Vedi Regno Unito dell'anno: 2012 - 2015 - 2016
Il Regno Unito, costituito dalle quattro divisioni amministrative di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, è a tutt’oggi una delle principali potenze mondiali dal punto di vista economico e militare: è la sesta economia al mondo, trainata dal settore dei servizi che contribuisce a quasi i quattro quinti del pil nazionale. Può anche contare su uno degli eserciti più forti e avanzati dal punto di vista tecnologico. Londra, la capitale, è il primo centro finanziario al mondo, secondo il Global Financial Centres Index (Gfci). Il regno esercita la sua influenza nelle principali organizzazioni internazionali di cui fa parte: le Nazioni Unite, presso cui è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, la Nato, la Banca mondiale, il Fondo monetario, il G8-G20, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) e non ultima l’Unione Europea (Eu). L’insularità, poi, rappresenta da sempre un fattore geopolitico e geoeconomico caratterizzante. Di conseguenza, il settore dei trasporti è vitale per il paese: l’Eurotunnel, che collega Londra a Parigi, ha avvicinato però solo in parte il Regno Unito al resto dell’Europa.
Quello che un tempo è stato il più vasto impero marittimo della storia continua ad avere un ruolo determinante negli equilibri di potere europei, e non solo. La principale eredità del passato imperiale è il Commonwealth delle nazioni, l’organizzazione intergovernativa che riunisce ben 54 stati, i quali, eccezion fatta per il Mozambico, appartenevano tutti all’Impero britannico o vi erano, più o meno direttamente, legati dal punto di vista amministrativo. Nato con lo scopo di favorire al suo interno la cooperazione politica, economica e culturale, anche se privo di effettivi poteri sovranazionali, il Commonwealth è presieduto da Elisabetta II, regina di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e ufficialmente capo di stato di 15 suoi membri, i cosiddetti reami del Commonwealth, tra cui figurano importanti stati come l’Australia o il Canada.
Proprio con alcune ex colonie, protettorati e mandati britannici, il Foreign Office, il ministero degli esteri, mantiene da sempre forti legami e ha costruito negli anni le sue maggiori alleanze politiche ed economiche. Tra queste, particolarmente rilevanti sono quelle con India, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Cipro, Malta e Sudafrica.
È tuttavia con un’altra ex colonia britannica, gli Stati Uniti, indipendenti dal 1776, che il Regno Unito ha costruito negli anni la sua relazione più solida sia dal punto di vista politico e militare, sia da quello economico e commerciale. Londra ha ceduto agli Usa il vertice della gerarchia mondiale occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, con un passaggio di consegne consensuale. La relazione che lega i due paesi è stata definita dallo stesso Winston Churchill nel 1946 una special relationship (relazione speciale), e ha rappresentato la direttrice principe della politica estera di Londra nella seconda metà del Novecento.
Accanto alla partnership con gli Usa, l’altro grande caposaldo della politica estera del Regno Unito è rappresentato dal tentativo di coniugare la separatezza storico-geografica rispetto al resto del continente europeo con la partecipazione al processo d’integrazione comunitaria, che è andato progressivamente affermandosi nella seconda metà del Novecento. «Restare in Europa senza tuttavia esserne guidati», riprendendo lo slogan elettorale dell’attuale primo ministro David Cameron, è la strategia che orienta la posizione britannica in seno alle istituzioni europee. La crisi economica ha però accresciuto i dubbi sulla volontà britannica di rimanere nel progetto europeo e, negli ultimi anni, è sempre più acceso il dibattito non soltanto circa il ruolo di Londra all’interno delle istituzioni comunitarie, ma addirittura circa la permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione Europea.
Entrata a far parte dell’Eu nel 1973 e con una popolazione che si attesta come la più euroscettica tra quelle dei paesi membri – ne è una testimonianza lo straordinario risultato ottenuto dal partito euroscettico Ukip, (Partito dell’indipendenza del Regno Unito) impostosi come prima forza politica del paese alle elezioni europee del maggio 2014 – Londra ha sempre difeso gelosamente la propria sovranità, dimostrandosi particolarmente restia a cederne prerogative. In particolare ha negoziato con i partner comunitari, unica tra i 27 membri assieme alla Danimarca, ben quattro clausole di esenzione (opting out), grazie alle quali non si è vincolata ad accordi che valgono invece per tutti gli altri membri. Il primo ministro David Cameron è arrivato a promettere un referendum per l’uscita o meno dall’Eu, da tenersi indicativamente nel 2017 e, in caso, le possibilità che i cittadini scelgano di staccarsi da Bruxelles sono reali. Ciò nonostante, Londra è tornata attiva sul fronte della politica mediterranea, come dimostrato dall’impegno in prima linea nella guerra del 2011 in Libia per estromettere Gheddafi dal potere e dal sostegno di Cameron alle politiche statunitensi in Siria e Iraq, in seguito all’avanzata del gruppo jihadista dell’Is (Stato islamico) nel nord dell’Iraq.
Proprio la partecipazione e il forte impegno all’interno dell’Alleanza atlantica sono, fin dalla fondazione nel 1948, la pietra angolare della politica di sicurezza britannica: prodotto per eccellenza dell’asse angloamericano in funzione di difesa e contenimento dall’Unione Sovietica, dal 1989 in avanti il Regno Unito ne ha sostenuto la progressiva trasformazione in meccanismo di cooperazione e gestione della sicurezza attivo nello scacchiere euro-asiatico.
