Referendum
1. Definizione
Il referendum è uno strumento di democrazia diretta per mezzo del quale gli elettori, essenzialmente tutti coloro che hanno già ottenuto il diritto di votare nelle normali consultazioni elettorali, sono chiamati prevalentemente a decidere con un 'sì' oppure un 'no' su una o più tematiche più o meno chiaramente delineate. In effetti, gli elettori non decidono in tutti i tipi di referendum, ma soltanto in quelli nei quali la scelta è secca, con un'alternativa chiaramente delineata fra due sole opzioni legislative ovvero di politiche pubbliche. Questo tipo di referendum, che può essere definito 'deliberativo', è probabilmente quello che meglio traduce l'essenza del referendum quale strumento di democrazia diretta. Una volta espressi e contati i voti, l'opzione prescelta dagli elettori dovrebbe essere attuata, nei limiti del possibile, senza ulteriori mediazioni né politiche né legislative. Esiste anche un altro tipo di referendum, quello 'abrogativo', che dovrebbe escludere qualsiasi mediazione traducendosi nella cancellazione di una legge o di sue parti. Pur intrinsecamente più limitato del referendum deliberativo - in quanto, per l'appunto, circoscritto all'abrogazione di una o più norme o di loro parti, da cui deriva però una certa indeterminatezza concernente l'organicità delle norme rimanenti -, il referendum abrogativo pone anch'esso l'elettore di fronte all'alternativa sì/no, e specificamente: abrogare in tutto o in parte un testo legislativo, oppure conservare, in tutto o in parte, quel testo. Tuttavia alcune delle conseguenze di un voto favorevole all'abrogazione di una o più norme o di loro parti possono richiedere interventi legislativi da parte delle assemblee elettive, sia perché provocano un vero e proprio vuoto legislativo, sia perché comportano la necessità di una ricucitura e di una precisazione delle norme rimanenti. Il caso italiano, caratterizzato dall'esistenza di questo referendum a livello nazionale, offre numerosi esempi di ritaglio di leggi, di abrogazione di alcune norme, di esigenza di ricorrere al Parlamento sia per la stesura vera e propria di un testo legislativo che per l'adeguamento delle norme rimanenti alle preferenze espresse dall'elettore, nonché di conseguenti critiche per l'operato del Parlamento, accusato talvolta di manipolare la volontà degli elettori.
Esistono almeno altri due tipi di referendum meritevoli di attenzione: il referendum 'consultivo', definito anche, non del tutto propriamente, 'di indirizzo', e il referendum costituzionale. Facendo ricorso al referendum consultivo, le autorità, i governanti, le assemblee elettive esprimono l'esigenza di sondare le preferenze degli elettori su una determinata scelta da compiere, senza sentirsi perciò necessariamente vincolati dal risultato del voto, oppure vogliono delegare agli elettori la responsabilità di scelte particolarmente complesse, controverse, sgradite. Naturalmente, se l'alternativa posta all'elettorato è fra due sole opzioni, l'esito non si presterà a interpretazioni più o meno manipolative, ma comunque i governanti manterranno una certa discrezionalità nell'adeguarsi al verdetto referendario. Tuttavia, per quanto raramente, le opzioni praticabili possono essere più di due. Ad esempio, gli elettori svedesi furono chiamati per ben due volte a scegliere fra tre alternative: nel 1957 tra differenti sistemi pensionistici, nel 1980 tra la chiusura più o meno totale e immediata o la prosecuzione dell'attività delle centrali nucleari. La conseguenza fu che nessuna delle tre alternative ottenne la maggioranza assoluta, lasciando la responsabilità della decisione al governo. Comprensibilmente, quando l'alternativa posta dal referendum non è secca, governo e parlamento godono di una riserva interpretativa che potrebbe anche concretizzarsi in una mancata osservanza delle preferenze dell'elettorato costretto a esprimersi in maniera non decisiva. Di converso, una volta fatto ricorso a un referendum consultivo, governo e parlamento devono comunque assumere quelle responsabilità decisionali che parevano voler evitare proprio indicendo il referendum.
Quanto al referendum costituzionale, in linea di massima deve essere collocato fra i referendum deliberativi. Possiede, però, alcune caratteristiche peculiari di significativa rilevanza politica che vanno esplicitate e analizzate. In primo luogo, molte costituzioni, in particolare quelle formulate dopo traumi politici - guerre, crisi di regime, mutamenti di confini, nascita di nuovi Stati -, sono sottoposte all'approvazione popolare proprio al fine di acquistare una maggiore legittimità. In secondo luogo, molti ordinamenti prevedono esplicitamente l'obbligatorietà del referendum costituzionale per l'introduzione di qualsiasi modifica alla costituzione vigente, sia, anche in questo caso, per accrescere la legittimità delle modifiche che per garantire le minoranze, parlamentari, politiche, sociali, con il ricorso al corpo elettorale.
Diversamente dagli ordinamenti esistenti nelle democrazie contemporanee, la Costituzione italiana, che codifica la possibilità del referendum abrogativo sulle leggi ordinarie, contempla anche, esclusivamente per le leggi di revisione costituzionale, un altro tipo di referendum definibile 'confermativo', ma in realtà 'ripudiativo'. Secondo l'art. 138 il referendum è facoltativo e può essere attivato sia da un quinto dei membri di una Camera che, alternativamente, da cinquecentomila elettori oppure da cinque Consigli regionali. La modifica costituzionale è promulgata esclusivamente se approvata dalla maggioranza dei voti validi. Con questo tipo di referendum l'elettorato è chiamato a rispondere 'sì' oppure 'no', accettando ovvero ripudiando le modifiche introdotte a singoli articoli della Costituzione e non, si noti bene, testi costituzionali organici e sostitutivi di quello attualmente in vigore. Finora questo tipo di referendum non è mai stato utilizzato, anche perché le modifiche costituzionali, poche e poco significative, sono state approvate da maggioranze parlamentari superiori ai due terzi delle due Camere, tali, cioè, da impedire costituzionalmente la richiesta stessa di referendum. Naturalmente, anche se una modifica prodotta dal Parlamento acquisirebbe maggiore rilevanza politica e più consistente legittimità se confermata dagli elettori, è nel caso del ripudio che il referendum appare più significativo. Infatti il ripudio popolare espresso dal referendum segnalerebbe una grave discrepanza fra le preferenze del paese legale, che in Parlamento ha approvato quella modifica costituzionale, e le preferenze del paese reale, espresse dal voto dei cittadini che hanno invece respinto quella modifica.
