Ravenna
Topografia e storia. - R. si formò - forse fin dai tempi etruschi - ai margini di un'estesa laguna, " che un fascio di cordoni litorali... delimitava dal mare ", là dove l'estremo ramo meridionale del Po, la Padusa, " ramificandosi e ritagliando minuscole isole moriva nell'Adriatico " (L. Gambi). Perché prossima al mare, difesa da una vasta laguna e ubicata alla foce del maggior fiume d'Italia, la città acquistò un prestigio di prim'ordine, non meno mercantile che militare, dopo la definitiva occupazione romana della pianura del Po nel secondo secolo a. Cristo.
L'amministrazione augustea vi stabilì, col porto di Classe, la base di una delle due grandi flotte romane: quella destinata al Mediterraneo orientale (onde lo svilupparsi di stretti rapporti tra R. e l'Oriente, assai prima della dominazione bizantina). Fu sistemato anche il corso della Padusa, che ebbe il nome di Fossa Augusta, per assicurare l'efficienza dell'apertura lagunare col flusso di una discreta quantità di acque prelevate dal Po e per render più agevoli i traffici con gli scali mediopadani. Scrive Sidonio Apollinare (sec. V): " Insuper oppidum duplex pars interluit Padi, certa pars alluit: qui... sic dividua fluenta partitur, ut praebeant moenibus circumfusa praesidium, infusa commercium ". Fino al basso Medioevo si cita il ramo scorrente da nord in mezzo all'abitato col nome di Flumen Padennae, ramificantesi a sua volta nel Flumisellum Padennae e nella Fossa Làmises o Fossa Amnis. E ancora nel Tolosano (sec. XIII) si legge: " Sedet... civitas... in litore maris Adriacio sita, quam prae ceteros amnes Heridani fluenta nobilitant ". - L'etimo ‛ padano ' di quasi tutti questi corsi d'acqua parve autorizzare l'interpretazione data dal Ricci e dal Pascoli del sintagma " Eridani... mediamne ", al v. 47 del carme-epistola di Giovanni del Virgilio (Eg I): " tu che siedi in mezzo alle correnti del Po " (mediamne vocativo di un congetturale, ma non impossibile, mediamnus); oggi, il recupero di mediamnis come " insula fluvialis ", secondo la definizione di Ebetardo di Béthune (cfr. A. Rossi, in " Studi d. " XL [1963] 266, ed E. Cecchini, in " Italia Medioev. e Umanistica " XIV [1971] 34-36), rende legittima l'identificazione di R. stessa col luogo d'incontro (mediamne, ablativo di stato - se non di moto da luogo) che accese nel Del Virgilio la speranza enunciata nei vv. 47-48.
La Fossa Augusta proseguiva lungo la strada Cesarea, a mezzogiorno della città, fino al porto e al cospicuo insediamento di Classe.
Ma a poco a poco le alluvioni del Ronco, il maggiore dei fiumi appenninici sfocianti nella laguna, " neutralizzarono l'azione benefica della Fossa " ed ebbe inizio quella trasformazione del ‛ sito ' di R. per cui " la zona intorno… da laguna viva che era dianzi, diventò area lagunare morta, di ristagni e di paludi, con una rete fluviale incerta. e un litorale smerlato di bassifondi " (Gambi). Il graduale colmarsi del porto di Classe e il lento allontanarsi del mare, in concomitanza con la crisi dell'Impero di cui R. formava il caposaldo in Occidente, segnarono tra sesto e nono secolo il destino della funzione mercantile e militare della città.
Sulla topografia ‛ esterna ', basti aggiungere che nei secoli che seguirono prese avvio a ovest della città un lento processo di bonifica e di ‛ ruralizzazione ', mentre intorno all'abitato si stringeva sempre più il pericoloso abbraccio del Ronco, a sud, e del Montone, a nord (abbraccio che fu rimosso appena nel Settecento). Al di là di essi, un'area malsana di sbarramento creata dalle paludi. A levante, la folta fascia dei pineti rivestiva il litorale per circa venti chilometri. Il mare distava, ormai, dalle due alle tre miglia (così, rispettivamente, il Boccaccio e Benvenuto): la definizione di Francesca (If V 97-99 Siede la terra dove nata fui / su la marina), in tutto rispondente alla già citata del Tolosano, è certo da intendere in senso approssimativo, quanto suggestivo, al modo stesso dei vv. 10-12 dell'egloga delvirgiliana al Mussato, in cui si dice del poeta defunto: " Lydius, Adriaco, qui nunc in litore dormit, / qua pineta sacras praetexunt saltibus umbras / quave Aries [il Montone] dulces exundat in aequore lymphas ".
Non meno singolare fu il costituirsi dell'assetto topografico ‛ interno ' della città, specchio di un susseguirsi memorabile di genti e di eventi.
Entrata, si può dire, trionfalmente nella storia con Giulio Cesare che da essa, ai primi di gennaio del 49 a.C., spiccò il gran volo (cfr. Pd VI 61-63) e subito poi con Ottaviano Augusto, R. salì al rango di capitale (felix la intitolano medaglie e monete) sotto gli ultimi Cesari e i primi barbari che vi cercaron sicurezza: dagl'inizi del V secolo al 476, con Galla Placidia, Onorio, Valentiniano III; dal 476, con Odoacre, Teodorico e gli ultimi re Goti, alla riconquista imperiale bizantina (540) che ne fece il centro politico della penisola sino alla fine del periodo esarcale (751).
(Una pianta esauriente per seguire il successivo aggregarsi dei settori urbani di R. si trova inserita a cura del Testi Rasponi nel Liber Pontificalis di Agnello, ediz. 1924: si ponga mente che i punti cardinali risultano girati a sinistra di 90°).
L'oppidum municipale romano (prima metà del primo secolo) dal caratteristico perimetro quadrangolare, cinto da mura (erette da Claudio) in cui si apriva la grandiosa Porta Aurea, s'incuneava da sud tra il corso del Padenna e il Flumisellum suo affluente. Entro di esso splendeva ancora, al tempo del poeta, nel decoro abbagliante dei mosaici, la Basilica Ursiana a cinque navate, dei primi del secolo V, dedicata, si noti, alla Sancta Anastasis (la resurrezione di Cristo); e il contiguo Battistero Neoniano offriva un'altra insigne testimonianza di quel fervido cristianesimo che, introdotto da Apollinare nella culla di Classe, s'era trapiantato in R. con gli stessi accenti di sublimità gloriosa.
Il quartiere imperiale era sorto a nord del Flumisellum e del ponte di Augusto che lo scavalcava: con la Domus Augusta (perduta), comprendeva la chiesa palatina di Santa Croce, una pleiade di edifici sacri minori e il cosiddetto Mausoleo di Galla Placidia: miracolo di arte paleocristiana tipicamente ravennate, di semplice cotto all'esterno e immerso, all'interno, in una luce favolosa, dominata dalla croce d'oro che splende nella piccola cupola, su fondo azzurro quasi notturno, in un vivido vortice di stelle.
Tra l'insediamento romano - cui si contrapponeva - e il mare, si sviluppò, nella parentesi del regno goto, la città barbarica: la regione detta Cesarea (con l'omonima grande arteria, che proseguiva a sud fino a Classe), dove già Galla Placidia aveva eretto, isolato, il tempio del suo voto, San Giovanni Evangelista. Qui Teodorico, bramoso d'imitare i Cesari, edificò non solo, in vista dell'Adriatico, il magnifico Palazzo (totalmente scomparso), ma la chiesa aulica che intitolò a Gesù Cristo, detta poi di San Martino in Ciel d'oro e infine di Sant'Apollinare Nuovo (v. più oltre); la cattedrale ariana di San Teodoro, poi dello Spirito Santo; l'annesso Battistero, già completamente rivestito di mosaici, in cui spicca il gran trono crucigero dell'etimasia, che richiama i troni (e seggi) del Battistero Neoniano; e il caratteristico Mausoleo, di robusta impronta romana, intorno al quale si estendeva il sepolcreto ostrogoto. (Qui, ancora visibile al centro dell'intradosso della cupola, una singolare croce ‛ pittorica ' gemmata, a bracci eguali, inscritta in un cerchio). È noto che il re goto morì in esecrazione del cattolicesimo per le persecuzioni di cui si macchiò negli ultimi anni: per il martirio, in ispecie, di Boezio, di Simmaco e di Giovanni I.
