Relazioni internazionali
Sommario: 1. Le relazioni internazionali come disciplina di studio. 2. Le relazioni internazionali alla fine del Novecento. a) La fine dell'eurocentrismo. b) II bipolarismo. c) Il ruolo dell'ideologia. d) La decolonizzazione. e) Le organizzazioni internazionali. f) Il ruolo crescente della tecnologia. g) L'interdipendenza internazionale. 3. L'erosione del bipolarismo. 4. Le relazioni internazionali dopo il bipolarismo. □ Bibliografia.
1. Le relazioni internazionali come disciplina di studio
Lo studio delle relazioni (o dei rapporti, termine però meno usato) internazionali ha come oggetto sia l'interazione tra Stati o gruppi di Stati (per la quale si parla di politica internazionale), sia l'operato di attori non governativi e transnazionali. La rete delle relazioni internazionali costituisce il sistema internazionale. Mentre in passato esistevano contemporaneamente in varie parti del mondo molteplici sistemi internazionali tra i quali non c'era comunicazione, oggi l'elevato grado di interdipendenza internazionale - che forma l'oggetto di questo articolo - ha dato origine a un sistema internazionale globale.
Gli attori principali di tale sistema sono tre. In primo luogo abbiamo gli Stati, che hanno un ruolo predominante in quanto detentori dei maggiori attributi della sovranità, quali il controllo del territorio, l'uso legittimo della forza armata e l'autorità di battere moneta; in secondo luogo vi sono le organizzazioni internazionali, siano esse globali (ad esempio l'Organizzazione delle Nazioni Unite, ONU) o regionali (ad esempio l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, OSCE). La seconda metà del secolo ha visto anche la nascita di svariate organizzazioni di carattere politico-militare, imperniate sulla rivalità tra Stati Uniti e URSS: tra quelle guidate dai primi si ricorda la NATO (North Atlantic Treaty Organization) in Europa occidentale e le omologhe CENTO (Central Treaty Organization) e SEATO (South East Asia Treaty Organization) in Asia sudoccidentale e sudorientale, oggi entrambe disciolte; l'URSS, a sua volta, aveva risposto al riarmo della Germania Federale e alla sua integrazione nella NATO con la creazione del Patto di Varsavia nell'Europa centro-orientale, poi sciolto a seguito delle rivoluzioni del 1989. Tra le organizzazioni internazionali si annoverano anche associazioni settoriali tra Stati che condividono particolari interessi economici o di mercato: l'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) è la più nota tra queste. In terzo luogo, infine, abbiamo le entità sovranazionali (ad esempio l'Unione Europea, cui gli Stati membri hanno devoluto alcuni attributi della propria sovranità) e le grandi aziende transnazionali.
Il sistema internazionale è definibile soprattutto in base alla sua polarità - unipolare, bipolare o multipolare - anche se a volte taluni sistemi non sono facilmente classificabili in tale schema, poiché risultano caratterizzati da polarità diverse a seconda dell'ambito in cui li si consideri (politico, economico, militare, culturale). Si ha un sistema unipolare quando un solo attore - spesso uno Stato a carattere imperiale, o comunque una superpotenza o un'alleanza globale - ha la capacità di influenzare decisivamente lo sviluppo del sistema stesso; ne deriva, di solito, un'egemonia economica, politica e culturale. In un sistema bipolare, invece, due superpotenze, e i loro alleati, bilanciano reciprocamente le rispettive influenze, mantenendo comunque una situazione imperiale, o egemonica, all'interno delle proprie ‛sfere di influenza', le quali sono largamente autosufficienti e insieme alle superpotenze occupano, in modo diretto o indiretto, più o meno tutta l'area geografica del sistema internazionale. Nel XX secolo, il sistema bipolare ha prevalso, anche se sotto forme sempre meno totalizzanti, dalla fine della seconda guerra mondiale al 1989, anno che ha visto la disgregazione della sfera di influenza sovietica. In un sistema multipolare, infine, le maggiori potenze manovrano, in genere alternando forme di collaborazione e di competizione, per aumentare la propria influenza a discapito di quella delle altre.
Con la fine della ‛guerra fredda', il sistema internazionale non è più definibile in termini univoci: da una parte esso è caratterizzato da una crescente interdipendenza, che attenua l'influenza delle grandi potenze; dall'altra la sua polarità non è ancora caratterizzabile, dato l'emergere di nuove grandi potenze e attori sovranazionali in ambiti diversi - economico (Unione Europea, Giappone), politico (Germania) e militare (Cina) - mentre gli Stati Uniti restano l'unica potenza globale e la Russia stenta a trovare una collocazione proporzionata alla sua dimensione geopolitica e militare.
In questo articolo verranno analizzate soprattutto le relazioni tra Stati, che rimangono gli attori principali del sistema internazionale, membri di quella che Hedley Bull (v., 1977) ha definito la ‟società anarchica": i moderni Stati nazionali (o plurinazionali) formano infatti una società perché accettano alcune regole di coesistenza, che risultano in una certa misura di ordine internazionale; tale società è anarchica, perché formata da unità sovrane sia internamente (hanno cioè supremazia su tutte le altre forme di autorità sul proprio territorio) sia esternamente (cioè non riconoscono alcun'altra autorità al di sopra della propria nell'ambito della società internazionale). Entro questi parametri, negli ultimi decenni si è assistito a un cambiamento nel significato della sovranità nazionale degli Stati, i quali, da simbolo di indipendenza per antonomasia, sono diventati in modo sempre più consistente unità di riferimento per misurare l'interdipendenza internazionale.
Nelle pagine che seguono verrà evidenziato anche il ruolo di attori e fattori di tipo transnazionale, soprattutto ove questi assumono una caratterizzazione politica (per quanto riguarda il ruolo delle organizzazioni intergovernative e sovranazionali nelle relazioni internazionali, v. organizzazioni internazionali, vol. XI).
Lo studio delle relazioni internazionali come disciplina scientifica indipendente ha avuto inizio nel periodo tra le due guerre mondiali; fino a quel momento, infatti, esso era stato limitato agli aspetti concernenti il diritto internazionale e la storia diplomatica. Tale innovazione disciplinare fu, in buona misura, il frutto della diffusa convinzione secondo la quale, per evitare il ripetersi degli orrori senza precedenti verificatisi in Europa nella prima guerra mondiale, si doveva comprendere meglio l'interazione politica tra gli Stati non solo sul piano meramente storico e diplomatico, o giuridico, ma sul piano politico nel suo senso più lato, e cioè anche economico, militare, culturale, religioso e demografico.
La nuova disciplina vide subito il fiorire di scuole di pensiero diverse: già in questo periodo si cominciava infatti a delineare la divisione tra ‛realisti', che sottolineavano l'ineluttabile importanza del potere come fattore decisivo di risoluzione dei conflitti, e ‛idealisti', che auspicavano, non potendolo riscontrare nella realtà, un maggiore ruolo per gli ideali di giustizia e per quello che veniva chiamato il ‛giudizio dell'opinione pubblica internazionale'; seppure in forme diverse, questa contrapposizione sarebbe continuata fino ai nostri giorni.
I realisti cercavano di spiegare i rapporti internazionali come interazione fra Stati i cui governi lottano per aumentare il proprio potere, allo scopo di influenzare gli avvenimenti internazionali a proprio vantaggio. I loro critici sottolineavano però come le scelte dei capi di Stato e di governo potessero anche essere guidate da altri scopi, i quali andavano ben al di là dell'interesse nazionale definito in termini di potere (per esempio, essi erano sicuramente motivati dal desiderio di mantenere il proprio potere personale). L'approccio realistico alle relazioni internazionali poneva inoltre ulteriori problemi. In primo luogo, il concetto di potere politico è di difficile e controversa definizione, e quindi ogni teoria che si basi sul potere come principale variabile è inevitabilmente imprecisa; basti ricordare che il potere può essere considerato tanto fine, quanto mezzo della politica. Inoltre, il potere di un attore del sistema internazionale può essere molto diverso dalla sua capacità di influenzarne gli avvenimenti, e spesso è solo approssimativamente correlato alla sua forza militare. In secondo luogo, è anche difficile definire l'interesse nazionale, per perseguire il quale, secondo la teoria realista, gli Stati esercitano il proprio potere. L'interesse nazionale è qualcosa di oggettivo o di soggettivo? La democrazia, che la storia ha finora provato essere il sistema più efficiente ed efficace di governo, porta a sostenere che sia soggettivo, e quindi difficile da usare come metro per misurare il potere di uno Stato.
Sulla scia degli studi intrapresi tra le due guerre, e sotto la spinta emotiva dei rinnovati orrori bellici, verso la fine degli anni quaranta nelle università del mondo occidentale (e soprattutto in quelle dei paesi anglosassoni, grazie alla maggiore sensibilità dei loro governi) si moltiplicarono gli insegnamenti e gli studi politologici dedicati alle relazioni internazionali. Diversa la situazione in Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti, dove questo non accadde a causa dell'ostinazione ideologica a voler spiegare le relazioni internazionali esclusivamente come una manifestazione della lotta di classe; solo intorno alla metà degli anni sessanta, e comunque sotto l'egida fortemente limitativa dei partiti comunisti al potere, sarebbe stata accordata un'attenzione specifica alla nuova disciplina anche in questi paesi.
Iniziava quindi nel secondo dopoguerra una nuova era per lo studio della politica internazionale, che si distaccava decisamente dalla storia diplomatica per diventare una disciplina a sé, volta alla ricerca delle generalizzazioni e delle spiegazioni in grado di far comprendere i comportamenti ricorrenti degli attori delle relazioni internazionali in base alle loro motivazioni e ai risultanti schemi di interazione.
2. Le relazioni internazionali alla fine del Novecento
Il Novecento è stato un secolo violento: si stima che abbiano perso la vita direttamente in eventi bellici, o indirettamente per cause da collegare a questi, più persone durante questo secolo che in tutti quelli precedenti. Questo è da ascrivere al grande numero di conflitti che si sono registrati nel mondo, alle nuove tecnologie distruttive impiegate in guerra, e al carattere globale delle guerre del 1914-1918 e del 1939-1945 (quest'ultima è stata la prima guerra assieme mondiale e totale). Si è inoltre registrato un numero enorme di vittime di conflitti civili, l'entità del quale è difficilmente calcolabile, ma che, secondo alcune stime, sarebbe ancora maggiore di quello delle vittime dei conflitti interstatali.