Poiché le tipologie dei referendum sono svariate, è molto difficile ricondurle a poche e precise categorie. Tuttavia almeno tre elementi, oltre alle modalità già brevemente esposte, servono a differenziare in maniera sufficientemente limpida i tipi di referendum (per due di essi v. Smith, 1976). La prima grande distinzione riguarda chi ha il potere di attivare lo strumento referendario; la seconda riguarda il livello politico al quale lo strumento può essere attivato e utilizzato; la terza riguarda le conseguenze perseguite. Il potere di attivare il referendum viene variamente attribuito alle autorità istituzionali (ad esempio, ai presidenti della Repubblica oppure, ad altro livello, ai sindaci), ai governanti e al parlamento, ovvero a sue frazioni, a enti locali (in Italia i Consigli regionali e comunali) e a un certo numero di cittadini. In qualche caso, peraltro, come in Francia, i cittadini non hanno il potere di attivare i referendum: possono farlo soltanto il governo e il Parlamento. In altri casi invece, ad esempio nella Costituzione italiana, ai governanti è completamente precluso il ricorso al referendum. Qualche volta l'intreccio fra governo e parlamento è tale che questa distinzione si perde. In Francia è la maggioranza parlamentare, quindi il governo, che chiede al presidente della Repubblica di indire un referendum. Ma se il presidente è anche il capo della maggioranza politica in Parlamento, appare evidente che potrà sollecitare con successo, come ad esempio fece più volte Charles de Gaulle, questa richiesta parlamentare. In Italia nel 1989 fu il Parlamento, con pieno favore e sostegno del governo in carica, ad approvare una legge apposita per interrogare i cittadini, con un referendum di indirizzo, sulla loro disponibilità a conferire poteri costituenti al Parlamento europeo (una prevedibilmente schiacciante maggioranza rispose in senso affermativo).
Poiché in Italia il referendum è abrogativo e come tale si configura - se il suo risultato è la prevalenza dei no - anche il referendum costituzionale, proprio perché può essere richiesto, come abbiamo anticipato, da un quinto dei componenti di una Camera, o da almeno cinquecentomila elettori ovvero da almeno cinque Consigli regionali, nella tipologia elaborata da Gordon Smith esso è definito di natura antiegemonica, vale a dire orientato a controllare il potere politico e non a rafforzarlo con una delega potenzialmente di tipo plebiscitario (caratteristica insita nelle consultazioni referendarie attivabili dai detentori del potere politico, di governo). Nella Costituzione italiana esistono anche altri attori, spesso negletti, che possono avanzare specifica richiesta di referendum (art. 132): i Consigli comunali che desiderino procedere alla fusione di regioni esistenti o alla creazione di nuove regioni o all'aggregazione di province e comuni da una regione a un'altra.Il tipo di referendum più distante da quello attivato dai cittadini è comprensibilmente quello attivato dai governanti, per l'appunto collocabile nella categoria da Gordon Smith definita egemonica poiché viene utilizzato al fine di rafforzare i detentori del potere politico. Probabilmente sulla carta l'esempio migliore di questo tipo di referendum è presentato dalla Quinta Repubblica francese, anche se referendum con caratteristiche quasi plebiscitarie costellano tutta la storia costituzionale della Francia (v. Morel, 1994). In Francia è il presidente della Repubblica che indice il referendum ma, come già rilevato, lo può fare esclusivamente "su proposta del governo per tutta la durata delle sessioni parlamentari o su proposta congiunta delle due Assemblee pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale" (art. 11). Se è vero che il presidente, quale capo riconosciuto della maggioranza politico-parlamentare, non avrà nessuna difficoltà a sollecitare e ottenere tutte le proposte che vuole, è anche vero che, in caso di coabitazione con una maggioranza ostile, il presidente non potrà fare ricorso al referendum, soprattutto se lo desidera in chiave plebiscitaria. Inoltre, il referendum francese ha come oggetti specifici esclusivamente l'organizzazione dei poteri pubblici e la ratifica di un trattato che incida sul funzionamento delle istituzioni. In sostanza il referendum francese, da un lato, non consente al presidente e al governo della Quinta Repubblica di legiferare in materie ordinarie e, dall'altro, non consente ai cittadini di attivarsi autonomamente per influenzare l'agenda legislativa e la formazione e l'abrogazione di leggi.
