parco, di impianto di stabilimenti industriali rumorosi o insalubri, di apertura di nuove strade. Sia che le aree circostanti siano di appartenenza pubblica, quanto che siano di appartenenza privata, di solito il cosiddetto regime speciale del suolo si concreta in limitazioni di fruizione, più che in funzionalizzazioni in senso proprio delle proprietà, anche se, al limite, queste possono non essere escluse.
L'appartenenza e il contenuto dei diritti di godimento delle aree in questione sono comunque condizionati soprattutto da un ulteriore tratto, che è quello attinente più propriamente all'oggetto della conservazione degli elementi naturali, tratto anch'esso molto variato. Vi sono infatti dei parchi (talora chiamati anch'essi riserve) di conservazione integrale della natura selvaggia, che necessariamente sono di appartenenza pubblica per la loro totalità, sottratti all'accesso pubblico, e soprattutto ordinati alla ricerca scientifica; l'accesso è riservato a pochi perché si reputa che la stessa presenza dell'uomo possa alterare equilibri naturali; il prelievo di animali e piante si ammette solo per scopi scientifici, e quindi con le cautele tecniche che determinano gli scienziati addetti.
All'opposto stanno i parchi che sono destinati alla fruizione pubblica, senza altro limite se non quello del rispetto assoluto della flora e della fauna. In sostanza questi sono parchi di svago, come quelli che già nel sec. XVIII si trovavano attorno alle dimore signorili suburbane o di campagna, e che dei parchi di svago hanno conservato la funzione. Anche questi parchi sono, in linea di principio, di appartenenza pubblica.
Fra queste due specie estreme stanno le specie intermedie, dei parchi naturali a oggetto composito: di protezione, ma anche di fruizione. Di regola, le aree di questi parchi sono molto vaste, comprendono beni di appartenenza anche privata, talora aggregati abitativi di non irrilevante consistenza, insediamenti industriali, zone a intensa coltivazione agricola; sono attraversate da strade di grande e piccola comunicazione, da ferrovie, e possono comprendere aeroporti, porti fluviali, e altre infrastrutture pubbliche. Anche quando non hanno un territorio così complesso, questi parchi naturali sono comunque articolati in sottozone: alcune sono in funzione puramente conservativa, e quindi possono anche essere ad accesso limitato o riservato; altre sono di fruizione pubblica, nel senso che sono destinate a questo tipo di fruizione, onde vanno mantenute sgombre da insediamenti produttivi e da aggregati abitativi; infine vi sono le zone aventi, in atto, utilizzazioni che saranno infrastrutturali, abitative o produttive. Si hanno quindi strutture a pluralità di regimi, ma tutte sottoposte a quella che si usa chiamare l'‛autorità del parco', la quale ha potestà diverse a seconda delle zone; l'ambito e il contenuto delle potestà è di stretto diritto positivo, e, per gli aspetti generali, può solo dirsi che per le zone di appartenenza all'autorità del parco, questa ha poteri illimitati; per le zone, gli impianti, le infrastrutture di altri pubblici poteri l'autorità del parco procede mediante intese; per le zone di appartenenza privata ricorrono le funzionalizzazioni dette in precedenza. Spesso l'autorità del parco ha poteri di pianificazione territoriale, che si esercitano mediante procedimenti ai quali sono chiamati a partecipare gli altri pubblici poteri interessati.
Quanto agli aspetti organizzativi, l'autorità del parco può essere tanto un organo di un più articolato potere pubblico, quanto un'autorità autonoma propria. Così, per es., molti dei parchi naturali comunali, di contea, o di Stato, negli Stati Uniti, sono gestiti da uffici dell'ente proprietario, mentre per i celebri parchi federali vi sono autorità ad hoc.