I due conflitti mondiali hanno stravolto tutti i precedenti equilibri geopolitici del sistema internazionale. Una concomitanza di fattori ha fatto sì che come conseguenza di quei conflitti cambiasse nella sua sostanza il modo stesso di interagire degli attori del sistema internazionale, a cominciare dagli Stati. Il principale elemento di continuità con il sistema internazionale precedente rimaneva lo Stato-nazione, che si confermava l'attore fondamentale delle relazioni internazionali: gli imperi coloniali divenivano infatti insostenibilmente onerosi per le potenze europee prostrate dalla guerra, e inoltre le alleanze belliche si erano disgregate rapidamente dopo ciascuno dei conflitti mondiali, senza portare ad aggregazioni durature tra i vincitori. Ma accanto al riaffermarsi dello Stato-nazione si registrarono - sia negli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, sia negli anni quaranta, dopo la seconda - nuove spinte aggregative, che si sarebbero via via rafforzate nel corso dei decenni. Nel primo dopoguerra si assistette al rapido quanto effimero diffondersi di una coscienza internazionalistica che aspirava, spesso ingenuamente, a creare un nuovo sistema internazionale che potesse evitare il ripetersi degli orrori del 1914-1918. La Società delle Nazioni rappresentò questo primo, timido tentativo - in seguito rivelatosi inefficace - di porre un limite alla sovranità assoluta degli Stati. L'idea che ispirava il progetto era quella che se agli Stati si fosse imposta una qualche forma di autorità superiore, con capacità sanzionatoria nei loro confronti, essi avrebbero avuto minori possibilità di minacciare o mettere in atto aggressioni, così come era tradizionalmente accaduto in passato. Tale tentativo si sarebbe tuttavia rivelato impraticabile, in quanto gli Stati stessi impedirono che si operasse un effettivo trasferimento di sovranità alla Società delle Nazioni, che quindi non fu mai posta nelle condizioni di agire con la necessaria incisività.
Questo stato di cose sarebbe notevolmente cambiato nella seconda metà del secolo. In Occidente (inteso in senso geopolitico come Europa occidentale, Nordamerica e Giappone) tre fattori contribuivano a consolidare una nuova e formidabile spinta internazionalistica e, conseguentemente, ad avviare processi integrativi senza precedenti: in primo luogo, la presenza di una comune minaccia ideologica e militare, rappresentata dall'Unione Sovietica; in secondo luogo, la raggiunta consapevolezza, prima di tutto in Francia e in Germania, tanto più sorprendente in quanto acquisita solo pochi anni dopo la fine della prima guerra totale tra quei due paesi, che le divisioni nazionalistiche erano state tra le principali cause di guerra in passato; e, infine, il consolidarsi della presenza americana in Europa, conseguenza del fatto che - contrariamente a quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale - gli Stati Uniti avevano ritenuto necessario un coinvolgimento diretto, anche in tempo di pace, negli affari geopolitici del continente (come anche in quelli dell'Estremo Oriente).
In Europa orientale, l'unico fattore integrativo era invece l'egemonia, e l'occupazione militare, da parte dell'Unione Sovietica. Nel nome della ‛solidarietà socialista internazionale' con i regimi installati dall'Armata Rossa, Mosca imponeva ai paesi della regione da una parte collegamenti economici e militari, sia con l'URSS che orizzontalmente tra di loro, e dall'altra un rigido isolazionismo politico, economico e culturale nei confronti di tutti i paesi terzi. Non sorprende quindi che, all'inizio degli anni novanta, dopo quarantacinque anni di questa forzata pseudo-alleanza, appena è venuta meno la potenza egemonica sovietica, sia risorto in alcune parti dell'Europa orientale un nazionalismo dai toni spiccatamente prebellici, tendente, cioè, a vedere l'interdipendenza internazionale come una forma di subordinazione a potenze straniere, contraria, quindi, agli interessi nazionali. È altresì indicativo che, esauritosi l'entusiasmo iniziale per la riacquistata indipendenza, questi paesi cerchino nuovi collegamenti integrativi, sia in campo politico-economico (con l'Unione Europea) che strategico-militare (con la NATO).
Le maggiori spinte aggregative della seconda metà del secolo si sono dunque sviluppate soprattutto nel cosiddetto ‛Nord industrializzato del mondo', costituito dal ‛Primo Mondo' occidentale e dal cosiddetto ‛Secondo Mondo' del socialismo reale. Il nazionalismo, e spesso il tribalismo, è rimasto invece predominante nella maggior parte dei paesi del ‛Sud del mondo' (espressione essenzialmente sinonima di ‛Terzo Mondo', con cui ci si riferisce ai paesi in via di sviluppo) e specialmente in quelli di nuova indipendenza, nati dalle ceneri degli imperi che gli Europei (sia vincitori che sconfitti nelle due guerre mondiali) avevano dovuto abbandonare per l'impossibilità di sostenerli. L'influenza egemonica di Stati Uniti, URSS e Stati ex imperiali europei, non ha prodotto in questi paesi alcun processo integrativo, ma si è limitata per lo più a creare un rapporto di dipendenza bilaterale che, a seconda dei casi, si è rivelato più o meno stabile e duraturo: praticamente nullo il contatto rimasto dopo la decolonizzazione tra la Germania e le sue ex colonie, più forte quello dell'Italia, ancora maggiore quello del Regno Unito, anche tramite il Commonwealth (associazione di paesi anglofoni dai contenuti soprattutto culturali); molto forti, infine, i legami che la Francia ha continuato a rinsaldare con le proprie.
A fronte dell'elemento di continuità rappresentato dagli Stati-nazione, più o meno integrati tra di loro, nella politica internazionale postbellica è cambiato quasi tutto il resto. Si possono individuare sette principali elementi di cambiamento, che verranno analizzati qui di seguito. Tale modello non ha la pretesa di essere esaustivo né oggettivo, giacché in questo tipo di analisi un intrinseco elemento di arbitrarietà è inevitabile; tuttavia, si auspica che esso possa fornire un'adeguata chiave di lettura delle relazioni internazionali nel loro complesso.
a) La fine dell'eurocentrismo
La più importante novità della politica internazionale del secolo è stata la fine dell'eurocentrismo politico, economico e militare che aveva fino a quel momento caratterizzato la storia contemporanea. Le prime avvisaglie che si stava erodendo l'incontrastata supremazia geopolitica europea si ebbero dapprima con la vittoria giapponese sulla Russia zarista nella guerra del 1905 e, soprattutto, con il decisivo intervento degli Stati Uniti sul finire della prima guerra mondiale. Successivamente, però, sia Stati Uniti che Giappone si limitarono a consolidare la loro influenza a livello regionale; nel continente americano e in parte nel Pacifico i primi, in Asia orientale il secondo. In conseguenza di ciò, nel periodo fra le due guerre l'Europa riacquistava una completa centralità nelle relazioni internazionali.
Alla fine della seconda guerra mondiale, invece, tutte le tradizionali grandi potenze europee erano economicamente e militarmente stremate, e costrette quindi a una graduale ma inarrestabile e generale ritirata dalle loro zone di influenza al di fuori e all'interno del continente. L'Italia lasciava le proprie colonie, perse durante la guerra nel 1945; la Germania lo aveva già fatto nel 1918; il Regno Unito, nel 1947, iniziava una ritirata relativamente pacifica dall'India e da quasi tutti gli altri possedimenti imperiali in Asia, Africa e America Centrale, dando avvio a un processo che si è quasi definitivamente chiuso nel 1997, con la restituzione di Hong Kong alla Cina. Più cruenta è stata la ritirata della Francia, che ha cercato invano per circa quindici anni di resistere militarmente alle pressioni indipendentistiche in Asia sudorientale e in Africa settentrionale; alla metà degli anni settanta anche Spagna e Portogallo avevano ormai lasciato le loro ultime colonie africane.
Alla decolonizzazione corrispondeva una drastica diminuzione del potere e dell'influenza degli Stati europei nelle relazioni internazionali, che - nel caso dei paesi sconfitti e dei paesi coloniali minori, tra cui l'Italia - furono per molti anni pressoché nulli. Rimaneva invece un margine di influenza per Francia e Regno Unito, peraltro subordinata all'emergere delle due nuove superpotenze globali, Stati Uniti e Unione Sovietica.
b) Il bipolarismo
Corollario della fine dell'eurocentrismo è stata la nascita del bipolarismo. Sulle rovine del sistema internazionale multipolare che si era via via sviluppato a partire dal Congresso di Vienna del 1815, nasceva dopo il 1945 un sistema internazionale bipolare, con due nuove superpotenze che erano politicamente, economicamente e militarmente capaci di influenzare fortemente le scelte di tutti gli altri Stati e attori internazionali. La supremazia degli Stati Uniti - sia militare, in quanto unici possessori dell'arma nucleare, sia economica, in quanto unico paese le cui città e industrie erano rimaste indenni da danni bellici - diventava una realtà permanente delle relazioni internazionali. Agli Stati Uniti si contrapponeva l'Unione Sovietica, economicamente prostrata, ma militarmente forte del fatto di aver occupato metà Europa nel corso dell'offensiva finale contro il Terzo Reich. Al precedente sistema di equilibrio di potere multipolare tra le maggiori potenze europee, subentra quindi nel 1945 il duopolio di Stati Uniti e URSS. L'Europa rimane il baricentro geopolitico del pianeta, ma gli Europei hanno un ruolo di secondo piano rispetto alle decisioni prese dalle due superpotenze, ciascuna egemone nella propria sfera di influenza, ciascuna con un atteggiamento così chiuso da giustificare l'universale adozione del termine ‛blocco' per designarle. La divisione in blocchi prescinde anche dalle unità statali: la Germania viene divisa, prima (nel 1945) in quattro settori di occupazione, e poi (nel 1949) in due Stati, uno occupato dalle potenze vincitrici dell'Occidente e uno annesso al blocco sovietico. Quella tedesca non sarebbe stata peraltro una situazione unica: anche il Vietnam (fino al 1975) e la Corea (ancora oggi) saranno analogamente divisi. L'Europa rimaneva l'area più densamente armata del mondo, ma per la stragrande maggioranza le armi ivi dislocate erano americane e sovietiche; essa era un'espressione geografica, sulle cui rovine si combatteva quella che l'americano Walter Lippman chiamò la ‟guerra fredda", la cui linea del fronte era demarcata da quella ‛cortina di ferro' che - secondo Churchill - tagliava il continente a metà, dall'Adriatico al Baltico.