Il Regno Unito ha ancora diverse dispute territoriali che derivano principalmente dal possesso di alcuni territori d’oltremare, eredità del passato coloniale. La prima è con la Spagna, che rivendica la propria sovranità su Gibilterra. Con il governo delle isole Maurizio, invece, esiste un annoso contenzioso sull’arcipelago Chagos, nei Territori britannici dell’Oceano Indiano, specie in riferimento all’isola Diego Garcia, presso cui sorge una delle basi navali della marina statunitense strategicamente più importanti al mondo. Ma la disputa più rilevante, dal momento che nel 1982 è sfociata in una guerra aperta, rimane quella con l’Argentina sul possesso delle isole Falkland-Malvinas: il conflitto, scatenato dalla spedizione militare argentina sull’arcipelago e a cui l’allora governo di Margaret Thatcher rispose repentinamente, si concluse con una netta vittoria inglese e contribuì alla fine della dittatura militare in Argentina. Le tensioni sono tornate ad acuirsi in seguito al referendum svoltosi nelle isole nel 2013, che ha sancito la definitiva sovranità britannica sui territori contesi (con un 99,8% di sì). La presidente argentina Cristina Kirchner non ha riconosciuto la validità del referendum e ha minacciato ritorsioni economiche nei confronti delle società petrolifere britanniche che operano al largo delle isole.
Il Regno Unito è una monarchia costituzionale parlamentare, composta da quattro nazioni costitutive: Inghilterra, Scozia e Galles, che insieme formano la Gran Bretagna, e Irlanda del Nord. Il Regno Unito è retto dalla dinastia dei Windsor e l’attuale sovrana è la regina Elisabetta II. Sebbene il monarca britannico sia formalmente la fonte dei tre principali poteri istituzionali poiché tanto il parlamento quanto il governo e le corti agiscono in suo nome, la sovranità non appartiene più alla corona dal 1689, quando il Bill of Rights sancì il principio della sovranità parlamentare. La monarchia britannica detiene poteri e funzioni simili a quelle di un presidente di una repubblica parlamentare: nomina il primo ministro (che per consuetudine è il leader del partito di maggioranza nella Camera dei comuni), è comandante in capo delle forze armate, può rigettare le leggi licenziate dal parlamento (facoltà che tuttavia non è mai più stata impiegata dal 1708) e svolge ruoli cerimoniali.
L’organo legislativo nazionale è il parlamento di Westminster, composto da due camere con diverse prerogative e un differente sistema di composizione. La camera bassa, detta Camera dei comuni (House of Commons), è composta da 646 membri, eletti negli altrettanti collegi elettorali in cui è suddiviso il territorio del Regno Unito tramite un sistema di tipo maggioritario. La Camera dei Lord (House of Lords) non è invece elettiva e al suo interno siedono tanto i Lord spirituali (e quindi i principali vescovi della chiesa d’Inghilterra) quanto i ‘pari del regno’, a loro volta divisi tra coloro che vengono nominati, i cosiddetti ‘pari a vita’, e coloro che ne detengono il seggio per diritto ereditario. Il processo legislativo è concentrato nella Camera dei comuni, dalla cui fiducia dipende la sopravvivenza dell’esecutivo; la Camera dei comuni, inoltre, è in grado di aggirare i veti sospensivi che i Lord hanno il potere di apporre alle sue proposte legislative. Nella forte asimmetria tra le due camere del parlamento risiede una nota caratteristica del sistema istituzionale del Regno Unito: nella storia, la Camera dei Lord ha progressivamente visto ridursi prerogative e facoltà, e per convenzione costituzionale non può opporsi alle leggi promesse dal governo nel suo programma elettorale.
Il modello elettorale vigente, di tipo maggioritario puro (secondo la formula ‘first past the post’), determina un sistema bipartitico che, in nome della stabilità di governo, assegna tutto al vincitore e che è forse il prodotto più tipico della cultura politica anglosassone: il panorama politico è dominato da due soli partiti, che sono in grado di disputarsi il governo della nazione ottenendo una maggioranza assoluta nei collegi elettorali e quindi in parlamento. L’offerta politica britannica presenta anche altre formazioni, ma storicamente la loro presenza, tanto a Westminster quanto sull’intero territorio nazionale, e la loro capacità di influenzare le dinamiche politiche del regno sono relativamente modeste. Un siffatto sistema ha sempre prodotto alternanza di governo tra i due partiti maggiori: tra il Conservative Party (Tories) e il Liberal Party (Whigs), per tutto il Diciannovesimo secolo.
Successivamente all’allargamento del suffragio avvenuto alla fine della Prima guerra mondiale, l’alternanza è avvenuta tra i conservatori e il Labour Party, formazione d’ispirazione socialista e tradizionalmente contigua alla galassia sindacale delle Trade Unions. Sono invece estremamente rari, nella storia politica britannica, i casi di governi di coalizione. In questo senso le elezioni generali del maggio 2010 rappresentano una rilevante eccezione, con il nuovo governo nato dall’alleanza tra il Conservative Party di David Cameron – l’attuale primo ministro – e i Liberal Democrats di Nick Clegg, terzo più grande partito britannico, nato alla fine degli anni Ottanta dalla fusione tra il Partito liberale e quello socialdemocratico, a sua volta costola fuoriuscita dai laburisti. La progressiva affermazione di una terza forza elettorale come quella dei Lib Dems, che negli ultimi vent’anni è andata rafforzando i propri consensi nel paese, ha messo in crisi il sistema elettorale britannico, scompaginandone le prassi con la rottura delle tradizionali egemonie politiche esercitate dai due principali partitici britannici.
Le prossime elezioni generali sono previste per il 2015. Dovranno tenere conto dell’influenza sull’agenda politica che il Partito per l’indipendenza (Ukip) potrà esercitare. Fondato nel 1993 e guidato da Nigel Farage, l’Ukip si è attestato come primo partito del paese alle elezioni europee del maggio 2014, causando un vero e proprio choc nel panorama politico interno. Sebbene il sistema maggioritario non sembra poter conferire una grande rilevanza numerica al partito in occasione delle elezioni politiche, è comunque importante sottolineare che l’euroscetticismo sarà un tema capace di indirizzare il dibattito elettorale sia a livello generale sia di singoli temi (come lavoro e immigrazione). Gli anni Novanta hanno coinciso con una rilevante riforma del sistema di governo, dal momento che sono state istituite e ratificate tramite referendum popolare, tre amministrazioni nazionali decentrate, a cui corrispondono altrettanti parlamenti: Irlanda del Nord (con parlamento a Belfast), Scozia (Edimburgo) e Galles (Cardiff).
