RESTAURO
Il termine lat. restaurare è sicuramente utilizzato in testi e iscrizioni medievali insieme ad altri, considerati sinonimi o equivalenti, quali instaurare, renovare, reficere, aptare, reactare, racchonciare. L'ambito semantico cui il termine si riferisce coglie qualsiasi attività riguardi una preesistenza architettonica, ma anche pittorica o scultorea, che risulti utilizzata ma nel contempo modificata, più o meno estesamente, da un intervento umano.Vano è dunque ricercare nell'esteso arco di tempo in cui convenzionalmente si dispiega l'età medievale un concetto del r. che possa in qualche misura considerarsi simile alla moderna concezione e alla conseguente metodologia di intervento su opere di qualificazione artistica e storica preesistenti, fondata sul rispetto e sulla messa in valore della identità e della unicità documentaria ed estetica del manufatto antico. Questa valutazione e questa consapevolezza non possono però impedire di ripercorrere, attraverso le testimonianze superstiti, sia letterarie sia desunte dall'osservazione diretta dei manufatti realizzati in età medievale, le tendenze e le concezioni prevalenti nella realizzazione di interventi verso le preesistenze antiche oppure le modalità scelte per la riparazione di danni, casuali o intenzionali, manifestatisi.Una sostanziale e preliminare esigenza è quella di valutare il senso del fenomeno, diffusissimo nel Medioevo in tutte le regioni dell'Europa e del Mediterraneo, dalla Gallia all'Asia Minore, permeate dalla civiltà romana o greco-romana, del riuso di edifici, generalmente di epoca romana, o di elementi architettonici e decorativi, anch'essi recuperati e prelevati da complessi monumentali antichi o tardoantichi, per essere ricomposti in edifici di nuova costruzione o in modificazione e abbellimento di quelli comunque esistenti. Troppo semplicisticamente si è tentato, da più parti, di identificare tale consuetudine come un'esigenza e un'attività riconducibili all'ambito del r., dal momento che avrebbe a fondamento un esito di 'conservazione' e che il nuovo che accoglie il frammento antico in realtà si configurerebbe come un completamento, strutturato e definito in funzione del riuso di materiali o elementi preesistenti.In realtà gli approfondimenti che gli studi più recenti sul problema del riuso hanno apportato (Esch, 1969; Deichmann, 1975; Settis, 1986) dimostrano come il fenomeno, che ha investito aree geografiche e civiltà diverse, fasi storiche anche lontane fra loro, ben oltre i limiti cronologici tradizionali del Medioevo, tanto verso l'Antichità quanto verso la civiltà del Rinascimento e del Barocco fino al Settecento, non si ricolleghi a motivazioni unitarie e omogenee, ben riconoscibili nelle intenzioni e negli esiti. Occorre indagare caso per caso, distinguendo situazione da situazione, per cogliere la specificità degli aspetti culturali, ideologici, religiosi ed estetici, ma anche economici e sociali, che il riuso, singolarmente indagato, presuppone, scoprendo con la coerenza e il rigore di un metodo ben applicato che a uno stesso dato possono corrispondere motivazioni profondamente diverse. È in termini e nei limiti di 'microstoria', senza generalizzazioni indebite, che occorre dunque procedere per definire il significato del riuso (v. Reimpiego). E i contributi di conoscenza più utili che tali studi hanno prodotto si muovono proprio in questa direzione, come dimostrano le ricerche sugli spolia romani e ostiensi utilizzati per la costruzione e la decorazione del duomo di Pisa o sugli spolia rinvenuti in loco, usati per il duomo di Modena. Perfino l'impoverimento, economico e tecnico, che caratterizzò alcune fasi della civiltà medievale, in rapporto al decadere della tradizione culturale, costruttiva e decorativa, della Tarda Antichità, ha il suo peso e il suo valore.Spesso prevalevano unicamente fattori di continuità che, pur nell'utilizzazione di elementi decorativi romani per una loro riattualizzazione in contesti e per usi totalmente diversi rispetto