RESTAURO (XXIX, p. 127)
Restauro delle opere d'arte. - Si intende generalmente per restauro qualsiasi attività svolta per prolungare la conservazione dei mezzi fisici ai quali è affidata la consistenza e la trasmissione dell'immagine artistica, e si può anche estenderne il concetto fino a comprendere la reintegrazione, quanto più è possibile approssimativa, di una mutila immagine artistica. Questi due poli, di cui l'uno confina il restauro alla mera conservazione, e l'altro lo adduce addirittura ad usurpare i privilegi della creazione artistica, caratterizzano le attitudini discordanti che si sono tenute e ancora si tengono verso il restauro. Da questa innegabile e fondamentale ambiguità nascono allora, ancor più che dai procedimenti erronei e dagli infortunî materiali, i malestri che s'imputano al restauro e ai restauratori; nascono altresì le polemiche che tentarono d'imporre una delle concezioni sopprimendo l'altra. Sicché in definitiva dovrà riconoscersi, anche in questo caso, che solo con una chiara impostazione teorica del problema può raggiungersi una equa soluzione. La novità maggiore accaduta in Italia per il restauro in questi quindici anni è stato appunto lo sforzo di indagare la natura del restauro, togliendolo all'empirismo dominante, tirando le somme dello scontento che si produceva tanto nelle applicazioni rigide della prima tesi quanto in quelle estensive della seconda, e rifacendosi a quella serie di considerazioni improntate al rispetto dell'opera d'arte sia in quanto creazione artistica sia come monumento storico, con le quali si erano costituiti i punti basilari della primitiva Carta del restauro (1938), pensata per i monumenti, ma facilmente estensibile anche alla pittura e alla scultura. Con tutto ciò mancava nella Carta del restauro, come nelle critiche generalmente rivolte ai restauri sia conservativi sia integrativi, una connessione diretta con il concetto stesso dell'arte.
È stato pertanto merito di studiosi italiani l'avere impostato il problema del restauro come un problema di critica filologica, in primo luogo attività critica e solo in secondo tempo attività pratica in dipendenza strettissima della prima. Conseguentemente, le due posizioni antitetiche di un restauro mera-conservazione e di un restauro quasi-creazione, venivano superate con la indispensabile reintegrazione nell'estetica di qualsiasi problema attinente al restauro. Una volta posto, infatti, che il restauro è critica filologica che si indirizza a restituire il testo autentico superstite dell'opera d'arte, è chiaro che il problema del restauro, in quanto non meramente conservativo, fa tutt'uno con l'assunto, che è quello stesso della filologia, di reintegrare il testo nella lettera e nello spirito. In tale assunto confluiscono allora, e ormai senza contraddizione, sia l'esigenza di un rispetto storico assoluto - che stava alla base del restauro conservativo - sia l'esigenza di perdere quanto meno è possibile del senso e della figuratività dell'immagine - che era l'aspirazione legittima in cui si giustificava (seppure con formulazione empirica ed imperfetta) il restauro integrativo, il ripristino di fantasia. Infine, dalla reintegrazione del restauro così concepito nell'ambito proprio dell'estetica - in quanto l'opera d'arte venga concepita come una creazione soggettiva e irripetibile - discendeva la necessità di contenere qualsiasi integrazione nei limiti più ristretti e con attuazioni pratiche sempre e per tutti riconoscibili, così da non fare usurpare, alla reintegrazione ipotetica, l'autenticità che solo spetta ai modi della creazione. Il restauro non è creazione, e i restauratori non sono artisti: sono in primo luogo critici, e in secondo luogo tecnici. Pertanto il restauro è il luogo d'incontro della critica e della scienza. Con una tale impostazione nasceva a Roma nel 1939-41 l'Istituto centrale del restauro, che è anzitutto l'attuazione pratica di una moderna concezione del restauro. L'organizzazione dell'Istituto centrale del restauro (che soprattutto, e sempre per ragioni pratiche, s'indirizza quasi unicamente a pitture e a sculture), è l'esibizione "pratica" di un'impostazione teorica. Per questo alla direzione dell'Istituto sta uno storico d'arte, coadiuvato da un consiglio tecnico di critici, e non un restauratore. I gabinetti di chimica e di fisica, che affiancano l'opera del critico e dei restauratori, rappresentano l'integrazione della scienza nel problema squisitamente scientifico della conservazione. Il rigore nella documentazione fotografica e la minuta archiviazione rispecchiano la salvaguardia storica nella ricerca critica.