Il 18 settembre del 2014 si è tenuto l’attesto referendum per l’indipendenza della Scozia, con il quale i cittadini scozzesi hanno rigettato l’ipotesi di una secessione dal Regno Unito, anche considerando i costi che questa avrebbe avuto per la stessa Scozia, oltre che per il governo di Londra. Tuttavia, il risultato comunque oltre le aspettative del fronte degli indipendentisti guidati dal primo ministro scozzese Alex Salmond (il 44,7% era per il sì), ha fatto sì che il governo centrale promettesse nuove forme di devolution per la Scozia.
Il Regno Unito è il terzo stato europeo per popolazione dietro Germania e Francia. Anche il livello di densità demografica è tra i più alti in Europa, con 264 abitanti per chilometro quadrato, una quota inferiore solo a quella di Belgio e Paesi Bassi. Altro tratto saliente della demografia britannica è l’alto tasso di concentrazione urbana, principalmente dovuto all’area londinese, che accoglie circa 12 milioni di persone. A questo proposito, è da sottolineare anche il divario interno in termini socioeconomici tra nord e sud del paese.
In linea con la tendenza riscontrata in tutti i paesi industrializzati, la percentuale di persone in età da pensione sta aumentando e si stima che entro il 2021 possa passare dall’attuale 16% al 22%, con evidenti ripercussioni economiche e sociali. Nell’ultimo decennio la popolazione è aumentata di circa un milione e mezzo di persone: si tratta dell’effetto dell’immigrazione. Il regno, del resto, costituisce una destinazione storica per l’immigrazione da tutto il mondo e attualmente ospita più di 6 milioni di persone nate all’estero. Il numero di immigrati diretti nel Regno Unito è inoltre cresciuto in seguito agli allargamenti dell’Unione Europea del 2004 e del 2007: in aumento soprattutto gli arrivi dalla Polonia, passati dai 60.000 del 2001 ai 515.000 registrati dal censimento 2010.
Il tradizionale modello multiculturale britannico, sfidato anche dagli effetti della crisi economica, è finito sotto accusa negli ultimi anni in relazione alla crescente minaccia del terrorismo internazionale. A rendere più incombente il rischio sono stati gli attentati organizzati a Londra nel luglio 2005 da un gruppo fondamentalista vicino ad al-Qaida. Il fatto che i quattro attentatori suicidi, tre dei quali di origine pachistana, fossero residenti nel Regno Unito e apparentemente fossero ben inseriti ha provocato un aspro dibattito contro il modello di integrazione adottato da Londra.
Secondo la classifica del Qs World University Ranking, tra le prime sette università del mondo ben quattro sono nel Regno Unito: per il 2014-15 Cambridge e un’altra università britannica, l’Imperial College, sono al secondo posto dopo il Mit di Boston e prima di Harvard, mentre subito dopo, al quinto e sesto posto, figurano le britanniche Oxford e lo University College of London. L’elevata qualità dell’offerta formativa, assieme al vantaggio di studiare in un paese anglofono, attrae studenti da tutto il mondo, in misura maggiore rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa. Malgrado l’altissima competitività del sistema universitario britannico, l’innalzamento del tetto massimo delle rette potrebbe però sfavorire nei prossimi anni il tradizionale arrivo di migliaia di studenti stranieri. La ratio della riforma è stato il tentativo di risanare il bilancio delle università, gravate da un numero crescente di studenti e da un conseguente aumento dei costi di gestione. Altro problema legato all’istruzione è l’alto tasso di abbandono scolastico, prima della conclusione della scuola secondaria superiore. Ne deriva l’alta percentuale, superiore all’8%, di giovani tra i 16 e i 18 anni che non studiano e non lavorano: una quota, tra i paesi industrializzati o di nuova industrializzazione, maggiore solo a quella di Brasile, Spagna, Turchia e Israele.
Il Regno Unito è una democrazia compiuta che garantisce piena libertà civile e politica, piena libertà di informazione e che si connota per livelli bassi di corruzione. Malgrado ciò, il grado di partecipazione politica è calato e attualmente il regno è all’ultimo posto in Europa occidentale, se si tengono in considerazione indicatori come la percentuale di votanti, l’appartenenza ai partiti politici e l’ambizione a intraprendere una carriera politica. Inoltre, la percentuale di votanti registrata alle ultime elezioni colloca il Regno Unito al terz’ultimo posto per affluenza elettorale nelle competizioni politiche nazionali, davanti solo a Francia e Portogallo.
La legge sul terrorismo attualmente in vigore nel Regno Unito è controversa, dal momento che permette di detenere un sospettato fino a 42 giorni senza l’esecuzione di un processo formale; l’aumento di tale periodo, approvato nel 2008, ha poi scatenato un aspro dibattito politico sul labile confine tra le esigenze dettate dalla sicurezza nazionale e le libertà civili che una democrazia come quella inglese dovrebbe sempre garantire. Si tratta di misure drastiche, prese a seguito degli attentati che nell’estate del 2005 hanno colpito la capitale londinese, e frutto di un livello di guardia salito significativamente, nel tentativo di prevenire altri attacchi da parte dei gruppi fondamentalisti.
Nel 2011 il panorama dell’informazione britannica è stato turbato dallo scandalo relativo a News of the World: il celebre tabloid di proprietà di News Corporation, la società di Rupert Murdoch, è stato chiuso in luglio dopo che la potente direttrice, Rebekah Mary Brooks, e alcuni giornalisti erano stati accusati di intercettare illegalmente membri della famiglia reale, altre personalità del paese e protagonisti di episodi di cronaca e di aver corrotto agenti di polizia per avere informazioni.