alla situazione precedente, comportavano interventi di una nuova ristrutturazione con il riassemblaggio di elementi antichi, a volte con la necessità di completamenti. È il caso del S. Salvatore di Spoleto o del tempietto del Clitunno, oppure della decorazione scultorea dell'oratorio di Giovanni VII nella basilica di S. Pietro in Vaticano, con il completamento tipologicamente conforme che maestranze dell'inizio del sec. 8° realizzarono rispetto alle paraste scolpite del sec. 2°, reinserite insieme nella definizione architettonica della struttura (Nordhagen, 1969). Ma sicuramente era nella realtà della città di Roma il manifestarsi più vario delle modalità che potevano stare a fondamento della continuità del riuso di edifici preesistenti o di elementi architettonici e decorativi provenienti da edifici classici o tardoantichi (Krautheimer, 1980).L'inserimento in un nuovo contesto architettonico e decorativo, oppure una modificazione dell'uso o l'esigenza di un analogo uso, che è però necessario ricondurre a un significato diverso, è desumibile per es. nel sarcofago romano conservato nella cattedrale di Salerno, cui in età medievale venne sovrammesso un coperchio rielaborato con nuovi elementi plastici e un'iscrizione e furono rozzamente scolpiti i lati corti con lesene, nastri e ghirlande (Greenhalg, 1985). Ancora più singolare risulta la recente e straordinaria scoperta che la Madonna dell'arnolfiano monumento funebre del cardinale francese Guglielmo De Braye (m. nel 1282; Orvieto, S. Domenico) è la statua rilavorata di una divinità femminile seduta, abbigliata con una lunga veste, stretta sotto il seno da un nastro annodato, probabilmente opera del sec. 2° e tipologicamente vicina all'iconografia di divinità quali la Flora o la Tyche (Romanini, 1994). Non si tratta in questo caso di un riuso di elementi decorativi antichi rilavorati e riutilizzati in modo però da nasconderne l'origine riscolpendone il retro, come avviene in altre parti dello stesso monumento e in altre opere di Arnolfo di Cambio, evidentemente per esigenze di praticità ed economicità. La Madonna-Flora è esibita in quanto tale, con l'aggiunta di Cristo bambino e con alcuni minimi aggiustamenti che riguardano i piedi e l'orlo estremo della veste, l'acconciatura della testa, lo scollo con il monile raffigurante la luna calante. La consapevole e raffinata elaborazione stilistica e formale arnolfiana e il complesso rapporto dell'artista con l'Antico - sia per presa diretta sia per il modo come l'ambiente dei Pisano e dell'elaborazione del Gotico d'Oltralpe possono aver sollecitato - sono certamente alla base di questa singolarissima scelta.La qualità della lavorazione e la preziosità del materiale o lo stesso suo valore sacrale di testimonianza, e quasi di reliquia, portarono l'abate Desiderio da Montecassino (1058-1086) all'acquisto a Roma di colonne, basi, epistili e preziosi marmi colorati nel momento in cui decise la demolizione dalle fondamenta della chiesa di S. Benedetto, inadeguata per le sue ridotte dimensioni, e la sua ricostruzione con profusione di ornamenti e di preziose decorazioni per le quali aveva ingaggiato artisti costantinopolitani abili nell'arte dei mosaici e della pavimentazione. Ugualmente artefici esperti nella lavorazione dell'oro, dell'argento, del bronzo, del ferro, del vetro, dell'avorio, del legno, dello stucco e della pietra concorsero alla sontuosa qualificazione della nuova basilica di Montecassino. È possibile chiedersi quale riconoscibilità e significato avrebbero mantenuto in quel contesto del tutto nuovo gli spolia fatti arrivare con fatica e impegno da Roma. Desiderio lamentava la decadenza in cui la pratica delle arti era ridotta in Italia e le sue scelte sopperivano a questa affermata incapacità con l'intento dichiarato di riportare la qualità artistica alla grandezza delle tradizioni romane ancora esistenti, data la capacità sempre fiorente che gli artefici orientali conservavano in quanto eredi privilegiati di quella tradizione.Tutti questi