Nata in Europa, la divisione del mondo in due blocchi assunse presto i contorni più preoccupanti in Asia, dove, con la vittoria dei rivoluzionari comunisti nella guerra civile cinese, nasceva nel 1949 una portentosa alleanza tra Mosca e Pechino, che per un decennio avrebbe fatto pensare alla possibilità che si sviluppasse un'unione di tipo nuovo, basata non su una pragmatica coincidenza di interessi nazionali ma su un comune progetto ideologico di rivoluzione mondiale. Con lo scisma tra i due giganti comunisti, consumatosi tra il 1959 e il 1960 - anche se non subito percepito come tale in Occidente - questi timori si rivelarono infondati, e le relazioni tra essi ritornarono sui tradizionali binari ‛realisti' della politica internazionale, sia in ambito geografico (soprattutto in Asia meridionale e sudorientale, ma anche in Africa e in America Latina) sia nel nuovo, e allora importantissimo, ambito ideologico (all'interno del movimento comunista internazionale).
c) Il ruolo dell'ideologia
L'ideologia aveva già avuto un ruolo nei conflitti internazionali, in forme diverse, almeno dalla Rivoluzione francese in poi; ma è soltanto nel Novecento che essa acquisisce un'importanza centrale nelle relazioni internazionali. Infatti spesso alle alleanze militari corrispondono divisioni di ordinamento politico, economico e sociale di Stati allineati su posizioni contrapposte e, specialmente dopo il 1945, ideologicamente incompatibili. Questo ruolo dell'ideologia cominciò a emergere già nel conflitto del 1914-1918, che vide gli imperi centrali autocratici contrapposti alle democrazie occidentali (peraltro alleate alla Russia zarista); l'attrito ideologico si sarebbe fortemente accentuato nel periodo tra le due guerre, con la contrapposizione triangolare tra democrazie occidentali, regimi fascisti e Unione Sovietica comunista.
Nel secondo dopoguerra, contestualmente al nascere dell'ordine bipolare, l'ideologia diveniva un fattore primario delle relazioni internazionali. Questo accadeva prima di tutto in Europa, dove l'ideologia diveniva l'arma politica più potente della guerra fredda; ed è proprio durante questo periodo che la contrapposizione ideologica assumeva per la prima volta un carattere al tempo stesso centrale e globale. All'inizio era l'Unione Sovietica che si serviva meglio dell'arma ideologica, facendo presa su grandi masse dell'Europa occidentale con il proprio modello di società di cui si esageravano i pregi, si minimizzavano i difetti e si nascondevano gli orrori; per lungo tempo, non poté fare altrettanto l'Occidente, incapace di far giungere il proprio messaggio pluralista alle popolazioni d'oltre cortina e comunque timoroso di rischiare un conflitto con l'URSS per difendere quei diritti umani che erano il nocciolo del proprio modello ideologico. Successivamente, nel corso degli anni settanta e ottanta, il gioco delle parti si invertì: i Sovietici divenivano sempre meno credibili nel proporre un modello economico evidentemente fallimentare e un modello sociale solo apparentemente egualitario e sempre più palesemente utopistico; viceversa, il modello occidentale di democrazia liberale, chiaramente superiore sul piano economico, diveniva, col tempo, anche più conosciuto e apprezzato, sia nella sfera d'influenza sovietica, sia nel Terzo Mondo.
In questa contesa, accanto al ruolo degli Stati, si sviluppava quello di alcuni importanti attori dal carattere transnazionale, quali ad esempio i partiti politici. In particolare, per un certo periodo, e pur se con notevoli differenze da caso a caso, i partiti comunisti hanno svolto un importante ruolo di ‛quinta colonna' sovietica in Occidente; in altri casi (soprattutto, ma non solo, in Europa e nelle Americhe), la Chiesa cattolica ha giocato anch'essa un importante ruolo politico di tipo ideologico; più recentemente, e soprattutto dopo la rivoluzione iraniana del 1979, anche i movimenti islamici hanno acquisito una funzione di primo piano in alcune regioni del mondo. Tuttavia, raramente queste spinte ideologiche sono riuscite a prevalere per periodi prolungati su quelle nazionali, all'interno di un certo movimento o attore politico del sistema internazionale: sia i partiti comunisti che le chiese locali hanno, prima o poi, trovato ragioni nazionali di rottura rispettivamente con Mosca e con il Vaticano.
Il conflitto ideologico tra Est e Ovest non si è limitato alla sola Europa; di riflesso, esso si è esteso prima in Asia e quindi in Africa e America Latina. I governi di molti Stati di nuova indipendenza hanno cercato in numerose varianti della teoria marxista dell'economia pianificata un loro autonomo modello di sviluppo che fosse il più rapido possibile, che permettesse di mantenere un controllo centralizzato delle risorse e che li svincolasse dal legame di dipendenza con l'Occidente capitalista ed ex colonialista. L'Unione Sovietica si adoperava attivamente, con una intensa attività di propaganda accompagnata da assistenza tecnica, economica e soprattutto militare, per cercare di esportare il proprio modello ed espandere in tal modo la propria sfera di influenza sul piano globale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, usavano gli stessi mezzi allo scopo di contenere l'espansione ideologica del comunismo, sia per limitare l'influenza dell'avversario sovietico nel mondo, sia per favorire i propri interessi economici, spesso protetti da governi autoritari o militari di matrice conservatrice ma danneggiati da quelli, altrettanto autoritari, di matrice socialista. Questi spazi di manovra si erano aperti come conseguenza della decolonizzazione.
d) La decolonizzazione
Si è accennato alla decolonizzazione come fenomeno della fine dell'eurocentrismo. Con la decolonizzazione aumentava il numero di Stati indipendenti, così come crescevano, in base a qualsivoglia unità di misura si intenda adottare, le disparità politiche ed economiche tra di loro. Dopo il 1945, il bipolarismo, sia europeo che globale, non portò infatti a un consolidamento del sistema politico internazionale. Il numero degli Stati all'esterno dei due blocchi cresceva enormemente e confusamente, soprattutto come conseguenza del ritiro europeo dai possedimenti coloniali (principalmente in Asia e Africa), spesso abbandonati a fragili governi locali, con molte etnie divise da confini artificiosi che ricalcavano i confini delle conquiste europee più che le realtà locali. Alla crescita del numero degli attori corrispose anche un'amplificazione del divario tra i più grandi e i più piccoli.
Prima del 1945 gli Stati-nazione erano relativamente pochi e comparabili tra di loro, nel senso che, con rare eccezioni, essi appartenevano allo stesso ordine di grandezza per popolazione, reddito nazionale (lordo o pro capite), dimensione geografica, potenza militare, ecc. Quando il ritiro degli Europei dai propri imperi fu concluso, il numero degli Stati era salito a più di 150, anche se la maggior parte di essi rimase pressoché irrilevante nella politica internazionale. Alla fine del colonialismo non è corrisposto infatti il ritiro politico o economico delle potenze ex coloniali: decenni, o secoli, di sudditanza avevano creato una dipendenza strutturale di queste economie dai paesi che le avevano occupate e sviluppate ai fini che meglio si confacevano ai propri interessi.
Agli eserciti coloniali subentravano quindi altri attori transnazionali, quali, ad esempio, le multinazionali delle materie prime, spesso chiamate dai governi neoindipendenti per valorizzare le risorse naturali. Ciò dava vita a quello che sarebbe stato chiamato ‛neocolonialismo'; in alcuni casi, come quello della Francia e delle proprie ex colonie in Africa centrale, i nuovi governi richiedevano, e ottenevano, addirittura la permanenza delle forze armate ex coloniali, al duplice scopo di garantire la propria sicurezza interna e di proteggersi da aggressioni esterne contro le quali erano ovviamente impreparati a difendersi.
e) Le organizzazioni internazionali
Nel corso del XX secolo le organizzazioni internazionali sono cresciute di numero e hanno acquisito sempre maggiori competenze. Fino alla seconda guerra mondiale, le alleanze militari erano state strutturalmente piuttosto labili, essendo caratterizzate da una coordinazione poco pianificata e soggetta ad ampi margini di manovra nazionale in momenti di crisi. Dopo l'infelice esperienza della Società delle Nazioni nel periodo tra le due guerre mondiali, l'alleanza bellica contro l'Asse si era trasformata - a guerra conclusa - nell'Organizzazione delle Nazioni Unite: quest'ultima aveva il compito di riprendere, su scala globale, il tentativo di instaurare un ordine internazionale basato sul rispetto del diritto sia nell'ambito delle relazioni tra gli Stati, sia - e questa era una novità, rispetto alla Società delle Nazioni - al loro interno, almeno per alcune materie, come ad esempio i diritti umani. All'ONU non veniva comunque attribuito alcun potere sovranazionale e, di conseguenza, nei decenni successivi il suo ruolo nella politica internazionale sarebbe stato quasi sempre secondario; a ciò si aggiunga che la competizione bipolare paralizzava il lavoro del Consiglio di sicurezza, organismo esecutivo in cui il diritto di veto era riservato alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale (che erano anche gli unici membri permanenti) e dal quale dipendevano le decisioni operative per dare attuazione alle risoluzioni di principio dell'Assemblea generale. Fino a che il mondo è stato diviso dal bipolarismo, ogni disputa vedeva immancabilmente le due superpotenze schierate, all'interno del Consiglio, su posizioni contrapposte: il diritto di veto di ciascuna bloccava quindi inevitabilmente il raggiungimento del necessario mandato. Più utili, in quanto meno politicizzate, sono state le organizzazioni specializzate dell'ONU, create per rispondere all'esigenza di relazioni internazionali che diventavano sempre più articolate (nei campi dell'economia, della tecnologia, della cultura). Tra le principali, si ricordano l'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione (FAO, Food and Agriculture Organization) con sede a Roma, quella per l'Istruzione, la Scienza e la Cultura (UNESCO, United Nations Educational, Scientifical and Cultural Organization) con sede a Parigi, e l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (IAEA, International Atomic Energy Agency) con sede a Vienna.