La seconda importante distinzione riguarda il livello politico-territoriale al quale sono indetti i referendum. Tra le grandi democrazie contemporanee ve ne sono cinque che non hanno mai fatto ricorso a referendum nazionali: Giappone, India, Israele, Olanda e Stati Uniti. Nel secondo dopoguerra la Repubblica Federale Tedesca (poi la Germania unita) ha rinunciato alla possibilità di tenere referendum nazionali, cosicché persino la riunificazione tedesca del 1990 è stata preceduta da un referendum svoltosi soltanto nei Länder della Germania dell'Est. Il Belgio ha fatto ricorso a un solo referendum nazionale nel 1950 per accertare il favore dei cittadini al ritorno del re, che venne approvato. Si potrebbe pensare che, fondati su una solida concezione della supremazia della democrazia rappresentativa, siano in special modo i sistemi politici legati all'esperienza costituzionale anglosassone - a partire, ovviamente, dalla Gran Bretagna - a conoscere solo eccezionalmente referendum nazionali. Però, enunciata la regola, si fa presto a scoprire le eccezioni, che sono in effetti molto significative. Gli Stati Uniti sono l'unica grande democrazia anglosassone rimasta fedele alla regola 'nessun referendum nazionale' (ovvero federale). La Gran Bretagna ha infranto questo precetto nel 1975, quando il governo laburista indisse un referendum relativo alla partecipazione britannica al processo di unificazione europea, allora ancora sotto forma di Mercato Comune (v. King, 1977). Il Canada ha tenuto quattro referendum nazionali relativi all'assetto politico-istituzionale del suo territorio. I due più importanti hanno riguardato il tentativo del Québec di abbandonare la federazione canadese: nel maggio 1980 i favorevoli furono il 40% e nell'ottobre 1995 mancarono ai secessionisti poco più di quarantaduemila voti. La Nuova Zelanda, attraverso tre tornate referendarie svoltesi tra il 1992 e il 1993, ha trasformato il suo sistema elettorale, perfettamente maggioritario, in un sistema ancora maggioritario, ma con significative componenti proporzionali. L'Irlanda ha tenuto quindici referendum tra il 1937 (approvazione della Costituzione della Repubblica d'Irlanda) e il 1995, approvando fra l'altro la ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992. Infine l'Australia ha tenuto tra il 1906 e il 1988 ben quarantaquattro referendum su una gamma molto ampia di tematiche: costituzionali, fiscali, socioeconomiche.
Dove non si hanno referendum nazionali si ha spesso, quasi a compensazione, una grande proliferazione di referendum a livello politico-territoriale degli Stati e persino delle contee, per esempio negli Stati Uniti (v. Magleby, 1984; v. Cronin, 1989), e su una molteplicità di tematiche, come in Svizzera (v. Korbach, 1994; v. Kriesi, 1994). Di per sé il caso svizzero appare complicatissimo da sintetizzare. Anzitutto va messo in rilievo che in Svizzera esistono tre tipi di referendum: il primo, relativo a tutte le modifiche della Costituzione, è obbligatorio e deve ottenere l'approvazione sia della maggioranza degli elettori sia, affinché le minoranze non siano schiacciate, della maggioranza dei 26 cantoni; è invece facoltativo e richiedibile da almeno cinquantamila elettori il referendum riguardante tutte le leggi approvate dal Parlamento; c'è infine il referendum che deriva da un'iniziativa legislativa popolare firmata da almeno centomila elettori e non tradotta in legge dal Parlamento. Dal 1848 al 1990 si sono tenuti 144 referendum costituzionali obbligatori, dei quali 103 sono stati approvati; 103 referendum facoltativi su leggi approvate dal Parlamento, 45 delle quali confermate dall'elettorato; 105 referendum sulle iniziative legislative popolari, soltanto dieci delle quali approvate (v. Kriesi, 1994, p. 68). Peraltro va aggiunto che, sotto pressione, il Parlamento svizzero si era già espresso favorevolmente su 60 delle 183 iniziative popolari complessivamente avanzate da vari gruppi, movimenti e partiti, vanificando di conseguenza la precedente richiesta di referendum.
Alla terza distinzione - le conseguenze dei referendum - è già stato fatto cenno quando si sono separati i referendum che, promossi dai detentori del potere politico, mirano a rafforzarli da quelli che, promossi dai cittadini, mirano invece a metterli sotto controllo, qualche volta a ridimensionarne il potere e l'arroganza o addirittura a delegittimarli, o comunque a bloccare, impedire, cancellare alcune scelte, alcune decisioni, alcune politiche. I referendum e, in particolare, le iniziative popolari sia nei singoli Stati degli Stati Uniti che in Svizzera appartengono chiaramente alla categoria antiegemonica. Le materie sottoposte a referendum su iniziativa popolare sono svariate. Ad esempio, S. Möckli (v. 1994, p. 55) ha contato, classificato e paragonato quelle della California e della Svizzera dal 1970 al 1990. Sono state rispettivamente 226 e 178, su temi come le questioni istituzionali (tema prevalente di poco in California), la morale pubblica, le finanze, l'economia, lo Stato sociale (tema prevalente di poco in Svizzera), i diritti civili, l'ambiente e il traffico, l'istruzione e la cultura, l'esercito.
A questo punto si pone la necessità di effettuare almeno una ulteriore distinzione relativa agli oggetti dei referendum. Vale a dire, quali tematiche possono essere sottoposte a referendum e quali vengono, invece, esplicitamente escluse? Le due tematiche classiche dei referendum, quelle che si potrebbero considerare di spettanza quasi obbligatoria, riguardano, da un lato, l'assetto territoriale dello Stato, dall'altro, la sua costituzione. Più precisamente, per annettere territori e popolazione a uno Stato esistente o in formazione, il referendum - qualche volta definito anche plebiscito - costituisce lo strumento principale con cui i cittadini dei territori interessati esprimono direttamente la loro adesione (come avvenne nell'Italia che si andava unificando) o la loro ripulsa. Tra il 1859 e il 1860 gli elettori, nell'ordine, della Toscana, del Regno delle due Sicilie, delle Marche e dell'Umbria aderirono al Regno di Sardegna. Nel 1866 fu la volta del Veneto e nel 1870 si tenne il referendum nell'ex Stato pontificio. Le percentuali di adesione furono tutte elevatissime, sopra il 90%, cosicché il termine plebiscito, con cui vennero designate queste consultazioni referendarie, appare particolarmente appropriato.