Il Regno Unito ha una delle più importanti economie al mondo, con un pil pro capite equivalente a più di 38.000 dollari. Domina il terziario, che costituisce il 79% del pil e occupa quasi l’80% della forza lavoro: non a caso si tratta anche del settore che, dal 2013, sta trainando il paese fuori dalla crisi economico finanziaria. La recessione ha colpito duramente il settore finanziario: all’inizio si era registrato un pesante calo delle entrate, che aveva fatto scivolare, nel 2009, il rapporto deficit/pil all’11,4% (il secondo peggior risultato in Europa dopo l’Irlanda). Il 2011 aveva segnato un nuovo rallentamento: il tasso di crescita del pil si era attestato sullo 0,7%. Nel 2012 si è registrata una contrazione dello 0,4%, mentre nel 2013 il tasso di crescita reale del pil è stato pari all’1,4 % circa e nel 2014 stato del 3,2%
Come per le altre economie europee colpite dalla crisi, le misure messe in atto per trainare la ripresa non hanno trovato concordi gli esperti. Anche il Regno Unito ha seguito la linea dell’austerità: all’indomani del proprio insediamento, nel giugno 2010, il governo ha varato un piano economico di emergenza che prevedeva riforme nei settori di sanità, istruzione e del welfare system nel suo complesso. L’obiettivo principale era ridurre il peso dello stato centrale, attraverso il taglio radicale delle spesa storica. Secondo le proiezioni ufficiali, il piano dovrebbe portare il deficit all’1,1% del pil entro l’anno fiscale 2015-16.
Dopo il forte crollo della sterlina che si è registrato tra il luglio 2007 e la primavera del 2009, provocato dalla riduzione dei tassi d’interesse, la valuta britannica ha progressivamente riguadagnato terreno rispetto all’euro. La crisi ha prodotto effetti anche sul mercato del lavoro, in particolar modo tra i più giovani: nella fascia tra i 16 e i 24 anni, più del 20% è disoccupato. Il dato aggregato, invece, indica che nel 2014 la disoccupazione nel Regno Unito è in lieve calo rispetto all’anno precedente ed è pari al 6,9%, mentre negli anni precedenti alla crisi il valore oscillava attorno al 5%.
Il regno va incontro a un periodo caratterizzato dalla necessità di ridurre il deficit. Ciò impone i tagli alla spesa più drastici e prolungati dagli anni Quaranta, oltre che un sostanzioso inasprimento fiscale. Per evitare la stagflazione, caratterizzata da una bassa crescita e da un’inflazione elevata, il Regno Unito punterà presumibilmente sulla ripresa dell’industria, sulle esportazioni e sugli investimenti, cercando di rendersi meno dipendente dal settore finanziario e mirando contestualmente a ridurre il livello di consumo sia pubblico sia privato.
Nel conseguimento di questi obiettivi, il Regno Unito cercherà dunque di avvicinare il livello delle esportazioni a quello dell’import, risanando la bilancia commerciale che negli ultimi quindici anni, da una situazione quasi in equilibrio, si è andata via via deteriorando. La maggior parte delle importazioni proviene dalla Germania, che assieme agli Stati Uniti, primo cliente del paese, è storicamente il principale partner commerciale del Regno Unito. Negli ultimi undici anni, le importazioni dalla Cina sono aumentate di più di sette volte e dal 2008 la Repubblica popolare cinese figura tra i primi quattro paesi che esportano nel Regno Unito.
Il dato principale per quanto concerne l’approvvigionamento energetico è il passaggio da esportatore netto a importatore, avvenuto attorno alla metà del primo decennio del Ventunesimo secolo. Ciò è accaduto nonostante il paese goda delle maggiori riserve petrolifere nello scenario europeo, dietro la Norvegia (nel 2013, 3 miliardi di barili) e possa contare su un colosso petrolifero delle dimensioni della British Petroleum. La Bp è la terza compagnia del settore a livello mondiale: è operativa in circa ottanta paesi. La sua divisione statunitense costituisce il maggior produttore di idrocarburi degli Stati Uniti: l’incidente della primavera del 2010 avvenuto su una delle sue piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico, la Deepwater Horizon, ha provocato il disastro ambientale più grave nella storia del paese nordamericano e ha creato forti tensioni tra Londra e Washington.
Nel 2004 il livello di consumo di gas ha superato per la prima volta le quantità prodotte e lo stesso è avvenuto circa un anno più tardi per il petrolio. In entrambi i casi la causa è stata il rapido calo della produzione, mentre il consumo si è mantenuto sostanzialmente stabile, attorno a 1,8 milioni di barili di petrolio giornalieri e 90 miliardi di metri cubi di gas ogni anno.
Più di due terzi del petrolio importato proviene dalla Norvegia, alla quale il Regno Unito è collegato tramite l’unico oleodotto internazionale sul suo territorio.
Per quanto riguarda il gas, invece, il Regno Unito è collegato al Belgio da un gasdotto che, partendo da Bacton, giunge a Zeebrugge e garantisce la connessione con il mercato europeo nel suo complesso. Londra, inoltre, importa tramite gasdotti anche dagli stabilimenti offshore norvegesi situati nel Mare del Nord e dall’Irlanda. Per ovviare al progressivo esaurimento di gas e petrolio, è presumibile che il Regno Unito cercherà di aumentare la produzione tanto dell’energia nucleare quanto di quella derivante da fonti rinnovabili, che attualmente, nel loro complesso, non superano il 10% del mix energetico nazionale.
Il limitato sviluppo dell’energia rinnovabile, unito alla dimensione dell’economia, fanno del Regno Unito il decimo paese al mondo per emissioni totali di CO2, nonostante una buona efficienza energetica, favorita anche dalla prevalenza dei consumi di gas su quelli petroliferi.
Nel 2012 il governo ha annunciato l’intenzione di procedere all’esplorazione del sottosuolo per lo sfruttamento del gas da argilla, allo scopo di accrescere il peso del gas e diminuire quello del carbone nel mix energetico nazionale. L’annuncio ha però suscitato le proteste delle associazioni ambientaliste, perché il processo di estrazione del gas dall’argilla – la fatturazione idraulica, o fracking – rischia di contaminare le acque sotterranee e l’aria e potrebbe provocare fenomeni di micro-sismicità.