In alcuni casi, ancora più incisive sono risultate le iniziative volte a creare organizzazioni internazionali a livello regionale. Come si è già accennato, la principale novità in questo campo è stata la formazione di alleanze politico-militari regolate da trattati multilaterali. Sul piano strategico-militare, gli europei occidentali, insieme agli Stati Uniti e al Canada, nel 1949 davano vita alla NATO, nella quale tutti gli Stati membri sottoscrivevano l'impegno a considerare automaticamente un attacco contro uno di essi come un attacco contro tutti; la struttura militare della NATO prevedeva inoltre meccanismi di consultazione permanente, sia politica che militare, comandi unificati sovranazionali e forze armate militarmente più integrate di quanto non fossero mai state in alleanze precedenti. Con la fine della guerra fredda, all'inizio degli anni novanta, per la NATO si è aperta una fase di ridefinizione del proprio ruolo nella politica internazionale. Nel dicembre del 1991, gli ex membri del Patto di Varsavia (v. cap. 3) sono stati invitati ad aderire al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (nel 1997 divenuto Consiglio per il partenariato euro-atlantico), un organismo consultivo creato per favorire un vasto programma di collaborazione - a carattere interdisciplinare - in materia di sicurezza, intesa quest'ultima in senso lato. Alcuni di questi Stati hanno successivamente chiesto di aderire alla NATO a pieno titolo. Nel luglio 1997, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria sono state formalmente invitate ad accedere alla NATO. Poche settimane prima era stato già concluso - e sottoscritto in un apposito vertice dei Capi di Stato e di governo - un accordo di cooperazione e consultazione politico-militare con la Russia postsovietica.
All'integrazione della Germania Occidentale nella struttura militare della NATO, avvenuta nel 1954, i Sovietici risposero con la creazione dell'Organizzazione del Patto di Varsavia: questo, come la NATO, prevedeva un'integrazione militare, consultazioni politiche e un impegno alla difesa reciproca tra URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania (che però ne uscì di fatto nel 1961, e formalmente nel 1968). A differenza di quanto avveniva nella NATO, i Sovietici imponevano una quasi totale standardizzazione degli equipaggiamenti, della dottrina e delle strategie e procedure militari sul loro modello, anche attraverso accordi di sicurezza bilaterali tra l'URSS e ciascuno dei paesi che per questo venivano detti ‛satelliti'. Il Patto in quanto tale serviva sempre più solo come copertura politica, per dare una parvenza di pariteticità e collettività decisionale tra gli Stati membri, nelle prese di posizione verso la NATO o verso gli stessi membri; ad esempio, nel 1968 fu il Patto di Varsavia, nominalmente, a invadere la Cecoslovacchia al fine di ‟aiutare un paese fratello". Con l'impossibilità da parte dei Sovietici di mantenere l'egemonia sul blocco orientale, il Patto si poteva già considerare militarmente irrilevante nel 1990, quando ne uscì la Repubblica Democratica Tedesca, che ne era stata il bastione militare verso occidente e che si sarebbe dissolta di lì a poco. Dopo pochi mesi l'URSS accettava di evacuare le proprie truppe da tutti gli altri paesi membri entro il 1994, e il 1° aprile del 1991 il Patto di Varsavia veniva formalmente sciolto.
Anche sul piano politico ed economico si registra, a partire dalla metà del secolo, un'iniziativa di aggregazione internazionale senza precedenti storici. Alcuni stati europei occidentali (Italia, Francia, Germania Federale, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), avevano concordato, già dal 1951, l'istituzione di una Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), con la quale - per la prima volta - gli Stati membri di un'organizzazione internazionale delegavano a questa stessa organizzazione (che in questo caso si può cominciare a definire sovranazionale) poteri di interferenza nelle proprie scelte di politica economica interna (nella fattispecie per quanto concerneva quelle due fondamentali materie prime). Dopo il fallimento, a causa della mancata ratifica del Parlamento francese, del progetto di Comunità Europea di Difesa (CED) nel 1954, alla CECA seguirono, con fini analoghi, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l'Energia Atomica (EURATOM), create con i Trattati di Roma del 1957. Ai sei Stati originari si aggiungevano intanto, in ordine cronologico, Regno Unito, Irlanda, Danimarca (nel 1973), Grecia (nel 1981), Spagna e Portogallo (nel 1986), Austria, Svezia e Finlandia (nel 1995). Successivamente, si iniziavano a prendere in considerazione le candidature delle nuove democrazie dell'Europa centrale e orientale, nonché di alcuni paesi mediterranei, quali Malta e Cipro, mentre anche la Turchia portava avanti con decisione la propria.
Il processo continuava con fasi alterne fino all'adozione, nel 1986, dell'Atto Unico, premessa giuridica e politica sia per la completa eliminazione delle frontiere economiche nel corso degli anni novanta, sia per l'avviamento dell'unione politica - nell'Atto era prevista anche la creazione di un organismo competente per la politica estera comune, la Cooperazione Politica Europea o CPE - che aveva sempre rappresentato il fine ultimo della Comunità, anche se per molti anni era stata considerata poco più che un'utopia. Al processo integrativo veniva impressa un'ulteriore accelerazione con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio del 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, che istituisce l'Unione Europea. Il trattato impegna gli Stati membri a coordinare le proprie politiche al fine di giungere a una politica estera e di sicurezza comune (inclusa, nel più lungo termine, una difesa comune), a coordinare il lavoro delle proprie forze di polizia, ad armonizzare la legislazione in una vasta gamma di materie (compresa quella riguardante l'immigrazione) e infine, entro la fine del secolo, a creare una moneta unica.
L'Unione Sovietica, nella propria sfera di influenza, aveva provveduto già dal 1949 a creare il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), comprendente, oltre all'URSS, l'Albania (che però ne usciva nel 1961), la Polonia, la Cecoslovacchia, la Bulgaria, l'Ungheria, la Romania e la Germania Orientale, cui poi si sarebbero aggiunti anche Mongolia, Cuba e Vietnam. Per quanto costituisse anch'esso un'organizzazione relativamente integrata se paragonata a qualsiasi esperienza prebellica, il COMECON differiva dalla Comunità Europea in molti essenziali aspetti: in primo luogo, si poneva fini esclusivamente economici, non avendo neanche come obiettivo di lungo termine l'unione politica; inoltre, doveva provvedere a regolare gli scambi tra i paesi socialisti su basi non tanto di apertura commerciale e vantaggi comparati, ma di quello che veniva chiamato ‛aiuto fraterno', il che significava una pianificazione centralizzata - in parte a livello bilaterale e in parte dall'URSS - di tutti gli scambi. All'inizio questo voleva dire che Mosca poteva decidere arbitrariamente lo spostamento e l'allocazione di risorse all'interno del blocco, allo scopo di sviluppare le economie pianificate di tipo stalinista nella regione; poi divenne un metodo per proteggere (e così sostenere politicamente) le economie più inefficienti con le risorse di quelle più forti. Questa distorsione commerciale degli scambi venne anche usata dall'URSS come strumento per aiutare le economie più deboli con esportazioni agevolate di materie prime e con importazioni, a prezzi artificialmente alti, di beni di qualità scadente, che non avrebbero potuto essere piazzati sul mercato internazionale. L'URSS sovvenzionava così i paesi del blocco per mantenere coesione, stabilità sociale e legittimità politica nei regimi che l'Armata Rossa aveva installato con la forza.
Queste differenze hanno fatto del COMECON un'organizzazione di tipo essenzialmente amministrativo per la gestione imperiale da parte dell'URSS, senza che gli altri Stati membri ne condividessero mai pienamente né gli scopi, né i metodi. Il suo fine è stato politico: contribuire a controllare la sovietizzazione delle economie dei paesi membri. Sul finire degli anni ottanta, tutti i membri, compresa l'URSS, erano d'accordo sul fatto che il modus operandi tradizionale del COMECON non fosse più né utile economicamente, né accettabile politicamente, e ne chiesero pertanto la riforma; nel 1991 l'adozione dell'economia di mercato comportò però il definitivo abbandono del COMECON - per evidente incompatibilità -, l'apertura delle economie ex centralizzate al mercato internazionale e il loro orientamento verso più stretti legami con l'Unione Europea.
A livello paneuropeo, l'iniziativa che più ha contraddistinto l'evoluzione della politica internazionale nel secondo dopoguerra è stata la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), foro di dibattito politico permanente tra tutti i paesi europei (autoesclusasi per lungo tempo la sola Albania, che vi ebbe accesso solo nel 1991), ai quali si aggiungevano Stati Uniti e Canada; il cosiddetto ‛processo di Helsinki', dal nome della capitale dove ebbero luogo i primi negoziati, si aprì all'inizio degli anni settanta. Un primo risultato fu rappresentato dalla firma (1975) dell'Atto finale della Conferenza dei capi di Stato e di governo, nel quale venivano stabiliti i capisaldi della distensione tra Est e Ovest in materia di sicurezza, economia e diritti umani (i cosiddetti tre ‛cesti' su cui si era imperniata la trattativa). Scopo dei Sovietici, che per primi avevano promosso la CSCE alla fine degli anni sessanta, era quello di veder indirettamente riconosciuta la loro posizione egemonica in Europa orientale, con l'impegno degli occidentali a intavolare trattative - senza pregiudiziali politiche - sul controllo degli armamenti e sulla cooperazione economica. Gli scopi dell'Occidente erano molto diversi: in primo luogo, consolidare la presenza politica e militare degli Stati Uniti in Europa; in secondo luogo, mettere sul tavolo la questione dei diritti umani nel blocco sovietico (in particolare, gli Stati Uniti usavano la CSCE per stabilire un legame politico tra il progresso sovietico nel campo dei diritti umani e la cooperazione economica e tecnologica).