Con il referendum, inoltre, si può procedere anche all'abbandono di uno Stato esistente da parte di alcuni settori della sua popolazione, sia per creare uno Stato nuovo che per unirsi a uno già esistente. Ad esempio, nel 1860 Nizza e la Savoia decisero, separatamente, di aderire alla Francia; nel 1947 Tenda e Briga decisero di abbandonare l'Italia e di entrare a far parte della Quarta Repubblica francese. Abbiamo già detto che per due volte i separatisti del Québec furono sconfitti in Canada, anche se la seconda volta di stretta misura, ma sarà anche utile menzionare il tormentato distacco dell'Algeria dalla Francia. Si tennero quattro referendum: nel 1958 a favore della permanenza nella comunità francese; nel 1961 per l'autodeterminazione; nell'aprile 1962 per l'approvazione degli accordi di Evian e nel luglio 1962 per l'indipendenza come era stata sancita da questi accordi. Va sottolineato che in generale le separazioni ovvero le scissioni territoriali avvengono più spesso in maniera cruenta e senza verifiche referendarie, e d'altronde l'indipendenza algerina era stata preceduta e accompagnata da una vera e propria guerra di liberazione e da violente tensioni nel territorio metropolitano francese. Fa eccezione la decisione consensuale di separazione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca, presa a livello di élites tra il 1992 e il 1993, con la tormentata esclusione di una verifica referendaria che, secondo i sondaggi, avrebbe avuto come esito più probabile il rifiuto popolare della creazione di due repubbliche.Il referendum viene in special modo utilizzato sia per definire la forma di Stato (repubblica/monarchia) che per approvare la costituzione, e quindi anche la forma di governo. Per referendum, ad esempio, l'Italia nel 1946 e la Grecia nel 1974 passarono dalla monarchia alla repubblica. È opportuno ricordare, per l'importanza del caso, che con la sconfitta nel plebiscito indetto sulla sua persona nell'ottobre 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet Ugarte aprì la strada addirittura a un cambiamento di regime: uscita da un regime autoritario fortemente repressivo e ritorno alla democrazia, per quanto non del tutto emancipata dall'ipoteca militare. Quanto all'approvazione delle costituzioni e delle loro modifiche, gli esempi sono moltissimi. Tuttavia non sempre le costituzioni sono ratificate ed emendate dagli elettori. Ad esempio, dopo la sua stesura ad opera della Convenzione di Filadelfia nel 1787, la Costituzione degli Stati Uniti venne ratificata, grazie all'intensa e splendida battaglia dei federalisti, non dai cittadini ma dalle Assemblee degli Stati aderenti all'Unione, alcuni dei quali, peraltro, sottoposero le loro specifiche Costituzioni al voto popolare. La Costituzione italiana, nonostante qualche richiesta di sottoposizione all'elettorato, venne approvata soltanto in sede parlamentare nel dicembre 1947. Nel frattempo si erano consumati in Francia due precedenti referendari molto significativi: rispettivamente, nel maggio e nell'ottobre 1946, si ebbero il rigetto popolare della prima Costituzione della Quarta Repubblica e l'approvazione della seconda Costituzione ad opera, come rilevò sprezzantemente il generale Charles de Gaulle, di una minoranza, poiché la maggioranza dei cittadini si era espressa votando contro o astenendosi. Opportunamente, la Costituzione della Quinta Repubblica francese venne sottoposta nel 1958 all'elettorato, che la approvò con una maggioranza dei quattro quinti, e de Gaulle indisse anche un altro referendum, nel 1962, per inserire nella Costituzione della Quinta Repubblica un'importante modifica concernente l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, che fu debitamente approvata, ma con una maggioranza inferiore alle aspettative del generale. In Spagna gli elettori furono chiamati a pronunciarsi durante la transizione dal franchismo alla democrazia, prima nel 1976 a favore di un progetto di modifica costituzionale, poi nel 1978 sul testo stesso della nuova Costituzione, poi ancora, nel 1986, sulla permanenza o meno nella NATO (decisione favorevole).
Per coloro che considerano la legge elettorale un meccanismo di importanza pari a quella delle singole norme costituzionali sull'organizzazione dei poteri, pur se formalmente non fa parte della Costituzione, va aggiunto che spesso anche le modifiche alle leggi elettorali costituiscono oggetto di referendum. Basteranno due esempi che, nella loro diversità, possono essere emblematici poiché la riforma della legge elettorale ha dimostrato di incidere significativamente su tutto il sistema politico. Si è già detto della Nuova Zelanda, che tra il settembre 1992 e il novembre 1993, attraverso tre consultazioni referendarie, è passata da un sistema maggioritario a turno unico applicato in collegi uninominali a un sistema misto, ma con una consistente prevalenza della formula maggioritaria per l'assegnazione dei seggi e con la protezione della minoranza maori. Ma è stato il caso italiano ad attirare maggiormente l'attenzione degli studiosi. Contro l'indifferenza e addirittura l'ostilità della classe politica, non solo di governo, il tema della riforma elettorale fu posto sull'agenda politica da un Comitato per le Riforme Elettorali che raccolse le cinquecentomila firme necessarie e ottenne un referendum sulla preferenza unica. Tenutosi nel giugno 1991, questo referendum registrò la forte propensione degli elettori ad appoggiare una riforma elettorale in senso maggioritario. Seguirono le richieste di due referendum sui sistemi elettorali dei comuni e del Senato, riformulati in maniera da rispondere alle obiezioni della Corte costituzionale che li aveva in precedenza dichiarati inammissibili sia per l'oscurità della formulazione che per l'indeterminatezza delle conseguenze. Stimolato dalla richiesta di referendum, il Parlamento italiano varò una legge che rispondeva sostanzialmente al quesito sui comuni e introduceva un sistema maggioritario con l'elezione diretta del sindaco. Cosicché, nell'aprile 1993 si tenne soltanto il referendum sul sistema elettorale del Senato, che venne approvato dall'82,7% dei votanti. Dopo la scrittura delle leggi elettorali derivanti dal referendum, superata la proporzionale, l'intero sistema politico italiano cambiò volto e dinamica procedendo, seppur faticosamente, verso una democrazia maggioritaria e bipolare.In conclusione, dopo aver sottolineato che le tematiche che sono abitualmente, ma non universalmente - seppur in qualche caso obbligatoriamente -, oggetto di referendum sono le modifiche territoriali e costituzionali, va registrato l'accresciuto ricorso ai referendum nei sistemi politici contemporanei, dovuto a un insieme di ragioni collegate, da un lato, all'esplosione (della ricerca) delle identità politiche, dall'altro, all'aggiornamento o alla formulazione, nel caso di sistemi politici che si affacciano alla democrazia, dei testi costituzionali. In generale, anche nelle democrazie consolidate le dinamiche politiche, sociali e istituzionali spingono verso la sottoposizione a referendum di molteplici materie. L'aumento quantitativo del ricorso al referendum come modalità decisionale e di partecipazione politica dipende, come si argomenterà in seguito, in misura minore dalla maggiore propensione delle élites ad accettarlo o a indirlo, e in misura maggiore da un'accresciuta attivazione dei cittadini anche contro le preferenze delle élites.