Di questa nuova prassi, in elaborazione presso l'Istituto, è possibile offrire due esempî fondamentali, per due spinosissime rubriche del restauro pittorico. La prima, che riguarda la campitura delle lacune, si è ripresentata con particolare problematicità nell'occasione di tentativi intesi a ricomporre affreschi ridotti in frammenti dalla guerra. L'Istituto ha sperimentato una speciale anastilosi per recuperare senso e "figuratività" alle lacunose parti ricomposte.
Quando, di fronte ad un affresco ridotto in minuti frammenti, o neppure si tenta il recupero o ci si limita a riaccostare i pezzi superstiti come in un mosaico, è chiaro che l'abbandono dei frammenti, come quella loro ricomposizione nudamente archeologica, discendono dall'incertezza con cui viene posto il problema teorico del restauro. Se il restauratore si sentirà arrestato, dallo scrupolo di non commettere un falso, a non tentare le integrazioni delle lacune, dispererà di trarre a qualche conclusione figurativa gli sparsi relitti di un affresco salvati dalla rovina; così accadde per l'affresco del Tiepolo agli Scalzi, che fu colpito dalle bombe nella prima Guerra mondiale, e di cui neppure furono raccolti i frammenti.
Ma se il problema della integrazione delle lacune viene posto rettamente, e cioè nel modo che vuole la critica filologica, non si potrà dimenticare che, nelle reliquie di un testo mutilo, la critica mira alla lettera ma per raggiungere lo spirito, e che, per la pittura, fermo restando il divieto del falso, non per questo ci si deve precludere la possibilità di recuperare almeno il "senso" e la "figuratività" residua, ancora immanente nei frammenti. La diversità delle soluzioni pratiche non dovrà discendere allora che dalla maggiore o minore unità ancora implicita nella residua immagine pittorica o scultorea. Sicché si potrà avere l'oscillazione più ampia, che vada cioè da un'assoluta astensione di integrazioni alla ricostituzione delle parti perdute servendosi di documenti fotografici, e ognuna di queste soluzioni potrà risultare perfettamente giustificata, pur nell'apparente contradditorietà dei metodi, dalla superiore unità concettuale. Naturalmente si dovrà tenere sempre di mira la funzione critica del restauro, la salvaguardia dell'antico con la riconoscibilità del nuovo, per resuscitare al massimo il senso e la figuratività dell'immagine. Se, per esempio, si userà una zona a tinta neutra, dovrà bene intendersi la funzione che deve esplicare la cosiddetta tinta neutra, in quanto tinte neutre non esistono e qualsiasi colore finisce per collaborare coi colori a cui è messo accanto. Poiché dunque tale connessione è inscindibile, non va ignorata, ma sfruttata, nel senso che si dovrà utilizzare la possibilità che, in connessione con certe zone colorate, un colore possa acquistare una data luminosità o perderla, e situarsi idealmente avanti o dietro alla pittura.