casi (e tanti altri potrebbero ancora essere ricordati) sono ancora lontani dal concetto di r., senza per questo volerlo ridurre a ogni costo alla moderna e attuale concezione: la necessità cioè che l'intervento sul preesistente sia guidato dall'intento di recuperare un'immagine antica nel suo significato originario o presunto tale e possibilmente nella sua consistenza materica. Anche quando tale intervento possa rivelarsi come scarsamente attendibile perché risultato dell'elaborazione di un'Antichità irreale e più o meno inventata (Rossi Pinelli, 1986).Ricorrevano nel Medioevo casi più complessi e specifici in cui l'intervento era causato da ragioni più gravi e davvero rovinose, come per es. incendi o terremoti, oppure da esigenze d'uso talmente imperiose da imporre la riconsiderazione della sopravvivenza o della distruzione del manufatto a vantaggio di una realizzazione del tutto nuova. Gli scritti di Suger (v.) sulla riforma dell'abbazia di Saint-Denis e sul suo ampliamento sono particolarmente utili per cogliere il grado di consapevolezza nella necessità di aggiornare la struttura architettonica della chiesa, il suo apparato decorativo e i suoi arredi in rapporto all'importanza sacrale e politica della vecchia costruzione carolingia. Lo stato in cui Suger aveva ricevuto il complesso abbaziale dal suo predecessore Adam era davvero disastroso se lamentava nei suoi scritti la presenza di larghi squarci nei muri, di colonne guaste, di torri che minacciavano rovina, di lampadari e altre suppellettili che cadevano a pezzi per mancanza di manutenzione. La necessità dell'intervento conservativo era occasione per chiamare de diversis partibus i migliori artefici che riparassero le murature e nel contempo le dipingessero "tam auro quam preciosis coloribus" (De administratione, XXIV). Nuove porte in bronzo dorato e mosaici furono apposti agli ingressi; nuove immagini splendenti d'oro e di pietre preziose vennero poste sugli altari; il vecchio coro in marmo e rame fu sostituito con un coro ligneo; l'antico pulpito fu restaurato, così come il nobile trono del re Dagoberto, che si mostrava antiquato e crollante (ivi, XXXIV); in entrambi i casi Suger usa il termine refici e refici fecimus. Il giudizio sulla conformazione stilistica del trono chiarisce con evidenza come la rimessa in funzione del manufatto si accompagnasse sempre con l'esigenza di un aggiornamento decorativo (ivi, XXXV). Suger istituì perfino gli incarichi ufficiali per il personale addetto essenzialmente alla manutenzione del decoro in oro e argento. Quando procedette poi all'ampliamento della chiesa, che non fu dettato soltanto da esigenze di praticità ma anche dalla volontà di ridisegnare gli spazi per il culto e le funzioni liturgiche, ebbe sempre viva la preoccupazione di accordare il nuovo con l'antico che ancora poteva o doveva essere mantenuto: Suger, "de convenientia et cohaerentia antiqui et novi operis sollicitus" (De consecratione ecclesiae S. Dionysii, II), ricercò colonne adatte alle nuove strutture. La preoccupazione rimase sempre viva se "reservata tamen quantacumque portione de parietibus antiquis, quibus summus pontifex Dominus Iesus Christus testimonio antiquorum scriptorum manum apposuerat, ut et antiquae consecrationis reverentia, et moderno operi iuxta tenorem coeptum congrua cohaerentia servaretur" (De administratione, XXIX). La testimonianza di Suger chiarisce in modo preciso il rapporto, che era sempre presente, sia pure con esigenze e sfumature diverse, tra il mantenimento delle preesistenze e la volontà di rinnovare e aggiornare, che era alla base degli interventi sul costruito e, in genere, sui manufatti più antichi.Ugualmente significativo è il dibattito che si aprì nella comunità monastica di Canterbury in seguito all'incendio che nel 1174 danneggiò le strutture della cattedrale, così come il Tractatus de combustione et reparatione Cantuariensis ecclesiae di Gervasio di Canterbury (v.) lo descrive. Bisognava valutare, e per questo furono interpellati architetti