Antico, reimpiego e imitazione dell'
Nelle alterne fasi del rapporto con l'antico l'ammirazione e l'imitazione dei modelli antichi nell'architettura e nella scultura raggiunsero l'acme nel XII e XIII secolo. Fin dal principio del Medioevo diversi motivi indussero, sia nell'architettura che nella scultura, ad assumere a modello le opere antiche o addirittura a servirsene grazie al reimpiego: la facile recuperabilità di pezzi già lavorati reperibili tra le antiche rovine da usare per il proprio cantiere, quali conci, colonne, capitelli, che non dovevano essere fabbricati prima nelle cave di pietra; l'interpretatio christiana, per il cui tramite era possibile 'appropriarsi' di un rilievo o di una statua dal carattere insolito, ma capace di suscitare meraviglia; la pura e semplice ammirazione per la bellezza irraggiungibile, mai vista, di una scultura antica, ma anche per un concio ben tagliato. E, non da ultimo, il pezzo antico era considerato strumento di legittimazione politica, riferimento materiale e tangibile al mito di Roma: un motivo che già aveva indotto Carlomagno a far trasportare colonne antiche e altri materiali di spoglio provenienti da Roma o da Ravenna nella sua residenza di Aquisgrana e che in seguito, nella stessa linea, spinse i comuni italiani a scegliere statue antiche o frammenti architettonici a simbolo della loro autonomia e della loro storia. Frattanto il mero 'riciclaggio' dell'antico indotto dalla disponibilità dei pezzi lavorati era diventato più raro, mentre il reimpiego si era fatto sempre più consapevole, esigente, selettivo: in cattedrali come quelle di Pisa o di Salerno i pezzi antichi furono inseriti con intento dimostrativo e una sensibilità nuova per l'armonia e le proporzioni. Al pari dei sovrani e degli imperatori, anche i pontefici strumentalizzarono l'antico e tramite il reimpiego di materiali di spoglio vollero rivendicare la loro pretesa a considerarsi eredi degli imperatori romani. Tanto più è ovvio chiedersi quale sia stato l'atteggiamento nei confronti dell'antico, nell'architettura e nella scultura, sotto Federico II, il quale si richiamò per tanti aspetti all'antico e nelle sue dichiarazioni si espresse di proposito come un Cesare.
Consideriamo innanzitutto le fonti scritte che parlano del rapporto di Federico II con le antichità. Riccardo di San Germano riferisce che l'imperatore, durante la campagna condotta contro Roma nel 1242, essendosi accampato a Grottaferrata, aveva visto nel convento due statue in bronzo raffiguranti un uomo e una vacca utilizzate come figure per una fontana ("statuam hominis eream et vaccam eream similiter, que […] aquam per sua foramina artificiose fundebant") e aveva disposto affinché fossero trasportate a Lucera (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 216). Nel 1240, al castellano di Napoli fu trasmesso l'ordine di mandare a Lucera le statue giunte via mare ("ymagines lapideas in galeis delatas") organizzando un trasporto che non le danneggiasse (Sthamer, 1912-1926, I, p. 10). Già in questo caso però non dev'essersi trattato necessariamente di pezzi antichi (come è stato variamente supposto), infatti anche statue nuove eseguite, per esempio, a Roma e inviate a Napoli per mare non sarebbero state definite altrimenti dalla cancelleria; non è comunque da escludere un'origine antica. È stato citato più volte anche l'interessante caso di una richiesta di permesso per effettuare scavi (licentia fodiendi), risalente al 1240, al fine di "inventiones maximas invenire" presso Augusta in Sicilia che l'imperatore, "sperantes inde habere posse proficuum", concesse, però sotto il controllo della corte (Historia diplomatica, V, 2, p. 825). Ma è dubbio che si sia trattato realmente, come è stato ipotizzato, di scavi di antichità nelle locali zone archeologiche (per esempio Megara Hyblaea) e che il "proficuum" auspicato dall'imperatore alludesse effettivamente al valore antiquario e non al valore materiale. Un altro episodio narrato da Tommaso da Pavia (1872, p. 511) a proposito di uno scavo presumibilmente voluto dall'imperatore fa riferimento a una cappella di Galla Placidia a Ravenna e alla ricerca di 'ricordi' di Carlomagno ed è del tutto leggendario. Secondo una fonte più tarda, lo Spicilegium Ravennatis Historiae, Federico avrebbe fatto trasportare due colonne in onice e altri blocchi, "duas columnas de onichillo […] et alios lapides" (1725, p. 578), da Ravenna a Palermo ‒ distruggendo, tuttavia, contemporaneamente l'antica Porta Aurea. Una fonte documentaria, un mandato di pagamento del 1239, parla dell'acquisto di una coppa in onice preziosa a giudicare dal prezzo elevato (Historia diplomatica, V, 1, p. 477). È verosimile la sua origine antica (questo tipo di coppe e tazze faceva parte anche di altri tesori reali: nel caso di Federico, si pensi all'antica coppa in agata nel suo reliquiario per s. Elisabetta), ma tradurre in questo contratto d'acquisto "et alias plures johyas" senz'altro con "e altre antichità" è una libera interpretazione e non corrisponde a quanto è detto dalla fonte: l'oreficeria e l'incisione di cammei all'epoca erano a tal punto evolute e produttive che non bisogna vedere per forza in ogni pezzo menzionato un oggetto antico. È comunque indiscutibile che il tesoro di Federico II comprendesse anche una gran quantità di pietre antiche incise. Ma la diffusa convinzione che Federico sia stato un appassionato collezionista di opere d'arte antiche non può essere suffragata da fonti scritte.