L’apparato militare del Regno Unito è uno dei più avanzati e dei meglio equipaggiati al mondo, anche se, rispetto al 2011 in cui era il terzo paese al mondo che investiva di più nel settore, la spesa per la difesa è in calo. Il Regno Unito possiede l’aviazione e la marina più importanti tra i paesi dell’Unione Europea, al secondo posto tra i paesi dell’Alleanza atlantica. La sua celebre Royal Navy è una delle pochissime marine con una flotta dotata di capacità ‘d’alto mare’, in grado quindi di operare in autonomia per lunghi periodi lontano dalla madrepatria e capace di una proiezione di potenza di portata globale. La spesa militare e il suo relativamente alto ammontare in percentuale sul pil (ben oltre il 2%, al secondo posto tra i membri dell’Unione Europea) è stato messo in discussione nei primi mesi del governo Cameron nell’ambito del dibattito su come ridurre l’elevato deficit di bilancio.
La necessità di ridurre le spese pubbliche, che contrarranno quella militare di almeno il 10% entro il 2015, potrebbe costituire la molla per proiettare la difesa britannica in ambito europeo, o comunque per orientarla verso una maggiore cooperazione con i principali interlocutori continentali. In questa direzione va interpretato il programma di difesa sottoscritto da Cameron e dall’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, che prevede una cooperazione cinquantennale in materia di difesa tra Londra e Parigi, la condivisione di una portaerei e di altre strutture militari, nonché la creazione di una forza d’intervento congiunto. Non sono invece finiti sotto revisione i finanziamenti destinanti al mantenimento del programma nucleare britannico, capitolo di spesa finora intoccabile perché architrave di quell’autonomia difensiva che il Regno Unito ha tradizionalmente ritenuto uno dei suoi capisaldi.
Sebbene la fine della Guerra fredda e della contrapposizione bipolare abbia coinciso con un drastico taglio sul personale militare in attività, le forze armate britanniche sono state dispiegate in numero e proporzione elevati rispetto alle altre principali potenze mondiali, partecipando a diverse missioni militari, svolgendo un ruolo molto attivo, spesso al seguito degli Stati Uniti. L’impegno nelle missioni internazionali ha spaziato dalla Prima guerra in Iraq, nella quale furono impiegati circa 50.000 soldati britannici, è passato per la presenza nei Balcani durante gli anni Novanta, è arrivato alla guerra in Afghanistan, dove le truppe inglesi sono state il secondo contingente più numeroso, per arrivare all’intervento militare in Iraq del 2003, che ha registrato un picco di 46.000 soldati britannici in corrispondenza delle maggiori operazioni militari effettuate tra marzo e aprile 2003. Inoltre, con l’operazione in Libia nel 2011, il Regno Unito è tornato a intervenire direttamente nel teatro mediterraneo, dimostrando un rinnovato interesse per l’area.
Truppe britanniche sono poi di stanza in diversi altri paesi del mondo, dove sono presenti basi militari e possedimenti. Il contingente più numeroso è in Germania, dove sono acquartierati circa 20.000 effettivi, pronti a essere impiegati nelle operazioni militari nei corpi di reazione rapida della Nato (Allied Rapid Reaction Corps). Circa 3000 sono invece di stanza nelle due basi britanniche sull’isola di Cipro e ancora a Gibilterra, nelle Isole Falklands, nell’isola di Ascension e in quella Diego Garcia. Un discorso a parte merita invece il dispiegamento di truppe britanniche in Irlanda del Nord nella cornice della ‘Operation Banner’, la missione più lunga in cui le forze britanniche siano state coinvolte, durata dal 1969 al 2007. L’anno della sua istituzione coincide con il violento risveglio della questione nordirlandese, caratterizzata dalla contrapposizione tra la comunità protestante, sostenitrice dell’unione alla Gran Bretagna, e quella cattolico-repubblicana, fautrice invece di una riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. Lo scontro ha alimentato per trent’anni quella che viene considerata la più lunga guerra civile dell’Europa contemporanea, costata più di 3000 morti. Oggi, dopo più di un decennio di rappacificazione, iniziata con l’Accordo del venerdì santo del 1998, sono circa 1500 i soldati britannici di stanza nelle caserme dell’Irlanda del Nord.
Particolarmente fiorente è infine l’industria militare britannica, che esporta principalmente negli Stati Uniti, ma anche in India, Cile, Canada e Arabia Saudita. Nel 2012, il comparto industriale militare annoverava la terza compagnia al mondo per vendita di armi.