inglesi e francesi, se riparare le colonne e i pilastri gravemente compromessi dal fuoco, senza recare danno alla parte superiore dell'edificio, oppure procedere alla ricostruzione totale della chiesa dopo averne abbattuto le strutture più antiche. Ragioni di maggiore sicurezza consigliarono la seconda soluzione. Ed è interessante osservare come nell'esposizione delle varie fasi dei lavori di ricostruzione il Tractatus inizi sempre dalla descrizione dello stato precedente delle strutture dell'edificio.In zone di ricorrente sismicità il problema della riparazione dei danni e della ricostruzione dell'edificio comportava ugualmente possibilità e soluzioni diverse che spaziavano da interventi localizzati - conservando le strutture dell'edificio preesistente, come accadde nella chiesa di S. Pietro in Albe (prov. Aquila; Delogu, 1958) - a veri e propri rifacimenti, che rinnovavano totalmente l'organismo architettonico e la sua decorazione.In realtà quello della 'durata' di un manufatto di interesse artistico era per il Medioevo il requisito principale della qualità ed era fondamentalmente insito nella progettualità, nell'esperienza e nella capacità dell'artefice, al punto da dovere adattare le scelte dei procedimenti esecutivi e dei materiali alle evenienze potenzialmente distruttive cui il manufatto poteva essere esposto. I trattati tecnici e i ricettari, seguendo in questo una tradizione che risaliva a Vitruvio e a Plinio, erano estremamente attenti nel suggerire i materiali e gli accorgimenti più adatti alla migliore conservazione e durata, per es. delle opere pittoriche, come qualità essenziali a esse inerenti e come requisito indispensabile della professionalità del pittore (v. Trattati tecnico-artistici).L'anonimo autore della Mappae clavicula, pervenuta in un manoscritto del sec. 12° (Corning, Mus. of Glass), ma elaborazione di fonti più antiche, raccomanda di proteggere l'opera dipinta con uno strato di olio "ut nunquam deleri possit". E nel De coloribus et artibus Romanorum di Eraclio la descrizione del modo come si debba dipingere su una colonna di pietra è attentissima, nell'individuazione dei materiali e dei procedimenti, alla necessità che gli strati preparatori e il colore resistano alle intemperie e all'umidità che può derivare anche da un'esposizione all'aperto. Infine, il Libro dell'arte di Cennino Cennini (v.), dei primi decenni del sec. 15°, non soltanto analizza e valuta le caratteristiche di materiali, supporti, strati preparatori, pigmenti in funzione della resa pittorica e della migliore esecuzione, ma definisce e preavverte dei rischi di alterazione di alcuni pigmenti se impropriamente usati, come accade per la biacca e il minio per la coloritura di un dipinto murale, o per il cinabro: "la natura sua non è di vedere aria, ma più sostiene in tavola che in muro; perocché per la lunghezza di tempo, stando all'aria, vien nero quando è lavorato e messo in muro" (Libro dell'arte, XL). Ma Cennini arriva anche a descrivere minuziosamente i procedimenti della doratura su pietra, ben più complessi rispetto a quelli consueti per la doratura su muro, a causa dell'umidità residua nella porosità della pietra che può vanificare il risultato; e ancora suggerisce possibili rimedi per dipingere su un muro umido, indicando uno strato di isolamento a base di cocciopesto oppure pece o vernice, sempre mescolati con polvere di mattone, come preliminari alla stesura dell'intonaco e delle coloriture (Libro dell'arte, CLXXIV-CLXXVI).La qualità del manufatto dunque si misurava anche sulla sua capacità di durata in relazione alle particolari condizioni ambientali cui era destinato. La pratica costante e attenta della manutenzione doveva poi assicurare la persistenza nel tempo del valore, del significato e della funzione d'uso dell'opera insieme alla conservazione dei materiali costitutivi e della loro più chiara leggibilità. È davvero significativa la singolare iscrizione apposta sulla traversa sinistra del portale bronzeo del 1076 del santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo. È una raccomandazione ai rettori della chiesa: "Rogo et adiuro rectores s(an)c(t)i Angeli Micha(elis) / ut semel in anno detergere faciatis / has portas sicuti nos nunc osten / dere fecimus ut sint semper / lucide et clare". Conclusa l'operazione del montaggio della splendida porta bronzea ageminata, l'opera fu ripulita insegnando in tal modo come rifare poi tale operazione e soprattutto sollecitando di ripetere una volta l'anno la pulitura (Cagiano de Azevedo, 1953).Purtroppo scarsissime sono le indicazioni tramandate dai trattati e ricettari medievali sui materiali e sulle tecniche consuete per le attività di manutenzione o di riparazione di danni che fossero sopravvenuti a oggetti di valenza artistica. Si ricordano le ricette che Teofilo (v.) riporta sul modo come riparare un vaso di vetro che si sia infranto ("Quomodo reformetur vas vitreum fractum"; De diversis artibus, II, 30); oppure per la pulitura di un oggetto dorato o argentato ("De purganda antiqua deauratura" e "De purgando auro et argento"; ivi, III, 78-79). Ma le indicazioni sono generalmente vaghe. Per la pulitura dell'oro o dell'argento venivano consigliate sostanze detergenti (smigma) oppure sostanze abrasive come carbone finemente setacciato. Sicuramente la pulitura, anche per i dipinti conservati all'interno di chiese, monasteri, edifici pubblici e privati, era l'atto manutentivo più frequente, considerando l'opportunità e spesso la necessità di asportare dalle superfici la polvere più o meno tenace e soprattutto gli inevitabili depositi di nerofumo, causati dai sistemi di illuminazione in uso. Particolari più dettagliati, riferiti al vetro e alle vetrate, sono nel trattato scritto da Antonio da Pisa alla fine del sec. 14° (Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro). Le ricette riguardano il modo di "fare el vetro lustro e chiaro" qualora fosse divenuto "obscuro o affumato o impolverato". Le sostanze indicate sono: materiali alcolici (acquavite) o acidi (aceto) o aggressivamente basici (liscivia); abrasivi vegetali (asprella, crusca) o minerali (ossidi di ferro o pomice), si immagina graduati nell'intensità della loro azione dalla natura delle sostanze da asportare.Procedimenti non troppo dissimili è presumibile che fossero applicati anche alle pitture, sia murali sia su tavola, più fragili e delicate rispetto ai vetri colorati usati nella consolidata tradizione tecnica delle vetrate. Esistono riferimenti archivistici sulla pratica della pulitura dei dipinti nel Medioevo: per es. il pagamento del 1360 da parte dell'Opera del duomo di Siena a un pittore non altrimenti noto, chiamato Pietro di Ser Dota, per la pulitura della tavola di S. Bartolomeo e dell'Annunciazione di Simone Martini, destinata alla cappella di S. Ansano nel duomo di Siena (Firenze, Uffizi). I metodi o le sostanze utilizzate non vengono descritti, sebbene non dovessero essere troppo dissimili da quelli indicati nel trattato di Antonio da Pisa oppure da ricettari che, seppure posteriori all'età medievale, con ogni probabilità si riferivano a pratiche molto antiche. Per es. l'inedito manoscritto, datato 1561 e conservato a Firenze (Bibl. Naz., Pal. 1001), il manoscritto padovano, della fine del sec. 16° (Padova, Bibl. Univ., 992), e il manoscritto Volpato, del 17° - questi ultimi pubblicati da Merrifield (1849) -, suggeriscono per la pulitura dei dipinti sostanze quali ceneri di arbusti mescolate con calce a formare una liscivia a base di potassio e sodio, saponi, emollienti e mezzi meccanici abrasivi, sabbia sottile, così da poter 'nettare', 'lavare', 'rinovare' le figure dipinte, "che siano vecchie pareranno nuove". Non mancava la consapevolezza dell'esito spesso distruttivo di tali drastici e non differenziati lavaggi, al punto da raccomandare "tanta destrezza et modo che non li leviate il colore", oppure di eliminare rapidamente dalla superficie la cenere con acqua chiara perché "rode il colore". Evento non infrequente anche per la solida