Reddito
(XXVIII, p. 969; App. IV, iii, p. 172; V, iv, p. 430)
La nozione di reddito costituisce la base del calcolo economico, e come tale entra con un ruolo principale, se non 'monocratico', nell'analisi quantitativa della crescita e della distribuzione delle risorse economiche e nella formulazione di modelli interpretativi connessi a questi fenomeni. Le categorie della moderna contabilità nazionale, e l'analisi macroeconomica che le utilizza come ingredienti fondamentali nel descrivere il comportamento del sistema economico, sono fondate sostanzialmente su una stima statica e sulle variazioni dinamiche (e su disaggregazioni per categorie di formazione, impiego o per componenti funzionali) di una nozione di reddito. Il r. come misura delle disponibilità economiche entra come obiettivo o vincolo nella formalizzazione del comportamento razionale degli agenti a livello microeconomico.
La traslazione a livello 'macro', in termini di un r. nazionale, costituisce la quantificazione statistica moderna di una misura della 'ricchezza delle nazioni'; comparazioni basate sui differenziali del r. pro capite hanno finito col rappresentare un semplice, e talvolta semplicistico, criterio quantitativo per la valutazione dei livelli relativi di sviluppo e di benessere conseguiti dalle diverse collettività. Naturalmente, l'applicazione di convenzioni statistiche comuni è essenziale ai fini di una comparabilità del r. nel tempo e nello spazio; a tale fine, prosegue da anni senza interruzione lo sforzo degli organismi internazionali preposti al perfezionamento di norme e metodi uniformi per la Contabilità nazionale (United Nations 1968).
In questa sede si concentrerà l'attenzione su alcune linee più recenti della riflessione economica, in particolare intorno alle fondamentali tematiche della crescita e della distribuzione del r., con una nota finale dedicata alle problematiche specifiche del caso italiano.
Reddito lordo e reddito netto: il dibattito sulla 'sostenibilità'
Pur evitando di entrare nel dettaglio delle definizioni di r., è importante accennare, in un momento di accresciuta sensibilità collettiva per le tematiche dell'ambiente, al dibattito intorno alla nozione di reddito netto a livello collettivo e al suo correlato dinamico in termini di una crescita sostenibile (v. anche sviluppo sostenibile, App. V, e in questa Appendice). Un'attività che consista, per es., nello sfruttamento intensivo di una foresta tropicale verrà contabilizzata nella prassi corrente al lordo, in termini cioè del valore aggiunto economico che deriva da tale processo e che viene ripartito tra i fattori impegnati (capitale investito, lavoro, proprietà fondiaria). Una nozione di r. nazionale al netto dovrebbe, invece, detrarre da tali valori la stima economica di una distruzione di risorse non rinnovabili che, in quanto tali, non saranno più disponibili in futuro per la collettività.
Come nella stima del r. di un individuo, per un dato periodo, non vengono incluse eventuali spese in eccesso che intacchino una sua dotazione di 'ricchezza' (ossia il risparmio negativo) compromettendo una disponibilità di impiego futuro, così la stima del r. reso disponibile, a livello collettivo, dall'esercizio dell'attività economica dovrebbe in principio tener conto della deplezione di un fondo di ricchezza rappresentato dai beni ambientali in senso lato.
Un principio di equità intergenerazionale e la consapevolezza delle implicazioni entropiche del ricambio uomo-natura dovrebbero rinviare a visioni in cui l'attività di produzione e di scambio non operi in un vacuum, ma interagisca con uno stato definito di dotazione di risorse naturali esauribili. Una definizione adeguata di r. disponibile andrebbe quindi inquadrata, in ogni periodo, in una visione più lungimirante di impiego nel tempo dei fondi, e con questo termine si intendono gli agenti primi del processo di produzione, la cui capacità di valorizzazione dev'essere preservata ed eventualmente reintegrata in ogni periodo (Georgescu-Roegen 1971). Il r. netto, quindi, a livello individuale come a livello di sistema, è il flusso di risorse delle quali si può disporre per le opzioni di consumo e di accumulazione nel periodo di riferimento, fatta salva la preservazione della dotazione dei fondi di risorse produttive naturali o accumulate, tangibili o intangibili, materiali o umane, che costituiscono le fonti a fecondità ripetuta dal cui uso produttivo il r. scaturisce come flusso nel tempo.