Dal confronto fra le diverse normative attinenti ai parchi naturali si constata come si sia in presenza di più esperienze, tuttora in cerca di un assetto. Dei tre modelli indicati, il più semplice è quello dei parchi di fruizione pubblica, o parchi di svago, che hanno il carattere di vasti, talora vastissimi, giardini o parchi pubblici, distinti da questi per avere rigorose regole di comportamento per gli utenti. Come i giardini pubblici, essi costituiscono un pubblico servizio, a favore di collettività indifferenziate, e la finalità di conservazione della natura è a esso ordinata; è una natura libera da godere, essendo peraltro ovvio che, in concreto, la natura non è del tutto libera, poiché la fruizione collettiva del parco comporta un minimo di disciplina interna e di assetto artificiale, proprio affinché la fruizione stessa non divenga distruttrice; quindi si richiedono viali, strade, sistemazioni di luoghi di sosta e di riposo, e talora anche si installano altre attrezzature di svago, come piccoli impianti sportivi, campi di giochi, luoghi di ristoro.
Lo strumento che si può dire realizzi, per eccellenza, la protezione dell'ambiente naturale è il parco o riserva di conservazione integrale. La tesi di coloro i quali dicono che solo questo potrebbe essere detto ‛parco naturale', mentre gli altri modelli sarebbero altra e diversa cosa, non è infondata, se ci si pone in una logica di efficiente conservazione degli ambienti naturali. Dal punto di vista istituzionale essa è certamente accettabile; peraltro, dal punto di vista pratico, l'istituto non può avere che limitata applicazione in paesi, come la maggioranza di quelli europei, nei quali gli insediamenti umani e le infrastrutture relative coprono fittamente il territorio; e si spiega perché in paesi aventi vasti spazi vuoti ve ne siano più numerosi esempi (alcuni fra i più noti parchi naturali degli Stati Uniti furono istituiti nello scorso secolo, in zone, allora, quasi disabitate).
La maggioranza dei parchi naturali esistenti si ascrive peraltro al modello intermedio, che presenta, come elemento ricorrente, l'appartenenza (o l'assegnazione) all'autorità del parco di zone, più o meno vaste, costituenti comunque la parte più importante, come natura, del comprensorio. Di solito le autorità del parco hanno poteri di espropriazione e di affitto coattivo, per cui possono ampliare l'estensione delle aree di appartenenza. Per le altre parti, che spesso sono per estensione prevalenti, vige la più grande molteplicità di varianti, ma per quanto ampi siano i poteri delle autorità del parco, la sostanza delle diverse discipline è un fatto urbanistico, risolvendosi in prescrizioni di uso del territorio.
È questa risultanza che, ancora una volta, suscita le critiche degli urbanisti, i quali accusano le autorità del parco di agire come autorità urbanistiche, ma surrettizie e arbitrarie, e perciò perturbatrici di assetti urbanistici razionali. La critica è indiscutibilmente fondata, se, come accade quasi sempre, le autorità del parco agiscono in sistemi disaggregati rispetto alle autorità urbanistiche.
In Italia la disciplina dei parchi naturali è una babilonia, perché vi sono cinque parchi nazionali (Abruzzo, Calabria, Circeo, Gran Paradiso, Stelvio), e alcuni parchi regionali (Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Toscana), tutti retti da leggi particolari; i vari disegni di legge, presentati dal 1963 a oggi, per una legge quadro, non sono mai arrivati in porto. Le Regioni reclamano che i parchi naturali siano loro attribuiti, ed essendo i parchi statali esistenti tutti del modello intermedio, ossia fatti urbanistici, è difficile contestare la fondatezza della richiesta, dato che l'urbanistica è materia regionale. Però la già citata legge delegata 1977 n. 616 ha rinviato il problema a future leggi da emanare entro il 31 dicembre 1979, limitandosi a modificare la composizione dei consigli di amministrazione dei parchi statali con l'immissione di rappresentanti delle Regioni.