Con questo concetto si operò, all'Istituto centrale del restauro, il restauro del Cristo alla colonna di Antonello da Messina (del Museo Alberoni di Piacenza), lasciando cioè le stuccature nere che si distaccano, vengono avanti, dal dipinto: sembra che, al disotto, continui ancora la pittura. Lo scopo di permettere ai frammenti di riacquistare un senso è dunque raggiunto. Tale scopo non verrebbe invece raggiunto qualora gli affreschi ricostituiti dai frammenti venissero lasciati quasi come un opus incertum o mosaico discontinuo, poiché essenziale ad un'opera d'arte è la tecnica con cui fu concepita, e dalla pittura al mosaico c'è grande diversità d'intenti formali. Sicché se fu un falso onore per il mosaico ascendere alla pittura, si distrugge questa introducendo una ritmazione causale e caotica nell'immagine in cui il ritmo segnato dalla tessera non è previsto. Perciò è irrefutabile compito del restauro di non introdurre elementi formali nuovi nell'opera d'arte. Questa superiore esigenza del restauro va solo contemperata con il divieto del falso: e cioè si localizza il problema nel terreno puramente tecnico. Nel caso degli affreschi in frantumi si è escogitato all'Istituto il sistema, che in tutta Europa e in America è stato suffragato, di un sottile tratteggio ad acquarello, che dalla debita distanza è indistinguibile, e perciò ricostituisce l'unità dell'immagine, mentre da vicino è riconoscibilissimo senza aiuto di lenti o di speciali raggi.
È come l'inserzione di un pezzo di arazzo in una pittura. Per di più, essendo compiuto ad acquarello, garantisce l'impossibilità di qualsiasi sovrapposizione sui pezzi autentici. Con questo sistema è stato possibile, senza commettere falsi, di recuperare larghi frammenti degli affreschi del Mantegna agli Eremitani di Padova, e di ricostruire integralmente quell'unicum che era la cappella Mazzatosta affrescata da Lorenzo da Viterbo nella chiesa di santa Maria della Verità a Viterbo.
La seconda gravissima questione che investe il restauro delle pitture - di colpo assurta in tutta Europa, in questi anni del dopoguerra, a problema centrale del restauro - è quella relativa alla patina e alle puliture. Da un lato si accusa la patina d'essere un concetto romantico, di non consistere che in sporcizia e in vernici ossidate e ingiallite: si sostiene perciò il diritto di arrivare al puro colore restituendo il dipinto come era quando fu eseguito. Dall'altro lato si oppone che l'alterazione dei colori col tempo è assolutamente innegabile e che qualsiasi pretesa di ritrovare i colori come erano al momento della loro stesura è priva di controllo storico e quindi di fondamento. Si obbietta ancora che la patina non è per nulla un concetto romantico, trovandosene già la definizione nel Vocabolario toscano del Baldinucci (1681), e che l'asportazione delle vernici può determinare la rovina delle velature. A proposito delle quali vigeva sinora una vaga credibilità piuttosto che una certezza, e comunque quasi del tutto in relazione alla pittura veneta del Cinquecento e ad essa posteriore. Della prima teoria, che in pratica veniva condivisa e applicata, nell'anteguerra, da quasi tutti i maggiori gabinetti di restauro d'Europa e degli Stati Uniti, si è rivelata massima sostenitrice la Galleria Nazionale di Londra che, in occasione di una grande mostra di dipinti ripuliti negli ultimi anni (1936-47) ha dato e accettato battaglia. Vi erano, fra questi dipinti, opere famose come il Chapeau de paille di Rubens e la Donna al bagno di Rembrandt, per le quali soprattutto si accese un dibattito lungi ancora dall'esser sopito.