Dopo la firma dell'Atto finale si sono tenute periodiche conferenze di rassegna, durante le quali si riproponeva invariabilmente il dissidio tra i due blocchi, con l'Occidente che contestava all'Est la mancata applicazione dei diritti umani (terzo ‛cesto') e l'Est che protestava, in particolare contro gli Stati Uniti, per la mancata applicazione dell'accordo di collaborazione economica e tecnologica (secondo ‛cesto'). In materia di sicurezza (primo ‛cesto'), il progresso verso la riduzione degli armamenti era ostacolato da una parte dalla rigidità negoziale e dall'ossessiva segretezza dell'Est, che non permetteva neanche di sapere quali e quanti fossero gli spiegamenti di forze sovietiche in Europa; dall'altra, dalla mancanza, a Ovest, della volontà politica intesa a ottenere quelle riduzioni degli armamenti che avrebbero portato una minore presenza militare americana in Europa, che i paesi europei membri della NATO volevano invece mantenere.
Questo stallo negoziale si sarebbe sbloccato a partire dal 1990, quando l'Est in via di democratizzazione non poteva più essere accusato (se non in alcuni casi residui) delle plateali violazioni dei diritti umani di cui era stata responsabile l'URSS; e quando, in Occidente, non solo non si dibatteva più sull'opportunità di aprire commerci ed esportazioni di tecnologie civili all'Est, ma si considerava addirittura la possibilità di far giungere aiuti concreti a quei paesi al fine di favorire il recupero delle collassate economie pianificate, che si aprivano ora al mercato e all'iniziativa privata. Inoltre, pressanti problemi demografici e di bilancio spingevano un po' tutte le parti a ridurre le forze e le spese militari; infine, una sostanziale riduzione della presenza militare americana nell'Europa occidentale era ormai inevitabile alla luce dell'imminente totale ritiro sovietico da quella orientale. Se a ciò si aggiunge che la nuova politica della glasnost′ (trasparenza) permetteva per la prima volta di avere una chiara cognizione delle forze militari in campo, non sorprende che le due alleanze abbiano potuto trovare un accordo per iniziare il processo di riduzione degli armamenti. Già nel 1987 Stati Uniti e Unione Sovietica potevano accordarsi sul totale ritiro dei missili nucleari a media gittata dall'Europa. Il vertice dei capi di Stato e di governo di Parigi, nel novembre 1990, suggellava il nuovo assetto europeo con la firma del trattato CFE (Conventional Forces in Europe) - che prevedeva una riduzione sostanziale degli armamenti convenzionali in Europa - e di una più ampia ‛carta' di mutua assistenza e cooperazione tra tutti i paesi partecipanti. La rilevanza della CSCE era confermata al vertice dei capi di Stato e di governo di Budapest del dicembre 1994, che creava l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), con un proprio segretariato (a Vienna) e una serie di agenzie specializzate.
f) Il ruolo crescente della tecnologia
Nel corso del XX secolo lo sviluppo tecnologico, sia civile che militare, ha assunto un peso assolutamente primario nelle relazioni internazionali. Basti pensare, in campo militare, alla meccanizzazione delle forze di terra, all'enorme incremento della capacità di generare volume di fuoco delle armi automatiche, alla diffusione dei sommergibili e allo sviluppo dell'aeronautica militare: si tratta soltanto di alcune delle innovazioni che hanno trasformato radicalmente il modo di combattere. Nella seconda metà del secolo, poi, lo sviluppo dell'arma nucleare ha stravolto tutte le preesistenti concezioni sull'uso della forza rendendo inoltre impossibile una misura coerente delle forze militari degli Stati; tale sviluppo - specialmente dopo che negli anni cinquanta furono messe a punto le testate dei missili balistici intercontinentali - rappresentò, almeno per le maggiori potenze, la fine della ‛guerra clausewitziana'. Come Clausewitz aveva teorizzato nel XIX secolo, la guerra era stata sempre uno strumento da utilizzare a fini politici, al pari della diplomazia e dell'influenza economica; ma con l'avvento di quella che Bernard Brodie (v., 1946) ha appropriatamente definito l'‟arma assoluta", in grado non tanto di vincere sul campo ma di annientare intere città, la guerra ha perso questa funzione, almeno per quanto concerne le grandi potenze che dispongono di tale arma.
Diviene invece fondamentale nel lessico strategico la deterrenza, per cui le armi nucleari servono a scoraggiare il loro stesso uso da parte dell'avversario, mentre se sono usate da una delle parti hanno fallito lo scopo che avevano per entrambe. Da questa situazione deriva l'essenzialità della ‟stabilità strategica" che tali armi devono essere in grado di fornire, la quale diviene più importante della loro potenza distruttiva, dell'affidabilità tecnica e della quantità disponibile. In questo nuovo contesto tecnologico, la stabilità strategica è definita come l'eliminazione dei vantaggi che ciascuna parte potrebbe ottenere nel colpire per prima: diventa quindi essenziale che le potenze nucleari siano in condizione non tanto di usare per prime o più efficacemente le proprie armi nucleari, quanto di poter replicare a un eventuale primo uso da parte del nemico in ogni possibile circostanza. In altre parole, i vertici decisionali delle due - o più - parti contrapposte devono convincersi di non avere alcun interesse a dare inizio a un'escalation nucleare, anche se ciò dovesse significare assorbire il primo colpo della parte avversa; ciascuna parte, cioè, dovrebbe essere consapevole dell'inutilità di lanciare le proprie armi nucleari per prima, in quanto questo non potrebbe comunque evitare una risposta della parte attaccata. La ricerca di questo tipo di stabilità, all'interno di quello che Albert Wohlstetter definì ‟l'equilibrio del terrore" (ma che, più propriamente, Thomas Schelling chiamò ‟l'equilibrio della prudenza"), ha costituito la sfida principale degli strateghi del dopoguerra.
In campo civile, va sottolineata l'influenza della tecnologia e dell'informazione sulle relazioni internazionali. La diffusione dei transistor prima, e di fotocopiatrici ed elaboratori elettronici personali dopo, ha reso enormemente più difficile, per i regimi che avessero interesse a farlo, nascondere o distorcere la realtà allo scopo di controllare meglio la società. Tutto ciò è, grosso modo, il contrario di quello che aveva previsto George Orwell quando, verso la metà del secolo, scriveva del pericolo che lo sviluppo e la diffusione della tecnologia dell'informazione avrebbero costituito per la democrazia. Questa tecnologia, ipotizzava Orwell (v., 1949), avrebbe messo i regimi totalitari in condizione di controllare la società così capillarmente da non tralasciare neanche le sfere più intime della vita privata: ciò avrebbe consentito a quei regimi di prevalere sulle democrazie, le quali - non essendo organizzate in modo analogo - sarebbero state meno efficienti nell'incanalare le energie nazionali verso i fini di politica di potenza stabiliti dal potere politico.
Lo sviluppo e la diffusione della tecnologia dell'informazione sono avvenuti in termini sorprendentemente simili a quelli paventati da Orwell. Ma, contrariamente ai suoi timori, sono state le democrazie ad avvantaggiarsene. È vero che i regimi autoritari per decenni hanno potuto utilizzare meglio - sia sul piano interno sia su quello internazionale - le tecnologie informatiche a fini di propaganda, ad esempio facendo appello diretto alle popolazioni degli Stati democratici e impedendo al contempo che le informazioni provenienti da questi filtrassero al loro interno; ma tale vantaggio si è rivelato effimero quando alla diffusione capillare della tecnologia dell'informazione si è accompagnata quella della comunicazione orizzontale, per cui non solo i governi e i regimi autoritari, ma anche organizzazioni e altre entità di dimensioni più ridotte e persino singole persone hanno potuto accedervi in modo facile ed economico. Lo sviluppo delle cosiddette ‛reti' informatiche ha insomma reso possibile e agevole l'accesso da parte di tutti a ogni tipo di informazione, rendendo via via sempre più difficile il controllo dell'informazione stessa a fini politici.
g) L'interdipendenza internazionale
Nella seconda metà del secolo, lo sviluppo delle tecnologie civili e militari appena descritte - assieme all'aumento del numero di attori statali e al consolidamento delle organizzazioni internazionali - hanno contribuito a produrre una crescente interdipendenza nelle relazioni internazionali, prima di tutto tra paesi alleati, con valori e sistemi sociali comuni, e in seguito anche tra paesi avversari. Questa interdipendenza si è rivelata da una parte inevitabile, dall'altra molto utile. Si è infatti affermata una nuova concezione delle relazioni internazionali, non più vista come gioco a ‛somma zero' - in cui i vantaggi acquisiti da uno degli attori equivalgono, per definizione, a quelli persi da uno o più degli altri - o addirittura a ‛somma negativa' - dove i vantaggi di una parte sono inferiori agli svantaggi procurati alle altre - ma come gioco a ‛somma positiva', in cui i benefici di una parte non solo non sono incompatibili con quelli delle altre, ma anzi possono essere favoriti da appropriate sinergie. Nel periodo in esame si è diffusa infatti, seppure in modo non uniforme e non lineare, la convinzione che le problematiche internazionali richiedevano ormai un'azione congiunta per ottenere gli indispensabili effetti sinergici.
In campo militare, l'interdipendenza nella sicurezza internazionale è diventata inevitabile con l'introduzione negli arsenali delle armi nucleari. Fino al 1945 ciascuno Stato o alleanza poteva pensare di provvedere alle proprie esigenze militari unilateralmente, sia a scopi offensivi che difensivi; l'unico requisito era quello di dotarsi di una forza armata adeguata agli scopi che ci si prefiggeva di raggiungere. Con l'avvento dell'arma nucleare, invece, si è presto verificata da una parte l'impossibilità pressoché assoluta di proteggere città e industrie da un attacco nemico; dall'altra, come conseguenza, l'inutilità di tali armi per usi militari tradizionali, come conquistare o difendere un territorio. Quindi, come si è detto in relazione al concetto di stabilità strategica, la sicurezza si può acquisire non più impedendo, ma solamente scoraggiando un eventuale attacco. Tale obiettivo è raggiungibile dimostrando credibilmente di poter rispondere con una forza parimenti devastante a un'eventuale offesa. Di qui l'importanza di avere un arsenale che, dopo un primo colpo nucleare nemico, per quanto efficace, consenta alla parte attaccata di rispondere con forze tali da infliggere danni inaccettabili all'attaccante, così da creare la condizione strategica di ‟mutua distruzione assicurata" (MAD), come la chiamò il ministro della Difesa americano McNamara negli anni sessanta.