5. Altri istituti attinenti alle cose
Secondo un'opinione diffusa, sarebbero da annoverare tra gli istituti di protezione dell'ambiente naturale anche altre specie di regimi particolari di beni, come quelli cadenti nei comprensori montani, di bonifica, di vincolo idrogeologico, di vincolo forestale, dei domini collettivi e simili. Nella realtà - almeno da noi e in altri ordinamenti che conoscono siffatti istituti - la protezione dell'ambiente naturale è, nelle normative proprie di tali istituti, quasi sempre un risultato, non una finalità dell'istituto o un effetto giuridico che la normativa medesima produca.
Questi diversi istituti hanno un solo tratto comune, che è l'attribuzione, ai beni ai quali si riferiscono, di un regime giuridico controllato, per cui, se i beni medesimi sono di appartenenza privata, realizzano delle figure di specie di proprietà private funzionalizzate. Per il rimanente invece gli istituti medesimi non sono omogenei. Una funzione di protezione dell'ambiente naturale si realizza infatti solo in uno di essi, che è la disciplina forestale, ma si realizza in un modo del tutto particolare. Stando al nostro ordinamento, le foreste già statali sono passate alle Regioni; vi sono però amplissimi patrimoni boschivi di comuni, nelle zone montane, e se vi sono comunità montane, in più luoghi esse hanno attribuzioni anche in materia forestale; vi sono poi boschi privati assoggettati al vincolo forestale. In ogni caso, ossia quale che ne sia l'appartenenza, l'uso del bene forestale è il medesimo: vi è un obbligo di conservazione e vi è una regolazione pubblica dello sfruttamento, essendo le due funzioni in reciproca integrazione. In quanto sono in tale rapporto, nessuna delle attività relative all'una o all'altra funzione prevale, se non in ragione della situazione di fatto, nel senso che è questa a richiedere che si accentui o l'una o l'altra, in dipendenza delle circostanze locali, temporali, avvenimentali, e così via. Peraltro, in risultanza ultima, coloro che si occupano della protezione dell'ambiente naturale preferiscono scorgere nel vincolo forestale uno strumento precipuamente di protezione; ciò tenuto conto anche di alcuni profili collaterali, come per es. che talune foreste sono dichiarate pure beni ambientali, onde sottostanno a un'ulteriore e specifica tutela con servativa; che la foresta è talora il nucleo di un'area di rimboschimento, e così via.
Anche i comprensori montani, oggi da noi in concreto incorporati nelle comunità montane, sono in parte istituti volti alla conservazione dell'ambiente naturale, e per altro aspetto sono luoghi di intervento infrastrutturale, talora finalizzato alla conservazione medesima, talora alla riabilitazione del suolo (cosiddetta bonifica montana). La riabilitazione, a sua volta, o è rivolta alla ricostituzione di un ambiente naturale degradato, o a scopi di insediamento di attività produttive; in pratica i due scopi difficilmente sono distinguibili, anche perché, almeno giuridicamente, non si differenziano.
Le attività d'intervento sono state, in tutto il mezzo secolo passato, di gran lunga prevalenti su quelle conservative, e ancor oggi lo sono. Ciò è dipeso da ragioni storiche, costituite dalla non economicità degli interventi montani e dall'abbandono della montagna. La prospettiva è dunque che man mano che l'attività di bonifica sia espletata, nei comprensori montani viene ad avere rilievo prevalente l'attività di programmazione a fini di utilizzazione, ossia una attività non molto diversa da quella in atto nelle foreste vincolate. Oggi, del resto, nella legislazione più recente relativa alla montagna, appare la nozione di programmazione di sviluppo, che è più ampia di quella di programmazione di utilizzazione.
