Rivoluzioni agricole
di David B. Grigg
L'espressione 'rivoluzione agricola' è stata impiegata per descrivere una varietà di fenomeni eterogenei, verificatisi in differenti aree geografiche e in diverse epoche storiche. In tempi recenti, ad esempio, la stessa locuzione è stata usata per indicare sia la prima domesticazione delle piante, sia i mutamenti che verranno apportati in futuro dai progressi della biotecnologia.Introdotto per la prima volta per designare le trasformazioni dell'agricoltura verificatesi in Inghilterra tra il XVIII e il XIX secolo, il concetto di rivoluzione agricola è stato applicato da allora anche ad altri contesti geografici - la Francia, gli Stati Uniti, l'Europa occidentale nel suo complesso, il meridione francese e italiano, la Scozia, la Germania e l'Asia moderna - e a differenti periodi storici: rivoluzioni agricole sono state individuate ad esempio in Inghilterra, nel XVI secolo, tra il 1560 e il 1767, dopo il 1760, tra il 1815 e il 1845, e dopo il 1945; negli Stati Uniti tra il 1810 e il 1860, tra il 1869 e il 1939, e dopo il 1940. Non esiste peraltro uniformità di vedute sugli elementi che concorrono a definire una rivoluzione agricola. Secondo alcuni autori il fattore decisivo sarebbe il passaggio dalla produzione per la sussistenza alla produzione per il mercato, mentre altri attribuiscono un ruolo di primo piano ai mutamenti istituzionali, come la recinzione delle terre comuni e l'abolizione della servitù della gleba; per gran parte degli studiosi però la condizione essenziale perché si abbia una rivoluzione agricola è l'adozione di nuove tecnologie. Non sorprende pertanto che molti abbiano cominciato a mettere in dubbio la validità del concetto stesso; come ebbe a scrivere Folk Dovring una ventina d'anni fa, il concetto di rivoluzione agricola "è stato abusato al punto da perdere ogni significato preciso".
E tuttavia quello di rivoluzione agricola, così come quello di rivoluzione industriale, è un concetto troppo ben consolidato e troppo utile perché se ne possa fare a meno, tanto che se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Nella sua accezione più rigorosa, esso designa la fase di transizione dall'agricoltura tradizionale dell'Europa occidentale medievale e moderna a quella dell'Europa industrializzata. Spesso però, come abbiamo già osservato, si definisce rivoluzione agricola qualsiasi transizione dall'agricoltura tradizionale a quella moderna - ad esempio le trasformazioni avvenute in Giappone nella seconda metà dell'Ottocento, o la 'rivoluzione verde' in Asia dopo gli anni sessanta. In questo modo il concetto diventa eccessivamente generico, perdendo ogni specificità storica. Sarebbe forse meglio allora restituirgli il suo significato originario, impiegandolo per designare gli importanti mutamenti verificatisi nell'Europa occidentale prima e durante le fasi iniziali dell'industrializzazione; elementi essenziali della rivoluzione agricola così intesa furono l'abolizione delle barriere istituzionali alle innovazioni, l'introduzione di nuove tecnologie e l'incremento della produzione e della produttività. Essa favorì l'industrializzazione e sostenne l'incremento demografico verificatosi nel XIX secolo, ed ebbe termine quando la quota della popolazione attiva impiegata nell'agricoltura cominciò a declinare, e quando le macchine e altri inputs industriali cominciarono a sostituire gli inputs tradizionali prodotti all'interno dell'azienda agricola.