La successiva età giustinianea ridiede lustro al quartiere imperiale col compimento di San Vitale, un unicum impareggiabile in Occidente (v. più oltre); promosse la fondazione di Santa Maria Maggiore, la più grande " tra le chiese dedicate in que' tempi in Ravenna alla Madre del Figlio di Dio, a cui gli Ariani empiamente niegavano la Divinità " (G. Fabri): sotto l'immagine, si leggeva ancora ai tempi di D. il distico: " Mysterium. Verbi Genitrix et Virgo perennis, / Auctorisque sui facta Parens Domini "; scandì in Sant'Apollinare Nuovo, al posto di precedenti figurazioni teodoriciane, le processioni dei martiri (primo s. Martino, " maglio degli eretici ") e delle vergini (la parete interna della facciata, da cui oggi non emerge che l'effigie di Giustiniano, descriveva l'episodio in cui l'imperatore donava al presule Agnello " omnes Gothorum substancias... non solum in urbibus sed in suburbanis villis et viculis "); e creò, a Classe, la maestà spaziale della famosa basilica, e quel concerto dei mosaici absidali intorno al tema della trasfigurazione gloriosa, su cui, tra poco, ritorneremo.
Finita nel 751 la dominazione bizantina, avvicendatisi ai Longobardi eversori, tra il 753 e il 755, i Franchi che cedettero al papa ogni diritto di conquista, il governo della città passò al senato e, in effetti, agli arcivescovi; i quali in veste di eredi assunsero il titolo di esarchi e condussero, in antagonismo con Milano e con Roma, un'abile difesa di loro diritti e privilegi fino a costituirsi uno dei più vasti feudi d'Italia: in ciò favoriti dagli Ottoni - che riconsacrarono R. alla sua funzione di capitale - e dagl'imperatori della casa di Franconia. Nei secoli X-XII la città si segnala come fervido centro di vita e di riforma cristiana: se fu suo presule quel Guiberto da Parma che fu opposto come antipapa a Gregorio VII, sono ravennati Romualdo degli Onesti, fondatore dell'ordine camaldolese (Pd XXII 49); Pietro Damiano, ‛ contemplante atleta ', magnifico assertore di una riforma del costume ecclesiastico (XXI 121-123), morto a Faenza (1072) reduce da una missione conciliatrice tra R. e Roma; e quel Pietro Peccatore (m. 1119) della Canonica portuense - centro importante dell'ordine dei canonici regolari -, che una discussa lettura (fu per fu') del v. 122 del predetto canto vorrebbe distinto dal Damiano (era, in ogni caso, di umile origine; non certo, come pur si ripete, degli Onesti). I documenti ricordano più di cento chiese attive, nel corso del sec. XII, in città e nell'area suburbana.
Si ebbe altresì una fioritura di edifici civili (notevole il palatium commune); e si delineò un trapasso graduale di diritti e poteri dall'arcivescovo all'aristocrazia fondiaria a lui più vicina, che formò il nucleo essenziale del nuovo comune. Presto insidiato da lotte intestine tra le varie famiglie; fino al prevalere, nella prima metà del '200, della casa Traversara (Pg XIV 107) con Pietro (v. 98) e il figlio Paolo, e dei Polentani nella seconda, a R. come a Cervia (If XXVII 40-42). L'influenza sempre più massiccia di questi ultimi a partire dal 1275 si affiancò all'opera dell'arcivescovo Bonifacio Fieschi (Pg XXIV 29-30), nel periodo che mise capo alla restituzione definitiva dell'Esarcato alla Chiesa sancita nel 1278 da Rodolfo d'Asburgo e Niccolò III (If XIX 53-54).
Cadute a Forlimpopoli e a Forlì (1283), con Guido da Montefeltro (If XXVII 67), le resistenze del ghibellinismo romagnolo e cedendo ovunque in Romagna le posizioni guelfe a tendenze particolaristiche, in effettivo antagonismo col governo militare e fiscale dei rettori pontifici, fa spicco a R., nel 1290, un episodio di netta insurbordinazione al conte rettore Stefano Colonna, che, assalito da Ostasio da Polenta (podestà), fu tenuto a lungo prigioniero con tutti i suoi familiari.
Per mettere ordine nell'irrequieta provincia papa Clemente V (il Guasco di Pd XVII 82) nell'agosto 1310 ne affidò la rettoria in temporalibus, per otto anni, al re angioino Roberto di Napoli (il re... da sermone di Pd VIII 147). È stato opportunamente rilevato dal Vasina che nella lettera di nomina Bologna e il suo comitato figurano costituiti in unità politico-amministrativa autonoma, alle dirette dipendenze della Chiesa; che, peraltro, al tempo di D. non si era ancora pervenuti a una definizione univoca di ciò che dovesse intendersi per Romagna: la regione stava perdendo i tradizionali contorni geografico-politici per assumerne dei nuovi, più ristretti, che avrebbe conservato fino ai giorni nostri. Da ciò l'oscillazione tra la Romagna pontificia di If XXVII 36 ss. e l'altra, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, inclusiva di Bologna, nostalgicamente rievocata da Guido del Duca in Pg XIV 92.
Gli otto anni della rettoria gallicizzante di re Roberto risultarono, in complesso, un'esperienza infelice per il malgoverno dei suoi funzionari, quasi tutti incapaci e corrotti, e per l'accentuarsi dei particolarismi di cui s'è detto. I Polentani si mostrarono per lo più collaboratori assidui dei vicari regi, non senza sintomi tuttavia di opposizione, s'è visto, sia a R. sia nelle cose di Cesena e di Cervia. Lo stesso Guido Novello, che nel 1316 successe allo zio Lamberto, podestà a Cesena nel 1314, aveva respinto valorosamente un attacco di Gilberto de Santillis vicario del re: e in seguito si mostrò così poco ligio alla politica papale, che nel 1322 gli fu tolto da un cugino (Ostasio di Bernardino) il potere " con l'assenso del vicario del papa, sicché fu costretto ad andare in esilio " (Chimenz).
" Comis et urbanus " (Giovanni del Virgilio Eg III 81), " amico sincero e leale - scrive G. Biscaro - che il culto delle lettere aveva ingentilito nello spirito e nei costumi: rara avis, fra i signori della sua epoca, cresciuti quasi tutti alla scuola della frode e del tradimento ", l'ospite di D. si tenne lontano quanto poté, nel breve periodo della sua podesteria, dalle lotte politiche. Era stato capitano del popolo nel 1307, e di nuovo nel primo semestre del 1314, a Reggio Emilia; podestà a Cesena, s'è detto, nel secondo semestre dello stesso anno: pensa il Sapegno che nell'una o nell'altra sede il poeta avesse avuto modo di conoscerlo e " apprezzarlo come fine intenditore e garbato dilettante di poesia ". In una delle ballate che si è inclini ad attribuirgli, Era l'aire sereno, si legge un verso: " sì che già mai da te non fui deviso " che sembra istituire da solo uno specialissimo rapporto tra il signore e il poeta di Francesca; e non si stenta a dar credito alle espressioni usate da lacopo di D. nei confronti di Guido inviandogli nel 1322 un suo capitolo sulla Commedia: " a voi, ch'avete sua factezze [scil. della Commedia] / per natural prudenza habituate, / prima la mando [questa " divisione "] che la corregiate / ... ch'altri non è che di cotai bellezze / habia sì come voi vere chiarezze ". È dunque plausibile che si stabilisse, tra l'ospite discreto, liberale, amante degli studi e della pace e il poeta esule e famoso, quel singolare rapporto che emerge, oltre che dalla narrazione boccacciana, da un'inedita scrittura di Giovanni di Conversino da R. (toccando di Bernardino da Polenta, protettore del Boccaccio, il Conversino soggiunge: " Cuius ante avus Guido sic Dantis praesentia gloriabatur, ut non modo ad nutum cuncta suppeditaret, verum etiam tamquam privatus eius conversatione familiariter uteretur "); e, con più calda evidenza, dall'epitafio di Giovanni del Virgilio: " quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli / gaudet honorati continuisse ducis ".
Buone le relazioni di Guido con l'ambiente ecclesiastico: priore di Santa Maria in Porto era il cugino Guglielmo; e, si noti, il fratello arcidiacono, Rinaldo, come uomo di fiducia dell'arcivescovo (dimorante, per lo più, negli ultimi anni ad Argenta), aveva l'effettivo governo dell'archidiocesi (il che può aver agevolato il conferimento del beneficio ecclesiastico a Pietro di Dante). Ragguardevoli le opere da lui intraprese di riassetto edilizio e di frescatura (in San Francesco e in San Giovanni Evangelista). Certo favorito il raccogliersi intorno al poeta di una cerchia di piccoli dotti (i notai Dino Perini, Pietro Giardini, Menghino Mezzani; i medici Fiduccio de' Milotti da Certaldo e forse Guido Vacchetta), tra i quali merita specialissimo rilievo il Milotti, " personaggio di condizione famigliare, sociale e culturale elevata ", suocero di un fratello dello stesso Guido, Giovanni da Polenta, probabile tramite tra il poeta e il bolognese Del Virgilio e, in veste di Alfesibeo, così caldo interprete, nella seconda egloga dantesca, della pietas ospitale di Ravenna.