2. Gli obiettivi dei referendum
Come si è visto negli inevitabilmente brevi cenni sopra dedicati a istanze concrete di referendum, esistono materie specifiche sulle quali gli elettori sono effettivamente, e qualche volta obbligatoriamente, chiamati a decidere, ma non è possibile individuare una volta per tutte le materie sottoposte a referendum e quelle sistematicamente escluse. Ad esempio, la Costituzione italiana dichiara esplicitamente inammissibile il ricorso al referendum sulle "leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali". In altri ordinamenti, invece, alcune di queste leggi vengono tipicamente, e qualche volta obbligatoriamente, sottoposte a referendum. Così, il presidente François Mitterrand decise di sottoporre a referendum nel settembre 1992 il Trattato di Maastricht, tipico trattato internazionale, perché implicava alcune revisioni della Costituzione francese, ma soprattutto per ottenere un mandato popolare a procedere verso l'unificazione dell'Europa, mandato che ottenne però in maniera alquanto risicata (51% di voti favorevoli). L'adesione al processo di unificazione europea, che implica una qualche cessione di sovranità, è stata oggetto di numerosi e molto significativi, persino laceranti, referendum. La Norvegia è risultata la più riluttante delle democrazie europee ad aderire all'Europa. Nel referendum del 1972, opponendosi alle preferenze dichiarate dei maggiori partiti e delle élites politiche ed economiche, gli elettori norvegesi bocciarono la proposta di aderire al Mercato Comune. Più di vent'anni dopo, nonostante che la Danimarca avesse capovolto la sua iniziale ripulsa del Trattato di Maastricht (giugno 1992) approvandolo (maggio 1993) dopo la rinegoziazione di alcuni termini, e la Finlandia e la Svezia avessero già aderito all'Unione Europea, gli elettori norvegesi decisero nuovamente di rimanere fuori dall'Europa nel timore di essere costretti ad accettare stili di vita non graditi.Su un piano molto diverso i cittadini californiani decisero nel 1973 di far iscrivere sulla scheda elettorale la proposta di abolire le tasse statali sugli immobili, tipica materia fiscale, nota come Proposition 13. Vinsero gli 'abolizionisti', determinando una serie di conseguenze fiscali ed economiche impreviste e sgradite (ad esempio la drastica riduzione dei servizi sociali) e aprendo la strada alla cosiddetta Reaganomics, vale a dire alla strategia della riduzione generalizzata delle tasse per rilanciare l'economia. È interessante notare come in altri Stati americani proposte simili siano poi state bocciate dall'elettorato, reso edotto della caduta del livello dei servizi californiani inevitabilmente prodotta dalla riduzione delle tasse pagate dagli abbienti alle comunità locali. Queste non sistematiche osservazioni mirano soltanto a segnalare come gli usi dello strumento referendario risultino comprensibili soltanto se collocati e analizzati nell'ambito di un sistema politico e poco si prestino a generalizzazioni di ampio respiro.
Ciò detto, rimane possibile individuare almeno quattro grandi obiettivi perseguibili grazie ai referendum. Il primo obiettivo riguarda la scelta della forma di Stato, della Costituzione, delle modifiche territoriali e costituzionali, tutte tematiche di cui si è già detto sopra. Il secondo obiettivo consiste puramente e semplicemente nella legislazione su tutte le materie consentite dai vari ordinamenti giuridici, che variano in maniera molto significativa raggiungendo il punto più elevato in termini di quantità e di qualità in Svizzera e nei singoli Stati degli Stati Uniti d'America. A livello considerevolmente diverso si deve ricordare che in Italia è grande la varietà di tematiche passibili di referendum - ancorché sia limitato il ricorso - a livello municipale e provinciale (v. Di Giovine, 1992). Il terzo obiettivo, in parte riconducibile al secondo, consiste nell'abrogazione di leggi esistenti, tipica del caso italiano, e in parte di quello svizzero, una sorta di referendum 'oppositivo', pur con tutte le cautele inscritte nella legge di disciplina del referendum abrogativo italiano, che peraltro non sono valse a evitarne un uso distorto. Questa distorsione si traduce nel quarto obiettivo, perseguibile e perseguito anche attraverso le iniziative referendarie attuate sia nei singoli Stati degli Stati Uniti che in Svizzera: stimolare le assemblee legislative ad agire in determinati campi secondo le preferenze espresse, più o meno limpidamente e univocamente, nelle richieste referendarie. È soprattutto con riferimento a questa fattispecie di stimolo che il referendum nelle sue varie modalità appare come uno strumento di democrazia diretta tale da non contrapporsi alla democrazia rappresentativa. Al contrario, il referendum complementa, integra, sostiene la democrazia rappresentativa, forse la indirizza e talvolta la forza, a seconda della vitalità delle assemblee rappresentative, della loro produttività e dell'efficacia della stessa forma di governo. Infine, il referendum può anche incidere in maniera significativa sul sistema dei partiti producendone la ridefinizione e la ristrutturazione duratura nel senso di una maggiore rispondenza dei singoli partiti e del sistema nel suo complesso alle nuove domande e nuove preferenze dei cittadini.