Questo criterio di interdipendenza non è universalmente accettato. Esso viene messo in questione sia da chi sostiene la necessità di ricercare la superiorità militare anche in campo nucleare, così come si era sempre fatto con le armi convenzionali prima dell'avvento delle armi nucleari; sia da chi ritiene invece auspicabile lo sviluppo di una capacità difensiva contro di esse. In particolare, la scelta di abbandonare, in quanto futile e destabilizzante, il perseguimento della difesa antinucleare ha incontrato, sia negli Stati Uniti che in Unione Sovietica, fortissime resistenze a livello politico, intellettuale e militare, prima di essere ufficialmente accettata alla fine degli anni sessanta e accolta nelle dottrine militari delle due superpotenze. Anche in seguito si sono verificati rigurgiti di velleità unilateralistiche e difensivistiche che hanno cercato di eludere l'interdipendenza determinata dalla mutua vulnerabilità nucleare, inducendo a perseguire il miraggio della difesa assoluta: lo ‛scudo spaziale' (SDI, Strategic Defense Initiative) americano degli anni ottanta è stata l'ultima manifestazione di questa tendenza. Più in generale, espressione di queste resistenze è stata la cosiddetta ‛corsa' agli armamenti nucleari con cui le due superpotenze hanno cercato, invano, di acquisire un vantaggio significativo sull'altra.
Nonostante tali resistenze, la progressiva comprensione dell'interdipendenza in materia di sicurezza si è riflessa nell'andamento dei negoziati sul controllo e sulla riduzione degli armamenti. Per la prima volta nella storia molti Stati hanno riconosciuto che i propri interessi di sicurezza avrebbero potuto essere serviti meglio rinunciando a massimizzare il potenziale bellico, offensivo e difensivo, dei propri arsenali: era il riconoscimento politico della differenza, fino ad allora rimasta solo teorica, tra potere e influenza. Dopo alcuni tentativi falliti agli albori dell'era nucleare e volti al bando totale di questo tipo di armi (ad esempio il piano Baruch presentato nel 1946), una delle principali tappe di questo processo è stata segnata dal Trattato di non proliferazione nucleare, negoziato negli anni sessanta ed entrato in vigore nel 1970, con cui quasi tutti gli Stati del mondo, all'infuori dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, rinunciavano al possesso dell'arma nucleare e accettavano controlli sul proprio territorio per verificare che tutti i materiali nucleari ivi presenti fossero utilizzati solo a fini civili. È abbastanza sorprendente che - a quasi trent'anni dall'entrata in vigore di tale Trattato - non ci siano nuovi Stati con comprovati arsenali nucleari (anche se Israele probabilmente lo possiede e India e Pakistan lo hanno recentemente acquisito), che nessun paese firmatario si sia ritirato dal Trattato e, infine, che quest'ultimo - alla sua scadenza, nel 1995 - sia stato rinnovato sine die. Altra tappa importante è stata costituita dal Trattato ABM (Antiballistic Missile) negli anni settanta, con il quale Stati Uniti e Unione Sovietica (e poi Russia) hanno rinunciato a dotarsi di difese contro i missili balistici intercontinentali, accettando così il principio di perseguire il mantenimento della pace tramite una reciproca vulnerabilità. Da ultimo, va ricordato il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) del 1987, seguito dai trattati START (Strategic Arms Reduction Treaty) I e II (firmati, rispettivamente, nel 1991 e 1993), grazie ai quali Stati Uniti e Unione Sovietica (e poi Russia) hanno compiuto notevoli progressi verso la riduzione dei propri arsenali offensivi, riconosciuti come largamente in esubero rispetto a qualsivoglia esigenza di deterrenza o di strategia di ‛mutua distruzione assicurata'.
In campo convenzionale, l'interdipendenza militare ha contorni meno definiti, e si manifesta soprattutto nella misura in cui questa categoria di armamenti assorbe enormi risorse economiche che devono essere sottratte al settore civile. Solo nel 1990 si sarebbe raggiunto, in occasione del vertice della CSCE di Parigi di cui si è detto sopra, un primo accordo per sostanziali riduzioni convenzionali in Europa: il Trattato CFE (Conventional Forces in Europe) sulle forze convenzionali ha imposto per la prima volta ampi tagli alle forze blindate, corazzate e aeree, nonché alle artiglierie dei paesi della NATO e del Patto di Varsavia. Con lo scioglimento di quest'ultimo, nel 1991, è caduta la logica portante dell'accordo, che si basava su un equilibrio quantitativo tra le due alleanze contrapposte; il Trattato è comunque rimasto in vigore, ma è stato opportunamente modificato nel 1992 per ridistribuire la quota di armamenti originariamente permessa all'URSS tra i paesi nati dalla sua dissoluzione. La Russia ha richiesto e ottenuto nel 1997 ulteriori modifiche al Trattato che tenessero conto delle proprie esigenze militari nel sud del paese, in parte per motivi di insurrezioni interne, specialmente in Cecenia. Inoltre, si sono avviati nello stesso anno ulteriori negoziati per adattare il Trattato al fatto che non esistono più i due blocchi contrapposti, e che molti ex alleati dell'URSS avevano nel frattempo chiesto di entrare a far parte della NATO (nella quale avrebbero portato con sé le quote di armamenti prima assegnate al Patto di Varsavia).
In campo economico, l'interdipendenza internazionale ha assunto nel XX secolo dimensioni ancora più evidenti. Tra i paesi più sviluppati, essa è stata la conseguenza necessaria della crescente sofisticazione delle economie e della conseguente necessità di specializzazione per lo sfruttamento delle economie di scala e dei rispettivi vantaggi comparati. Dato che questa interdipendenza toccava importanti interessi costituiti, la resistenza è stata strenua e palese: infatti, il progressivo sviluppo dell'interdipendenza economica andava a toccare non tanto concetti astratti come la stabilità strategica, ma, più tangibilmente, i profitti delle industrie, il tasso di occupazione e il tenore di vita generale delle popolazioni. Per questo motivo, il protezionismo è rimasto forte. Solo sul finire del secolo si è assistito a un parziale abbattimento delle barriere commerciali e dei sussidi alle imprese non competitive, sia a livello regionale (per esempio in ambito comunitario), sia sul piano globale nell'ambito del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), dal 1994 divenuta WTO (World Trade Organization). In quest'ultimo caso, solo nel dicembre 1993, dopo oltre sette anni di trattative, si è raggiunto un accordo per una parziale liberalizzazione dei commerci e per una riduzione dei sussidi.
In Europa, negli anni cinquanta, c'è stata una forte opposizione delle industrie alla creazione della CEE. Gli industriali più deboli (tra cui molti italiani) avevano timore di perdere fette del mercato nazionale, che era stato fino ad allora protetto dall'agguerrita concorrenza europea; ma infine prevalse la volontà politica di affrontare la sfida, ben sapendo che avrebbe comportato sacrifici nel breve termine. L'obiettivo, poi raggiunto, era quello di obbligare le imprese a una maggiore efficienza economica, che avrebbe consentito un aumento del tenore di vita generale a medio e lungo termine. L'apertura al commercio e agli investimenti internazionali si è rivelata non solo la migliore, ma l'unica via per mantenere uno sviluppo organico in un'economia internazionale sempre più complessa e specializzata, dove ogni forma di autarchia è fatalmente penalizzata. Corollario di ciò è stato il prevalere, quantitativo ma soprattutto qualitativo, delle economie di mercato su quelle pianificate, incapaci di adattarsi ai rapidi ritmi imposti dall'accelerazione dell'innovazione tecnologica.
Tra i paesi industrializzati e quelli meno sviluppati l'interdipendenza economica si è manifestata soprattutto nella necessità di creare, per i primi, mercati stabili e forniture affidabili di materie prime, e per i secondi di ricevere assistenza manageriale, tecnologica e finanziaria. Il forte squilibrio della leva negoziale tra Nord e Sud portava a una relazione che da molti veniva definita, più che di interdipendenza, di dipendenza del Sud dal Nord o di ‛neocolonialismo'; un fenomeno che, come si è accennato sopra, perpetuava non solo la subordinazione dei paesi di nuova indipendenza a quelli ex coloniali, ma anche la crescita del divario del tasso di sviluppo tra i primi e i secondi. Di qui è nata la necessità per il Nord - anche nel proprio interesse, per mantenere cioè l'efficienza di economie naturalmente complementari - di fornire un sostegno allo sviluppo del Sud: si è così gradualmente diffuso, a partire dagli anni sessanta, soprattutto nei paesi più ricchi, un largo consenso sulla opportunità di fornire ingenti ‛aiuti allo sviluppo'. Il problema più grave in questo contesto è stato e continua a essere quello di trovare il modo di rendere efficaci tali aiuti, in quanto frequentemente accade che ingenti risorse vadano sprecate, sia a causa della mancanza delle strutture e delle capacità di utilizzarle da parte dei paesi ricettori, sia perché le condizioni imposte dai paesi donatori spesso hanno favorito le imprese appaltatrici degli stessi più che le economie dei paesi destinatari.
3. L'erosione del bipolarismo
L'erosione del sistema bipolare è iniziata quasi subito, per certi aspetti ancora prima che questo si fosse completamente formato. Ha cominciato a sgretolarsi prima di tutto l'egemonia americana nel polo occidentale, e solo successivamente, ma più rapidamente e radicalmente, quella sovietica nel polo orientale. L'erosione dell'egemonia americana ha avuto inizio in campo strategico verso la fine degli anni cinquanta, e in quello economico dalla metà degli anni sessanta. In conseguenza di ciò, nell'ambito della NATO è sorto il problema della credibilità della ‛deterrenza estesa', cioè della volontà americana di estendere la capacità deterrente del proprio arsenale nucleare anche agli alleati europei. Quasi al di sopra di ogni sospetto nell'immediato dopoguerra, tale credibilità è stata gradualmente ma gravemente minata dalla crescita degli arsenali strategici sovietici, simbolizzata dal lancio del primo missile nello spazio nel 1957. Dal momento che i Sovietici erano ormai in grado di colpire gli Stati Uniti con i loro vettori intercontinentali, non era più accettabile per Washington minacciare di rispondere a un attacco sovietico contro l'Europa con una rappresaglia americana contro l'URSS, dato che questa avrebbe portato a una controrisposta sovietica contro gli stessi Stati Uniti.