La programmazione dell'utilizzazione della risorsa naturale è l'elemento saliente anche nei domini collettivi, propri sia delle comunità montane regoliere che dei demani comunali cosiddetti di uso civico. Com'è noto, queste sono forme molto antiche di proprietà collettiva di boschi, pascoli, ma anche di terreni coltivi, sopravvissute alle eversioni dello scorso secolo. Le comunità regoliere e le amministrazioni comunali o frazionali, che ne hanno la gestione per conto della comunità proprietaria, disciplinano i diversi usi dei suoli da parte dei componenti la comunità (regolieri, originari, ecc.). Talché i domini collettivi sono, in risultanza, strumenti di conservazione dell'ambiente naturale, ma in via puramente storica e di fatto: essendo patrimoni che da secoli sono costituiti da boschi e da pascoli, le autorità del dominio li conservano secondo le loro antiche destinazioni, che non v'è ragione di mutare. Però non è evento impossibile, in astratto, quello per cui essi potrebbero perdere l'attitudine a mantenere l'antica destinazione.
Quindi oggi è solo l'inserimento dei domini nelle comunità montane ordinarie o nei vincoli forestali che può mantenere la conservazione dell'ambiente naturale.
Rimangono i comprensori idrogeologici e di bonifica, che, non si sa perché, ad alcuni ecologi e biologi sono parsi importanti. Invece essi sono istituti di limitata portata e in buona parte superati. Essi si ascrivono fra gli istituti attinenti alle cose ambientali solo perché l'essere il bene immobile fondo rustico in un comprensorio dichiarato idrogeologico o di bonifica produce effetti reali, nella specie di obblighi di fare gravanti su qualsiasi proprietario del bene, nel comprensorio idrogeologico, e di funzionalizzazione della proprietà in quello di bonifica. Nella loro sostanza, ambedue gli istituti sono delle programmazioni di interventi, pubblici e privati, di trasformazione materiale del territorio, e gli obblighi reali gravanti sui proprietari sono ordinati a queste trasformazioni.
I comprensori idrogeologici sono la forma meno recente, e consistono in ciò: che un'autorità dell'amministrazione dell'agricoltura (oggi la Regione) delimita un perimetro territoriale, stabilendo un disegno di trasformazione del suolo, i cui oggetti sono, precipuamente, la sistemazione del corso delle acque, la riforestazione, la ricostituzione di coltri erbose. Parte delle opere di trasformazione sono a carico dei poteri pubblici, parte a carico dei privati, i quali possono ricevere ausili dai poteri pubblici o, viceversa, vedersi realizzate le opere di trasformazione da speciali interventi dei poteri pubblici ma a spese proprie (il che è talora avvenuto per i rimboschimenti). I privati possono riunirsi in consorzi.
L'esperienza ha dimostrato che il comprensorio idrogeologico funzionava solo quando le opere da compiere avessero una dimensione economica e tecnica non elevata, e vi fosse per converso un'elevata convenienza economica per i proprietari, anche, eventualmente, per effetto di incentivazioni. Venne quindi introdotto il comprensorio di bonifica integrale, in cui gli oggetti del disegno di trasformazione sono, sotto l'aspetto tecnico, illimitati (qualsiasi opera per l'abilitazione o la riabilitazione dei suoli, a fini produttivi o insediativi) e i proprietari dei beni sono obbligatoriamente riuniti in enti pubblici associativi, che sono i consorzi di bonifica; l'autorità ha potestà di stabilire quali opere siano da realizzare obbligatoriamente - e se necessario anche coattivamente - da parte dei proprietari, a integrazione di quelle che essa direttamente realizza.
L'una e l'altra specie di comprensori hanno funzionato in quanto hanno potuto fruire di assegnazioni pubbliche per le opere di maggior impegno, che spettava ai poteri pubblici realizzare, le opere sia dei consorzi che dei proprietari singoli essendo, di regola, materialmente e cronisticamente successive a quelle pubbliche. La vicenda è, quindi, del tutto identica a quella che si ha ogni volta che si pone in essere un piano di interventi, pubblici, privati o congiunti. Peraltro l'interesse economico, sia dei consorzi che dei privati, ha avuto sovente un ruolo determinante; per es. nel Sud, con proprietari assenteisti, anche i consorzi di bonifica hanno funzionato poco, almeno sino all'avvento della Cassa per il Mezzogiorno.