3. L'uso dei referendum
I tanto temuti rischi di plebiscitarismo - che cioè i governanti eludano tutte le mediazioni della democrazia rappresentativa, facendo ricorso diretto, frequente e quasi esclusivo alla volontà popolare espressa per mezzo di referendum su quesiti posti dai governanti stessi - appaiono oggi esagerati e sopravvalutati. In verità, nessun governante, né nei regimi democratici né nei regimi autoritari, ha conquistato il potere attraverso appelli referendari e nessun governante è stato in grado di ampliare il suo potere e mantenerlo grazie ad appelli e a procedure di questo tipo. Cosicché se ne può concludere, almeno preliminarmente, che, per quanto non privo di una carica semplificatrice, il referendum consente di sottoporre a verifica le preferenze dei cittadini ed esplica compiti spesso altrimenti non fungibili nei regimi democratici. Questa affermazione si rivela tanto più vera quando si guardi alla dinamica delle richieste di referendum e delle consultazioni referendarie effettivamente tenutesi quando le assemblee rappresentative e legislative non hanno né saputo né voluto intervenire sulle materie oggetto di referendum. Regimi democratici vecchi e nuovi si sono nel corso del tempo dotati della possibilità di fare ricorso al referendum, e hanno molto rapidamente sfruttato l'opportunità così creata. Inoltre in alcuni paesi, come ad esempio l'Italia, il ricorso al referendum è cresciuto in maniera quasi esponenziale, determinando l'aumento complessivo registrato nelle democrazie occidentali. Comunque, poiché l'aumento non è da ricondursi esclusivamente al caso italiano, è opportuno interrogarsi sull'esistenza di fattori comuni atti a fornire qualche spiegazione generalizzante.
Poiché i referendum sono strumenti che servono a prendere decisioni in un sistema politico, almeno in prima approssimazione è possibile sostenere che il loro uso aumenta quando i soggetti politici abilitati a prendere decisioni si rivelano titubanti, deboli, incapaci, comunque non in grado di soddisfare le esigenze espresse dagli elettori. Se le cose stanno così, si capisce perché il ricorso ai referendum è cresciuto e crescerà, entro certi limiti, ogniqualvolta i governi siano instabili e mostrino carenze di decisionalità, ogniqualvolta i partiti non siano più in grado di esercitare il loro potere. Se i governi non sanno oppure non vogliono prendere decisioni, allora saranno gruppi di cittadini che si organizzano, le lobbies che si mobilitano, le minoranze che si difendono e contrattaccano a mettere sull'agenda politica tematiche suscettibili di richiedere e di ottenere una consultazione referendaria. Se le assemblee legislative intralciano e rallentano i processi decisionali e se i partiti non dimostrano compattezza, allora si apre lo spazio referendario. Naturalmente questo spazio può essere o no effettivamente colmato non soltanto se i cittadini sono davvero in grado di organizzarsi e di mobilitarsi, ma soprattutto se lo strumento referendario può essere attivato con facilità. Dopodiché, il livello di organizzazione e di mobilitazione dei cittadini, delle lobbies e delle minoranze dipenderà, da un lato, dal grado di insoddisfazione nutrito dagli attori rilevanti nei confronti dei processi decisionali e, dall'altro, dalla loro fiducia nelle proprie capacità di influenzare la decisione nel senso desiderato.Il circuito delineato - assemblee legislative, partiti politici, cittadini esigenti e influenti - viene spesso completato dagli atteggiamenti e dai comportamenti delle élites di governo. Molte scelte di politiche pubbliche sono oggi più complesse e controverse che nel passato. Quando in sede di governo non viene raggiunto nessun accordo, quando persino l'opposizione si presenta divisa su problematiche complesse, quando un processo decisionale viene, più o meno artificialmente, esasperato, allora il ricorso al referendum serve anche a evitare, sia da parte del governo che da parte dell'opposizione e persino dei singoli partiti, peraltro sempre investiti dagli effetti dei referendum, scelte che potrebbero risultare laceranti; serve, infine, un po' a tutti a sfuggire all'assunzione di responsabilità che potrebbero diventare troppo pesanti.
4. Vizi e virtù dei referendum
Agli occhi degli studiosi dei regimi e delle procedure democratiche il referendum occupa un posto alquanto controverso. I problemi sollevati dal ricorso al referendum, dal suo svolgimento, dalle sue conseguenze sul funzionamento dei regimi democratici sono molti e tutti di grande importanza e di complessa valutazione (per una rassegna accurata della letteratura v. Morel, 1992). Un primo problema concerne il livello e la qualità delle informazioni disponibili e acquisibili per i cittadini-elettori affinché la loro decisione risulti all'altezza della sfida referendaria, vale a dire migliore di quella producibile da altre sedi. I critici del referendum sostengono che la superiorità della democrazia rappresentativa deriva dalle migliori informazioni disponibili e acquisibili dai rappresentanti eletti, sia attraverso i dibattiti nelle assemblee che con apposite udienze conoscitive nelle quali i vari gruppi interessati alla decisione apportano, oltre alla loro posizione specifica, anche elementi indispensabili alla decisione e, presumibilmente, un po' di consenso politico. La grande maggioranza dei cittadini-elettori, soprattutto quando le scelte sono tecnicamente complesse, avrà sempre un'informazione inferiore, inadeguata, imperfetta, cosicché le decisioni degli elettori saranno sempre esposte all'influenza di fattori tutt'altro che in grado di soddisfare i criteri dell'accuratezza e della completezza. I sostenitori dei referendum ribattono che, proprio grazie al clamore e all'interesse suscitati dai referendum, molti cittadini acquisiscono informazioni di livello e di qualità superiori a quelle di partenza, e quindi il referendum ottiene il risultato di educare parte della cittadinanza. Se poi il suo oggetto è formulato con chiarezza, il dibattito referendario consente ai cittadini-elettori di scegliere almeno con la stessa consapevolezza con la quale essi votano per un partito o per un candidato piuttosto che per un altro nelle varie consultazioni elettorali. Chi nega che l'elettore possa acquisire tutta l'informazione desiderata per poter oculatamente scegliere fra alternative di tematiche, di candidati, di partiti, finisce per colpire al cuore lo stesso processo democratico.I critici del referendum, prendendo in parte lo spunto dalle (presunte) carenze di informazione degli elettori, aggiungono che gli esiti dei referendum sono spesso viziati anche dalla mancanza di competenza degli elettori. Non soltanto essi, almeno quelli cosiddetti 'medi', che sono mediamente interessati alla politica, non avrebbero un'adeguata informazione, ma anche se l'avessero non sarebbero in grado di discriminare fra l'informazione corretta e quella manipolata. I sostenitori dei referendum affermano invece che spesso neppure i rappresentanti eletti sono tutti in grado di procedere a questa cruciale discriminazione e che, come nelle assemblee legislative ci sono esperti, fra gli eletti e fra i funzionari, in grado di pilotare le decisioni, anche nel processo referendario fanno la loro comparsa opinion makers ai quali alcuni o molti elettori si affidano. Naturalmente questi leaders dell'opinione possono anche trovarsi nei partiti, cosicché l'elettore medio può sentirsi rassicurato nel seguire l'opinione del suo partito, così come si sente sicuro l'elettore fiducioso nella propria competenza - sia che segua il suo partito sia che lo contraddica -, convinto della superiorità delle proprie conoscenze o semplicemente della preferibilità di un'alternativa. D'altronde, e questa considerazione deve essere tenuta in gran conto, molte fra le tematiche sottoposte a referendum non richiedono competenze particolari. Piuttosto, sollecitano prese di posizione fondate su valori, su criteri etici e/o politici, ad esempio quando si tratta di divorzio e aborto, oppure di finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali.