Il termine special relationship fu coniato da Winston Churchill nel 1946 in riferimento all’unicità delle relazioni politiche, militari e culturali esistenti tra Regno Unito e Stati Uniti. Il celebre statista britannico riteneva che questa relazione dovesse costituire il cuore di quel blocco di stati occidentali che si andavano opponendo all’Unione Sovietica. Definire un rapporto tra due stati nei termini di una ‘relazione speciale’ sottintende l’idea che il livello di attività cooperativa bilaterale abbia una tale durata, stabilità, intensità e complessità da meritare una categoria differente dalla semplice alleanza, amicizia o partnership. In effetti il caso angloamericano colpisce sotto tutte queste caratteristiche. In primo luogo, per la sua durata e stabilità: nato già nel Diciannovesimo secolo, l’asse tra Londra e Washington si è rafforzato durante le due guerre mondiali per poi consacrarsi come un’intesa speciale negli anni della Guerra fredda, principalmente in virtù della comune diffidenza verso l’Unione Sovietica. La relazione non si è ridimensionata con la fine dell’Impero sovietico, ma ha registrato un’intensificazione nel momento in cui il rapporto tra gli Usa e alcuni partner europei ha attraversato momenti di tensione in coincidenza della guerra in Iraq del 2003. In secondo luogo, la special relationship colpisce per la sua intensità, che può essere definita multilivello. Il legame non si manifesta soltanto a livello delle rispettive leadership politiche, che negli anni si sono dimostrate generalmente in sintonia nelle scelte di politica estera anche in caso di differente appartenenza politica (l’intesa tra il laburista Tony Blair e il repubblicano George W. Bush nella guerra al terrorismo è in questo senso emblematica). Si è palesata anche nei rispettivi apparati burocratici, in particolare quelli diplomatici, e di difesa. Infine, l’intesa tra Londra e Washington si estende a molti ambiti di cooperazione e non riguarda soltanto il piano diplomatico, più squisitamente politico, ma coinvolge anche la sfera militare, economica e culturale. La relazione si traduce in un costante allineamento rispetto alle grandi questioni della politica internazionale: si pensi, nell’ultimo decennio, alla lotta contro il terrorismo, al dossier sul nucleare iraniano, o all’imposizione della no-fly zone e all’intervento della Nato nella Libia di Muammar Gheddafi. Ma si articola anche come una forte collaborazione tra le rispettive forze armate e apparati di intelligence, a cui si aggiungono ingenti forniture di materiale bellico, supporto logistico e condivisione di basi militari. Infine il legame si estrinseca in un notevolissimo interscambio commerciale e finanziario. Il legame culturale, basato in primis sull’affinità linguistica anglofona, è anche riscontrabile nel proliferare di associazioni, istituti ed enti di tipo scientifico e culturale.
Il 18 settembre del 2014 gli elettori scozzesi sono stati chiamati alle urne per esprimersi su una decisione storica riguardante il loro futuro: ottenere l’indipendenza dal Regno Unito dopo più di 300 anni, o restarne parte integrante. Il dibattito circa l’indipendenza si è fatto molto più acceso con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale. Se, infatti, fino a poche settimane prima del referendum il sì sembrava in netto svantaggio, a inizio settembre alcuni sondaggi l’hanno visto passare per la prima volta in testa. Gli argomenti portati avanti dai sostenitori dell’indipendenza e dal primo ministro scozzese Alex Salmond, ruotavano attorno ai temi economici e della pubblica sanità, mentre molti erano i fattori ancora da chiarire, come la moneta che un’eventuale Scozia indipendente avrebbe potuto adottare e la sua permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea. Alla fine, i no hanno prevalso di poco (55,3%), ma il governo di Londra ha comunque promesso che concederà ulteriori prerogative in senso autonomistico alla Scozia, tra cui l’entrata in vigore di una serie di norme che assegneranno alle autorità di Edimburgo la facoltà di influire sulla determinazione delle aliquote d’imposta applicabili ai propri cittadini. Del resto, nonostante il risultato, lo stesso Cameron ha dovuto riconoscere la portata politica del referendum, anche in vista di quello promosso, a sua volta, dal governo di Londra circa la permanenza all’interno dell’Eu, previsto per il 2017.
Il nome di Westminster non si riferisce solo al celebre palazzo che ospita il parlamento londinese, ma nella storia si è affermato come un vero e proprio modello di regime democratico, con alcune caratteristiche specifiche ricalcate proprio dal sistema britannico e in adozione in diversi paesi, spesso ex colonie inglesi, come l’Australia, l’India, il Canada, la Malaysia, la Nuova Zelanda o Singapore. I tratti caratteristici del modello Westminster, elencati efficacemente da Arend Lijphart, sono: un sistema elettorale maggioritario e non proporzionale, l’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici a maggioranza ‘stentata’, un sistema bipartitico, il predominio dell’esecutivo, un parlamento unicamerale, il pluralismo dei gruppi di interesse, un sistema di governo unitario e centralizzato, la flessibilità costituzionale, l’assenza di revisione giurisdizionale, una banca centrale controllata dall’esecutivo. Tra questi elementi esiste una stretta correlazione. La competizione elettorale di tipo maggioritario, infatti, determina il formarsi di un sistema in cui vi sono due partiti principali che dominano il panorama politico, entrambi in grado di competere per la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, e quindi disposti a governare da soli, generando la possibilità di un’alternanza di governo. Un sistema bipartitico non esclude chiaramente la presenza di altre formazioni partitiche, ma rende di fatto marginale l’influenza e il peso che questi riescono ad avere in parlamento e nelle dinamiche politiche nazionali. La solida e coesa maggioranza di cui gode il governo in parlamento gli permette di essere stabile e di veder approvate le proprie proposte legislative. Dal punto di vista istituzionale il parlamento è bicamerale, ma caratterizzato da un bicameralismo talmente asimmetrico che si può parlare di quasi-unicameralismo: le due camere hanno differenti prerogative e composizione e il processo legislativo è concentrato solo in una delle due. Il modello istituzionale di tipo competitivo riflette una società che generalmente presenta un sistema di interessi pluralistico, dove fra i gruppi socialmente rilevanti prevale la competizione piuttosto che la concertazione o il compromesso. Il governo britannico resta tendenzialmente centralizzato e unitario, anche se ha smorzato i suoi tratti caratteristici con la creazione delle amministrazioni nazionali decentrate di Irlanda del Nord, Scozia e Galles. Altri elementi del modello sono una Costituzione flessibile e non scritta, la mancanza di un controllo di costituzionalità sulle leggi proposte dal parlamento e una banca centrale controllata dall’esecutivo.