Distribuzione del reddito: aspetti spaziali
Il r. pro capite (o PIL pro capite, che coincide con il primo se si considera un'economia chiusa che non ha scambi con il resto del mondo e si ignorano gli effetti redistributivi di tasse e sussidi) è stato assunto di fatto a indicatore sintetico del grado di sviluppo economico raggiunto da una collettività.
Le critiche verso una 'monocoltura' del r. e le proposte di indicatori compositi ai fini di una valutazione del benessere non sono mancate; d'altra parte, la disponibilità ampia di dati statistici - che consentono confronti nel tempo e nello spazio - ha ravvivato la ricerca economica applicata, interessata alla verifica di ipotesi e a una risposta sui punti controversi di vecchi e nuovi modelli di crescita economica (per es. Mankiw, Romer, Weil 1992; Solow 1994). Tali ricerche vertono fondamentalmente sulla questione se i meccanismi di un'economia di mercato aperta agli interscambi internazionali siano capaci di assicurare la diffusione, fra i diversi contesti, di un benessere economico potenzialmente reso disponibile dalle applicazioni del progresso tecnologico e dai guadagni di produttività a queste conseguenti.
L'interesse per l'analisi degli aspetti spaziali delle diseguaglianze del r. è connesso alla ripresa di un confronto, a livello teorico, fra visioni e modelli diversi di crescita dei sistemi economici nel lungo periodo. In particolare, la verifica di una qualche nozione di convergenza del r. appare centrale in questo dibattito, e costituisce l'oggetto principale degli esercizi empirici ed econometrici (per definizioni e applicazioni, Barro, Sala-y-Martin 1992). A questo proposito, si ricorda che il modello fondante della teoria neoclassica della crescita aggregata (Solow 1956) prevede che, a parità dei parametri fondamentali del cosiddetto tasso naturale di crescita (ossia la dinamica demografica e il tasso di progresso tecnico esogeno che aumenta nel tempo la produttività del lavoro), i tassi di crescita del r. di sistemi economici con punti di partenza e storia diversi tenderanno a convergere nel lungo periodo. Se inoltre anche le propensioni al risparmio sono uguali, si avrà una convergenza, anche per il livello di equilibrio stazionario, del r. e delle dotazioni di capitale pro capite; questo sarà aumentabile nel tempo, alla fine, solo per l'effetto dell'operare di un progresso tecnico non spiegato e assunto come parametro tecnologico esogeno.
Data una funzione neoclassica aggregata di produzione in termini intensivi, ove il prodotto pro capite (Y/L, in cui Y è il PIL e L la popolazione) è una funzione crescente a rendimenti decrescenti del capitale pro capite (K/L, in cui K è il capitale totale)
si descrive la dinamica di accumulazione del sistema (ignorando l'ammortamento del capitale), partendo dall'identità fra risparmio (sY, dove s è la propensione al risparmio) e investimento dK che è caratteristica di un'impostazione neoclassica:
Sottraendo il tasso di crescita della popolazione n, ricaviamo il tasso di crescita del capitale pro capite k, a cui si riconduce, in condizioni di crescita bilanciata di equilibrio nel lungo periodo, anche l'incremento del r. pro capite y:
In assenza del progresso tecnico esogeno, si raggiungerà un equilibrio stazionario per il r. pro capite: questo sarà dato ponendo eguale a zero l'espressione di cui sopra, e risolvendo per il valore di k* di equilibrio per cui si avrà:
Con progresso tecnico esogeno, che incrementa la produttività del lavoro a un tasso costante nel tempo γ, il r. pro capite potrà aumentare nella stessa misura. Due implicazioni importanti discendono da questo schema:
a) un'economia 'arretrata', che parte da bassi livelli di k e y, avrà valori iniziali più elevati del rapporto f(k)/k (produttività media del capitale, che, conformemente al postulato della produttività marginale decrescente dei fattori, scende all'aumentare di k); se quest'economia è capace di esprimere una propensione al risparmio adeguata, potrà crescere più rapidamente rispetto a un'economia 'matura' (ipotesi del cosiddetto catching-up del r.);
b) d'altra parte, ove le differenze nei livelli (o tassi di crescita) del r. fra i paesi - o aree regionali - dovessero persistere nel lungo periodo, il fenomeno andrà attribuito, eventualmente, a una dinamica demografica n eccessiva, oppure a una carenza nella capacità di risparmio e accumulazione s; da tali fattori derivano pertanto le spiegazioni convenzionali della persistenza nel tempo di condizioni di 'trappola del sottosviluppo'.
