RECITAZIONE
. Recitatio significò in origine, presso i Latini, "lettura di documenti nella trattazione di una causa" e recitare "fare l'appello, in giudizio, delle persone già precedentemente citate"; significò poi leggere in pubblico uno scritto o un'opera propria, dire a memoria un brano di poesia o di prosa oppure una parte drammatica sulla scena. Declamatio e dictio furono sinonimi di recitatio, per indicare un'esposizione fatta con le regole dell'arte secondo gl'insegnamenti del maestro di eloquenza nella scuola di retorica (declamator). Oggi si preferisce la parola "dizione" quando si voglia indicare una recitazione vicina alla naturalezza e alla semplicità, mentre alla parola "declamazione" si dà piuttosto il significato di recitazione ampliata dove è facile, per chi recita, varcare le naturali e logiche necessità dell'espressione e, allargando i tempi e intensificando i suoni, giungere all'enfasi dell'antica ars oratoria.
Non abbiamo dati precisi circa la tecnica di recitazione dei Greci, ma certamente essi capirono subito che la tragedia con i suoi dei ed eroi, rappresentata in vasti teatri all'aperto sia pure acustici, esigeva una recitazione ampia, sonora, bene scandita. E gli attori, per raffigurare esseri trascendenti il comune livello umano, ricorsero non solo ad appositi calzari e ad imbottiture, ma anche alla maschera, intensificatrice di certe espressioni e amplificatrice, forse, della voce; ritrovato ben misero, quest'ultimo, se non avessero posseduto prima l'arte di far giungere con chiarezza e con espressività il testo del poeta fino alle più lontane file dell'emiciclo. Pare che essi dicessero i versi osservando scrupolosamente tutti gli accenti ritmici, ma cercando di fonderli in modo felice con gli accenti tonici e con i sintattici, mediante un contemperamento che faceva ondeggiare le parole armoniosamente senza sacrificarne i valori logici ed espressivi. Potrebbe però darsi che questo prodigio di perfezione tecnica non si raggiungesse sempre, ma solo in certi casi, per esempio quando gli attori fossero stati istruiti a lungo e direttamente dal poeta in occasione di un concorso drammatico. Comunque, dato che nel dramma greco l'elemento principale è la parola, e che gli interpreti venivano scelti rigorosamente in base alle loro qualità di dicitori, declamatori e cantori, possiamo essere certi che la recitazione avesse un'importanza massima, e che bellezza e potenza di voce, chiarezza di dizione, fedeltà al testo, gusto nell'accentare e modulare, esatto senso interpretativo, fossero condizioni indispensabili per calzare il coturno o il socco. Il gesto e i movimenti di tutta la persona completavano l'interpretazione; il gesto doveva con frequenza e varietà supplire all'immobilità della maschera, ma al portamento si richiedeva una linea dignitosa che lo rese spesso un po' freddo e compassato, finché venne Euripide a dargli maggiore scioltezza e naturalezza.
Nel dire i versi di un dramma si osservavano le seguenti regole: i giambici senarî erano recitati; i tetrametri trocaici (che dal lato ritmico corrispondono esattamente all'ottonario doppio italiano) ed altri sistemi uniformi erano declamati con una certa cantilena e accompagnati dal flauto; le parti liriche erano cantate secondo una determinata melodia. Stile più dimesso, più realistico, scorrevole, vario aveva la recitazione del dramma satiresco e della commedia; ma anche qui gli attori mettevano ogni cura affinché le parole giungessero nitidissime e con logici accenti espressivi.
Sotto il nome λέξις ("il parlare, il discorso") inteso come speciale maniera di esprimersi, dizione artistica, stile, si raggrupparono fin da allora e si stabilirono quelle regole generali della recitazione che poi preoccuparono in ogni tempo - con le infinite fluttuazioni dovute ai diversi meccanismi linguistici, alle diverse sensibilità, ai varî gusti, ecc. dei singoli popoli - quanti si dedicarono all'arte del dire e del recitare.