pittura medievale realizzata generalmente con tenaci tempere all'uovo o con i procedimenti ben consolidati della tecnica del buon fresco, al punto da comportare spesso riprese del colore e ridipinture di parti più o meno estese, oltre che, per i dipinti da cavalletto, una nuova verniciatura con resine, oli o anche chiara d'uovo.Dalla pratica della manutenzione - così come è possibile ricostruirla attraverso i pochi dati tecnici disponibili - al vero e proprio rifacimento, nel caso di pitture o di sculture, oppure di sostituzioni e completamenti di parti danneggiate, nel caso di architetture o complessi decorativi, il passo è davvero breve. Il senso di una definita continuità era sempre prevalente a tutto vantaggio del mantenimento della funzione d'uso del manufatto artistico e del suo decoro.Il mutamento di immagine o di configurazione strutturale di un'opera d'arte trovava spessissimo nel Medioevo occasione nelle dispute intorno alla natura stessa della raffigurazione del sacro e ai mutamenti ideologici che nelle diverse fasi potevano manifestarsi. Particolarmente significativo è il caso del mosaico absidale della chiesa della Dormizione a Nicea, documentato ora soltanto attraverso immagini fotografiche. La figura della Vergine isolata sullo sfondo dorato della concavità dell'abside era per esplicite evidenze stilistiche opera del sec. 9°, che sostituiva una grande croce, unica decorazione ammessa nella temperie iconoclasta dell'arte bizantina. Ma l'esame attento delle fotografie ha consentito di individuare che l'immagine della Vergine in realtà ripristina nella stessa sostanziale configurazione iconografica il mosaico che decorava l'abside anteriormente al 726 (Underwood, 1959). Negli affreschi attribuibili all'ambito di Ambrogio Lorenzetti nella chiesa di S. Galgano a Montesiepi presso Chiusdino (prov. Siena), la Madonna in maestà trova nello stesso ambito stilistico un rifacimento di poco posteriore, sempre ad affresco, che ripropone l'immagine della Madonna priva delle insegne della regalità con l'aggiunta del Cristo bambino sul grembo, a marcare il momento della maternità su quello, più insolito nel Trecento, della regalità.Modificazioni iconografiche con rifacimenti di parti più o meno sostanziali si osservano nei mosaici ravennati, legate però a mutamenti di carattere più propriamente politico, come accadde in S. Apollinare Nuovo per la sostituzione voluta dall'arcivescovo Agnello (557-569 ca.) del corteo teodoriciano con il corteo dei martiri, mantenendo però le vedute teodoriciane del palazzo del re e della città portuale di Classe, come pure le rappresentazioni di Cristo e della Vergine, punti di partenza e di approdo di entrambi i cortei, quello teodoriciano e quello ora visibile, successivo alla riconquista bizantina. Anche nei mosaici romani della navata di S. Maria Maggiore sono stati osservati r. in alcuni riquadri, per es. nel Miracolo delle quaglie, rifatto nel sec. 9° (Bertelli, 1955). Generalmente i mutamenti iconografici o le integrazioni causate da danni prodottisi sui mosaici trovavano nell'uso di altre tessere le modalità della sostituzione o dell'integrazione. Non mancarono però rifacimenti o integrazioni realizzati con la tecnica della pittura murale, come accadde per es. nelle grandi teste della Vergine e del Redentore, probabile opera di un artista cavalliniano nei primi anni del Trecento, nel battistero di S. Giovanni in Fonte nel duomo di Napoli.Un aspetto singolare che caratterizzava la valutazione e la manipolazione delle immagini nel Medioevo, davvero significativo per la sua frequenza, riguarda i rifacimenti di antiche e venerate icone sacre. I dipinti raffiguranti la Vergine, presenti a Roma e databili ai secc. 6° e 7° - la Madonna di S. Maria Nova e le altre icone del Pantheon, di S. Maria in Trastevere e di S. Maria Maggiore - presentavano, e in parte continuano a presentare anche dopo i recenti r., estese ridipinture dettate dalla necessità di mantenere la chiara definizione e l'evidenza iconografica necessarie