Una nuova generazione di modelli di crescita economica, a partire dagli anni Ottanta, si è contrapposta a questo schema consolidato: i cosiddetti modelli di crescita endogena contestano precisamente la dipendenza degli esiti di lungo periodo dei livelli e della crescita potenziale del benessere economico da parametri extraeconomici non riconducibili a scelte e a comportamenti razionali degli agenti. Al di là della varietà degli schemi formali, i differenziali spaziali del r. vengono fatti dipendere, in questi schemi, dalla diversità di dotazioni, efficienza e capacità di mobilizzazione delle risorse produttive (ossia, il capitale in senso lato, tale da includere il cosiddetto capitale umano e quindi i differenziali di livelli di istruzione e di abilità incorporate nella forza lavoro produttiva di un paese). È importante, in tali modelli, l'ipotesi che impieghi incrementali di tali risorse non siano soggetti, in tutto o in parte, al postulato dei rendimenti decrescenti nel procedere dell'accumulazione: le differenze nei livelli relativi del r. tenderebbero pertanto a restare immutate fra i sistemi economici (e le differenze nei valori assoluti tenderebbero anzi a crescere), smentendo, pertanto, un movimento verso la convergenza e riduzione delle disparità spaziali del r. nel tempo.
Al di là dei formalismi, pertanto, il punto centrale della controversia verte sulla convinzione o meno se l'insieme del sistema economico - considerato nella sua dimensione globale e governato dalle scelte di accumulazione e di consumo che rispondono a comportamenti razionali degli agenti - sia capace di tradurre le potenzialità connesse allo sviluppo tecnologico e ai benefici del libero scambio in termini di diffusione e convergenza del benessere economico.
I divari fra i livelli di r. nel contesto mondiale rimangono ampi, e la persistenza delle aree di sottosviluppo e povertà assoluta rimane un fatto di drammatica evidenza. Ampi differenziali di r. si ripropongono all'interno dei contesti economici nazionali o continentali, fra le diverse aree regionali. I dualismi Nord-Sud sembrano resistenti nel tempo, a fronte delle variazioni degli equilibri politico-economici, delle strategie di intervento e nonostante la mobilitazione di risorse ampie in termini di trasferimenti monetari. La frattura strutturale dell'economia del nostro paese rappresenta, a questo proposito, un caso fra i più clamorosi. D'altra parte, nel corso degli anni Settanta e Ottanta in particolare, alcuni paesi, localizzati prevalentemente nell'area est-asiatica, hanno segnato elevati tassi di crescita del r. con partecipazione crescente agli interscambi mondiali: gli schemi tradizionali del 'decollo industriale' e del catching-up sono sembrati ancora adatti ai fini di una razionalizzazione di questi casi di apparente successo.
La dispersione spaziale del r. appare caratterizzata, in conclusione, da tendenze non univoche; la complessità della fenomenologia reale si è riflessa sulle ricerche intorno ai fattori differenziali della crescita e sulla convergenza, in termini di difficoltà di generalizzazione dei risultati empirici, che appaiono spesso non sufficientemente 'robusti' al variare del contesto spazio-temporale delle applicazioni e degli schemi.
Tendenze della distribuzione funzionale e spaziale del reddito
L'analisi della distribuzione funzionale del reddito fra le classi sociali (lavoratori salariati, capitalisti, percettori di rendite fondiarie e finanziarie) ha costituito il nucleo centrale della rappresentazione delle tendenze di fondo delle economie capitalistiche da parte degli economisti classici; l'approccio neoclassico, o marginalistico, attraverso l'inclusione della remunerazione di tutti i fattori produttivi all'interno di una teoria della determinazione concorrenziale di prezzi di equilibrio, ha di fatto disinnescato la specificità analitica, e la valenza sociale potenzialmente dirompente, di una teoria della distribuzione funzionale.
A livello di schemi macroeconomici, un'ipotesi di sostanziale stabilità della ripartizione del prodotto fra quota del lavoro e remunerazione lorda del capitale è stata generalmente accettata come un 'fatto stilizzato', sia nelle impostazioni neoclassiche che in quelle neokeynesiane, e incorporata come tale all'interno di definizioni di schemi di crescita di 'stato uniforme'.