A fronte di ciò, Francia e Regno Unito decisero di dotarsi di un deterrente nucleare nazionale. Gli altri paesi della NATO, non volendo o potendo fare altrettanto, dovettero continuare a fare affidamento sull'ombrello nucleare americano. A partire dagli anni sessanta gli Americani proposero la strategia della ‛risposta flessibile', per cui a un attacco sovietico contro l'Europa gli Stati Uniti avrebbero reagito non già contro l'URSS, ma contro le sole truppe sovietiche in Europa, cercando cioè non tanto di rispondere all'attacco iniziale, ma di neutralizzarlo e restaurare una condizione di deterrenza. Gli Europei in genere si opponevano a questo cambiamento, sia per l'impossibilità tecnica di realizzare tale strategia senza danni collaterali inaccettabili per le popolazioni civili, sia perché la risposta ‛flessibile' faceva dell'Europa il campo di quella che qualcuno paventava potesse divenire una ‛guerra nucleare limitata'. Gli Europei non potevano peraltro proporre alternative migliori, e dovevano, loro malgrado, accettare questa impostazione strategica come il danno minore rispetto alla eventualità di rinunciare del tutto alla copertura nucleare americana. Il cambiamento denotava comunque la fine del predominio strategico assoluto degli Stati Uniti, il cui territorio per la prima volta diventava vulnerabile ad attacchi esterni. La fine dell'egemonia strategica americana fu ulteriormente accelerata da fattori esogeni quali la vittoria delle forze comuniste in Vietnam, le crisi petrolifere degli anni settanta e il terrorismo, tutte minacce contro cui la preponderante potenza militare americana appariva impotente.
La fine dell'egemonia americana nel campo occidentale era confermata anche a livello economico, con la debolezza del dollaro che nel 1971 veniva dichiarato non più convertibile in oro, portando così alla fine del regime dei cambi fissi di Bretton Woods. Successivamente, il consolidarsi della nuova superpotenza economica giapponese, da una parte, e la formazione di un polo economico in Europa occidentale dall'altra, creavano una nuova condizione tripolare in cui gli Stati Uniti rimanevano la maggiore economia del pianeta ma dovevano confrontarsi su un piano paritetico con gli alleati europei e asiatici.
Le grandi potenze coloniali avevano visto finire il ruolo globale che avevano acquisito a seguito delle loro ‛vittorie' nelle due guerre mondiali; gli Stati Uniti vedevano ridimensionarsi il loro nel momento in cui si celebrava il successo della rinascita economica e politica dei paesi alleati, alla quale gli stessi Stati Uniti avevano contribuito in modo determinante con gli aiuti forniti all'Europa nell'immediato dopoguerra tramite il cosiddetto ‛Piano Marshall' (dal nome del segretario di Stato americano che lo concepì). A differenza di quanto è accaduto alle ex potenze coloniali, sul finire del secolo il ruolo globale degli Stati Uniti non è venuto meno. Ciò, in primo luogo, in virtù del vuoto geopolitico creato dal ritiro sovietico, concomitante al crollo dell'ideologia marxista; in secondo luogo, a causa del mancato emergere di nuove superpotenze militari; e infine per la preponderanza statunitense nel campo dei modelli culturali che - negli ambiti più diversi, e non senza controversie - si sono diffusi in modo capillare e globale.
L'erosione dell'egemonia sovietica nel blocco orientale è stata di natura completamente diversa ed è cominciata molto tempo dopo quella degli Stati Uniti in Occidente, sia perché si fondava su un sistema più coercitivo e perciò più resistente, sia perché le carenze del sistema sociale ed economico dell'URSS sono emerse in modo significativo solo più tardi. Una volta palesatesi, però, queste carenze si sono rivelate, oltre che assolutamente incurabili, anche causa di rapida decadenza e hanno quindi portato a un crollo precipitoso e completo del sistema egemonico che si fondava su quell'assetto socio-economico.
La prima manifestazione dell'insostenibilità dell'egemonia sovietica fu la rottura, ideologica e politica, con la Cina comunista di Mao Zedong. Quest'ultima, già pochi anni dopo la Rivoluzione del 1949, mirava a una propria autonoma politica nazionale, che mal si conciliava con la pretesa di Mosca di continuare a dirigere il blocco geopolitico comunista, così come aveva potuto fare Stalin con i partiti del movimento comunista internazionale. I primi attriti si manifestarono quando Pechino richiese l'assistenza sovietica nella produzione della bomba nucleare cinese, cui Mosca oppose un rifiuto. Inoltre, l'URSS, alla ricerca di quella che Chruščëv chiamò la ‟coesistenza pacifica", rifiutava di assecondare l'avventurismo cinese contro l'Occidente, e in particolare contro gli Stati Uniti. La rottura sarebbe divenuta definitiva nel 1960, anche se gli attriti si sarebbero prolungati per circa vent'anni, ossia fino a quando le parti si sarebbero invertite, con i Cinesi del postmaoismo alla ricerca di migliori rapporti con l'Occidente - delle cui tecnologie e investimenti avevano bisogno - e i Sovietici del periodo tardo brežneviano impegnati in vari tentativi di ulteriore espansione geopolitica, soprattutto in Africa, in America Latina e in Afghanistan.
Più o meno contemporaneamente alla rottura con Pechino, le prime riforme economiche e politiche nell'Europa orientale comunista (soprattutto in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia) diedero inizio alla destalinizzazione, introducendo cambiamenti che minavano in vario modo la natura marxista-leninista dei paesi satelliti. L'egemonia sovietica si dimostrava quindi da una parte meno schiacciante di prima (di pari passo alla trasformazione del sistema sovietico dal totalitarismo staliniano all'autoritarismo dei suoi successori), ma dall'altra più sclerotizzata e refrattaria all'innovazione.
Accanto ai fattori di erosione delle egemonie americana e sovietica appena descritti - che si potrebbero classificare come ‛endogeni' ai due blocchi - si deve considerare anche l'emergere di un nuovo importante gruppo di attori sullo scenario internazionale. Almeno quattro di essi meritano un'analisi più specifica. Il più importante è senza dubbio quello dei paesi arabi, emerso con la cosiddetta ‛prima crisi petrolifera' degli anni settanta: alla quadruplicazione del prezzo del petrolio da parte dell'OPEC era seguito un rapido aumento del potere finanziario e, di riflesso, anche politico dei paesi arabi che costituivano l'ossatura di quella organizzazione. Le economie occidentali erano impreparate a un tale evento e ne soffrirono quindi gravemente, mentre i Sovietici, primi produttori di idrocarburi del mondo, ne trassero un inaspettato beneficio finanziario. A tale proposito, vale la pena di ricordare che secondo autorevoli economisti ex sovietici l'enorme introito di valuta pregiata negli anni successivi alla crisi petrolifera avrebbe permesso alla dirigenza sovietica di rinviare riforme economiche altrimenti inevitabili sin da allora, ossia molto tempo prima di Gorbačëv. Nel 1979 la rivoluzione iraniana portò a un ulteriore raddoppio del prezzo del petrolio: la ‛seconda crisi petrolifera' che ne derivò ebbe tuttavia effetti molto più attenuati sulle economie occidentali, che negli anni successivi al 1973 avevano adottato, anche se in modo non uniforme, misure per la riduzione dei consumi, per lo sviluppo di fonti primarie alternative di energia (prima fra tutte quella nucleare), per l'accumulazione di scorte strategiche e per la diversificazione della gamma dei fornitori. Per questi motivi, il prezzo del petrolio, e il suo potere politico, sarebbero notevolmente diminuiti durante gli ultimi due decenni del secolo. Tuttavia, il gruppo dei paesi esportatori di petrolio - e soprattutto quelli arabi all'interno dell'OPEC - sarebbe stabilmente rimasto un attore fondamentale della politica, del commercio e della finanza internazionali.
Un altro dei nuovi attori che hanno contribuito all'erosione del bipolarismo è stato il Giappone, nuova superpotenza economica, seconda solo agli Stati Uniti, e maggiore creditore mondiale. La memoria storica del disastro della seconda guerra mondiale ha però reso Tokyo riluttante ad assumersi responsabilità politiche - e meno che mai militari - commisurate alla sua statura economica; questa ‛timidezza politica' sta tuttavia svanendo sul finire del secolo. Dalla metà degli anni ottanta le forze armate giapponesi sono diventate le più potenti del mondo dopo quelle delle cinque potenze nucleari, e nel 1992 il Giappone, per la prima volta dal 1945, ha inviato forze militari all'estero (seppure non in ruoli di combattimento) nell'ambito di missioni internazionali di pace con mandato ONU.
In terzo luogo, il bipolarismo è stato eroso dal crescente peso politico del cosiddetto ‛movimento dei paesi non allineati', fondato a Bandung, in Indonesia, nel 1955; esso si proponeva di favorire la cooperazione politica tra paesi, soprattutto del Terzo Mondo, che non volevano accettare la logica bipolare dei blocchi. Spiccavano, nel movimento, il ruolo dell'India e quello della Iugoslavia, paesi che più di tutti contribuirono a consolidarne la statura e a svilupparne l'iniziativa politica internazionale, conquistando anche il rispetto delle superpotenze e degli Stati appartenenti ai due blocchi. Fallirono invece i ripetuti tentativi, soprattutto da parte di Cuba, di avvicinare il movimento alle posizioni dell'URSS, che L'Avana voleva far considerare un ‛alleato naturale' dei non allineati contro l'imperialismo americano.