Per la seconda teoria si schierò fin dall'inizio l'Istituto centrale del restauro che poté dimostrare l'esistenza di velature e di vernici colorate originarie fin nella Madonna di Coppo di Marcovaldo, firmata e datata nel 1261. Qui si recuperava il più sicuro esempio di quella pittura translucida di cui parla la Schedula di Teofilo. In secondo luogo, anche nel dipinto di Benozzo Gozzoli del 1456, nella Pinacoteca di Perugia, si scopriva un vastissimo impiego di velature, facilmente dimostrabili. E in terzo luogo, nel pannello con il S. Terenzio dell'ancona di Giovanni Bellini a Pesaro (c. 1475), si potevano esibire congiunte la pittura a velatura e la vernice originariamente colorata. L'infittirsi delle documentazioni comprovanti l'esistenza di velature e di vernici colorate proprio in quei secoli e per quelle scuole di pittura (come la fiorentina) in cui nonché negate neppure erano supposte, ha determinato un netto capovolgimento dell'opinione mondiale circa le puliture dei dipinti, che ha avuto la sua espressione pratica nelle discussioni e in un voto emesso dalla prima conferenza biennale del Conseil international des musées a Parigi (28 giugno-3 luglio 1948), per cui la tesi e le documentazioni dell'Istituto centrale del restauro servirono di base. Con la conferma tecnica delle velature e delle vernici colorate, si è venuto a dare una sostantivazione assai maggiore al concetto stesso di "patina", la cui validità in sede storica è confermata dal fatto che essa rappresenta e documenta il passaggio del tempo sull'opera, fa parte cioè dell'incontrovertibilità storica dell'opera stessa. In sede di giudizio estetico non è meno valido il fatto che la patina spenge quella eccessiva evidenza della materia, da cui la concretezza ideale dell'opera d'arte può essere assai più disturbata che aiutata, dovendosi guadagnare all'immagine una sorta di extra-fisicità, acciocché sia distaccata in modo perenne dalla contingenza della materia.
Bibl.: Per la teoria del restauro e l'Istituto centrale del restauro: G. C. Argan, Restauro delle opere d'arte e progettata istituzione di un Gabinetto centrale del Restauro (relazione al Convegno dei sopraintendenti, 4-6 luglio 1938), in Le Arti, 1938, pp. 133-37; id., in Ulisse, agosto 1947; G. C. Argan, C. Brandi, G. De Angelis, P. Romanelli, La Carta del Restauro, in Relazioni per il Convegno dei sopraintendenti (a cura del Min. Ed. Naz.), Roma 1940; C. Brandi, in Phoebus, 1946, nn. 3-4, p. 165; id.,Carmine o della pittura, Firenze 1947; M. Cagiano de Azevedo, Il gusto nel restauro delle opere d'arte antiche, Roma 1948. - Per le teorie sulla pulitura dei dipinti: U. Procacci, Catalogo della Mostra di opere d'arte restaurate (ott.-nov.), Firenze 1946; The National Gallery, An Exibition of Cleaned Pictures (1936-47), Londra 1947; C. Brandi, in Burlington Magazine, 1949 e in Boll. d'arte del Min. della P. I., 1949; Atti della Iére Conférence Biennale du Conseil International des Musées, Parigi 1948; Atti del primo Convegno di Arti figurative (in Firenze), 1948. - Per le questioni scientifiche connesse al restauro: J. Rorimer, Ultra-violet rays and their use in the examination of works of art, New York 1931; U. Mancia, Esame delle opere d'arte ed il loro restauro, Milano 1946, 2 voll.; G. Giovannoni, Il restauro dei monumenti di Roma, Roma s.d.; le annate di Mouseion (Parigi); Technical Studies (Harward Univ.), dal 1932 al 1942; Annali di Chimica applicata, Milano 1946, 2 voll.; Chimica, 1946-48. - Per l'illustrazione dei singoli restauri: Le Arti, 1938-43; il rinato Bollettino d'Arte del Ministero della P. I.; Bollettino dell'Istituto di Patologia del libro, Roma; Proporzioni (Firenze); L'Immagine (Roma); Burlington Magazine (Londra); Gazette des Beaux Arts (New York); Art Bulletin (New York); Phoebus (Basilea); Oud Holland (Amsterdam); oltre i Cataloghi delle 5 Mostre di restauri tenute presso l'Istituto centrale del restauro a Roma e i varî bollettini pubblicati dai musei francesi, belgi, americani.