La verità, sostengono gli oppositori dei referendum, è che lo stesso processo referendario è inevitabilmente esposto a una serie di distorsioni relative alle materie che possono essere oggetto del referendum, ai soggetti che possono farsene promotori, alle modalità della campagna referendaria, alla stessa validità dell'esito. È risaputo che spesso sono le minoranze che attivano i referendum, sono alcune potenti lobbies che intervengono nella campagna elettorale gettando sulla bilancia del voto tutto il denaro necessario, sono ancora minoranze intensamente motivate che - in assenza della soglia percentuale richiesta per la validità del voto (almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto) - possono imporre a maggioranze divise, poco interessate e poco mobilitate decisioni che le assemblee elettive non produrrebbero mai. Se le cose stanno così, replicano i sostenitori dei referendum, è però sempre possibile e anche auspicabile che l'istituto referendario venga accuratamente regolamentato, con tutte le cautele di cui già è circondato in molti paesi. Affinché venga richiesto, bisogna che un numero di elettori relativamente elevato, ma non troppo elevato per non impedire alle minoranze di difendersi contro l'eventuale tirannia della maggioranza, si esprima con le sue firme. Affinché sia risolutivo, bisogna che il quesito sottoposto agli elettori sia limpido e univoco. Affinché la campagna elettorale non venga inquinata dal denaro, occorrono accurati controlli sulle spese sia del comitato promotore che degli oppositori, presumibilmente anch'essi organizzati in comitato. Il controllo del denaro, che serve sostanzialmente per produrre informazioni di parte sui mass media, TV in testa, sembra essere la condizione più difficile da garantire in assenza di una rete di controlli sperimentata e a fronte dell'intervento di agenzie specializzate, in particolar modo negli Stati Uniti e in Svizzera.
Infine, i critici dei referendum sostengono che, anche qualora venissero soddisfacentemente risolti tutti i problemi di informazione e di competenza dell'elettorato e fosse evitata ogni manipolazione del quesito e della campagna referendaria, si porrebbe comunque il problema della partecipazione. Nei referendum la partecipazione degli elettori risulta sempre più o meno nettamente inferiore alla partecipazione alle consultazioni politiche nazionali (o federali e statali). Questo è tanto vero che in molti ordinamenti è stata esplicitamente introdotta la clausola che, affinché l'esito del referendum sia valido, bisogna che partecipi alla consultazione una certa percentuale di elettori, di norma almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Questa clausola esiste, ad esempio, nella legge che disciplina il referendum abrogativo italiano e ha funzionato vanificando nel 1990 i referendum contro la caccia e contro l'uso dei pesticidi. I sostenitori dei referendum controbattono che la minore partecipazione non è sufficiente a dichiarare il fallimento del referendum in quanto tale. Essa è dovuta, in buona misura, a una scelta consapevole e spesso deliberata degli elettori, parte dei quali si astengono poiché non si ritengono adeguatamente informati o sufficientemente competenti per decidere. Paradossalmente, in un certo senso questi elettori astensionisti consapevoli, tenendosi lontani dalle urne, rispondono anche alle obiezioni degli antireferendari poiché non 'inquinano' l'esito del voto, proprio come coloro che si astengono perché l'esito del voto appare loro ugualmente irrilevante o ugualmente accettabile: entrambe motivazioni democraticamente comprensibili e accettabili.In sostanza, lo strumento referendario contiene in sé un certo numero di vizi, nessuno dei quali appare però particolarmente grave né più grave dei normali vizi democratici, quelli cioè che attengono allo stesso processo democratico. Soltanto in parte alcuni di questi vizi sono eliminabili, e alcuni sono, in parte, ridimensionabili. Ma il referendum contiene anche un certo numero di non piccole virtù democratiche. Sarebbe sbagliato contrapporlo frontalmente alla democrazia rappresentativa e ai suoi strumenti qualificanti, per due ragioni. In primo luogo, perché la democrazia diretta, che pure si nutre anche di referendum, ha bisogno di ben altri apporti e strumenti per essere e rimanere tale ed esclusivamente tale. In secondo luogo, perché la democrazia rappresentativa, che è irrinunciabile in sistemi politici di dimensioni medie e grandi, non può essa stessa rinunciare a quelle integrazioni, a quelle correzioni, a quelle stimolazioni che soltanto il referendum può introdurre e mantenere nei suoi processi decisionali. Cosicché, respinte le versioni estreme del 'partecipazionismo' e del 'rappresentativismo', appare pienamente in linea con l'analisi fin qui svolta la conclusione di A. Ranney (v., 1994, p. 43) secondo cui la maggioranza dei democratici può e deve continuare a "considerare lo strumento referendario come un supplemento talvolta utile per le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma mai un sostituto completo di esse".