Ultimo fattore di erosione del bipolarismo è stata la crescita del peso politico ed economico della Comunità (poi Unione) Europea, soprattutto dalla seconda metà degli anni ottanta. Pur deludendo le aspettative dei federalisti più convinti, la Comunità è venuta gradualmente rafforzandosi, contribuendo a emancipare gli europei occidentali dall'egemonia economica e politica americana. Allo stesso tempo, l'emancipazione dell'Europa centro-orientale dalla tutela sovietica, grazie all'opera di Gorbačëv, ha fatto sì che la Comunità Europea divenisse un polo d'attrazione per gli Stati di quell'area (e perfino per alcuni di quelli neoindipendenti succeduti all'URSS), i quali sperano di riallacciarsi all'Occidente.
Il fatto forse più notevole del processo di erosione del bipolarismo - e che rende tale processo unico nella storia del sistema internazionale - è che esso sia stato in buona parte non solo non ostacolato, ma anzi auspicato da tutte e due le superpotenze. Queste, a differenza delle potenze egemoni di passati ordinamenti internazionali, e se pur in modo molto diverso, hanno generalmente incoraggiato gli Stati che erano sotto la loro tutela egemonica ad assumersi maggiori responsabilità, sia sotto il profilo economico che sotto quello militare; esse hanno allo stesso tempo cercato, senza successo, di mantenere un'influenza politica, che però diveniva via via sempre meno compatibile con la fine dell'egemonia economica e militare. Per comprendere questi comportamenti delle due superpotenze si possono individuare due ordini di motivazioni: in primo luogo, Stati Uniti e Unione Sovietica erano diventate sempre più incapaci di sopportare il peso economico della propria egemonia. In Occidente ne è stato un sintomo il prolungato dibattito, in seno alla NATO, sulla ripartizione degli oneri della difesa, con gli Stati Uniti costantemente alla ricerca di argomenti per far aumentare i bilanci militari dei recalcitranti alleati. Questo ha fatto sì che gli alleati europei della NATO abbiano acquisito, nel tempo, anche una maggiore responsabilità nella gestione dell'Alleanza. Nel blocco sovietico, invece, il problema era rappresentato soprattutto dall'onere delle sovvenzioni al commercio con gli alleati del COMECON.
In secondo luogo, la fine del bipolarismo è stata auspicata dalle due superpotenze anche in seguito all'emergere di nuovi interessi comuni. Tra questi, si possono individuare la cosiddetta ‛minaccia' - sia pure non immediata - proveniente dal Sud del mondo, spesso identificata nell'accresciuta potenzialità di molti paesi poveri ma militarmente sempre più evoluti grazie alla proliferazione delle tecnologie militari e all'esportazione non abbastanza discriminante da parte dei paesi del Nord. Questa percezione di minaccia è stata acuita negli anni ottanta dal diffondersi del fondamentalismo islamico in seguito alla rivoluzione iraniana. Inoltre, sono cresciute le minacce non militari: in primo luogo, la pressione demografica dei paesi del Sud è divenuta sempre meno contenibile per il Nord e sempre più concorrenziale per l'Est, che ha bisogno degli stessi aiuti che il Nord tradizionalmente assegnava al Sud; inoltre, il degrado dell'ambiente, contro il quale ogni egemonia è inutile, è stato sempre più ampiamente riconosciuto come un nuovo, grave pericolo per l'umanità del XXI secolo, per affrontare il quale è indispensabile anche la cooperazione dei paesi in via di industrializzazione. Corollario di questa nuova comunanza di interessi è quindi il sorgere della necessità - per le potenze ex egemoni, e più in generale per i due ex blocchi del Nord - anzitutto di cooperare tra loro e quindi di usare persuasione, incentivazione e pressioni politiche al fine di ottenere la cooperazione anche degli altri Stati.
4. Le relazioni internazionali dopo il bipolarismo
Si è detto che la fine del bipolarismo nell'assetto geopolitico mondiale non è stata simmetrica. L'URSS è sparita, ma già dagli ultimi anni ottanta aveva rinunciato al ruolo egemone che aveva avuto in Europa orientale a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e non sosteneva più né l'opportunità politica né la possibilità pratica di esportare il proprio modello ideologico ed economico nel Terzo Mondo. Dopo la liberalizzazione interna iniziata da Michail Gorbačëv, l'egemonia sovietica in Europa orientale, già economicamente gravosa, era diventata per Mosca insostenibile anche politicamente. Al contrario, gli Stati Uniti potevano constatare una crescente accettazione in tutto il mondo industrializzato, pur con notevoli variazioni, delle premesse fondamentali del modello di democrazia liberale capitalistica. Tuttavia, anche per gli Americani si è posto il problema di quella che Paul Kennedy (v., 1987) ha chiamato la ‟sovradistensione imperiale", dovuta all'eccesso di impegni politici e militari nel mondo in rapporto alle capacità dell'economia per sostenerle. Conseguentemente, gli Stati Uniti appaiono alla fine del secolo come l'unica superpotenza con interessi globali, la cui egemonia, tuttavia, che dura ormai da venti anni, continua a subire una lenta erosione.
Per l'Occidente, la conseguenza più rilevante del declino sovietico è stata che il dominio dell'URSS sull'Europa orientale, da fattore geopoliticamente stabilizzante, è diventato fonte di instabilità. L'Unione Sovietica ha accettato il ridimensionamento del proprio potere internazionale, e quindi anche la propria dissoluzione, con una rapidità e una tranquillità sorprendenti, senza paragone nella storia recente. A seguito di ciò, il mantenimento della stabilità internazionale ha significato per l'Occidente non più la difesa dello status quo (inevitabile, quando cercare di modificarlo avrebbe rischiato di provocare una guerra mondiale), ma un'accorta gestione del cambiamento geopolitico, soprattutto in Europa, reso oggi inevitabile dal vuoto di potere creato dal declino sovietico. Nel lungo termine, se le riforme economiche in Russia avranno successo, e se nel frattempo il paese non si sarà disintegrato così come successo all'URSS, esiste la possibilità di un futuro risorgere di opportunità espansionistiche e anche egemoniche per Mosca. Questo timore è il motivo per cui nei primi anni della perestrojka si discuteva se aiutare il Cremlino a rifondare un'Unione Sovietica più efficiente, ricca e tecnologicamente avanzata, fosse effettivamente nell'interesse dell'Occidente. Tuttavia, dopo il 1989, con l'inizio del ritiro sovietico dall'Europa orientale, i paesi occidentali si sono trovati d'accordo nel ritenere che il problema più urgente era aiutare Mosca a gestire il proprio declino geopolitico, minimizzando i pur necessari scossoni economici e sociali che avrebbero potuto pericolosamente ripercuotersi anche al di fuori di quel paese. Alla fine del secolo, questa rimane la questione più critica all'interno di quelli che finora si erano chiamati i ‛rapporti Est-Ovest'.
Con il crollo dell'egemonia sovietica si è quindi superata, almeno per il momento, la divisione militare dell'Europa. Ciò ha creato alcune condizioni necessarie, anche se non ancora sufficienti, per un ulteriore superamento delle rimanenti barriere politiche, economiche e culturali. Alle opportunità che si schiudono corrispondono però altrettanti rischi, che non sono meno gravi di quelli a suo tempo creati dalla contrapposizione dei blocchi.
Il pericolo più imminente è che il superamento della divisione geopolitica dell'Europa venga salutato come l'occasione per una generalizzata restaurazione, acritica e nostalgica, dei valori politici e culturali antecedenti a quella divisione. Questi erano i valori degli Stati-nazione, pienamente sovrani e impegnati a massimizzare la propria influenza sugli altri Stati. Se così fosse, alla divisione in due blocchi potrebbe subentrare non l'unità, ma la frammentazione del continente, che sarebbe foriera di ulteriore instabilità, potenzialmente meno apocalittica di quella nucleare ma anche assai meno prevedibile. In Europa, parallelamente alla graduale erosione dell'influenza delle superpotenze, si assiste già a una ‛rinazionalizzazione' della politica internazionale. Il risorgere del nazionalismo è già divenuto altamente conflittuale, soprattutto in alcune parti dell'Europa orientale e nei Balcani. Quello che avrebbe potuto essere il caso più preoccupante a questo riguardo, e cioè il revanscismo tedesco nei confronti dei territori persi dopo la seconda guerra mondiale, è stato risolto in modo prevedibilmente definitivo con l'unificazione tedesca e la conseguente firma di trattati tra la Germania, la Polonia e l'Unione Sovietica.
Meno prevedibili gli sviluppi in Europa orientale. Qui, a causa del prolungato asservimento forzato all'URSS, ogni forma di integrazione internazionale viene vista in sé e per sé come asservimento al potere straniero, e quindi un certo neonazionalismo è stato percepito come sinonimo di indipendenza nazionale. Antichi contenziosi irrisolti rendono possibile il pericoloso riaprirsi di questioni di frontiera e di minoranze etniche, di cui è disseminata la regione. Tuttavia, si è detto che in questi paesi è via via maturata una nuova coscienza internazionalistica, che si è tradotta in sempre più pressanti richieste di adesione alle strutture internazionali (prime fra tutte Unione Europea e NATO).
Il caso più grave di conflitto ‛post-bipolare' è dovuto, più che alla restaurazione dei valori nazionali, addirittura alla loro esasperazione nel tribalismo: dal 1991 in poi si è assistito all'implosione della Iugoslavia, causata dalla crisi economica interna e successivamente favorita dall'incoraggiamento che le maggiori potenze estere hanno dato alle diverse forze secessioniste. La guerra iugoslava, che è appropriato definire guerra civile, ha brutalmente ricordato agli Europei che la fine della guerra fredda non ha prodotto, come forse alcuni avevano ingenuamente pensato, un sistema internazionale più sicuro, e neanche più facile da gestire.
La stabilità della politica internazionale del mondo industrializzato è stata determinata per quattro decenni dalla sinergia tra bipolarismo politico, effetto deterrente delle armi nucleari e crescente ruolo delle istituzioni internazionali, che hanno favorito il consolidarsi di una sempre maggiore interdipendenza. Sul finire del secolo, il primo dei tre fattori ha esaurito la propria funzione, e quella del secondo è molto ridimensionata; nel prossimo decennio, la stabilità dovrà dunque essere ricercata soprattutto in una maggiore interdipendenza e in un ruolo delle istituzioni internazionali a essa adeguato.
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