Dall'esame delle fonti coeve quindi sono emerse poche testimonianze specifiche sul rapporto di Federico II con i monumenti, le sculture, i cammei antichi. Questo rapporto non deve comunque essere messo in dubbio, ma è opportuno sottolineare come le fonti scritte parlino meno esplicitamente dell'argomento di quanto ci si attenderebbe e che invece ‒ a prescindere dalle testimonianze indirette della retorica anticheggiante della sua cancelleria e dai manifesti altisonanti ispirati dalla sua ideologia cesarista ‒ si devono assumere come punti di partenza i monumenti e gli oggetti stessi.
La Porta di Capua ‒ collegata al ponte sul Volturno ‒ è considerata il monumento federiciano che ha raggiunto il massimo grado di contiguità all'antico: trattandosi della porta d'accesso al Regno è, per così dire, la facciata autorappresentativa dello stato federiciano e del suo ordinamento giuridico, profana nella funzione e nell'iconografia. Costruzione unica nel suo genere, è stata definita "un vero e proprio edificio-manifesto" (Bologna, 1989, p. 174), e tanto più nel suo programma di statue è stato ipotizzato l'intervento personale dell'imperatore (cf. Riccardo di San Germano all'anno 1234; ma non è attestabile nella documentazione coeva: cf. Haseloff, 1920; Sthamer, 1912-1926). Comunque questa Porta ora non sarà considerata in quanto tale (v. Capua, Porta di), ma unicamente sotto il profilo dell'imitazione e del reimpiego dell'antico, nei modi in cui potrebbero aver indirizzato il progetto e la sua esecuzione materiale. Nella struttura della Porta è desumibile dall'antico tutt'al più l'idea (si è fatto riferimento agli archi di trionfo romani) ma non la forma architettonica, mentre è più anticheggiante nei dettagli, soprattutto i busti a tutto tondo dei due personaggi barbuti ‒ non identificabili con certezza ‒ nel clipeus (busti che presentano una bordo inferiore semicircolare, non diritto). Tuttavia, le opinioni degli studiosi in merito ai modelli ispiratori sono ampiamente divergenti: busti di imperatori romani, o ritratti greci, teste di erme, o le teste di divinità poste come chiavi delle arcate del vicino anfiteatro di Capua; o, anche, modelli non antichi ma anticheggianti del romanico provenzale (per la documentazione in dettaglio, cf. Esch, 1996, pp. 206 ss.). Altrettanto controverso è il giudizio sulla prossimità all'antico della testa della Iustitia e del torso mutilo della statua seduta dell'imperatore (entrambi a Capua, Museo Provinciale Campano). Malgrado l'abbigliamento non canonico di togatus, e gli elementi non antichi (la postura), ma comunque molto anticheggiante nella sua plasticità monumentale, alla statua sono stati attribuiti come modelli, oltre a sculture antiche, anche opere del romanico provenzale e del gotico delle cattedrali della Francia settentrionale; altrettanto controverso è il giudizio sulla testa dell'imperatore (Capua, Museo Provinciale Campano), di cui si è conservato solo il calco, stranamente contrastante con il torso. Nella classificazione stilistica delle sculture della Porta (per lo più conservatesi solo in modo frammentario) il punto controverso non è il loro carattere di fondo anticheggiante, ma se questa ricezione dell'antico sia avvenuta direttamente nell'Italia meridionale, oppure attraverso la mediazione della scultura provenzale o della Francia settentrionale. Naturalmente la bottega campana (o pugliese) che ha eseguito il lavoro non ha imitato alla lettera modelli antichi, ma ha liberamente elaborato forme antiche. Non è attestabile, ed è molto improbabile, che statue antiche siano state addirittura reimpiegate come materiale di spoglio, come è stato affermato di recente. Ma nel caso di un monumento tanto rappresentativo, le modalità di citazione dell'antico in questa facciata e il fatto che l'ideologia federiciana si serva così densamente e con intento dimostrativo del linguaggio formale antico possono essere difficilmente riconducibili a un semplice capriccio dello scultore. Sono necessarie invece una volontà e una concezione che vanno ricercate in primo luogo nell'imperatore stesso e tra i suoi consiglieri più stretti, anche se questi potrebbero non aver esercitato un'influenza sul tipo specifico della ricezione dell'antico da parte dell'artista.