5. Bilancio e futuro dei referendum
Fino al 1900 si sono tenuti nel mondo 71 referendum. Dal 1901 al 1950 se ne sono tenuti 197; dal 1951 al 1970 136; nel solo decennio 1971-1980 177; infine, dal 1981 al 1993 se ne sono tenuti 218 (v. Butler e Ranney, 1994, p. 5). Nella Quinta Repubblica francese, nella quale il referendum è limitato a materie riguardanti l'organizzazione dei poteri pubblici e ai trattati che incidono sul funzionamento delle istituzioni, dal 1958 al 1996 si sono tenuti otto importanti referendum. In Italia, dal 1974 al 1996, se ne sono tenuti 39. Buona parte di questi referendum sono stati richiesti dal Partito radicale, anche se i più importanti, in sé e per le loro conseguenze politiche, hanno avuto altri proponenti. Così, il referendum sul divorzio, che nel 1974 inaugurò la legge di attuazione del referendum abrogativo, venne richiesto da numerose associazioni cattoliche poi clamorosamente sconfessate dall'elettorato, anche da una parte di quello cattolico. Nel 1985 il referendum sulla scala mobile venne richiesto dal Partito comunista che dovette incassare una dura sconfitta. Nel 1987 il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu fortemente voluto, oltre che dai radicali, dai socialisti e dai liberali, ma fu poi appoggiato anche dal Partito comunista. Nel 1991 l'importantissimo referendum sulla preferenza unica venne richiesto, contro la volontà di tutti i partiti del pentapartito (PLI-DC-PRI-PSDI-PSI), da un composito Comitato per le Riforme Elettorali, che ebbe anche il merito di richiedere altri due referendum elettorali tenutisi nel 1993. Nello stesso anno si tennero anche referendum sull'abolizione di quattro ministeri, intelligentemente richiesti da numerosi Consigli regionali, e furono tutti approvati dall'elettorato. Infine, nel 1995 i cittadini italiani vennero chiamati a votare simultaneamente il più alto numero di referendum, dodici, fra i quali tre sul sistema televisivo, privato e pubblico, richiesti da appositi comitati e respinti dall'elettorato.
Per ragioni diverse, facilmente collegabili alla natura e alla dinamica dei rispettivi sistemi politici e partitici, la Francia, con i suoi referendum specificamente delineati, e in special modo l'Italia, con la vastissima gamma di materie che possono essere sottoposte ad abrogazione, fanno eccezione rispetto alle altre democrazie contemporanee, alquanto più contenute nell'utilizzare il referendum, tranne la Svizzera, il meno noto caso dell'Australia, che ha tenuto ben 23 referendum dal 1946 al 1988, e singoli Stati degli Stati Uniti, in special modo la California.
Come abbiamo anticipato, non esistono altri motivi generali e generalizzabili che spieghino perché si sia manifestato in questa fine di secolo e di millennio un accresciuto ricorso al referendum, se non l'accesso di un elevato numero di sistemi politici alla democrazia e a libere competizioni elettorali e l'introduzione nei loro ordinamenti dello strumento referendario. Che questo strumento venga poi utilizzato più o meno di frequente dipende da variabili idiosincratiche relative a ciascun sistema politico. Peraltro, poiché è improbabile che una qualsiasi delle condizioni facilitanti il ricorso ai referendum enunciate nel cap. 3 - debolezza dei governi, lentezza decisionale delle assemblee, frammentazione dei partiti, complessità delle scelte, capacità di frazioni dell'elettorato di mobilitarsi ovvero di farsi mobilitare - sparisca in tempi brevi, e meno che mai tutte assieme, è molto probabile che di referendum se ne faranno molti un po' in tutti i regimi democratici, con alti e bassi condizionati essenzialmente, ma tutt'altro che univocamente, dalla vitalità e dalla compattezza dei governi e delle loro maggioranze, e dall'insoddisfazione e dalla capacità di mobilitazione dei cittadini (e delle lobbies).
D'altronde, il normale ricorso al referendum, con le varie modalità sopra indicate, si configura come una prospettiva accettabile. Sbagliano molto coloro che si ingegnano a escogitare ostacoli procedurali e di varia natura (abitualmente l'innalzamento del numero delle firme) per impedire ai cittadini di richiedere consultazioni referendarie. Infatti, in ciascuno dei sistemi politici che hanno utilizzato il referendum - da molto tempo, come in Svizzera, oppure da poco tempo, come in Italia, normalmente a livello statale, come negli Stati Uniti, oppure eccezionalmente a livello nazionale, come in Gran Bretagna e nei Paesi Scandinavi - il bilancio può essere considerato tutto sommato largamente positivo. Nel corso delle campagne referendarie l'informazione dei cittadini è aumentata e si è diffusa la consapevolezza dell'importanza, più o meno alta, della posta in gioco. Nei diversi sistemi politici l'esito dei referendum, costituzionali, istituzionali, su diritti civili e su politiche pubbliche, è stato pacificamente accolto, sostanzialmente osservato e conformemente applicato. I referendum hanno rappresentato spesso il modo migliore per ratificare le costituzioni e i mutamenti territoriali. Sono efficacemente serviti per concedere sovranità a entità federali e sovranazionali, con quel quid di legittimità in più che solo un'apposita consultazione generale dell'elettorato può conferire. Sono stati, e promettono di continuare a essere, talvolta una valvola di scarico delle tensioni politiche, talaltra una modalità decisionale aggiuntiva. In definitiva, appare alquanto improbabile che i sistemi politici che hanno inserito il referendum nei loro ordinamenti intendano prossimamente farne a meno. È probabile, invece, che sistemi politici che ancora non ne dispongono finiscano per accoglierlo presto. (V. anche Elezioni: comportamenti elettorali; Plebiscitarismo).
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