Il restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra.
I danni arrecati ai monumenti italiani dalle azioni di guerra hanno posto nel campo del restauro problemi, seppur nuovi, tuttavia non estranei all'ordine logico delle idee e dei principî sanciti dalla cosiddetta Carta del restauro. Cosicché, mentre erano ancora in atto le operazioni di guerra, fu possibile alla Direzione generale per le Antichità e le Belle Arti impartire alle sopraintendenze norme di carattere generale da essa Carta derivanti e che trovarono nei tecnici che dovevano interpretarle immediata e intima comprensione.
Veramente, quando le prime bombe avevano cominciato a cadere sulle città italiane e a colpirne i monumenti deturpandoli orrendamente, qualche esteta avanzò la proposta che, nella maggioranza dei casi, o si dovesse demolire quanto di essi era rimasto ancora in piedi per far luogo a nuove costruzioni, o si dovesse fare in modo che i nuovi ruderi restassero tali, e si citava l'esempio di tanti resti dell'antichità che nessuno penserebbe a completare. Ma le nuove vittime della guerra erano parti vive e vitali di organismi vivi essi stessi, espressioni di esigenze tuttavia operanti, e presto da parte di tutti si vide che non era il caso di insistere su affermazioni teoricamente plausibilissime ma praticamente insostenibili, anche perché questi nuovi ruderi erano, tranne casi rarissimi, di una povera macabra bruttezza.. Ma non tutti i monumenti colpiti potevano essere restaurati. Talora, infatti, come per la chiesa di S. Biagio a Forlì, o per quelle di S. Maria in Porto Fuori a Ravenna, di S. Girolamo a Rimini, di S. Maria in Porto Salvo a Palermo, per non citare il caso della chiesa dell'Abbazia di Montecassino, quello che era stato un edificio armonicamente composto, mirabilmente decorato, ricco di tante testimonianze di una lunga vita civile era ormai ridotto un cumulo di polvere e calcinacci. Nulla da fare; e nulla è stato fatto. In qualche altro caso invece, sebbene ciò che rimaneva in piedi non fosse passibile di un restauro che non significasse falsificazione, non s'è voluto perdere la testimonianza di organismi architettonici di indiscusso valore e s'è conservato quanto di essi rimaneva, anche se si è dovuto dar loro un ordinamento diverso da quello che gli edifici erano venuti assumendo nel corso dei secoli; così ci si è accontentati di consolidare i resti della duecentesca chiesa di S. Maria in Flumine a Ceccano, mentre la sopravvissuta navata di destra della chiesa del Carmine a Cagliari, ricomposta con gli elementi originarî, sarà trasformata in portico prospiciente un giardino.
Ovunque, tuttavia, i primi lavori intrapresi furono quelli destinati ad impedire un ulteriore deperimento dell'edificio colpito con puntellamenti, coperture e recinzioni provvisorie, mentre veniva compiuto un accurato lavoro di cernita delle macerie per recuperare tutti quegli elementi architettonici e decorativi che avessero il benché minimo interesse per un eventuale opera di reintegrazione.
Anche per i restauri determinati da danni di guerra si possono distinguere: opere di consolidamento, di ricomposizione, di completamento, di innovazione e di liberazione; ma molto spesso in uno stesso edificio si sono dovuti intraprendere lavori che presentavano contemporaneamente tutte queste esigenze.
Sulle opere di consolidamento non è il caso di soffermarsi in maniera particolare, rientrando esse nella normale pratica dell'ingegneria e dell'arte muraria. Si dirà soltanto che non si è esitato a intraprendere complessi e difficili lavori per consolidare e raddrizzare tratti di muratura o conservare o reimpiegare elementi architettonici originarî quali colonne, capitelli e cornici che sarebbe stato pìù comodo e facile abbattere o sostituire. E ciò non tanto per il timore che altri potesse essere tratto in inganno, scambiando le parti rifatte per l'antico, quanto per un imperioso bisogno di sincerità e di rispetto per le testimonianze del passato.