Sebbene Karl Marx fosse tra i primi a impiegare la locuzione 'rivoluzione agricola' - così come a Engels si deve la prima definizione della rivoluzione industriale - fu Toynbee a rendere popolari entrambi i concetti con la sua opera Lectures on the industrial revolution in England, anche se egli definì "rivoluzione agraria" il complesso di trasformazioni cruciali intervenute nell'agricoltura, che a suo avviso corsero parallelamente alla rivoluzione industriale. Fu comunque R.E. Prothero, in seguito lord Ernle, a fornire l'interpretazione più influente delle trasformazioni delle campagne inglesi nel XVIII secolo nei due saggi The pioneers and progress of English farming (1888) ed English farming past and present (1912). L'interpretazione della rivoluzione agricola avanzata da Ernle (il quale peraltro si servì raramente di questa locuzione) non era nuova; i suoi elementi di fondo si ritrovano nella maggior parte delle storie dell'Inghilterra e dei trattati di agronomia dell'epoca vittoriana. Ernle però ampliò notevolmente queste prime analisi, e grazie alla sua esperienza di giornalista e di scrittore la sua esposizione risultò scritta in modo più elegante e più accessibile di quanto non lo fossero le precedenti trattazioni sull'argomento. Per gran parte del XX secolo pressoché tutte le storie economiche della Gran Bretagna descrissero la rivoluzione agricola nei termini proposti da Ernle, e la sua interpretazione del fenomeno rimase indiscussa sino agli anni sessanta. Secondo Ernle, prima del 1760 vi erano stati ben pochi progressi nell'agricoltura inglese, sebbene già verso la metà del XVII secolo fossero state introdotte nuove e importanti colture quali la rapa e il trifoglio. Il principale ostacolo all'adozione di nuove tecnologie era rappresentato dall'esistenza dei campi aperti e delle terre comuni; le cosiddette enclosures, avviate a partire dal 1760 per decisione del Parlamento inglese e virtualmente concluse nel 1820, eliminarono progressivamente tale ostacolo, favorendo l'adozione di una serie di innovazioni. Le più importanti furono la rotazione quadriennale delle colture, che prevedeva l'alternanza di cereali e piante foraggere quali la rapa e il trifoglio; l'uso della zappacavallo, la macchina a trazione animale per la sarchiatura del terreno inventata da Jethro Tull; la seletto-coltura del bestiame, e infine un uso più intensivo di concimi organici. La rotazione quadriennale introdotta nel Norfolk fu al centro di questa rivoluzione. Le rape, seminate a filari, potevano essere sarchiate durante la crescita eliminando la necessità di lasciare il campo a maggese, sistema che aveva come scopo principale appunto quello di consentire la ripulitura del terreno dalle erbacce. Le rape venivano date al bestiame come foraggio e pascolate in situ dalle greggi, il cui letame concimava il terreno accrescendone la fertilità. La coltivazione annuale del trifoglio o di altre leguminose arricchiva il suolo di azoto, grazie ai noduli presenti nelle radici di queste piante che consentono la fissazione di questo elemento. Questo sistema integrava agricoltura e allevamento del bestiame, che diventavano interdipendenti e si avvantaggiavano reciprocamente, eliminava la necessità di tenere i campi a maggese e incrementava la produzione agricola in termini sia di raccolti che di prodotti derivati dall'allevamento del bestiame.Un ruolo fondamentale nella rivoluzione agricola inglese era attribuito da Ernle ai grandi proprietari - in particolare alle famiglie dei Walpole, dei Townshend e dei Coke nel Norfolk - che si fecero promotori delle innovazioni e incentivarono gli affittuari ad adottarle garantendo loro contratti di locazione a lunga scadenza. Sul XIX secolo Ernle dice assai meno, limitandosi ad affermare che fu anch'esso un periodo di rivoluzione agricola, il quale vide la diffusione dei fertilizzanti artificiali, l'introduzione del drenaggio sotterraneo e del panello di soia come mangime per il bestiame. Gli anni compresi tra il 1837 e il 1874 vengono definiti da Ernle un periodo di "agricoltura altamente evoluta". Giunti a questa data, la rivoluzione agricola aveva investito quasi tutta la campagna inglese.
Nella prima metà del XX secolo il concetto di rivoluzione agricola era entrato stabilmente nell'uso tra gli storici dell'economia inglese, e cominciò a essere impiegato come modulo interpretativo anche per altri contesti geografici. Gli studiosi statunitensi ne ampliarono l'accezione includendovi ulteriori elementi quali la commercializzazione dell'agricoltura, l'applicazione della scienza, la meccanizzazione e il trasferimento della lavorazione dei prodotti alimentari dalle aziende agricole alle industrie. Ma gli storici americani avevano a che fare con un periodo più tardo rispetto a quello della rivoluzione agricola inglese, e con istituzioni molto diverse. Negli Stati Uniti la disponibilità di terra ebbe un ruolo di grande rilievo, mentre la recinzione delle proprietà comuni e l'abolizione della servitù della gleba furono del tutto irrilevanti, sebbene lo schiavismo sia esistito nel Sud sino al 1864.