per conservare il più possibile immutato il valore sacrale e liturgico, quasi reliquie, come accade in particolare per la Madonna acheropita di S. Maria in Trastevere e anche per la figura di Cristo del Sancta Santorum, indipendentemente dai guasti che potessero in qualche misura danneggiarle e modificarle.Altre volte era il rinnovamento del gusto e del mutato apprezzamento del valore stilistico che comportava, pur nel mantenimento di una sostanziale fedeltà all'iconografia originaria, il rifacimento di parti essenziali dell'immagine, mantenendo però il significato politico e religioso tradizionalmente acquisito. È il caso della Madonna del Bordone (1261) di Coppo di Marcovaldo, nella chiesa di S. Maria dei Servi a Siena, che subì, dopo ca. quarant'anni dal suo compimento, il rifacimento degli incarnati della Madonna e del Bambino, in chiave di rinnovamento stilistico di chiara impronta duccesca. Le parti sentite come più evidente espressione di una schematica e arcaica definizione formale (i volti e gli incarnati) furono aggiornate stilisticamente per mantenere attuale il significato politico fondamentale di quell'immagine: il ricordo della gloriosa vittoria dei Senesi contro i Fiorentini nella battaglia di Montaperti (Brandi, 1950).Analogamente le ridipinture a secco osservate nel ciclo decorativo degli affreschi dell'abbazia di Grottaferrata sono da ricondurre al riaffermarsi, alla fine del sec. 13°, nell'ambiente 'greco' della comunità conventuale, di una tradizione iconografica e stilistica di più esplicita configurazione bizantina (Andaloro, 1983; Nimmo, 1983).È sempre molto difficile distinguere quando un intervento di rifacimento o di ridipintura fosse conseguenza di un'esplicita volontà ideologica o di gusto nel mutamento o nell'aggiornamento dell'immagine dell'opera o fosse invece il risultato di una necessità successiva a un intervento di manutenzione o di riparazione di danni; o quanto invece le due ipotesi potessero identificarsi. La realtà è che la capacità di controllo e di misura anche nei più semplici interventi di manutenzione era sicuramente molto limitata, comportando spesso l'opportunità di rifacimenti più o meno estesi. Nel caso della Madonna senese di Coppo di Marcovaldo, la perfetta situazione conservativa dello strato originario degli incarnati dimostra con sicurezza che il loro rifacimento fu esclusivamente dettato dall'intenzione non di un r. correttamente inteso come riparazione di un danno, bensì come esplicito desiderio di 'rinnovare' stilisticamente la pittura. Ma per es. l'analogo rifacimento degli incarnati del volto della Madonna di Coppo di Marcovaldo a S. Maria dei Servi a Orvieto mostra con chiarezza che l'intervento fu dettato da un guasto che si era prodotto sulla stesura originaria, come dimostra a evidenza la radiografia. Certamente la manutenzione comportava, oltre che interventi di protezione o di pulitura, rifacimenti o sostituzioni di parti più o meno estese. E paradossalmente la cura che, come si è già considerato, veniva rivolta alla manutenzione era spessissimo pretesto od occasione di un vero e proprio rifacimento dell'opera.Molti documenti, soprattutto nel sec. 14°, testimoniano la particolare attenzione che veniva rivolta al mantenimento delle opere anche da parte delle grandi istituzioni civili e religiose. Si conservano documentazioni d'archivio attestanti incarichi e pagamenti a pittori anche di fama per interventi sul patrimonio figurativo presente in edifici ecclesiastici o in palazzi comunali per riparare dei danni o comunque assicurare alle opere uno stato di conservazione più adeguato. Lo testimoniano le carte, numerose a partire dagli inizi del Trecento, che descrivono l'attività dell'Opera del duomo di Siena per la manutenzione di sculture e tavole dipinte. Un'analoga attenzione è rivolta agli affreschi del Camposanto pisano: nel 1370-1371 Francesco Neri da Volterra e altri pittori furono pagati per picture noviter facte ma anche per reactatione picturarum nell'ambito del ciclo