Ma scoppia aperto, nell'agosto 1321, un conflitto di vecchia data con Venezia, prendendo pretesto da un oscuro incidente, e sostanza dalla tradizionale politica veneziana, intesa con assoluta spregiudicatezza al dominio, nonché del mare, delle vie fluviali e commerciali dell'intero retroterra. Venezia mobilita Forlì e tutta la Romagna " ad omne dampnum et destructionem, desolationem et consumationem " dei Ravennati (così in un documento di Cecco Ordelaffi). Il poeta andò, in qualità di oratore, con un'ambasceria - si presume - di fine agosto o dei primi di settembre, a perorare la causa di Guido. Ma un accordo fu stretto solo più tardi (4 maggio 1322), quand'egli già da molti mesi era morto (in R., la notte dal 13 al 14 settembre 1321) di febbri malariche contratte nel viaggio, e il suo signore s'era trasferito a Bologna, che nel 1322 lo aveva eletto capitano del popolo per il semestre aprile-settembre.
Il tempo ultimo di Guido assume caratteri di asprezza tragica. Partendo da R., egli ne aveva affidato il governo al fratello Rinaldo, eletto arcivescovo subito dopo la morte del Concorezzo, ma ancora in attesa della conferma pontificia. Era ormai prossima la scadenza della carica bolognese e imminente il suo ritorno, quando il cugino Ostasio, il 20 settembre 1322, proditionaliter entrato di primo mattino nella camera di Rinaldo, lo scannò nel suo letto, e poté impadronirsi della signoria della città, " forse col favore di Aimerico rettore che guardava avido al seggio arcivescovile " (Biscaro). Certo è che non una parola di riprovazione partì da Avignone contro di lui; e che la sua libido dominandi poté sinistramente esercitarsi anche in seguito (1325) contro lo zio Bannino, signore di Cervia, e il figlio di lui, Guido (" ex instigatione diabolica fecit ipsum filium domini Bannini ante portam Ravennae crudeliter interfici, et ipsum dominum Banninum fugientem persequi usque ad tumbam de Thantis, ibique interfici fecit eumdem ", Annales Caesenates, in Rer. Ital. Scrip. XIV 1141, 1143). Né Guido Novello poté più rimetter piede in Ravenna.
Diamo qualche ulteriore ragguaglio sull'aspetto della città quale dové offrirsi al poeta in quel primo ventennio del Trecento.
Lambita dalle acque che, scorrendo davanti alle vecchie mura romane, la dividevano dal suburbio; percorsa da fiumi e canali ormai stenti e limacciosi, sormontati da una diecina di ponti e serviti da traghetti (notissimo quello di Zanzanigola sul Padenna, omonimo della via ove sorgeva la chiesa di Santa Maria in Zanzanigola di cui godette il beneficio Pietro di D.): le case, povere e basse, molte pedeplane (col solo pianterreno), fatte di malta e col tetto coperto di paglia o di canna palustre, vi s'affiancavano alle chiese (circa 200, per una popolazione di appena 10.000 abitanti) adorne di atrio o quadriportico e svettanti di campanili romanici o intramezzavano i rari palazzi, irti di bertesche merlature torri gentilizie. Verso San Vitale e presso San Giacomo di ponte Marino si vedevano ancora le vecchie case dei Traversari. Le due grandi che i Polentani fabbricarono nelle vicinanze di porta Sisi, dopo la demolizione del loro palazzo turrito imposta dal rettore nel 1295, si alzavano contigue, ornate di portico, lungo il tracciato dell'odierna via Mazzini; risalendo il quale verso nord s'incontravano le due importanti ‛ guaite ', o regioni, di Sant'Agata Maggiore e di San Francesco. In quest'ultima sorgeva la basilica dei frati minori, ‛ tempio ' dei Polentani (ne accoglieva le tombe), poi celebre per le vicende dell'attiguo sepolcro di Dante.
È stato osservato che il remoto formarsi della città " per successivi agglomerati che seguivano la dislocazione autoritaria di dati gruppi di monumenti, destinati, più che alla collettività, ad una elettissima classe dominante " (Calvesi), seguitò a pesare sul suo assetto unitario, che pur tendeva, da secoli, a configurare il suo centro nel punto di convergenza dei tre settori antichi (oppidum, Domus Augusta, regio Caesarum); e che solo più tardi (sec. XV) con " il prosciugamento dei corsi d'acqua che la attraversavano, e che... si trasformarono in arterie-chiave per la vita della città ", una nuova ‛ coscienza urbanistica ' poté tradursi nella sistemazione veneziana della piazza e della zona adiacente, serbatasi poi, fin verso la metà del nostro secolo, come nota preponderante del volto ‛ esterno ' di Ravenna.
Ma il segno vero, il segno inconfondibile della fisonomia di R., dové essere, per il poeta, quell'universo di simboli e di trionfi che si occultava dietro il modesto laterizio dei monumenti anche più insigni a testimoniare, come non altrove in Occidente, l'aurorale trapasso dalla civiltà antica alla civiltà cristiana, in forme d'inconcussa maestà, sospese in un'aspettazione senza tempo.
Chiese innumeri (s'è detto), dentro e fuori le mura: orientate quasi tutte " ob eam fortasse causam … ut simus Paradisi memores " (G. Rossi), meta di frequenti pellegrinaggi " de diversis partibus mundi " (Salimbene), folte di venerati sarcofagi (" Ella - scrive il Boccaccio [Vita di Dante, ediz. Solerti, § 7, p. 35] - è quasi uno generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per riverendissime ceneri non si vada "); e nel fulgore inusitato di decori musivi tre volte più estesi di quelli superstiti, riproposta la duplice gloria, dell'Impero e dell'Empireo.
L'andata di D. a Ravenna. - Il Boccaccio la pone subito dopo la " troppo avacciata morte " di Enrico VII: " per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, santa andare di suo ritorno [scil. in Firenze] più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se n'andò in Romagna " (op. cit., § 5). Dove Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, " avendo... lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore... con proferte gli si fece davanti " richiedendolo " di spezial grazia... che seco li piacesse di dover essere ". E " piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e d'altra parte il bisogno strignendolo, sanza aspettare più inviti che 'l primo, se n'andò a Ravenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto... copiosamente le cose opportune donandogli, in quella seco per più anni il tenne, anzi insino all'ultimo della vita di lui " (§ 5).
Ma questo della dimora ravennate di D. è un tema discusso e oggetto ancor oggi di valutazioni contrastanti.
Il Pascoli accolse la data, proposta dal Boccaccio, facendo di R. la matrice dell'intero poema, che in essa sarebbe nato e cresciuto ‛ dopo ' il 1313. Corrado Ricci s'indusse a spostare - ragionevolmente - quella data agl'inizi della podesteria di Guido, sullo scorcio del 1316, se non al 1317: e rilevò indizi della presenza adriatica del poeta nei canti ultimi del Purgatorio, nonché nel Paradiso, salutato da molti come la cantica per eccellenza ravennate.
Ma l'argomento barberiniano dell'Egidi segnerebbe un non lieve anticipo rispetto al 1316-1317 del Ricci, per la stesura e la diffusione sia dell'Inferno sia del Purgatorio. D'altra parte, a giudizio di studiosi quali G. Biscaro, N. Zingarelli, G. Billanovich, la stessa data del 1317, relativamente al passaggio di D. a R., risulterebbe arbitraria e andrebbe per più motivi posticipata al primo semestre del 1320: " resistendo [scrive il Billanovich] alle lusinghe degli sfondi imperiali e bizantini e anche della pineta di Classe e invece appoggiandoci sulle palafitte dei documenti ".
L'estensore di questa ‛ voce ' è poi intervenuto (Riflessioni su un vecchio problema: D. e Ravenna, in " Atti del Convegno internaz. di Studi danteschi ", Ravenna 10-12 settembre 1971), in primo luogo, per ridar credito a una trascurata valutazione dei vv. 29 e 47 del carme delvirgiliano, secondo la quale il carme fu composto non, come si ripete dal Dionisi in qua, ‛ dopo ' il 5 febbraio 1319, ma ovviamente prima: dal che si desume che il poeta era già da qualche tempo ravennate; in secondo luogo, per suggerire, con un riesame proprio della famosa comparazione tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in su 'l lito di Chiassi... (Pg XXVIII 19-21), una diversa angolatura di tutto il problema.
Circa il primo punto, A. Scolari precisò già nel 1922, con scarsa udienza, che il verso " dic Ligurum montes et classes Parthenopeas " non poteva alludere, dopo i tre precedenti, di chiara ispirazione filoghibellina, alla " schiacciante vittoria " (Caggese) che gli assediati di Genova e il loro ambiziosissimo soccorritore e signore, re Roberto di Napoli, riportarono il 5 febbraio 1319 contro le forze dei ghibellini assedianti sotto la guida di Marco Visconti. Come avrebbe osato, il maestro bolognese, proporre a D. nemicissimo dell'angioino un tema poetico siffatto, un episodio di guerra che si chiuse con vantaggio dei guelfi e si risolse, per Roberto, in reboanti proclami e solenni celebrazioni di trionfo? Laddove i lunghi mesi di assedio, che quel successo interruppe, offrirono buoni motivi di dileggio a carico del re, supremo capo del guelfismo, immobilizzato con la sua flotta nel porto di Genova e persino sfidato dal Visconti, invano, a scontrarsi con lui in singolar tenzone per decidere le sorti del conflitto. D. era dunque a R. (" Eridani... mediamne ") ante il 5 febbraio 1319. E poiché il carme c'informa che un incontro col maestro bolognese risaliva a qualche tempo innanzi (Eg I 47-51), è presumibile che il poeta vi si trovasse già nella seconda metà del 1318, " tanto stabilmente - così il Petrocchi - che la dimora ravennate appare al Del Virgilio già in parte consumata dall'attesa della promessa visita e dell'invio di uno scritto amichevole ".