I Latini modellarono naturalmente la loro recitazione su quella dei Greci, ma accanto a pochi dicitori sommi, come il famoso Roscio ed Esopo (Cic., De oratore, I, 259), ebbero in gran numero attori mediocri che si lasciavano andare alla recitazione enfatica oppure non osservavano le leggi ritmiche, provocando le proteste del volgo romano, ottimo giudice ad orecchio anche se non conosceva affatto il valore quantitativo delle sillabe.
Nel Medioevo, interrottasi la tradizione greco-latina e sorto il dramma cristiano, recitato non da attori professionisti, ma da interpreti occasionali infervorati dal sentimento religioso, si dovette avere probabilmente, nei primi tempi, una recitazione piena di imperfezioni, ma di un realismo sincero ed ingenuo, finché con lo svolgersi della sacra rappresentazione, riapparve spontaneo lo stile declamato, ben sostenuto e solenne nelle parti principali, vivace e realistico nelle parti comiche e buffonesche.
Intanto i buffoni, i giullari, i menestrelli, i trovatori, e parallelamente i goliardi, portarono una ventata d'aria nuova; la loro recitazione, ora disordinata e popolaresca ora più contenuta e più nobile a seconda del tema trattato, fu certamente sempre viva, calda, palpitante; tale da non poter essere interamente ripudiata e dimenticata più tardi, quando nel Rinascimento risorse il teatro classico e nelle accademie si rappresentarono, da studenti e da appassionati, commedie classiche latine e le prime commedie in volgare. Anche la recitazione del Cinquecento fu una declamazione sostenuta e bene scandita, anche se mancò ai cinquecentisti quella sapiente armonia tra elementi ritmici e sintattici che Greci e Latini dovevano avere trovata.
Dal Cinquecento in poi le accademie tentarono di fissare e tramandare un tipo ideale di recitazione classica, dignitosa e magniloquente, ma in realtà retorica e non sincera, contro la quale insorsero in ogni epoca attori di ingegno e di spiccata personalità persuasi che l'arte del recitare non può essere qualcosa di immutabile, ma deve nel tempo rinnovarsi e cercare nuove vie. Già Shakespeare esortava gli attori a cercare in sé stessi e nella vita che li attornia verità, naturalezza e misura, evitando l'enfasi, l'artificiosità, i lazzi di cattivo gusto; Molière richiamerà alla semplicità e allo studio profondo dei caratteri gli attori sviati dal barocchismo secentesco; e Goldoni, ai gloriosi comici dell'arte, sorti due secoli prima in compagnie di professionisti a opporre contro il dilettantismo accademico freddamente erudito la loro "recitazione a soggetto" originale e scintillante, imporrà nel Settecento la fedeltà al testo scritto, dolendosi che, dopo tanta gloria, fossero divenuti preziosi arcadici, falsi e uniformi. Infine Alfieri domanderà per le sue tragedie uno stile di recitazione incisivo, secco, virile.
Si giunge così, tra un continuo oscillare, ora verso il predominio dello spettacolo sul dramma ora verso tentativi di elevazione della parola in funzione di pensiero e di sentimento, alla rivoluzione francese e al Romanticismo senza che, tuttavia, la recitazione accademica di tipo classicista sia stata vinta. Essa perdura, radicata e salda, in Francia, Germania, Italia anche nei primi anni dell'Ottocento: largo fraseggio, grande rilievo a quasi tutte le parole, modulazioni tonali e poco cromatismo, vigile controllo sul sentimento. Irruppe il Romanticismo e scompigliò tutte le leggi.