La geografia economica interna al Regno Unito è segnata nell’immaginario collettivo da marcate differenze tra il nord e il sud e in modo ancora più netto tra Londra e il sud-est e il resto del paese, non solo in termini economici ma anche politico-culturali. Il dibattito sul divario, soltanto percepito secondo alcuni e reale secondo molti altri, tra la cosmopolita Londra e il resto della Gran Bretagna si è riacceso sui principali media inglesi negli ultimi anni e si è concentrato sulle differenze in termini di reddito, trasporti e real estate. Secondo uno studio prodotto nel 2007 dall’Università di Sheffield, la linea di demarcazione correrebbe all’interno delle contee di Gloucestershire, Warwickshire, Leicestershire e Lincolnshire, spaccandole. Buona parte di queste contee, che fanno parte delle Midlands, e quelle più meridionali costituirebbero la zona sud. Il dibattito sull’esistenza di due nazioni diverse non è particolarmente nuovo, tanto che può essere fatto risalire al 1855, quando la scrittrice Cleghorn Gaskell pubblicò North and South, un romanzo sulla contrapposizione tra il mondo rurale e la trasformazione portata dalla rivoluzione industriale, ambientato nell’immaginaria città del nord di Milton (in realtà ispirata alla già industrializzata Manchester). Il romanzo denunciava il lato oscuro della nuova vita portata dalla rivoluzione industriale: povertà e oppressione, soprattutto ai danni delle donne e dei lavoratori. A tutt’oggi, tendenzialmente, a parte una differenza in termini di pil pro capite, dato per il quale il sud primeggia, così come in termini di reddito (si calcola un valore mediano di circa 4 mila sterline l’anno in più percepite al sud rispetto al nord), le principali differenze sono di tipo socio-politico. Il sud si caratterizza per essere un territorio rurale – con l’eccezione della grande area urbana di Londra – piuttosto borghese e in cui il Partito conservatore conserva ancora un buon bacino elettorale. Il nord è stato invece il luogo dell’industria e di conseguenza delle lotte sindacali e operaie, tanto che molti dei deputati comunisti eletti al parlamento inglese provenivano dal nord. Oggi, il divario nord-sud riguarda anche e soprattutto il prezzo delle case, che, secondo alcune stime, costerebbero in media 100 mila sterline in più al sud. In particolare, secondo i dati raccolti da Hometrack nel 2013, la differenza di prezzo nelle case tra nord e sud sarebbe pari a 110 mila sterline per le proprietà meno costose, a 133 mila per le medie e 171 mila per le case più prestigiose. L’opera che potrebbe attenuare tale divario e la sua percezione è costituita dal miglioramento dei collegamenti ferroviari, in fase di completamento. In concreto dovrebbe venir completato il progetto di alta velocità HS2 (High speed 2) che, in linea con quanto accade nel resto del continente europeo, dovrebbe collegare Londra con le Midlands, il North West England, il West Yorkshire, fino alla Scozia.
1801: Il parlamento di Londra vota l’Atto di unione, che sopprime il parlamento di Dublino e fissa le quote di rappresentanza irlandese a Westminster. È la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda.
1920: Con il Government of Ireland Act, i britannici istituiscono due parlamenti separati: quello di Belfast, per sei delle nove contee dell’Ulster, e quello di Dublino per il resto del territorio irlandese. Viene così di fatto sancita la partizione dell’Irlanda e la separazione delle sei contee nordorientali, a maggioranza protestante e unionista, dal resto dell’isola.
1921: Dopo due anni di scontri tra il governo britannico in Irlanda e l’Irish Republican Army (Ira) guidato politicamente dal Sinn Féin, il principale partito repubblicano-nazionalista irlandese, si conclude la guerra d’indipendenza irlandese, con una tregua suggellata dalla firma del trattato di pace anglo-irlandese. Con questo accordo la Gran Bretagna concede all’Irlanda lo status di ‘dominion’, equivalente a una larga autonomia nell’autogoverno e alla formazione dello stato libero d’Irlanda entro il Commonwealth britannico. L’Irlanda del Nord resta invece parte del Regno Unito.
1922-23: Guerra civile nelle 26 contee irlandesi tra sostenitori e oppositori del trattato di pace anglo-irlandese, conclusasi con la vittoria dei primi.
1949: Il lunedì di Pasqua, l’Irlanda abbandona lo status di ‘dominion’ e diviene una repubblica del tutto indipendente da Londra. Le sei contee dell’Ulster rimangono invece nel Regno Unito.
1921-69: In Irlanda del Nord continua a valere il Government of Ireland Act, secondo cui le questioni interne sono gestite dal Parlamento di Belfast, in cui prevalgono sempre maggioranze protestanti. Westminster ha ancora il controllo della politica estera e la gestione dei tributi. La popolazione cattolica è di fatto discriminata nella rappresentanza politica e nell’accesso ai servizi sociali e all’impiego pubblico. I distretti elettorali sono modellati in modo tale (secondo il cosiddetto metodo ‘gerrymandering’) che il controllo dei consigli cittadini sia assicurato ai protestanti.
1969: Fervono movimenti per i diritti civili in Irlanda del Nord (come il Nicra, Northern Ireland Civil Right Association, o il People’s Democracy), che denunciano le disparità tra le due comunità nordirlandesi. La tensione sale alle stelle in corrispondenza della rivolta cattolica a Derry, scoppiata in opposizione a una marcia unionista che ha attraversato il Bogside, storico quartiere cattolico della città. I disordini e le violenze tra le due comunità si estendono anche a Belfast, dove i britannici decidono di costruire un muro – ancora oggi esistente – per separare il quartiere cattolico da quello protestante, nell’ovest della città. È l’inizio dei cosiddetti troubles (disordini), che da questo momento in avanti segnano continue violenze tra le due fazioni.
1972-74: Al termine di una manifestazione per i diritti civili a Derry, i reparti paracadutisti dell’esercito britannico sparano sulla folla e uccidono 13 dimostranti disarmati: la domenica passa alla storia come ‘Bloody Sunday’. Il governo britannico, visto l’inasprirsi del conflitto, decide di sospendere il governo e il Parlamento dell’Irlanda del Nord e di riprendere direttamente il controllo sulla regione. Intanto sempre più truppe britanniche sono dispiegate nelle sei contee per ristabilire l’ordine e combattere il terrorismo, secondo quanto stabilito dalla missione Operation Banner. Il governo inglese promulga leggi speciali che limitano le libertà politiche e individuali in Irlanda del Nord, come l’Emergency Provisions Act o il Prevention of Terrorism Act, entrambe ripetutamente sospese e reintrodotte negli anni.