Quanto al secondo punto, di ben altra rilevanza, si potrebbe enunciare, per gradi, come segue:
a) Nella suddetta comparazione di Pg XXVIII nessun lettore esita a risentire la freschezza di un'impressione diretta: non sminuita e semmai confermata dal precedente ovidiano (Met. XV 603-605), di ritmo descrittivo tanto più asciutto e tanto meno rapportabile al lirismo sinfoniale del secondo termine di paragone, che qui ha l'aria di esser nato in uno col primo termine, nell'ambito di un'intuizione più complessa, già dal Ricci adombrata in una pagina famosa (non solo il murmure di scirocco che fa bordone al canto degli uccelli, ma fiori arbusti ombre perpetue acque limpide e brune di canali diretti al mare nella direzione di Lete, ecc.). Ora il Vasina rileva, nella rievocazione della pineta classense, nonché un " contributo al ripristino di una mitica atmosfera di primitività edenica " - che in sé richiama un patrimonio immenso di letteratura antica e medievale -, forse anche una " preparazione al sacro mistero della Chiesa trionfante, per quel tanto di suggestione sacrale che Classe, terra bagnata del sangue dei primi testimoni del cristianesimo ravennate, poteva ispirare al poeta ". Non sorgevano forse, in vista della pineta, superstiti di una storia secolare di santificazione e di preghiera, due tra le più insigni basiliche di R., Santa Maria in Porto e Sant'Apollinare, appunto, in Classe?
b) Ma avere esperienza della pineta, per un cercatore, quale D. fu, di spazi metafisici, di valori e di emblemi senza tramonto, è pressoché impensabile senza una correlativa esperienza dell'attigua città. Per non dire del periodo bolognese, il poeta fu in Romagna più volte; e se, al tempo del Convivio, può scrivere di essere " stato per le parti quasi tutte " d'Italia, non avrà certo evitato di affacciarsi a quell'unicum che R. era ed è, non meno che d'inoltrarsi nel fitto incantevole della sua selva. Nei riferimenti di Giovanni del Virgilio e di Benvenuto selva e città si sovrappongono e s'identificano.
c) Ma per tali esperienze, diremo col Rajna, " non c'è nessun bisogno davvero che l'esule ramingo ivi [scil. a R.] si fosse ridotto " in dimora stabile. Errore di quasi tutta l'esegesi biografica dantesca è proprio di esser partita da siffatta (pressoché indiscussa) pregiudiziale. E aver dimenticato che la poesia è figlia di Mnemosine.
d) Appare quindi legittimo riportare tanto più indietro del 1320 o del 1318 l'incontro (o gl'incontri) di D. con R.: verso gli anni suggeriti dall'argomento barberiniano. Che se poi si osservi, sulla traccia, per questo aspetto, del Pascoli, come codesta ‛ memoria ' della selva ravennate si collochi non in un punto indifferenziato dell'immensa trama bensì in un ganglio vitale del suo ordito, spirante antitesi della selva selvaggia, vien fatto di supporla germinalmente attiva fin nella prima fase dell'ideazione strutturale del poema.
R. nell'opera dantesca. - Premesso un accenno alla distinzione del De vulg. Eloq. (I IX 4) tra il parlare dei Ravennati e quello dei Faentini, esatta, ammette il Pascoli, ma non certo ragionata " con la conoscenza di chi ci vivesse in mezzo, e non ragionasse per sentita dire ", volgiamoci al poema che, nel secondo cerchio d'Inferno, subito ci offre il volo leggero di Francesca polentana e di Paolo riminese. Francesca è " il primo dannato che conversa con D.; la lussuria, il primo vizio ch'egli stacca da sé, guarda e giudica ": la tematica del canto V, significativa pur sotto l'aspetto " di un triplice tradimento consumato nell'ambiente della tirannide malatestiana " (Vasina), va colta come un punto nodale dell'esperienza del poeta, che qui scioglie dall'immagine dell'amore stilnovisticamente idealizzata un'immagine deformata, e mette in crisi la sua stessa ‛ poetica ' (v. le analisi del Contini e del Marcazzan). La città è allusa sullo sfondo (suggestivo) del grande fiume che corre al mare per aver pace (If V 99).
Più giù, nell'ottava zavorra (If XXVII 25-54), richiesto da Guido da Montefeltro se i Romagnuoli han pace o guerra, il poeta, ch'avea, si noti, già pronta la risposta, inizia da R. la rassegna delle piccole signorie-tirannidi romagnole, bellicose sempre se non in palese in segreto, e svolge in metafora il dato araldico dell'aquila polentana che, fatto di R. il suo nido, cova la città e stende i suoi vanni sulla vicina Cervia... L'espressione è equivocabile: ma nell'insieme, grava su codesta Romagna dei primi del Trecento un " sanguinoso retaggio di violenze e di tradimenti " (Vasina).
In Pg XIV il tema romagnolo ritorna, con intensi chiaroscuri e più largo sviluppo, nella lamentazione aspra e nostalgica del ravennate Guido del Duca (vv. 77-126): ai venenosi sterpi del presente, egli contrappone le donne e ' cavalier, li affanni e li agi di una Romagna ancora feudale, in cui spiccarono illustri casate, come, a R., i Traversari e li Anastagi (v. 107), ora spente: Romagna virtuosa e cavalleresca, miticamente idoleggiata non meno dell'antica Firenze in Pd XV e XVI. La geremiade di Guido si chiude, per veemenza di passione, in amarissimo pianto.
Ad altro sfondo romagnolo ci richiama, fuggevolmente, Bonifacio Fieschi nel penultimo girone del sacro monte (Pg XXIV 28-30), dove espia il peccato di gola: metropolita di R. dal settembre 1275 al dicembre 1294, personaggio di notevole rilievo storico (v.), è qui presentato con evidente arguzia, come colui che pasturò col rocco molte genti (v. 30): il doppio senso di pasturò (un hapax) si riconnette agevolmente a una diffusa aneddotica sulle intemperanze prelatizie di codesta provincia.
Al sommo della cantica, s'è già detto come l'esplicito ricordo della pineta classense, taluni aspetti della divina foresta, la stessa azione liturgica che vi si svolge autorizzino, entro ovvi limiti, un rinvio ad antecedente esperienza del paesaggio e del clima estetico-religioso di R. (per alcune affinità tra la processione edenica del XXIX e le due che si snodano lungo le pareti di Sant'Apollinare Nuovo, v. la ‛ lectura ' di U. Bosco).
Quanto al Paradiso, in parte imprecisabile composto a R. (gli ultimi tredici canti?), è stata avvertita da molti un'analogia tonale e figurativa coi tesori musivi dell'antica città.
Hanno insistito su questo tasto, dopo il Pascoli, superando un pregiudizio che fu proprio anche di dantisti filologicamente agguerriti, il Cosmo, l'Apollonio, il Momigliano, Santi Muratori; in seguito il Fallani e il Guidubaldi. Il quale ultimo vede nella cantica un " grandioso mosaico dell'eterno ", in cui si susseguono imponenti cicli di offerta, di consacrazione, di assunzione, molto simili ai cicli compositivi di Ravenna. Per l'Apollonio il linguaggio musivo dell'Impero romano-cristiano riscoprì al poeta " i temi su cui si fonda tutta la cultura romanica: l'integrazione di ogni arte e scienza nell'universalità della Rivelazione, e l'integrazione di ogni particolarismo di ‛ principi e collegi ' nella Monarchia universale ". Su questa linea (ma senza esclusivismi aprioristici e premesso che ogni eventuale richiamo di quel ‛ mondo ' nel poema non è che ‛ memoria ', ricreata in un complesso di suggestioni imprevedibile) anche lo scrivente ha indicato, tra altre plausibili anticipazioni del Paradiso (e su tutte, il tema onnipresente della luce, rifiorito nel sec. XII - con l'arte gotica dell'abate Suger - dagli stessi principi pseudoareopagitici), il singolarissimo risalto conferito in R. alla maestà di Giustiniano e il non meno specifico ruolo ivi assegnato al tema della gloria, e, per esso, alla croce gemmata.