Per quanto qui interessa, comunque, comprensori idrogeologici e di bonifica vanno considerati come istituti di trasformazione abilitativa e riabilitativa dei suoli; essi non sono, altrimenti detto, finalizzati alla protezione dell'ambiente naturale; la ricostituzione di ambienti degradati può anche costituire oggetto di parti di piani d'intervento elaborati e adottati dall'autorità pubblica, ma non si conoscono dei piani che siano interamente finalizzati alla ricostituzione di ambienti degradati, in senso proprio, non solo perché non se ne avrebbe la convenienza economica, ma soprattutto perché i piani sono abilitativi o riabilitativi di suoli a fini produttivi o insediativi. Quindi finché la ricostituzione dell'ambiente naturale degradato coincide con l'abilitazione o riabilitazione a tali fini, i piani vengono a conseguire un risultato che interessa anche l'ambiente naturale; altrimenti no. In concreto è vero che il risultato è stato più volte conseguito.
6. La gestione del territorio ordinata alla protezione dell'ambiente naturale
La conclusione che si può trarre dall'esame degli istituti di protezione dell'ambiente naturale mediante disciplina delle cose è che solo alcuni parchi naturali - i parchi di conservazione - possono essere considerati veri e propri istituti di protezione, mentre i beni culturali ambientali hanno più limitato ambito, essendo volti a tutelare - prescindendosi dai beni artificiali - solo quegli ambienti che abbiano particolare valore estetico o tradizionale. In tutti gli altri casi invece la protezione dell'ambiente naturale si presenta o come funzione non esclusiva (foreste, territori montani), o di mero fatto (domini collettivi), o come mera risultanza (comprensori idrogeologici e di bonifica). È però da porre in evidenza che le più recenti tendenze, nell'ordinare e gestire questi diversi beni, sono di accentuare gli aspetti programmatici rispetto a quelli strutturali: la polemica di cui si è dato ragguaglio a proposito dei beni ambientali, in termini diversi in quanto adattati alle varie sorta di pubblici interessi coinvolti, si ripete più o meno per tutte le altre categorie di cose, per alcune delle quali, come si esponeva, il regime speciale del bene è del tutto strumentale rispetto all'attività di programmazione e di attuazione di questa (caso dei comprensori idrogeologici e di bonifica).
La materia nella quale la tendenza ha assunto più spiccata e significativa evidenza è quella del paesaggio (vi sarebbe anche quella dei centri storici, che è però fuori del quadro di cui ci si interessa). Oggi infatti esistono i beni paesistici come beni ambientali naturali, oggetto di dichiarazione formale dell'amministrazione dei beni culturali, cioè, potrebbe dirsi, il paesaggio bene culturale; esiste però anche il paesaggio urbanistico, cioè quelle zone di territorio a cui lo strumento urbanistico generale (per es. un piano regolatore generale di un comune), o speciale (per es. un piano di edilizia economica e popolare, un piano di consorzio per aree di sviluppo industriale, ecc.) ha dato una destinazione puramente conservativa, perché aventi un valore paesaggistico; quindi in queste zone non si può edificare, né si possono porre insediamenti produttivi, oppure si ammettono tali utilizzazioni ma in misura ridottissima e controllata. Occorre, invero, tener presente che non sempre lo strumento urbanistico dice apertamente che la zona è paesistica, perché vi è - nel nostro ordinamento positivo - timore di conflitti con le autorità dei beni culturali; più spesso impiega circonlocuzioni o espressioni improprie, come zona di conservazione naturale, fasce a verde privato, verde pubblico attrezzato, e simili, che possono significare, sostanzialmente, a seconda dello strumento urbanistico, destinazione urbanistica a fini paesistici.