I restauri di ricomposizione sono stati in certo qual modo quelli più numerosi e quasi sempre i più interessanti. In questo campo anzi le differenze tra i restauri dei tempi normali e quelli derivanti da danni di guerra sono state più chiare. In tempi normali i restauri ad antichi edifici, quasi sempre determinati da esigenze di carattere estetico, erano stati preceduti da studî e saggi accurati. Ora una fulminea azione di guerra aveva deturpato e rotto un complesso organismo, colpendolo in parti talora vitalissime. Ecco allora, puntellati i resti, la necessità di un'accurata cernita delle macerie per recuperare, in vista dell'auspicata opera di ricomposizione, non solo ogni utile elemento architettonico e decorativo, ma ogni pietra che potesse tornare al suo posto. In ciò anche sorretti dal pensiero che mentre in un'architettura le armonie ad essa derivanti dagli accordi di linea e di massa, di spazio e di peso, erano già tutte risolte nella fantasia dell'architetto e quindi nell'ideazione del suo progetto, conoscendosi quel progetto, meglio si sarebbe potuto completare l'opera nelle parti mancanti, senza pericolo d'incorrere in arbitrarie interpretazioni o incaute falsificazioni ove gli elementi architettonici e decorativi suddetti e che rappresentano la parte di individuale insostituibile contributo degli antichi artisti ed artigiani, fossero stati ricollocati al loro posto.
In altri termini, non si è esitato a intraprendere opere di ricomposizione anche di notevole entità, ricostituendo le parti mancanti dell'ossatura muraria di un monumento ed inserendo nei tratti ricostruiti tutti quegli elementi dell'edificio antico che è stato possibile recuperare.
Per le parti poi che erano andate in briciole s'è fatto in modo che ripetendone le forme esse fossero chiaramente differenziate dalle antiche o per il materiale, o per la tecnica impiegata nella lavorazione, o per il grado di finitura e più ancora per lo spirito deliberatamente diverso con cui sono state eseguite. Spesso con un'iscrizione o una data si sono indicati i limiti del restauro; ciò è avvenuto anche quando si sono dovuti rifare paramenti o cortine di pietra o di mattoni. Pur differenziando, cioè, si è cercato di intonare con quanto v'era d'antico e ciò per la necessità di rendere comprensibili anche nel loro significato unitario, gli elementi altrimenti slegati di un tutto originariamente armonico, senza per questo compromettere il valore e la chiara lettura di quei singoli elementi originarî.
Esempî caratteristici di questo sistema di lavoro, valso a dare nuova vita a monumenti che subito dopo il disastro talvolta s'è pensato sarebbero stati perduti per sempre, sono la ricomposizione del cortile dell'antico Archiginnasio e quella dell'angolo del palazzo della Mercanzia a Bologna, quella della chiesa di S. Giovanni in Zoccoli e del chiostro di S. Maria della Verità a Viterbo, quella dell'arco delle Scalette a Vicenza, quella di gran parte della facciata e di una navata della chiesa di S. Maria Maggiore a Treviso, ecc. In questo gruppo di opere va posta anche l'auspicata ricomposizione, con gli elementi raccolti sul greto e sul fondo dell'Arno, del ponte a Santa Trinita a Firenze. Molte volte è difficile determinare i limiti, d'altronde utili solo per una scolastica classificazione, tra restauri di ricomposizione e restauri di completamento, anche perché spesso - è il caso del restauro del prospetto della basilica di S. Lorenzo fuori le Mura a Roma - essi si integrano e si completano. Infatti, mentre per il portico della basilica è stato possibile procedere ad un restauro accuratissimo di ricomposizione delle colonne, dei capitelli e del fregio romanici crollati recuperando e ricollocando in opera ogni minimo frammento, per la retrostante facciata, completamente abbattuta nella parte superiore, una volta decorata con mediocri pitture ottocentesche, s'è preferito ritirar su un prospetto nelle linee simile ma non identico all'antico e privo, naturalmente, di ogni decorazione pittorica.