Da Santa Maria Maggiore a San Vitale, da Sant'Apollinare Nuovo a Sant'Apollinare in Classe, di Giustiniano ‛ parla l'intera R. ' e, in effigie, se si prescinda da medaglie e monete, essa sola in Occidente: cinto da diadema e di nimbo, a esprimere la sacralità della sua funzione politica, egli incede, nel pannello di San Vitale, in perfetta armonia con l'autorità religiosa del presule che ne guida l'offerta. Con questa immagine l'alto Medioevo consegnava intatto un ultimo bagliore della potenza (unificatrice) e della saggezza (giuridica) romana, ma esaltate pur in grado sommo, nell'economia del nuovo tempio, in teologica dipendenza dal Cristo pantocratore che domina dal catino absidale. Non avrà detto nulla, al poeta del canto VI e delle accentuazioni luministiche che lo precedono (alla fine del canto V) e lo seguono (all'inizio del VII), un antecedente figurativo di tale portata, così perentorio e collimante? A torto - è da credere - il Marigo lo giudica " un motivo esteriore ", recensendo lo Zabughin che, invece, coglieva nel canto una reminiscenza ravennate. L'esemplarità di codesto Cesare (non smentita ma sorretta dalle notizie lacunose o leggendarie che il Medioevo trasmise sul conto di lui) dové apparire a D., interrotto il Convivio (che lo ignora), tanto più significativa in quanto si offriva come una sintesi del suo più maturo pensiero politico, da disporre perciò ab initio, nell'ordito cifrato dei sesti canti, al grado più alto.
Una riprova della liceità del nostro argomentare si può desumere dal rimando, pressoché inevitabile, della celebre terzina di Pd XV 22-24 né si parti la gemma dal suo nastro, / ma per la lista radïal trascorse, / che parve foco dietro ad alabastro, alla mensa, appunto, alabastrina che costituisce ancor oggi, in San Vitale, l'altare del presbiterio e che fu sempre oggetto di documentato stupore. I sagrestani solevano far scorrere un lume lungo la parete inferiore della lastra, grossa circa un palmo, e questa ne traspariva e splendeva " non altrimenti che se fosse sottilissima carta " (Fabri; ma già Ambrogio Traversari).
Circa il tema della croce gemmata - o gloriosa - che ricorre nei canti del cielo di Marte, dal XIV al XVIII (cfr. G. Fallani, D. e la cultura figurativa medievale, Bergamo 1971, 118 ss.), è da dire che esso trionfa a R. in modo tipico ed esclusivo. Conche delle absidi, catini delle cupole, marmi delle transenne e dei sarcofagi lo esprimono coralmente, come traguardo supremo dell'intera anagoghe, liturgica e mistica, dell'arte ravennate. Il Cristo vi è celebrato esclusivamente nell'astratto signum Gloriae, mai nel patibulum, signum Passionis, su cui lo ritraggono pitture pisane, lucchesi, fiorentine. " Gli imperatori e i vescovi imperiali dell'Oriente vietarono in Ravenna bizantina di rappresentare la Passione: la Chiesa orientale aveva persino categoricamente rifiutato il filioque, l'emanazione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio " (R. Assunto). Le asprezze della disciplina cristiana trascolorano, a R., in emblemi di vittoria. Così è della gran croce campita nell'abside di Sant'Apollinare in Classe, entro un rosso cerchio tempestato di gemme, con l'immagine di Cristo affiorante (clipeo e busto) nel punto d'incontro dei due raggi, a simboleggiare, con e in quella del Cristo, la trasfigurazione gloriosa del protovescovo, assorto nella zona inferiore in atto pio di orante.
Ebbene, in chiave grandiosamente epico-lirica, arieggia questa croce quella che, nel cielo dei combattenti per la fede (Pd XIV), si mostra al poeta emergendo dal rosso di Marte, tempestata di rubini semoventi e balenante or sì or no dell'immagine di Cristo, per schiudergli, con l'esito glorioso della milizia cristiana (Resurgi e Vinci), il significato eroico e profetico della sua stessa testimonianza. È curioso che un sottile studioso (il Marcovaldi) delle croci pittoriche due e trecentesche in qualche modo precorritrici di questa del canto XIV, abbia dimenticato proprio la croce gemmata classense, certo la più affine e plausibile, anche per similarità di rapporto tra emblema e orante. Mistica e ascesi dantesche hanno la stessa impronta: di epos della vita della Grazia. Già in If IV (53-54) Cristo è menzionato come un possente, / con segno di vittoria coronato.
Basti infine ricordare, oltre la menzione di R. in Pd VI 61 come sede d'inizio dell'impresa imperiale di Cesare (Quel che fé poi ch'elli [il segno dell'aquila] uscì di Ravenna / e saltò Rubicon), la cospicua presenza nel cielo dei contemplativi di s. Pier Damiano (v.) e di s. Romualdo (v.); con quel richiamo di S. Maria in Porto Fuori, la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano (Pd XXI 122-123), in cui (e nell'intero contesto) M. Apollonio avvertiva un " senso così ricco " del declino adriatico del poeta.
Resta da dire delle due Egloghe scambiate con Giovanni del Virgilio (che spettano, crediamo, legittimamente a D., non al Boccaccio cui le attribuisce A. Rossi). Nella cornice pastorale della prima la città è appena allusa, in una luce dimessa ma tranquilla, rispetto a Bologna (saltus et rura ignara deorum, Eg II 41), dove il Del Virgilio lo ha invitato a cingere la corona di alloro sempre che si degni di comporre per i dotti un poema di attualità storica in versi epici latini. Risponde il poeta che l'onore della laurea rinvia, se mai, a quando il Paradiso, cui è intento, sarà palese (i versi tradiscono l'emozione di quest'ultimo lavoro); ma risponde, ad attenuare il rifiuto, in forma di egloga virgiliana, reinventata, nel clima di R., sulle orme dell'antico, comune maestro (e con ciò inaugurando una tradizione bucolica, che ebbe larghissimo seguito). Nella seconda, a nuovo invito di Mopso (Del Virgilio), che lo chiama suo ospite a Bologna, Titiro (il poeta) risponde cortese, ma deciso, che sì, vorrebbe, ma non può: a Bologna c'è, ora, Polifemo (Fulcieri da Calboli?) avido di sangue; e i cari amici di R. lo supplicano e scongiurano (per tutti, Alfesibeo, il Milotti) di non esporsi, né privarli della sua ambita presenza, mentre al suo illustre capo si appresta la gloria di una corona imperitura (Eg IV 86-87). L'elogio di R. non poteva essere né più caldo, né più colmo. L'egloga, scrive lo Zingarelli, " è un monumento glorioso per Ravenna, come il sepolcro suo stesso, e va messa a riscontro del canto XVII in onore di Cangrande ".
Altra menzione onorevole per la città ospitale e il suo signore già s'è vista nell'epitafio dettato dal maestro bolognese. E c'è un passo della sua egloga responsiva (Eg III 80-83), sin qui poco o punto rilevato, in cui Mopso mette a confronto coi suoi poveri doni l'ospitalità di Guido " comis et urbanus " e con la propria grotta la sicura " capanna " (‛ tabernacla ') ravennate, che Titiro certamente preferisce ‛ per esercitarvi l'arte sua ' (" quis potius ludat "). Non è forse in questo sintagma (‛ ludere ' ha senso tecnico) l'essenziale ‛ perché ' del rifugio ravennate del poeta?
Gli ultimi anni. - Tocchiamo qui alcuni aspetti o problemi biografici relativi all'ultimo tempo del poeta.
Si può ritenere sicuro che D. godette a R. il grazioso beneficio di una casa: vedi il racconto boccacciano degli onori funebri (op. cit., § 6) e quello del ritrovamento degli ultimi tredici canti (§ 14). Come " si può ritenere verace " la testimonianza del Petrarca, " in quel capitolo dei Rerum memorandarum libri (Il 83)... sul contubernio ingrato che a D. toccò sopportare con Cangrande e con i suoi cortigiani, poco educati nel galateo e meno nella retorica " (G. Billanovich, op. cit., p. 28).
Meno attendibile un suo pubblico insegnamento. La dicitura del Boccaccio: " quivi con le sue dimostrazioni fece più scolari in poesia e massimamente nella vulgare " (op. cit., VI), poi raccorciata in: " quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima " (Compendio, XIII), è intesa dai più in largo senso, come allusiva a consuetudine di rapporti letterari con giovani e non più giovani che a R. gli si strinsero intorno e lo venerarono maestro; così come (" magister ") lo salutava, da Bologna, il Del Virgilio; più tardi, dal Veneto, Giovanni Quirini (" pedagogo e maestro mio "); o il fiorentino Pieraccio Tedaldi (" dolce nostro mastro ", Sonetto pien di doglia 8). È probabile che le svagate indicazioni del Pucci nel capitolo dantesco del Centiloquio (Guido Novello " appieno / dato gli avea l'arbitrio e libertade ", ecc.), contengano un discreto margine di vero.