La recitazione mirò a rivelare ogni più riposto e fuggevole moto dell'anima, si piegò alle più piccole sfumature; il fraseggiare acquistò varietà e volubilità nuove, si spezzò, si frantumò, conobbe esitazioni improvvise e subiti slanci, si ricompose in belle linee, trovò gridi laceranti e pause angosciose. Si riaffacciarono, è vero, per tutto romantico gli errori d'un tempo ed eccessi anche maggiori; ma tanto movimento favorì a poco a poco il formarsi di nuovi stili adeguati alla prosa delle nuove forme sorte in seguito: una recitazione scarnita e moderata per il dramma verista, semplice e casalinga per il dramma borghese, velata d'ombre e con sprazzi rivelatori per il dramma psicologico, tutta colore e gaiezza per la commedia allegra, e infine - passando al dopoguerra - tutta mezzi toni e reticenze e silenzî per il dramma intimista, paradossale e svagata per i "grotteschi", lieve e un po' superficiale per la commedia comico-sentimentale, trasognata e allucinata per certi drammi surrealisti, nervosa, a scatti e riprese, concitata e fremente, desolata e angosciata per il dramma pirandelliano. Oggi la recitazione italiana può ancora contare su alcuni grandi attori, dicitori sapienti, efficaci, di alta classe, e su altri giovani già affermati o prossimi all'affermazione; ma forse manca di uno stile generale riconoscibile, come l'hanno invece i Tedeschi, i Francesi e soprattutto i Russi, e come l'ebbero un tempo gli stessi Italiani.
Dizione, lettura ad alta voce dei versi e della prosa. - Dicitori e lettori ebbero in ogni epoca fautori fervidi e detrattori accaniti. Fu ad essi favorevole Pericle, non li amava Diogene il cinico; li protessero Augusto, Nerone, Tito, Domiziano; li aborrirono Orazio, Marziale, e il Leopardi.
Ma trionfarono a lungo, buoni, mediocri e cattivi, nelle accademie dei secoli XVI, XVII e XVIII, non solo in Italia ma in tutta Europa; nella seconda metà del XIX la moda parve declinare un poco in Italia mentre continuava in Francia e in Germania; oggi si nota un rifiorire d'interpreti di poesia e di prosa specialmente nel campo femminile. E risorgono antiche questioni: se sia meglio leggersi la poesia da sé o ascoltarla da un interprete che potrà chiarirla ma anche far accettare una sua interpretazione troppo personale; se abbiano ragione certi dicitori che martellano il verso fino alla cantilena o altri che per non renderlo monotono lo spezzano e parlano come se fosse prosa; se siano da preferire i dicitori "oggettivi" che presentano la poesia con lucida intelligenza senza prestarle il proprio palpito, oppure quelli "soggettivi" che rivivono ogni lieve commovimento dell'autore e lo esprimono con adeguata vibrazione; se la lirica possa essere interpretata con accenti e gesti da scena drammatica o debba essere contenuta in una linea di puro lirismo. Fra tante opinioni differenti sembra prevalere oggi questa: che i dicitori di poesia hanno una loro utile funzione come esegeti e divulgatori, purché, rispettando scrupolosamente e armonizzando tutti i valori ritmici e metrici, sintattici ed espressivi, presentino l'opera d'arte con assoluta fedeltà, con giusto stile e con buon gusto. I lettori di prosa, apparentemente più liberi perché non vincolati da ritmi fissi, dovranno volta per volta intuire e scoprire gl'infiniti mutevolissimi ritmi nascosti che ogni prosa artistica contiene, e allacciarli in armoniose successioni con particolare riguardo alle proporzioni dell'architettura totale.
Quanto poi alla recitazione di poesia lirica con accompagnamento musicale, molto in uso presso altre nazioni, sembra che in Italia il melologo non desti grande interesse né simpatia, forse perché lo si considera una forma ibrida in cui parola e musica procedono spesso sopra due piani paralleli col risultato di aiutarsi un poco e di nuocersi molto a vicenda.