Una struttura in cui si esprimono una pretesa ideologica altrettanto elevata e un analogo intento di trasmettere un forte messaggio politico è il monumento ‒ seppure di dimensioni più modeste ‒ per il Carroccio dei milanesi, bottino di battaglia a Cortenuova (1237), che Federico fece collocare a Roma sul Campidoglio, emulando i trionfatori romani che erano soliti offrire gli spolia opima su questo colle. Il corteggiamento insistente dei romani da parte dell'imperatore dopo Cortenuova e l'incremento di manifesti solenni sulla renovatio dell'Impero romano in cui Roma era vista come fons imperii, come caput imperii, rappresentano il contesto ideale di questo monumento illustrato da un'iscrizione (e da una lettera d'accompagnamento al dono, entrambi attribuiti a Pier della Vigna). La struttura composta da cinque colonne e architrave per appendere le parti del carro fu ben presto rimossa dai romani, ma può essere ricostruita: Guarducci (1984) è arrivata a dimostrare che almeno due delle colonne erano materiale di spoglio in 'verde antico', oggi conservate nella sala dei Capitani del Palazzo dei Conservatori a Roma. Il reimpiego di preziose colonne antiche, il tenore dell'iscrizione, l'atto stesso del dono e il luogo in cui fu collocato fanno di questo segno di trionfo un monumento di programmatica imitazione dell'antico, anche se la struttura stessa può sembrare poco antica agli odierni archeologi.
È particolarmente controversa l'interpretazione dell'edificio che è addirittura assurto a emblema dell'età di Federico II, Castel del Monte (v.); anche in questo caso, verrà considerato solo sotto l'aspetto dell'eventuale richiamo all'antico. Nella pianta ottagonale si sono volute riconoscere forme architettoniche imperiali del tardoantico. Ma gli studiosi sono ampiamente concordi nel ritenere che la concezione complessiva e il linguaggio formale architettonico siano gotici e non desumibili da modelli antichi: condividevano quest'idea già Émile Bertaux e Heinrich von Geymüller, che ha studiato con particolare attenzione la compenetrazione reciproca tra gotico e antico. Reminiscenze dell'antico sono ravvisabili soprattutto nella porta: ma le proporzioni sottili e incorporee dei pilastri e del frontone non possono essere il risultato di uno studio diretto dell'antico condotto in ambito locale; si tratta piuttosto di reminiscenze, che dopo essere state elaborate come elementi del gotico francese hanno ripreso la via dell'Italia. La penetrazione del gotico ‒ il 'moderno' dell'epoca, per così dire ‒ nell'Italia federiciana non è in questione, l'unico punto controverso è: quale gotico? Mentre Bertaux (1903) vi scorgeva soprattutto il gotico francese, Haseloff (1920) riconosceva piuttosto l'influsso del linguaggio formale cistercense-borgognone (segnalando anche lo stretto rapporto intrattenuto da Federico con l'Ordine). Questa è rimasta a lungo l'opinione predominante, finché in tempi recenti la ricerca storico-artistica si è nuovamente rivolta a spunti più antichi accertando forti influssi del gotico delle cattedrali francesi soprattutto nella decorazione scultorea degli edifici, di-sdegnata, com'è noto, dai Cistercensi. Quindi sono individuabili reminiscenze dell'antico non tanto nella concezione complessiva di Castel del Monte quanto nel dettaglio della decorazione architettonica: per esempio il mascherone della testa-foglia a orecchie d'asino posta come chiave di volta nella sala VII inferiore; oppure una figura di cavaliere e un rilievo figurato, entrambi murati nel cortile interno (sempre ammesso che appartengono alla decorazione originaria), la prima anticheggiante e il secondo di materiale di spoglio antico; o ancora, nella cosiddetta sala del trono, l'opus reticulatum, non concepito come opera muraria (rivestimento di un muro di calcestruzzo colato), bensì come motivo decorativo, imitato molto raramente nel Medioevo; e ancora altri particolari meno evidenti. Peraltro ciò che a un primo sguardo non appare antico in senso canonico potrebbe essere tuttavia un'imitazione molto fedele di forme antiche meno diffuse: per esempio, la forma particolare della fusarola del cornicione sulla facciata ‒ attribuita a Bartolomeo da Foggia ‒ della cattedrale di Foggia, con i suoi elementi torniti, come fossero tesi su un filo sottile, immediatamente sopra il dentello sembra poco corrispondente alla forma canonica, eppure è forse ispirata a una rara tipologia di fusarola che compare in effetti nell'età flavia.