Secondo un'affermazione di Cecco d'Ascoli si situa in questi anni una disputa sul tema della ‛ nobiltà ' svoltasi per iscritto tra lui e il poeta, che ne aveva trattato nella canzone Le dolci rime d'amor ch' i' solia e nel rispettivo commento del Convivio (IV): in viaggio di ritorno a R., l'Alighieri poneva all'Ascolano una questione - insolubile per astrologia - dicendosi fisso a R., se mai egli intendesse gratificarlo di una risposta (Acerba II XII).
Circa i rapporti del Quirini con D., che il Veneziano " senza dubbio ammirò e col quale, secondo una molto infida tradizione, ebbe una corrispondenza poetica " (M. Corti), v. QUIRINI, Giovanni. Sul sonetto del Quirini Signor, ch'avete di pregio corona diretto a Cangrande per ‛ brama ' di veder pubblicato il Paradiso (che " un grappolo di immagini contestuali ricavato proprio da un canto del Paradiso, il IX " [Folena] denuncerebbe in parte già noto), si discute se fosse composto vivente il poeta o no: la datazione post mortem sembra, per più motivi, preferibile.
Mancano elementi per attribuire un peso reale ai rapporti che il Ricci suppose intercorressero tra il poeta e Rinaldo da Concorrezzo, il grande presule spentosi in Argenta il 18 agosto 1321.
L'episodio, " che vuole D. mago improbabile per conto del Visconti ai danni di papa Giovanni XXII, è un esempio abbastanza documentato di trasfigurazione agiografica di un poeta, sul cui volto le comari di Verona vollero riconoscere la fuliggine infernale " (Schizzerotto); ma è da credere, a giudizio del Crosara, che non fosse " determinante sulla sorte del poeta in vita, né poi del suo cadavere ".
Per i figli Pietro, Iacopo e Antonia (che si chiuse nel monastero - probabilmente domenicano - di Santo Stefano degli Ulivi, assumendo il nome di Beatrice) v. le voci rispettive.
Rilevò S. Muratori, sulla base de L'ultima ricognizione delle ossa di D. (per cui v. le pp. 457-472 del Ricci, 1965³), che, pur avendo il poeta " sortito, da natura, una gagliarda complessione ... la perniciosa contratta nelle paludi veneto-ravegnane trovava un corpo affralito e devastato ": " tutto sembra dimostrare un invecchiamento precoce " (Bollett. Econom. della Camera di Commercio, Ravenna 1953, n. 9 p. 6).
Si può ritenere degna di fede la narrazione del Boccaccio intorno alla gara di poeti in Romagna per l'epitafio latino della tomba (v. EPITAFI); né v'è motivo di respingere il racconto delle onoranze funebri - che G. Biscaro giudica " quasi interamente un parto dell'immaginazione od almeno un'amplificazione del biografo " - descritte sia nella Vita sia nella redazione compendiosa, con specifico riferimento al " ravignano costume " di tesser l'elogio del defunto " nella casa nella quale era prima abitato "; in armonia, coteste onoranze, col tenore della seconda egloga e con tutto ciò che sappiamo di Guido Novello; e confermate dall'Ottimo, là dove, commentando Pd XVII 94, parla di " singulare onore a nullo fatto più da Ottaviano Cesare in qua ": tanto se n'era sparsa la fama.
Fortuna di D. a Ravenna. La gara poetica per l'epitafio - e tanto più se fu spontanea, non indetta dal signore come un concorso vero e proprio - è buon indice della fortuna di D. a R.: fortuna che serbò sempre, se non altro, un suo calore di schietta e quasi domestica devozione.
Menghino Mezzani (v.), notaio e rimatore ravennate, notus quondam familiaris et socius Dantis nostri (Salutati) e autore dell'epitafio Inclita fama (v. EPITAFI), si nomina in un sonetto a Bernardo Scannabecchi (v.) " minimo dantista ", forse " proprio nel senso di membro del ‛ soddilizio in volgar poesì ' " di cui c'informa Antonio da Ferrara (v.): un'accademietta di volenterosi seguaci e imitatori del " padre Dante " che della " lingua italiana " era stato, come suona l'elogio del predetto epitafio, " fondatore e onore e lume " (conditor... lumenque decusque). Un particolare non privo d'interesse: erano, o passavano, quasi tutti per " gibelini ".
Le prime copie della Commedia (che Iacopo di D. chiama " sua sorella ") uscirono da R., di mano e per opera dei figli e di cotesto gruppo di amici e ‛ discepoli ' devoti.
A difendere, in Bologna, la memoria del poeta dinanzi a Bertrando del Poggetto e a scongiurare, insieme col fiorentino Pino della Tosa, il minacciato bruciamento delle ossa, fu, nel 1329, il successore di Guido Novello, lo stesso Ostasio da Polenta impadronitosi del governo nel modo feroce che s'è visto.
Provvidero poi i padri francescani del convento attiguo al sepolcro al trafugamento e alla strenua custodia delle ossa contro le richieste di " rimpatrio " più volte avanzate dai Fiorentini: dal 1519 (petizione dell'Accademia Medicea a Leone X con firma e proposta di Michelangelo) ebbe inizio la peripezia di quel prezioso deposito, passato di mano in mano, per diverse consegne, fino al 1810, quando, con l'abbandono del convento e della chiesa in seguito alla soppressione dell'ordine, i frati decisero di occultarlo là dove fu rinvenuto, fortuitamente, nel 1865: tra Braccioforte, il fianco della chiesa e il muro, allora, di cinta. La tomba - che dichiarava nell'esastico dello Scannabecchi: " hic claudor Dantes patriis extorris ab oris " - fu in effetti, per tre secoli e mezzo, un cenotafio.
Sulle vicende architettoniche del sepolcro, riattato a opera di Pietro Lombardi per iniziativa (privata: " aere suo ") del pretore Bernardo Bembo nel periodo della dominazione veneziana (1483); risistemato dal cardinal Corsi, legato nel 1692; più tardi (1780) ricostruito nelle forme neoclassiche del ravennate C. Morigia, a cura del cardinal legato Valenti Gonzaga; ulteriormente arricchito nel 1921: v. C. Ricci, op. cit., pp. 287-364. Sulla recente sistemazione della cosiddetta ‛ zona dantesca ', v. G. Mesini, La tomba e le ossa di D., Ravenna 1965, 37-53.
Dopo i ‛ fedeli ' del citato " soddilizio " e il Boccaccio (v.) a cui spetta, tra i cultori di D. dell'orbita ravegnana, il posto più eminente, si ricordano: Giovanni di Conversino da Ravenna (m. 1408), insigne educatore e scrittore, ricco nell'Epistolario d'importanti riferimenti danteschi; Giovanni Malpaghini (da R., confuso spesso col primo) che, succedendo nel 1397 a Filippo Villani, lesse D. nello Studio fiorentino; e il pur ravennate giureconsulto e canonico Giovan Pietro Ferretti (1482-1557), poi vescovo di Lavello, che tra le Vite dei suoi concittadini più illustri non si tenne dall'includere, " affirmatissime ", quella del poeta.
Va poi segnalata - tra Sette e Ottocento - per fervore di indagini e di recuperi danteschi la scuola classica romagnola: ne fu, com'è noto, rappresentante cospicuo V. Monti; di P. Costa (v.), altro ravennate, ebbero straordinaria fortuna un Comento di indirizzo puristico e una " prerisorgimentale " Vita di Dante. (Nella festa repubblicana che si celebrò a R. il 14 nevoso anno VII [3 gennaio 1798] in onore dell'Alighieri " concittadino ", " antico Espugnatore della Sacerdotale Impostura ", vediamo associati il Costa " moderatore " e il Commissario Monti, il quale pronunciò per l'occasione un singolare discorso " sul carattere e l'opera " di D. " repubblicano ").
A metà Ottocento (1848) esce a R. La Commedia secondo la lettera principalmente dei due codici Ravegnani, con commento e a c. di M. Ferranti " sacerdote di spirito italiano ", la cui attività di studioso vivace e appassionato ha poi avuto illustrazione da A. Vallone (v. in ispecie gl'inediti: Studio filosofico, storico, morale sul Poema di D. Alighieri e Abbozzo della prima e principale allegoria della Commedia di Dante).
A R. s'inaugura nel 1865 il primo pubblico commento tenutosi in Italia dopo la ricomposizione nazionale; commento divenuto poi istituzione municipale, ancor oggi di notevole prestigio (Letture classensi si pubblicano dal 1966, presso l'editore A. Longo). E qui fiorisce, tra Otto e Novecento e fino ai nostri giorni, una ricca messe di studi, variamente intesi alla biografia e all'esegesi di D.: dalle ricerche erudite di G. Martinetti Cardoni alle opere storiche di P. Desiderio Pasolini, dagli scritti di A. Borgognoni (apprezzatissimi dal Croce) all'ancora fondamentale e più volte citato Ultimo rifugio di D. di C. Ricci, cui si affiancano le preziose esplorazioni documentarie di S. Bernicoli e saggi di P. Amaducci, T. Casini, S. Muratori, A. Torre, M. Mazzotti, F. Crosara, R. Caravita, A. Vasina, A. Campana. All'inizio del secolo (1901), " A Ravenna / patria / della Divina Commedia " dedica il Pascoli la Mirabile Visione.