Da tale esempio si può trarre la constatazione che in Italia - ma in altri paesi la cosa non è molto diversa - il sovrapporsi nel tempo di istituti e di normative a essi relative, ha determinato delle situazioni oggettivamente complicate, e spesso sommamente artificiose, per cui qualificazioni giuridiche si ricoprono tra loro e, viceversa, si formano lacune, cioè zone per le quali non è in vigore alcuna disciplina; si ricorda ancora che alcuni parchi naturali e alcune foreste sono, insieme, beni culturali ambientali; che in parchi naturali, in domini collettivi, in comprensori di bonifica, in comprensori idrogeologici vi sono boschi vincolati con provvedimenti separati; che vi sono aree costituenti demanio pubblico contenenti ambienti naturali e bellezze paesistiche di pregio - come ghiacciai, cime alpine, gole - tutelati solo di fatto perché l'autorità che gestisce il demanio non accorda alcunché; mentre per converso riviere e coste marine sono degradate come ambienti naturali solo perché non erano state né vincolate né disciplinate da strumenti urbanistici.
La realtà è quindi la seguente: che mediante gli strumenti urbanistici, in particolare quelli generali, di assetto del territorio, e mediante l'applicazione di essi come gestione del territorio, già oggi possono essere adottate prescrizioni volte alla protezione di ambienti naturali, e possono essere in concreto attuate. Però assetto e gestione del territorio mediante strumenti urbanistici incontrano limiti in istituti che, pur avendo finalità di programmazione territoriale oppure utilizzando quantomeno tecniche programmatorie, o competono ad autorità diverse, ovvero comportano qualificazioni lor proprie e quindi si realizzano attraverso procedimenti lor propri. Ancora una volta l'esempio dei beni culturali ambientali è significativo: il risultato che si ottiene con la dichiarazione di bene culturale si potrebbe ottenere egualmente con lo strumento urbanistico, solo che in questo non si può disporre la vigilanza permanente del bene; se la normazione urbanistica potesse contemplare tale vigilanza, la dichiarazione di bene culturale ambientale diverrebbe uno strumento inutile, e si otterrebbero risultati di maggior efficienza, concentrandosi in un solo potere pubblico ciò che oggi è diviso.
Sono questi i problemi dinanzi ai quali, all'incirca ovunque, si trova la gestione del territorio, in generale; la protezione dell'ambiente naturale non ne è che uno degli aspetti attinenti al contenuto, in quanto assetto e gestione del territorio sono attività rivolte alla sistemazione di qualsiasi attività umana che si esplichi sul territorio e del territorio in quanto sede di attività umane (i due profili sono inscindibili). Quando perciò la Dichiarazione di Stoccolma e le raccomandazioni della CEE segnalano la gestione del territorio come una delle sedi per la protezione dell'ambiente naturale, esprimono nulla più che degli enunciati optativi.
È anzi da segnalare che sulla base di esse si è sviluppata un'idea che può dirsi quantomeno curiosa: che la gestione del territorio sia tutt'uno con la protezione dell'ambiente, naturale o no, una specie di ingegneria generale dell'ambiente globalmente considerato. L'idea deriva semplicemente dal non tener distinte le diverse nozioni di ‛ambiente', di cui si è detto all'inizio (v. sopra, cap. 2). L'ambiente territorio è il luogo in cui si svolgono una quantità di attività, amministrativamente e giuridicamente definite, tra le quali anche quelle attinenti alle cose ambientali e alla qualità della vita; quando poi, in sede urbanistica di approntamento dello strumento, si stabilisce l'assetto del territorio, certamente uno degli obiettivi che occorre aver presente è la protezione dell'ambiente naturale, insieme a quello della tutela della qualità della vita, ma insieme a tanti altri, come per es. l'assecondamento delle vocazioni produttive del territorio, l'ordine degli insediamenti abitativi, la provvista dei servizi pubblici, la semplificazione delle comunicazioni, il coordinamento delle competenze, e così via.