Su un altro versante, l'analisi della distribuzione personale del reddito - che considera le diseguaglianze del r. disponibile all'interno di popolazioni di individui o nuclei familiari, indipendentemente dall'origine funzionale dei r. stessi - ha accumulato un'ampia mole di studi empirici sin dalla formulazione della legge di Pareto (che mette in relazione funzionale il numero dei percettori di r. con il livello del r. stesso) e dai primi studi statistici sulla regolarità e persistenza delle curve di densità o di concentrazione della distribuzione.
Recentemente, dopo il periodo 'alto' delle controversie degli anni Sessanta e Settanta, vi è stata una significativa rarefazione di contributi innovativi alla teoria della distribuzione. È quindi sul fronte dell'osservazione delle tendenze empiriche che risulta opportuno un aggiornamento; negli anni Novanta in particolare, sia per le quote distributive dell'analisi funzionale, sia per gli indicatori di diseguaglianza dell'analisi personale, sembrano evidenziarsi scostamenti significativi dalle norme di relativa stabilità richiamate dai modelli di crescita o nelle regolarità statistiche delle curve di densità della distribuzione.
Nella tabella si riportano stime di una quota dei r. da lavoro dipendente, sul PIL ai prezzi di mercato (che include quindi l'incidenza dell'imposizione indiretta sui beni e servizi), per alcuni paesi 'avanzati', all'inizio e a metà dell'ultimo decennio del 20° secolo. I dati mostrano che, a fronte di una sostanziale stabilità negli USA e in Francia, per l'insieme dell'UE vi è stato un calo della quota del lavoro di circa il 2,5%. L'Italia segna, fra i maggiori paesi dell'area europea presi in considerazione, la maggiore contrazione di tale quota.
Da un punto di vista contabile, il fenomeno è il riflesso di una crescita delle retribuzioni reali che è stata, nel periodo, più spesso inferiore a quella del prodotto. Le politiche economiche finalizzate in via prioritaria alla disinflazione e alle politiche dei r., che hanno favorito una moderazione salariale coerente con tale scopo, hanno probabilmente consentito una minore partecipazione del fattore lavoro all'appropriazione dei guadagni della produttività, rispetto a un passato ancora recente. L'impatto di un progresso tecnologico con una forte potenzialità di risparmio di lavoro (la 'rivoluzione microelettronica') e l'intensificazione dalla competizione a livello internazionale con conseguente pressione al contenimento dei costi, possono ancora aver contribuito allo sviluppo di un quadro non favorevole al lavoro, a livello di rapporti di forza contrattuali.
Vale la pena di sottolineare le implicazioni contraddittorie, dal punto di vista delle conseguenze di medio periodo sulla crescita economica, di una fase di redistribuzione che risulti favorevole ai r. da capitale in senso lato: nella misura in cui questi, direttamente o indirettamente, e detratta l'incidenza della fiscalità, rappresentano la principale fonte di finanziamento di una spesa di investimento, dovrebbero accrescersi le potenzialità di espansione dell'offerta aggregata. Tuttavia, in una prospettiva postkeynesiana, andrebbero ricordati i rischi di una tendenza al ristagno dei consumi privati interni, se è valida l'ipotesi di N. Kaldor riguardo alla maggiore propensione al consumo dei r. da lavoro rispetto a quelli da capitale. Una maggiore crescita dell'offerta potenziale nel tempo, a fronte di una dinamica attenuata di una componente quale quella dei consumi privati interni che conta all'incirca per il 60% della domanda aggregata complessiva, apre la strada a una possibile contraddizione fra offerta e sbocchi, che viene tuttavia ignorata dai modelli neoclassici di sviluppo impostati per definizione su un'ipotesi di piena utilizzazione della capacità.
Anche laddove i dati della distribuzione funzionale confermano apparentemente una norma di stabilità, come nel caso degli Stati Uniti, le tendenze nella distribuzione personale segnalano, per gli anni più recenti, una tendenza importante verso una polarizzazione dei r. e un incremento degli indicatori di diseguaglianza distributiva.
Gli Stati Uniti, che in termini di crescita e capacità di attivazione del lavoro hanno, notoriamente, registrato risultati ampiamente più soddisfacenti rispetto alla 'sclerosi' delle economie europee, hanno segnato nel frattempo un salto considerevole della diseguaglianza: per es., il rapporto fra il 9° e il 1° decile (scarto di r. fra il 10% più ricco e il 10% più povero della popolazione) è passato da un valore di 3,18 del 1979 al 4,35 del 1995. Da ricordare che i valori di questo rapporto, in tale anno finale, oscillavano, nei paesi europei, fra un minimo di 2,2 (Svezia) a un massimo di 3,4 (Francia). Vi è la sensazione che la più accentuata diseguaglianza sia il riflesso necessario di una maggiore flessibilità dei salari relativi negli Stati Uniti; d'altra parte, ove tale flessibilità venga limitata, come spesso si presume per il caso europeo, ne seguirebbe una minore domanda di lavoro e un incremento della disoccupazione, in particolare per le categorie meno qualificate di lavoratori.