Codici. - Della biblioteca Comunale Classense sono i due ‛ codici ravegnani ' cui si riferisce l'edizione Ferranti: il cod. 6, " del copista Betino de Pili, scritto tra il 1369 e il 1370, menzionato dal Witte, noto al Campi e ad altri dantisti del passato e del presente secolo fino al Petrocchi. Di colorazione linguistica di marca lombarda, anche se... la patria del copista si dovrà cercare in una cittadina al limite della Romagna, può essere considerato un discreto monumento filologico della tradizione " (Schizzerotto); il cod. 7, " completo, di piccolo formato, denuncia il suo uso puramente personale e scolastico ". In un sonetto monocaudato (O spirito gentile, o vero Dante) l'anonimo autore (forse Pietro Faitinelli) si rivolge al poeta per esser da lui raccomandato al tribunale eterno.
Appartiene alla biblioteca Dantesca " San Francesco " un codice cartaceo denominato " Poggiali-Vernon " (già Ginori-Conti) della seconda metà del sec. XIV, che contiene (v. catalogo della mostra fiorentina del 1965) " alcuni dei contributi esegetici più insigni della Commedia (il commento, volgarizzato, di Graziolo Bambaglioli; quelli, rispettivamente mutilo e acefalo, di Guido da Pisa e Graziolo Bambaglioli: entrambi in volgare e il secondo in una versione diversa dalla precedente; le chiose alla prima cantica di Iacopo Alighieri; e il commento di Iacopo della Lana, mutilo e adespoto), tanto da risultare un'antologia della critica dantesca del Trecento... Il Vernon pubblicò il primo e il quarto commento, mentre il quinto è pure noto per le stampe; il secondo e il terzo sono inediti ", Qui anche un prezioso incunabolo: un esemplare della Commedia detta di Iesi (ma più probabilmente veneziana) impressa da Federico dei Conti da Verona il 18 luglio 1472 (coeva delle due di Foligno e di Mantova).
Bibl. - Topografia e storia: Sidonio Apollinare, Epistularum, I V, in Opera, Parigi 1614; Agnello, Liber Pontificalis, a c. di A. Testi-Rasponi, in Rer. Ital. Script.² II 3, Bologna 1924 (recens. di S. M[uratori], in " Felix Ravenna " XXX [1925] 60-76, particolarmente pp. 70-72); Tolosano, Chronicon Faventinum, a c. di G. Rossini, in Rer. Ital. Script. 2, XXVIII 1, Città di Castello 1939, XVI 24. - Per Eridani mediamne, v. C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., a c. e con aggiornamento di E. Chiarini, Ravenna 1965³, 55; G. Pascoli, La mirabile visione, in Prose, a c. di A. Vicinelli, Milano 1957, 1054; G. Albini, Dantis Eclogae, Ioannis de Virgilio carmen et Ecloga responsiva, Firenze 1903; A. Campana, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e D.), in " Rivista Cultura Class. e Medioevale " VII (1965) 263 n. 30; e ancora: A. Rossi, Il carme di Giovanni del Virgilio a D., in "Studi d. " XL (1963) 266; G.B. Pigri, Le Ecloghe di D., in Annuario Liceo Maffei, Verona 1965, 14; E. Cecchini, Giovanni del Virgilio, D., Boccaccio. Appunti su un'attribuzione controversa, in " Italia Medioev. e Umanistica " XIV (1971) 34-36. - Inoltre: G. Bovini, Le origini di R. e lo sviluppo della città in età romana, in " Felix Ravenna " LXX (1956) 38-60; LXXII (1958) 27-68; M. Mazzotti, R. e il suo sviluppo urbano. Le sue divisioni regionali. La toponomastica delle sue vecchie strade, in " Almanacco Ravennate " II (1956) 16 (dell'estratto); M.C. Giuliani, R. - Ricerche di geografia urbana, Genova 1958; P. Amaducci, Cenni topografici su R. antica e nuova. Illustrazione dei versi danteschi " Siede la terra dove nata fui... ", in " Atti Mem. R. Deputazione St. Patria Prov. Romagna " s. 3, XXV (1906-1907) 497-530; L. Gambi, Dopo quindici secoli R. ritrova la propria vocazione, in R. una capitale, Bologna 1965, 3-10; M. Calvesi, Bisanzio in Italia, ibid. 31-41; B.M. Felletti Maj, Una carta di R. romana e bizantina, in " Rendic. Pont. Accad. Romana di Archeologia " s. 3, XLI (1969) 85-120. Di prevalente o esclusivo interesse storico, v. gli Annales Caesenates, la Caesenae historia del Chiaramonti, la Istoria di Romagna del Carrari (sec. XVI, manoscritta presso la bibl. Classense di R.), i fondamentali Historiarum Ravennatum libri X di G. Rossi (Venezia 1589), Le sagre memorie di R. antica del Fabri (Venezia 1644) e le note opere dell'Amadesi, del Fantuzzi e del Tarlazzi; inoltre P.D. Pasolini, I tiranni di Romagna e i Papi nel Medio Evo, Imola 1888; S. Bernicoli, Governi di R. e di Romagna dal sec. XII alla fine del sec. XIX, Ravenna 1898; P.D. Pasolini, R. e le sue grandi memorie, Roma 1912 (cfr. recens. di S. Muratori, in " Felix Ravenna " XIV [1914] 617-619); S. Bernicoli, Maestri e scuole letterarie in R. nel sec. XIV, ibid. XXXII (1927) 61-63; M. Mazzotti, La Chiesa ravennate, in R. una capitale, cit., 57-71; D. Waley, Il governo papale in Romagna nell'età di D., in Atti giornata internaz. di studio per il VII centenario dantesco, Faenza 1965, 18 ss.; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., Firenze 1965 (v. specialm. pp. 304-319, per la rettoria di re Roberto); ID., Romagna medievale, Ravenna 1970 (v. particolarm. cap. V e l'eccellente messa a punto critica del cap. IX, pp. 297-316); A. Torre, I Polentani fino al tempo di D., Firenze 1966; R. Caravita, Rinaldo da Concorrezzo Arcivescovo di R., ibid. 1964; G. Biscaro, D. a R., in " Bull. Ist. Stor. Ital. " XLI (1921); S. Muratori, D. e R., in Boll. ‛ Il VI Centenario dant. ', Ravenna 1921, 74-95. Notevole, per l'aspetto storico artistico: G. Bovini, Mosaici parietali scomparsi degli antichi edifici sacri di R., in " Felix Ravenna " LXVII (1955) fasc. 16; LXIX (1957) fasc. 18.
Sull'andata di D. a R.: C. Ricci, op. cit., ediz. 1965, capp. XI-XIII (è proposta la data 1316-1317); V. Pernicone, in Dizionario biografico degli Autori, I, Milano 1956, 60 (dal 1318 stabile dimora di D. a R.); G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 26 (sta per il 1318; confuta l'argomentazione ricciana dell'epidemia di peste, che avrebbe impedito, o almeno sconsigliato, l'accesso alla città in data posteriore ai primi del 1318); A. Pertusi, Cultura greco-bizantina nelle Venezie e suoi echi in D., ibid. 178 (" almeno dal 1318 "); G. Biscaro, op. cit., p. 51 (primo semestre del 1320); Zingarelli, Dante 740 (ab a. 1320); G. Billanovich, Tra D. e Petrarca, in " Italia Medioev. e Uman. " VIII (1965) 16-17 (molto probabilmente " dopo " il 20 gennaio 1320).
Per la datazione del Purgatorio: F. Egidi, L'argomento barberiniano per la datazione della " Commedia ", in " Studi Romanzi " XIX (1928) 135-162; G. Vandelli, Per la datazione della D.C., in " Studi d. " XIII (1928) 5-29; G. Petrocchi, Intorno alla pubblicazione dell'" Inferno " e del " Purgatorio " dantesco, in " Convivium " VI (1957) 652-669 (poi in Itinerari danteschi, Bari 1969, 83 ss.); A. Vallone, Per la datazione della D.C., in Studi sulla D.C., Firenze 1955.
Sulla questione pregiudiziale dell'autenticità - contestata da A. Rossi - della corrispondenza poetica tra D. e Giovanni del Virgilio, cfr. in C. Ricci, op. cit., la nota di E. Chiarini, pp. 509-510; cui sono da aggiungere: A. Rossi, ‛ Dossier ' di un'attribuzione - Dieci anni dopo, in " Paragone " (Letteratura) n.s. 36/216 (1968) 61-125 con la recens. di G. Padoan, in " Studi sul Boccaccio " V (1968) 365-368; E. Cecchini, op. cit., p. 55.