In questo campo hanno particolare interesse alcune ricostruzioni di cupole, fra le quali si ricorda quella della basilica minore dell'Osservanza nei pressi di Siena.
Talvolta, invece, non era consigliabile ricostruire con forme identiche a quelle antiche le parti abbattute di un edificio e allora non si è esitato a portarvi delle innovazioni. È stato il caso dell'abside e della zona presbiteriale settecentesca del Tempio Malatestiano di Rimini, che sono state ritirate su con qualche modifica rispetto all'antico, mentre per la collegiata di Empoli il campanile, che era stato abbattuto completamente dalle mine tedesche, ripete lo schema degli antichi volumi ma è spoglio degli elementi decorativi romanici, goticizzanti e rinascimentali che l'adornavano e che sono andati in briciole. Anche in questo caso non si è esitato ad usare forme del tutto moderne che si intonassero, pur differenziandosi, con quanto intorno rimaneva d'antico. E se questo è stato possibile in complessi ove gli elementi antichi erano tuttavia preponderanti, a maggior ragione, seppure in senso inverso, s'è fatto per quei progetti di ricostruzione di alcuni edifici monumentali, quali la cattedrale di Benevento, nei quali gli elementi antichi rimasti in piedi sono ben poca cosa rispetto alla massa della ricostruzione. Cioè s'è fatto in modo che gli elementi antichi utilizzati nel nuovo edificio non costituissero per esso una nota discordante.
Talvolta la violenza delle azioni belliche ha invece rivelato elementi che hanno orientato i restauratori verso la soluzione di alcuni problemi, che altrimenti forse mai sarebbero stati praticamente impostati e risolti. La bomba che ha sfondato il tetto, aprendo una voragine nel mezzo della navata maggiore nella basilica di S. Lorenzo a Roma, ha rivelato proprio nel punto nel quale è caduta alcune interessantissime strutture del sec. IV che, debitamente studiate, sposteranno di molto le convinzioni fino ad oggi correnti circa la complessa storia di questa famosissima costruzione.
E va anche ricordato ciò che è avvenuto a Palestrina, dove la distruzione di tanta parte dell'antico abitato, bombardato "a tappeto" ha rimesso in luce le strutture degradanti alla pianura del grandioso tempio della Fortuna, che ora vengono debitamente consolidate e restaurate; così quanto è avvenuto a Napoli per la chiesa di S. Eligio ove, in seguito ai restauri resisi necessarî pei bombardamenti, sono state poste in luce bellissime strutture dell'antico organismo gotico. E gli esempî si potrebbero moltiplicare.
A questi restauri determinati, a causa della guerra, da esigenze di carattere statico o conservativo uno se ne aggiunge - e forse è quello nel quale per l'importanza dell'edificio stesso e l'estrema delicatezza dell'operazione s'è maggiormente impegnato il senso di responsabilità dei funzionarî delle Belle Arti - dovuto esclusivamente ad esigenze di carattere estetico: il restauro si vuol dire di tutta la zona albertiana all'esterno del Tempio Malatestiano a Rimini. Qui gli spostamenti d'aria e i violenti scuotimenti del terreno colpito da grappoli di bombe presso il sagrato del tempio avevano provocato una notevole inclinazione del muro di facciata, soprattutto verso lo spigolo di destra e avevano aperto notevoli crepacci lungo le archeggiature dei fianchi. Danni che, una volta riparati quelli all'interno della costruzione, non avrebbero certo compromesso minimamente la statica dell'edificio, d'altra parte subito consolidato con iniezioni di malte cementizie.