Anche nella scultura è possibile riscontrare il riferimento all'antico: sia nel rilievo ‒ in epoca normanna e sveva vi era l'usanza di farsi seppellire in sarcofagi antichi, che venivano anche copiati o addirittura fabbricati ex novo 'all'antica' ‒ sia nella statuaria e, in modo più appariscente, nel ritratto. Diversi busti sono considerati ritratti dell'imperatore, ma tra gli studiosi non solo l'identificazione è controversa, ma spesso anche la datazione. Per esempio, la colossale testa di Lanuvio (Roma, Deutsches Archäologisches Institut) è stata definita sia un lavoro romano risalente all'età claudia, sia un rimaneggiamento duecentesco di un'opera tardoantica e, ancora, un originale del XIII secolo. Sollevano gli stessi problemi la testa conservata a Vienna, i busti di Acerenza ‒ pezzi ascritti, in entrambi i casi, sia al periodo tardoantico che all'epoca sveva ‒ e altre presunte teste di Federico II (Barletta, Genova, ecc.). Queste attribuzioni discordi forse non approderanno mai a una conclusione definitiva. Per il nostro tema è importante stabilire che queste divergenze estreme ‒ accade spesso che gli archeologi, da un lato, e gli storici dell'arte, dall'altro, propongano attribuzioni diverse ‒ nell'Italia meridionale di Federico II sono più frequenti che in qualsiasi altro luogo e in qualsiasi altra epoca del Medioevo, e già questo fatto di per sé dice molto sulla vicinanza all'antico! È interessante notare che questo vale anche per le teste-ritratto in cui non è identificato lo stesso Federico e che non possono essere riconducibili alla committenza imperiale: questo tipo di teste compare sempre più spesso nelle mostre con la didascalia "secondo quarto del XIII secolo, Italia meridionale". Ma ancora non è stata pronunciata l'ultima parola sull'argomento.
Anche nell'ambito della glittica il Meridione degli Svevi ha prodotto opere che mostrano una sorprendente vicinanza all'antico. Le pietre incise avevano un ruolo significativo nel tesoro imperiale (v.): dopo la morte di Federico II, una parte dovette essere data in pegno da Corrado IV a un mercante genovese, e il contratto di pegno menzionava tra i novecentottantasette oggetti ‒ alcuni dei quali presumibilmente erano già appartenuti al tesoro dei sovrani normanni ‒ una quantità molto consistente di pietre incise, incastonate e non, gran parte delle quali era senz'altro di origine antica. Solo in tempi relativamente recenti, partendo dal confronto con sigilli e monete (cf. Wentzel, 1952 e 1955; Deér, 1959), è stato acquisito che tra l'antichità e il tardo Medioevo in quest'area sono state incise pietre e che si può parlare, di conseguenza, di una glittica sveva (v. Glittica). La simbologia statale, in effetti, ha un ruolo centrale. È tuttora controverso se molti di questi cammei non siano stati eseguiti in epoca tardonormanna (Giuliano, 1980) piuttosto che nel periodo svevo, e se le aquile siano tutte realmente interpretabili come aquile imperiali sveve. Fra questi cammei, ora attribuiti all'Italia sveva, si annoverano pezzi che mostrano temi inconsueti e una straordinaria vicinanza all'antico: Poseidone e Anfitrite, Poseidone e Atena (interpretati come Adamo ed Eva), Ercole con il leone Nemeo della Dumbarton Oaks Collection, la citazione di un gruppo di figure antico su una sardonica con l'arca di Noè.