Scuole di recitazione. - Scuole di recitazione si sono avute in tutte le epoche del teatro drammatico, intendendo naturalmente la parola "scuola" nel suo significato più ampio, di metodica disciplina per l'addestramento tecnico dei dicitori e attori. In questo senso si ebbero scuole di attori già presso i Greci; e Quintiliano, nella sua Institutio oratoria (XI) ci dà notizia di come si addestravano a queste arti i Romani. La tradizione dei mimi latini si trasmise liberamente, più o meno alternandosi o trasformandosi, anche nel Medioevo; dove però (come si è detto alle voci attori; filodrammatici) gl'interpreti del vero e proprio teatro drammatico, sia religioso, sia profano, furono solitamente dei "dilettanti". Una scuola nuova, professionale, fu ricreata, nel Rinascimento italiano, dagli attori professionisti della commedia dell'arte (v.), alle cui norme oggi intendono sovente richiamarsi i maestri della scena europea.
Quanto alle moderne scuole propriamente dette, o veri istituti per l'insegnamento, è noto che il Conservatoire de musique et de déclamation di Parigi, diretto da un musicista, ha un corso di tre anni per la recitazione, affidato ad attori dei teatri sovvenzionati dallo stato, e il cui insegnamento consiste puramente e semplicemente in quello della dizione, nonché della storia del teatro; nei suoi saggi finali (concours) gli allievi si limitano a recitare, senza trucco né messinscena, scene a due, appartenenti a un'opera classica; e i migliori classificati vengono accolti per un biennio negli infimi ruoli della Comédie Française e dell'Odéon. Criterî di tutt'altro genere sono invece quelli adottati nelle scuole teatrali dei paesi europei dove la scena è più in fiore, specie tedeschi e slavi; ivi ogni innovatore, e ogni regista di gran nome, ha di regola istituito, accanto al proprio teatro, una scuola che è il suo vivaio, e dove s'impartisce un insegnamento completo, comprendente recitazione, ginnastica, danza, canto, ecc., talvolta anche acrobazia, nonché materie culturali, come storia del teatro, del costume, dell'arte, ecc. Così hanno fatto lo Stanislavskij e il Dančenko nel Teatro d'arte di Mosca, presto imitati da innumerevoli altri teatri slavi; il Reinhardt a Berlino e a Vienna, dove è aperto tuttora il suo "Seminario"; e (dando al suo insegnamento caratteri meno fisici e più spirituali) Jacques Copeau, prima a Parigi presso il Vieux Colombier, e poi nella sua scuola di Pernand Vergelesses presso Digione. Nel 1934 l'U. R. S. S. contava ufficialmente 168 scuole d'arte teatrale, con 26 mila allievi, di cui il 65% provenienti dalle classi operaie.
In Italia, dove al compito di scuole hanno adempiuto da un lato le compagnie della "famiglia d'arte", e dall'altro le filodrammatiche, nell'ultimo cinquantennio sono esistiti due istituti governativi del genere: uno a Firenze presso l'Accademia dei Fidenti, che nel suo periodo migliore ebbe a maestro Luigi Rasi e che nel 1924, soppresso dallo stato, si trasformò in scuola privata; l'altro in Roma presso la R. Accademia di Santa Cecilia, istituito dal ministro dell'Istruzione Guido Baccelli e in origine diretto da Virginia Marini, poi nel 1924 intitolato al nome di Eleonora Duse, infine nel 1935 reso autonomo e trasformato dal ministro dell'Educazione nazionale C. M. De Vecchi in R. Accademia di arte drammatica. Questa ha annunziato un vasto e moderno programma per la formazione di attori e registi. Materie d'insegnamento: recitazione, storia del teatro, ginnastica, danza, scherma, canto, trucco, e, per i registi, regìa, storia del costume e scenotecnica. Gli allievi migliori sono forniti di borse di studio, di sovvenzioni per viaggi d'istruzione all'estero, e di altri privilegi, fra cui l'ammissione alle compagnie sovvenzionate dallo stato; e debbono dare periodicamente, nel loro teatro (a cui è stato mantenuto il nome di E. Duse), pubblici saggi insieme con i loro maestri, vivendo con essi la vita d'una vera e propria compagnia drammatica.
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