In Italia questi problemi sono dibattuti da circa trent'anni. Vi è una norma della Costituzione, l'art. 92, in cui si costituzionalizza il principio della tutela del paesaggio; su di esso fa leva l'indirizzo di studiosi che nel paesaggio vede un modo di essere dell'ambiente naturale (forse più a torto che a ragione, ma la questione è molto tecnica). La costituzione delle Regioni e il passaggio ad esse di attribuzioni già di altri enti (1972) ha suscitato un movimento di idee, che è stato accolto dal Parlamento nella legge 1975 n. 382, secondo il quale tutte le funzioni pubbliche attinenti all'assetto e alla gestione del territorio dovrebbero essere attribuite alle Regioni, o mediante trasferimento o mediante delega. Il criterio è stato accolto dalla legge delegata già citata, 1977 n. 616, che concentra nelle amministrazioni regionali i poteri attinenti ai beni culturali ambientali, ai parchi naturali, alle foreste, alla montagna, ai domini collettivi, ai comprensori idrogeologici e ai comprensori di bonifica; in tal modo alle amministrazioni regionali compete una pienezza di poteri attinenti all'assetto e alla gestione del territorio, e il primo gruppo di problemi, quello relativo alla pluralità delle competenze, sarebbe stato risolto, se la legge 616 fosse stata fatta in modo chiaro e coerente. Il che purtroppo non è.
Non è risolto invece il secondo, quello della pluralità delle qualificazioni e dei procedimenti, perché per questo settore spetta sempre allo Stato stabilire i principi. Un nuovo impulso è venuto dalla legislazione regionale, che è oggi, in Italia, certamente all'avanguardia perché anche quando sta nel binario della normativa statale, la perfeziona sotto più aspetti.
Cominciando dalle normative più semplici, vi sono leggi di tutela della flora, anche fuori dei parchi: Marche (legge 1973 n. 6 e 1975 n. 39), Veneto (legge 1974 n. 53), Piemonte (legge 1974 n. 24), Lombardia (legge 1977 n. 9), Umbria (legge 1978 n. 40). In materia di caccia, si possono segnalare le tre leggi del 1978 - successive cioè al completamento delle competenze regionali in materia - della Sardegna (n. 32), Lombardia (n. 47) e Veneto (n. 30), le quali istituiscono, fra l'altro, le zone di divieto assoluto di caccia. Vi sono leggi sulla tutela del patrimonio speleologico (Umbria, Abruzzi), dei minerali e dei fossili (Trentino-Alto Adige), di disciplina delle cave, che sotto l'aspetto della tutela ambientale introducono delle interessanti innovazioni (le ultime: Liguria, legge 1977 n. 33 ed Emilia-Romagna legge 1978 n. 13).
Più timida la legislazione attinente alle foreste, in cui si trovano atti normativi relativi a materie circoscritte: la prevenzione degli incendi e gli interventi (Lombardia, legge 1972 n. 33, Toscana, legge 1973 n. 52, Piemonte, legge 1974 n. 19, Puglia, legge 1974 n. 25, Campania, legge 1975 n. 57, Veneto, legge 1975 n. 27), i rimboschimenti (per lo più sotto l'aspetto organizzativo: Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Veneto), le opere idrauliche (Toscana), i vincoli (Lazio); l'Emilia-Romagna ha istituito un'azienda regionale (legge 1974 n. 18).
In materia di parchi naturali e di riserve, oltre ai parchi regionali dei quali si è detto (Lombardia, Toscana), vanno menzionate alcune notevoli leggi generali che pongono principi, regolano procedimenti istitutivi, dispongono regimi di tutela: così in Piemonte, Liguria, Puglia, Sicilia, e altre. La Regione Sicilia ha disciplinato con la legge 1977 n. 80 i beni culturali e ambientali, sui quali ha competenza propria come regione autonoma, regolando quindi anche i beni paesaggistici.
