RAGIONE
. Il termine filosofico di "ragione" ha una storia assai complessa, tanto dal punto di vista linguistico quanto da quello concettuale. Etimologicamente, esso proviene dal latino ratio, il quale corrisponde a sua volta al greco λόγος, partecipando di varî dei suoi molteplici significati. Così entrambi significano, p. es., la disposizione intrinseca e ideale di una cosa, o la sua costituzione matematica (i numeri ἄλογοι sono, in tal modo, gli irrationales, "irrazionali", nel senso di numeri non esprimibili esattamente). Ma il significato più largamente filosofico che nell'antichità classica hanno i termini di λόγος e di ratio è quello della generale attività ragionatrice-discorsiva dell'uomo, onde esso si distingue tipicamente da tutti gli altri animali. Λόγος e ratio non designano cioè alcuna particolare funzione gnoseologica, ma l'universale opera del pensare e ragionare: così anche Platone, che concepisce il λογιστικόν, il "razionale", come una fra le tre parti dell'anima, concentra in essa ogni superiore attività pensante. E tale è il valore che, nell'uso più comune, è stato conservato dalle lingue moderne ai termini (fr. raison; ted. Vernunft; ingl. reason) in cui si è continuata la tradizione semantica degli antichi λόγος e ratio.
Una delimitazione più specifica dell'ambito del termine ratio si delinea invece nel linguaggio filosofico del Medioevo. San Tommaso distingue la ratio dall'intellectus come diversi atti di una medesima potenza: intellectus enim nomen sumitur ab intima penetratione veritatis, nomen autem rationis ab inquisitione et discurso. Il rapporto d'intelletto e ragione viene cioè a corrispondere, in questa terminologia, a quello che nella gnoseologia aristotelica legava il pensiero noetico al pensiero dianoetico: e l'intellectus corrisponde di fatto al greco νοῦς, autore della suprema conoscenza intuitiva della verità, mentre s'intende come nella ratio, per il suo carattere di attività argomentante, possa sopravvivere l'antica διάνοια, sede del pensiero discorsivo, giudicante e sillogizzante. La ragione è quindi svalutata rispetto all'intelletto così come la conoscenza mediata rispetto all'immediato suo fondamento.
Ma tale valutazione s'inverte fin dai primordî dell'età moderna. Già Nicolò da Cusa, anticipando le concezioni dell'idealismo dialettico, vede nella ragione (ratio, Vernunft) la superiore attività conoscitiva che giunge a conciliare le opposizioni poste e non vinte dall'intelletto (intellectus, Verstand); e più tardi Cristiano Wolff, sistemando il pensiero del Leibniz, vede nella ratio la facultas nexum veritatum universalium perspiciendi e nell'intellectus solo la facultas res distincte repraesentandi. Così, mentre nell'illuminismo francese il termine di raison tende piuttosto a perpetuare il significato discorsivo-raziocinante della ratio medievale, nella grande filosofia tedesca del Sette e dell'Ottocento si afferma sempre più il predominio antimedievale della ragione sull'intelletto. Per Kant, Vernunft è anzitutto, in generale, l'intero campo dell'attività conoscitiva in quanto basata su principî trascendentali o puri, e quindi suscettibili di determinazione critica: donde lo stesso titolo della Critica della ragion pura, che pur concerne non soltanto la ragione nel senso specifico del termine, ma anche l'intelletto e l'intuizione, nelle loro forme a priori. D'altra parte, in quel senso specifico onde essa si distingue dall'intelletto e dall'intuizione, la ragione si presenta come facoltà suprema dello spirito: ché, se nel campo strettamente teoretico essa permane trascendente, non piegandosi alle condizioni dell'esperienza possibile e quindi precipitando nelle illusioni e nelle antinomie della dialettica, nel campo pratico essa manifesta la natura di suprema e noumenica fonte della libertà e della moralità. L'idealismo dialettico dei postkantiani, non subordinando più la conoscenza all'appercezione di un reale esterno, e quindi eliminando il motivo della limitazione teoretica della ragione da parte dell'intelletto, rende assoluta la superiorità di quella, l'intelletto decadendo a mero principio negativo di quell'antiteticità che è sempre superata dalla dialettica della ragione.
Nella filosofia contemporanea, l'interesse di una definizione specifica del concetto di ragione è venuto diminuendo. Da un lato, l'empirismo e il positivismo hanno compreso anch'esso, al pari degli altri concetti delle superiori funzioni gnoseologiche, nei loro processi di risoluzione associazionistica all'esperienza sensibile. Dall'altro, lo stesso idealismo, tendendo ad approfondire i concetti dell'unità e dell'attualità dello spirito, ha sempre meno mirato alla definizione specifica delle sue facolta o attività, ed è quindi venuto perdendo interesse anche per il particolare concetto di ragione. Solo in qualche caso si è conservata, nonostante le mutazioni d'ambiente e di contenuto, l'ormai classica sopravalutazione della ragione all'intelletto: come p. es. in quello del Boutroux, che nella raison vede la conoscenza piena e concreta della realtà nella sua vita storica, e la oppone perciò all'abito di schematizzazione astratta propria dell'intelletto scientifico.