1974-93: Prosegue la guerra a fasi alterne: l’Ira organizza una resistenza molto dura, condotta tanto militarmente, con attentati dinamitardi in tutto il Regno Unito, quanto con azioni politiche e simboliche dal forte impatto. In particolare, i prigionieri politici irlandesi organizzano forme di protesta, che culminano con lo sciopero della fame a oltranza. Nel 1981, lo sciopero porta alla morte Bobby Sands e altri nove prigionieri.
1998: Il 10 aprile, dopo una lunga serie di eventi drammatici e sotto il forte impulso degli Stati Uniti (grazie all’attività diplomatica svolta in primis dal senatore George Mitchell), viene firmato, e ratificato tramite referendum popolare il 22 maggio successivo, il Belfast Agreement, più noto come accordo del Venerdì Santo. Tale accordo ha reintrodotto il parlamento nordirlandese e ha stabilito che il governo locale avrebbe rispettato nella sua composizione la rappresentatività di tutti i maggiori partiti e di tutte le comunità. Con esso, inoltre, da un lato la Repubblica d’Irlanda ha rinunciato ufficialmente a ogni rivendicazione sulle sei contee dell’Ulster, dall’altro il Regno Unito si è impegnato a emanare la legislazione necessaria per creare un’Irlanda unita, qualora ciò sia la volontà della maggioranza della popolazione dell’Irlanda del Nord.
L’Ukip, ovvero Uk Independence Party (Partito per l’indipendenza del Regno Unito), è un partito divenuto noto soprattutto per la sua spiccata vocazione anti europeista. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è stata sin dalla sua nascita, nel 1993, il tema centrale della sua agenda politica. L’Ukip nasce, infatti, da una scissione dal Partito conservatore grazie all’attivismo di Alan Sked, un professore di storia internazionale alla London School of Economics, che ne ha però da tempo preso le distanze.
Attualmente, il leader di Ukip è Nigel Farage. Farage, oggi volto noto anche al di fuori dei confini inglesi, era tra i membri fondatori dell’Ukip già nel 1993, quando decise di lasciare il partito conservatore per dare seguito all’idea politica di Sked, successivamente alla firma del Trattato di Maastricht da parte dell’allora primo ministro e rappresentante dello stesso partito John Major. Oggi tra i due fondatori non sembra correre buon sangue. In un articolo apparso sul quotidiano inglese The Guardian nell’aprile 2014 Sked ha definito l’Ukip come un ‘mostro di Frankestein’, distanziandosi soprattutto dalle diverse posizioni non condivise del partito da lui creato. In particolare Sked non condivise l’idea di mandare parlamentari dell’Ukip in Europa, perché ciò significava esattamente legittimare la causa contro cui la formazione stava combattendo. Sked volle, inoltre, rimarcare le sue distanze da una direzione, a suo dire, eccessivamente estremista e razzista che il partito avrebbe intrapreso già dalle sue dimissioni nel 1997. L’Ukip si sarebbe poi distaccato anche dai valori liberali tipicamente espressi dal Partito conservatore. La conseguenza è stata quella di relegarlo al ruolo di partito minore per via dei pessimi risultati nelle elezioni nazionali.
L’Ukip, infatti, non è mai andato oltre il 3,1 % (elezioni politiche 2010). Un piccolo per quanto inutile balzo in avanti rispetto al 2005, in cui gli indipendentisti presero il 2,2% dei voti, ma in nessun caso a livello nazionale l’Ukip è mai stato in grado di ottenere un seggio in parlamento.
Gli indipendentisti hanno invece ottenuto il loro primo vero successo elettorale al Parlamento europeo nel 2004, conquistando 12 seggi e ottenendo il 16 per cento del consenso. Alle elezioni europee del 2009 l’Ukip sembrava, invece, essersi ormai assestato sul medesimo risultato del 2004 conquistando 13 seggi. L’ascesa europea dell’Ukip arriva, invece, parzialmente a sorpresa dal risultato delle elezioni per il parlamento europeo nel 2014. L’Ukip ha infatti conquistato ben 24 seggi su 73, diventando il partito inglese con la maggiore rappresentanza al Parlamento europeo.
Il conteggio proporzionale dei voti alle elezioni europee ha certamente favorito l’ascesa in Europa dell’Ukip, ma non è certamente questa l’unica ragione del maggiore successo del partito di Farage.
Il suo successo alle ultime elezioni europee si inserisce nel sempre più esteso fenomeno noto come euroscetticismo e che ha visto il nascere di diversi partiti su queste posizioni in Europa. A seguito del risultato delle ultime elezioni europee l’Ukip ha aderito al gruppo parlamentare ‘Europa della Libertà e della Democrazia’ di cui fa parte anche il Movimento 5 stelle italiano di Beppe Grillo. Grillo e Farage condividono lo stesso scetticismo riguardo alla gestione degli affari europei.
La vittoria di Farage va letta dunque, paradossalmente, in un contesto europeo, ma allo stesso tempo anche in un contesto britannico, da sempre poco incline ad una visione europeista degli affari nazionali. L’elettore medio inglese, però, ha fin’ora mostrato di distinguere tra i due contesti elettorali, nazionali ed europeo. In Europa vuole parlamentari che si facciano portatori di questo scetticismo, ma in politica interna non vede la necessità di dare seguito alle istanze degli indipendentisti. Così, secondo un articolo pubblicato su Parliamentary Affairs nel 2008 dagli studiosi Mir Abedi e Thomas Carl Lundberg, comunque, resta altamente improbabile pensare che l’Ukip sarà mai in grado di governare a fianco dei conservatori dato il sistema maggioritario a turno unico in collegi uni-nominali. Diversamente, tuttavia, il successo anche mediatico di Farage potrà pesare sull’agenda dei conservatori, specialmente sulle tematiche dell’immigrazione.