In quest'epoca l'appropriazione intenzionale di forme antiche si può osservare, com'è noto, anche al di fuori della corte e in tutti i generi della scultura, e talvolta ha anche tratto in inganno gli studiosi: il cane marmoreo della cattedrale di Sessa Aurunca è stato ritenuto un pezzo di ascendenza sveva, ma in realtà si tratta del resto di una statua antica di Meleagro con il suo cane da caccia, pezzo antico reimpiegato per l'acquasantiera; la statua della Madonna nel monumento funerario del cardinale Guglielmo de Braye del 1282 (Orvieto, S. Domenico) è stata considerata un lavoro anticheggiante con elementi non antichi, mentre in realtà Arnolfo di Cambio, come ha dimostrato Angiola Maria Romanini, ha reimpiegato una dea antica originale ponendole solo in grembo un Bambino Gesù (effettivamente arnolfiano). La citazione, l'imitazione, il reimpiego dell'antico erano da lungo tempo un tratto caratteristico dell'epoca, ma l'uso programmatico dell'antico per i propri fini ideologici, e non solo l'adozione di simboli, bensì anche del linguaggio formale artistico dell'arte romana imperiale ‒ o di quanto si riteneva tale (in fondo, non se ne sapeva quanto un cattedratico di archeologia oggi) ‒ potrebbero riflettere la volontà del sovrano e del suo gruppo di consiglieri. Sarebbe interessante appurare se fra i molti possibili modelli antichi fosse privilegiata una certa selezione (per esempio, l'espressione ieratica della scultura tardoantica): un interrogativo che è stato sollevato anche in rapporto ai differenti modi di appropriazione dell'antico, in Nicola Pisano, da un lato, che crebbe e si formò nella Puglia di Federico, e in Giovanni Pisano, dall'altro. Ma, in ogni caso, non ci si dovrebbe spingere fino al punto da voler riconoscere ‒ come è stato proposto ‒ una tendenza 'ghibellina' nelle forme anticheggianti, 'guelfa' in quelle goticizzanti.
Chi, come Federico II, aveva imposto alle città da lui fondate altisonanti nomi d'imperatori (Caesarea, Augusta); chi, dopo la vittoria di Cortenuova, aveva inscenato un corteo trionfale romano e tentato di rinnovare l'Impero romano con Roma come fons imperii, doveva avere un'idea specifica di un'adeguata autorappresentazione imperiale, e il richiamo dimostrativo all'arte dei Cesari romani, nella sua prospettiva, era probabilmente scontato. Com'è noto, que-sto emerge con particolare evidenza nella simbologia stata-le delle monete e delle pietre incise: negli augustali (v. Augustale), il ritratto a mezzo busto dell'imperatore col capo cinto d'alloro sul recto ‒ ispirato alle antiche monete imperiali ‒, l'aquila imperiale sul verso; sui cammei la raffigurazione del sovrano incoronato da Vittorie e, sempre 'all'antica', l'aquila.
È risaputo ‒ ed è stato un tema molto studiato ‒ come non solo il Regno federiciano, ma già la monarchia normanna immediatamente precedente, si sia riallacciata all'antico in senso dimostrativo, tramite l'imitazione e il reimpiego: si pensi ai capitelli del chiostro di Monreale, con i centauri, le sirene, lo spinario, Ganimede e perfino Mitra che uccide il toro; o al meditato impiego di materiale di spoglio nel duomo di Salerno, dove l'architrave sopra il portale principale è stato portato addirittura dalla lontana Pozzuoli ed è stato raddoppiato, grazie a un accurato lavoro d'imitazione, per il portale dell'atrio; o al massiccio ricorso a materiale di spoglio nella chiesa della Ss. Trinità di Venosa. Il porfido, il cui uso (al pari della porpora) era riservato specificamente all'imperatore, fu usurpato, per così dire, da Ruggero II, a dimostrazione del suo nuovo rango politico: fece arrivare da Roma il materiale per i sarcofagi in porfido ‒ fra cui quello usato in seguito per Federico ‒ probabilmente sotto forma di colossali colonne di spoglio, infatti solo così è spiegabile l'assottigliamento del diametro nella cassa del sarcofago di Federico (Deér, 1959). Quest'ultimo non aveva bisogno di compiere simili usurpazioni, ma anche il suo richiamo all'antichità aveva una finalità politico-statale. Può darsi che l'imperatore avesse anche un'inclinazione estetica personale per l'arte antica, ma si tratta solo di congetture, mentre l'obiettivo politico-statale è palese: il linguaggio delle forme antiche è il linguaggio dell'imperatore.
fonti e bibliografia
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(traduzione di Maria Paola Arena)