Per la datazione del v. 29 del carme delvirgiliano: A. Scolari, Note storiche alla corrispondenza poetica di D. e Giovanni del Virgilio, in " Giorn. d. " XXV (1922) 193 ss.; col quale concordano: v. Biagi, Quaestio de aqua et terra, Modena 1907; G.B. Pighi, op. cit., pp. 9 n. 1, 11 (scorcio 1318 o, al più, gennaio 1319); G. Martellotti, voce Egloghe della presente Enciclopedia. Discordano invece: A. Rossi, Il carme di Giovanni del Virgilio a D., in " Studi d. " XL (1963) 218 (il v. 29 alluderebbe allo " smacco subito dal re ad opera degli assedianti genovesi " il giorno stesso della rottura dell'assedio, avendo egli permesso che il nemico si partisse " sanza ricevere altra caccia " [Villani IX 97]; l'indubbio successo, anzi, secondo il Caggese [Roberto d'Angiò e i suoi tempi, Firenze 1930, II 36], la " schiacciante vittoria " del 5 febbraio, si risolverebbe così in uno ‛ smacco '); e, sembra, A. Vallone (D., Milano 1971, 430), che riferisce il verso " all'impresa di re Roberto a Genova (1319) e all'onta della sua disfatta ", prescindendo da quel - sia pur temporaneo - successo personale.
Per l'esegesi dei vv. 42-43 del carme, allusivi, secondo il Chimenz (Dizion. biogr. degli Ital. II [1960] 424-425), il Battisti (le Egloghe dantesche, in " Studi d. " XXXIII [1955-56] 92), G. Reggio (Le Egloghe di D., Firenze 1969, 19), a una tempesta dell'inverno 1319, particolarmente infausta per la flotta napoletana, v. le citate Riflessioni su un vecchio problema: D. e R., di E. Chiarini.
Per la valutazione del richiamo alla pineta... di Chiassi, in Pg XXVIII 20: C. Ricci, op. cit., pp. 102-105; A. Vasina, voce Classe della presente Enciclopedia; P. Rajna, recens. a C. Ricci, op. cit., in " Nuova Antologia " a. LVII, n.s. (1922) 384; M. Barbi, in " Bull. " n.s., I (1894) 165; G. Petrocchi, Intorno alla pubblicazione, cit., p. 662.
Sul parlare dei Ravennati e dei Faentini (Ve I IX), v. G. Pascoli, Prose, a c. di A. Vicinelli, II, Milano 1957, 1042.
Sui personaggi ravennati della Commedia v., oltre ai principali commenti e alle più importanti ‛ lecturae ', le voci rispettive di questa Enciclopedia.
Sulle analogie dei tesori musivi di R. coi canti del Paradiso terrestre e dell'intero Paradiso, oltre al cit. volume di C. Ricci, v. U. Cosmo, Vita di D., Firenze 1965³, 229-230; U. Bosco, Il c. XXIX del Purgatorio, Roma 1942 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 274-295); G. Getto, Pascoli dantista, in " Lettere Italiane " I (1949), ora in Carducci e Pascoli, Bologna 1957, 73-108 (particolarmente pp. 85-88); M. Apollonio, D. - Storia della ‛ Commedia ', Milano 1950-1951, 51 ss.; ID., L'universalità di D. - Da R. all'Empireo, in " Arte e Turismo " I 1 (1965) 7-13; S. Muratori, op. cit., pp. 90-91; H. Gmelin, L'ispirazione iconografica nella D.C., in " Il Veltro " III (1959) 13-16; G. Fallani, D. e la cultura figurativa medievale, Roma 1971, 118-120,147-148; R. Assunto, La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano 1961, 51, 231, 250 ss.; E. Guidubaldi, D. europeo, Firenze 1965-1968, voll. 3, passim (in particolare, per Giustiniano, III 546). Buone osservazioni sull'arte musiva ravennate, agevolmente rapportabili agli aspetti figurativi del Paradiso, in W. Sas Zaloziecky, L'importanza della decorazione musiva nell'architettura ravennate e il suo posto nella pittura tardoromana, in " Felix Ravenna " LII (1950) 16, 18, 20, 24, 25; ibid., pp. 41-56, l'importante nota di S. Bettini sul Battistero della Cattedrale.
Sul dibattuto problema del rapporto tra la teologia mistica dello pseudo Dionigi Areopagita (egregiamente valutata da H. Urs Von Balthasar nel cap. Denys [131-192] del suo La Gloire et la Croix, vol. II, trad. francese, Vienne 1968) e il luminismo figurativo del Paradiso dantesco, come già dell'arte musiva bizantino-ravennate, utili indicazioni in questa Enciclopedia alla voce Bizantina, Civiltà, di A. Pertusi. La recensione cit. di A. Marigo a V. Zabughin (D. e la Chiesa greca, in " Roma e l'Oriente " X [1915] 211-223; XI [1916] 9-17) si legge in " Bull. " XXVI (1919) 85-86.
Per la mensa alabastrina di San Vitale, v. A. Traversari, Latinae Epistulae, a c. di P. Canneto, Firenze 1739, 419-422; G. Fabri, R. ricercata, Bologna 1678, 61; C. Ricci, Chiesa di San Vitale in R.: l'altare maggiore e l'altare del Santo, in " Felix Ravenna " XI (1913) 471 ss.; M. Mazzotti, L'altare di alabastro in S. Vitale, ibid. LIII (1954) 65-67.
Per l'abside di Sant'Apollinare in Classe: M. Mazzotti, La Basilica di Sant' Apollinare in Classe, Città del Vaticano 1954; A. Lipinsky, La " Crux gemmata " e il culto della Santa Croce nei monumenti superstiti e nelle raffigurazioni monumentali, in " Felix Ravenna " LXXXI (1960) 5-29; G. Marcovaldi, Il canto XIV del Paradiso, in Tre studi danteschi, Roma 1969 (specialm. pp. 135-138); ID., Il canto XVIII del Paradiso, ibid. 1964.
Sulla dimora degli ultimi anni e per il problema dell'insegnamento di D. in R., ampia bibliografia in C. Ricci, L'ultimo rifugio, cit. (1965³), 512-514. Per il Pucci: A. Pucci, Centiloquio LV, in Delizie degli eruditi toscani, a c. del p. Ildefonso di San Luigi, V 120. Su G. Quirini: G. Folena, Il primo imitatore veneto di D., Giovanni Quirini, in D. e la cultura veneta, cit., 395-491, specialm. 408-411. Sul milieu ravennate del poeta v. A. Campana, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e D.); già citato.
Per gli onori funebri tributati a D. da Guido Novello, v. F. Crosara, D. e Bartolo da Sassoferrato, Milano 1962, 115 n. 11. Su tutti i problemi relativi alla dimora ravennate del poeta è da consultare, oltre il Ricci e lo studio, pure cit., D. a Ravenna di G. Biscaro, il repertorio bibliografico di A. Vasina, Cento anni di studi sulla Romagna (1861-1961). Bibliografia storica, Faenza 1962-63, voll. 3.
Fortuna di D. a Ravenna. Sull'invio di un esemplare completo (il primo?) della Commedia a Guido Novello da Polenta (1 aprile 1322) assumendo egli in Bologna la carica di capitano del popolo, v. O. Guerrini-C. Ricci, La prima copia della D.C., in Studi e polemiche dantesche, Bologna 1880, 121-126; C. Ricci, L'ultimo rifugio, cit., 149-151; e le obiezioni di M. Barbi, in "Bull. " n.s., IV (1896-97) 158-160; VI (1898-99) 43; di G. Vandelli, ibid. IX (1902) 278; di N. Zingarelli, op. cit., 805 n. 37. Sulla tomba: S. Muratori, Per la storia del sepolcro di D., in Ricordi di R. medioevale - Per il VI Centenario della morte di D., Ravenna 1921, 151-196; S. Bernicoli-V. Guaccimanni, Questioni vecchie e nuove sul Sepolcro di D., in " La Romagna " III (1924). Per la vicenda delle ossa, oltre la parte IV dell'op. cit. del Ricci, v. Zingarelli, Dante 1361-1365 (spesso divergente dalle tesi o ipotesi del Ricci).
Codici: v. S. Bernicoli, Librai e tipografi in R. a tutto il sec. XVI, in " L'Archiginnasio " XXX (1935); G. Schizzerotto, Mostra ravennate delle edizioni dantesche, in " Boll. Bibliogr. della Biblioteca Classense " II (1967) 76-83.
Lingua. - I Ravennates sono accostati ai Faventini (v. FAENZA) come esempio di abitanti di città che discrepant in loquendo pur appartenendo alla stessa gens: convenientes in eodem genere [var. nomine] gentis (Ve I IX 4), che sarà dunque la gens della Romagna. A quest'esempio fa riscontro, per l'Italia di ‛ destra ', quello di Napoletani e Caietani, appartenenti gli uni e gli altri alla Campania.