Ma quegli strapiombi e quei crepacci dei fianchi guastavano la cristallina purezza dell'architettura albertiana in maniera veramente sgradevole, tanto da infirmare alcuni dei valori più significativi del monumento. Così non si è esitato, dopo accuratissimi studî e approfondite discussioni e dopo aver eseguito un diligente rilievo di tutto l'esterno dell'edificio, a procedere al suo sistematico smontaggio, numerando le pietre una per una, fotografandole, ed eseguendo perfino dei calchi perché rimanesse più viva la documentazione del loro digradare e delle loro connettiture. Quindi, dissaldati con grande cautela i giganteschi blocchi di pietra, questi sono stati tolti d'opera con precauzioni infinite e allineati sul terreno finché ricollocato lo stilobate al giusto livello, i fianchi sono stati ricomposti senza il minimo incidente; e tutte le pietre hanno ritrovato con matematica precisione gli antichi legamenti. Nel gennaio 1949 è cominciato il lavoro della facciata, che certo sarà compiuto entro l'anno.
Bibl.: G. De Angelis d'Ossat, Rispettiamo le nostre antiche belle città, in Urbanistica, 1944, p. 86; G. Giovannoni, Il restauro dei monumenti, Roma 1945; R. Pane, Il restauro dei monumenti, in Aretusa, I, 1944, fasc. I; E. Lavagnino, Il restauro del Tempio Malatestiano, in Nuova Europa, 5 agosto 1945; id., Offese di guerra e restauri al patrimonio artistico d'Italia, in Ulisse, 1947; A. Annoni, Scienza ed arte del restauro architettonico, Milano 1946; G. Levi Montalcini, Criteri d'ordine estetico e spirituale nella ricostruzione dei centri e monumenti storici, in Tracciati, n. 7; M. Zocca, Il restauro dei monumenti e la sistemazione delle zone monumentali ed ambientali, in Urbanistica ed Edilizia in Italia, Roma 1948, pp. 137-63.
Restauro dei libri e dei manoscritti (p. 136).
Le più recenti ricerche hanno chiaramente messo in luce la necessità di considerare le alterazioni del libro sia sotto l'aspetto fisico sia sotto quello biologico allo scopo di identificarne la natura e la genesi. Questo principio è stato realizzato negli ultimi tempi in Italia, oltre che dai ricordati gabinetti di restauri della Biblioteca Vaticana e della badia di Grottaferrata, dall'Istituto di patologia del libro nei cui reparti (bibliologia, biologia nelle sue sezioni di entomologia, micologia e batteriologia libraria, chimica, fisica, tecnologia) si procede ad accertamenti preliminari e si studiano interventi adeguati ai varî generi di alterazioni, procedendo altresì a disinfestazioni razionali nonché a collazioni, indagini ottiche, e simili; quindi, eventualmente, a lavaggi detersivi e decoloranti che non disturbino in alcun modo l'integrità dei testi, gelatinature, spianamenti, rattoppi e ricomposizioni. Di grande utilità si sono mostrate alcune sostanze chimiche recentemente scoperte. Anche all'estero si sono realizzati grandi progressi: oltre che nelle biblioteche danneggiate dalla guerra, larga applicazione hanno avuto i procedimenti moderni nel restauro di manoscritti e stampati (tra cui periodici) della Biblioteca nazionale di Lima, gravemente deteriorati dall'incendio del 10 maggio 1943. V. anche libro: Le malattie del libro, in questa App.
Bibl.: A. Gallo, Le malattie del libro, Milano 1935; id., Palinsesti e scritture sbiadite, in L'Italia che scrive, 1941; Straight, Repairing of Books, in Public Libraries, Chicago 1936; R. Cantarella, L'Officina dei Papiri ercolanesi, in Rivista di studi pompeiani, III, 1939; Barrow, Procedures and Equipment in the Barrow method of restoring Manuscripts and Documents, Virginia 1943.