La parte più interessante della normativa regionale è quella di contenuto urbanistico: vi sono delle leggi che possono dirsi di settore (per es. tutela delle coste: Calabria, Campania, Lazio, Puglia; regole di comportamento nelle zone comunque soggette a tutela: Marche, Lombardia, Bolzano, Trento, ecc.) che già costituiscono delle innovazioni rispetto alla normativa statale. Ma di maggior rilievo è il fatto che nelle più recenti leggi organiche in materia urbanistica (Lombardia, legge 1975 n. 51; Umbria, legge 1975 n. 40; Lazio, legge 1975 n. 71; Piemonte, legge 1977 n. 56) è sempre specificamente stabilito che nei piani territoriali regionali e comprensoriali, e correlativamente in quelli comunali, si provveda alla protezione dell'ambiente naturale: la normativa è troppo recente per poterne valutare le applicazioni.
In altre regioni si è preferito adottare leggi speciali sulla tutela degli ambienti naturali (per es. Marche) e la protezione dei beni ambientali (per es. Liguria). La punta di diamante è però, a tutt'oggi, la legge della Regione Lombardia (1977 n. 33) sulla tutela ambientale ed ecologica, che regola la pianificazione della tutela, stabilendo che nei piani territoriali si individuino biotopi e geotopi da tutelare, dettando norme di salvaguardia, e regolando insieme gli ambienti lacustri e fluviali, la tutela della fauna minore e quella della flora.
La materia degli assetti istituzionali è l'aspetto giuridico-politico di concezioni che non sono di provenienza giuridico-politica, ma di scienziati. Dietro gli istituti dei quali si è detto, vi è tutto un dibattito di uomini di scienza, che spesso portano avanti con impegno idee proprie o delle proprie scuole, tra le quali non sempre riesce facile orientarsi. Per questo sovente essi, leggendo gli assetti istituzionali, li criticano, senza riflettere che essi sono tali da poter ricevere più indirizzi di attività amministrativa: ne è riprova il fatto che le segnalate carenze già oggi si riescono talora a superare, per buona volontà di uomini preposti ai relativi uffici. Questo movimento di pensiero scientifico ha già portato, peraltro, alla formazione di discipline tecnico-applicative, per es. in materia di parchi naturali, di foreste, di gestione del territorio; e ha altresì suscitato studi di economisti, di interesse non comune.
Resta da dire dei piani di intervento. In termini generali essi sono delle programmazioni settoriali, quindi individuazione di obiettivi attinenti a una materia circoscritta e determinazione delle attività da svolgere in ordine agli obiettivi medesimi. Sempre in linea generale, essi dovrebbero tutti confluire nel programma economico generale (dello Stato o della Regione), in cui dovrebbero operarsi le scelte di priorità, disporsi i finanziamenti e approntarsi gli strumenti amministrativi di servizio, per poi eventualmente giungere, adottata la programmazione generale, ai piani di intervento intersettoriali di attuazione.
In concreto sono assai pochi i paesi nei quali il disegno generale ora esposto si realizza in termini concreti, o per inesistenza o per inattuazione delle programmazioni economiche generali. Le programmazioni settoriali restano allora indipendenti, come programmazioni dissociate, che talora hanno funzioni conoscitive. La vicenda in sé parrebbe lontana dalla protezione dell'ambiente naturale, ma se ne dà notizia perché nella prassi amministrativa delle nostre regioni le programmazioni settoriali, con denominazioni varie (piani o programmi di settori, piani d'intervento ecc.), stanno entrando sempre più in uso come strumento normale di azione amministrativa, per cui i piani d'intervento per la protezione dell'ambiente naturale potrebbero presto affiancarsi ad altri piani già esistenti.
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