Tendenze della crescita e distribuzione del reddito per il caso italiano
Il quadro delle politiche macroeconomiche del r. e delle relazioni industriali è stato segnato nel nostro paese, in questi ultimi anni, dal quadro generale stabilito dall'accordo siglato fra governo e parti sociali nel luglio del 1993 (v. reddito, App. V). Il contributo di tale quadro nel successo di una politica di 'rientro' dall'inflazione e nell'aggancio delle scadenze dell'Unione monetaria europea sarebbe, crediamo, difficile da negare. Nel successo di una politica macroeconomica aggregata di stabilizzazione la 'politica dei redditi' ha quindi mostrato di avere ancora un ruolo non secondario. Non si può tuttavia non ricordare il dato persistentemente negativo, e a volte sconfortante, di quello che rimane da sempre lo squilibrio fondamentale dell'economia e della società italiana: il divario Nord-Sud.
Gli anni più recenti hanno visto, infatti, un peggioramento dei rapporti fra le performances del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, nei termini di r., produttività, condizioni sul mercato del lavoro, smentendo apparentemente i sia pur timidi accenni a una convergenza che nei decenni precedenti si era voluta segnalare.
Riportando i dati dell'ultimo Rapporto 1998 sull'economia del Mezzogiorno (SVIMEZ 1998), la quota del PIL meridionale sul totale nazionale si è ridotta dal 25,3% del 1991 al 24,2% del 1997; il r. pro capite sarebbe sceso, sempre secondo tale stima, al 54,5% di quello del Centro-Nord, dal 58,6% dell'inizio decennio. Si accenna solo, al fine di completare il quadro, ai divari del mercato del lavoro: 7,6% per il tasso di disoccupazione nel Centro-Nord, contro il 22,2% nel Mezzogiorno, con una punta di quasi il 26% in Campania.
Si tratta di divari che non trovano riscontri analoghi nel contesto di altri paesi con livelli di sviluppo comparabili a quello italiano. I costi della politica di stabilizzazione sono stati pagati, apparentemente, da un'economia meridionale dove maggiore era la dipendenza da componenti di domanda e di trasferimenti del settore pubblico, e minori le possibilità di compensazione per la scarsa capacità del tessuto produttivo di agganciare la favorevole tendenza della domanda estera. Come indicatore addizionale degli scarti dei livelli di benessere, si ricorda che i consumi per abitante nel Mezzogiorno erano, alla fine del 1996, circa il 66% dei livelli del Centro-Nord. I divari di r. e di sviluppo sono certamente il dato più eclatante della carenza di coesione del tessuto economico e sociale del nostro paese; i limiti di una politica dei r. e di una contrattazione centralizzata, attenta principalmente agli indici aggregati di stabilità dei prezzi e di bilancio pubblico, e incapace di modulare con flessibilità gli interventi a seconda delle diversità del contesto territoriale, sembrano a questo punto evidenti.
Non mancano, in linea di principio, strumenti di intervento specifici dedicati a un problema di riequilibrio territoriale; non mancano nemmeno i mezzi monetari, ove le risorse messe a disposizione dalla legislazione nazionale e dagli stanziamenti dei fondi dell'Unione Europea a favore delle aree in ritardo di sviluppo (regioni incluse nel cosiddetto Obiettivo 1 delle politiche regionali comunitarie) fossero pienamente impegnate ed efficacemente spese. A tale proposito è utile sottolineare come due 'piccole' regioni, quali la Basilicata e l'Abruzzo, che hanno mostrato di recente la maggiore capacità di spesa effettiva rispetto al plafond dei fondi comunitari disponibili, sono anche state quelle che si sono caratterizzate per la migliore performance relativa di crescita (12,6% e 6,2% di incremento cumulato del PIL regionale nell'ultimo quinquennio, di contro al 2% scarso per la media del Mezzogiorno). Esempi di dinamismo a livello locale non cancellano tuttavia il dato negativo del divario e l'esistenza inquietante di un'ulteriore e recente tendenza alla divergenza dei dati sul r. nel nostro paese.
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