delle Storie di Giobbe; nel 1379 Cecco di Pietro venne pagato per "racchonciare le pitture de lo ferno guaste per li garzoni" (Il Camposanto di Pisa, 1996). Il Comune di Siena incaricò un pittore, probabilmente Andrea di Vanni d'Andrea, di ridipingere, con una notevolissima fedeltà iconografica e con una definizione stilistica non troppo diversa, le parti gravemente danneggiate, probabilmente per infiltrazioni di umidità dagli ambienti soprastanti, dell'affresco di Ambrogio Lorenzetti raffigurante il Buon Governo (Siena, Palazzo Pubblico); nell'attigua sala del Mappamondo la parte sinistra dell'affresco raffigurante Guidoriccio da Fogliano, laddove è dipinto il castello di Montemassi, è indubbia opera di un esteso e - si presume - fedele rifacimento, anteriore all'affresco che, nella parte sottostante, dipinse il Sodoma all'inizio del Cinquecento, consentendo di datare così con ogni probabilità il rifacimento allo stesso momento in cui Andrea di Vanni d'Andrea operava sulla parte danneggiata del Buon Governo.In altri casi di gravi danneggiamenti l'intervento di riparazione era occasione di adattamenti e riattualizzazioni dell'opera, preoccupandosi poco del mantenimento dell'aspetto e delle caratteristiche che l'opera aveva precedentemente. Esemplare è al riguardo la vicenda di un monumento equestre in bronzo dorato, probabilmente di età teodoriciana e forse raffigurante lo stesso Teodorico, proveniente da Ravenna ma ubicato durante il Medioevo, fino alla fine del Settecento quando fu distrutto, nella piazza del duomo di Pavia, costituendo quasi il simbolo dell'identità comunale. Volgarmente chiamato il 'Regisole', fu ridotto in pezzi dai Milanesi nel 1315. Recuperati poi i frammenti portati a Milano, la statua fu ricomposta nel 1335. Ma la ricomposizione e la nuova doratura non furono gli unici interventi realizzati. Il cavaliere fu dotato di redini, speroni, staffe e venne aggiunto un piccolo cane che sostituiva un barbaro sottomesso allo zoccolo del cavallo nella precedente versione, simbolo della vastità delle genti sottomesse all'impero. Risulta evidente l'intento di un ammodernamento dell'immagine antica, rendendola più familiare e plausibile rispetto al valore simbolico aggiunto, acquisito nel corso del Medioevo.Manutenzioni, modificazioni e adattamenti a esigenze nuove, rifacimenti più o meno estesi si confermano dunque come momenti di una stessa operatività, definendo inequivocabilmente il modo di proporsi della cultura medievale, ma non solo medievale, nei confronti di tutte quelle opere, edifici, sculture, pitture, che fossero comunque ritenute degne di essere conservate. I criteri e i principi cui si ispiravano tali interventi erano suggeriti essenzialmente da valutazioni di tipo economico, politico-ideologico e stilistico: il valore materiale dell'opera e la funzione d'uso comportavano la cura attenta del mantenimento delle caratteristiche funzionali degli oggetti e delle immagini; il loro rinnovamento e adeguamento a esigenze diverse erano sempre in rapporto a un significato che si voleva conservare, modificare o adattare. L'attenzione ai significanti era unicamente un presupposto importante per la definizione della qualità e della durata dell'opera e testimoniava l'abilità dell'artefice; non erano essi stessi elementi materici originari che mantenevano l'impronta concreta dell'intelligenza realizzatrice dell'esecutore, valori in sé in quanto individualizzati e connaturati a un significato che tale restava finché manteneva l'unicità e l'esclusività della sua configurazione materica. I significanti non erano dunque essenziali o prioritari nella scala dei valori da conservare anche quando si interveniva per riparare un danno o mantenere in funzione l'opera di valenza figurativa o artistica. La storicità, e dunque l'irripetibilità dell'opera, e dunque il senso moderno del r., erano ancora lontani.
Bibl.:
Fonti inedite. - Recettario (ms. del 1561), Firenze, Bibl. Naz., Pal. 1001.
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