Il concetto di rivoluzione agricola fu adottato dallo storico Marc Bloch per descrivere un complesso di trasformazioni dell'agricoltura francese analoghe a quelle che si erano verificate in Inghilterra, in particolare l'abolizione delle terre comuni e l'introduzione di nuove tecnologie. Bloch riteneva che tali cambiamenti avessero avuto inizio verso la fine del XVIII secolo, e questa ipotesi è stata ripresa in seguito da altri storici. La produzione alimentare in Francia avrebbe avuto un tetto determinato dall'immobilismo sul versante delle innovazioni e dalla precoce occupazione di tutta la superficie coltivabile. Di conseguenza, tra il 1100 e il 1750, le fasi di crescita demografiche venivano periodicamente interrotte da un calo della produzione di cibo pro capite. La situazione cambiò dopo il 1750, quando l'incremento della produzione alimentare determinato dalla rivoluzione agricola inaugurò una nuova fase di crescita demografica. Secondo altri autori, però, la produzione di cibo pro capite in Francia rimase immutata sino a buona parte del XIX secolo.
La lettura della rivoluzione agricola inglese fornita da Ernle rimase dominante con poche modifiche sino agli anni sessanta, ma da allora in poi è stata oggetto di numerose critiche. Un vigoroso attacco fu condotto da Eric Kerridge (v., 1967) nell'opera The agricultural revolution, in cui sostenne che le trasformazioni più significative avvennero tra la fine del XVI e la metà del XVIII secolo; dopo di allora non vi sarebbero stati cambiamenti di rilievo. Le nuove colture della rapa e del trifoglio sarebbero state adottate assai prima di quanto riteneva Ernle, mentre nel XVII secolo furono introdotte altre, ben più importanti innovazioni, in particolare il sistema dell'avvicendamento colturale; infine, la recinzione delle terre non sarebbe avvenuta nel XVIII secolo per decisione del Parlamento, ma per via consensuale nel secolo precedente. Altri studiosi hanno dimostrato che prima del 1760 l'agricoltura subì mutamenti assai più importanti di quanto non pensasse Ernle, e alcuni econometristi hanno sostenuto che il ritmo di crescita della produzione agricola globale fu più rapido prima del 1740 che non nel periodo successivo. Inoltre è opinione concorde che i tre quarti dei terreni inglesi fossero già recintati nel 1760 - la metà lo era già nel Cinquecento. Secondo un'altra ipotesi, non condivisa peraltro da tutti gli studiosi, anche in Inghilterra così come in Francia non si ebbe alcun incremento significativo della produzione agricola sino al XIX secolo. Ernle stesso del resto, pur dando grande rilievo all'introduzione di nuove tecniche nel Settecento, aveva riconosciuto che l'incremento della produzione verificatosi in questo secolo non era paragonabile a quello di cui sarà testimone il secolo successivo.
Se per gli storici contemporanei l'elemento essenziale della rivoluzione agricola è un'accelerazione nel ritmo di incremento della produttività, un ruolo altrettanto importante venne attribuito dagli autori dell'Ottocento - di qualunque orientamento politico - al cambiamento istituzionale, considerato un prerequisito essenziale per l'introduzione di nuove tecnologie. Secondo Marx, ad esempio, la rivoluzione agricola ebbe inizio alla fine del XV secolo, e fu caratterizzata dalla concentrazione della proprietà terriera nelle mani di un numero relativamente ristretto di grandi latifondisti a seguito della eliminazione dei piccoli e medi proprietari, trasformati in manodopera salariata alle dipendenze dei fittavoli delle grandi tenute. Anche Ernle considerava il cambiamento istituzionale un prerequisito essenziale delle innovazioni; la recinzione delle terre avrebbe fatto da catalizzatore. I campi aperti, secondo Ernle, presentavano pochi vantaggi. I terreni comuni erano lasciati a pascolo e spesso il suolo risultava danneggiato dal bestiame, che non era sottoposto ad alcun sistema di allevamento controllato per migliorare la qualità delle specie. L'esistenza dei campi aperti costituiva un ostacolo a gran parte dei miglioramenti agricoli. L'area coltivabile intorno ai villaggi era divisa in un certo numero di campi - di solito da tre a cinque - i quali erano a loro volta suddivisi in appezzamenti lunghi oltre 180 metri e larghi circa 18. Né i singoli appezzamenti né i campi erano recintati da siepi, muri o steccati. Ogni anno uno dei campi lasciato a maggese per poter essere ripulito dalle erbacce veniva adibito a pascolo, come tutta la terra dopo il raccolto. Gli appezzamenti dei singoli contadini non formavano blocchi unici, ma erano divisi in strisce di terra sparse tra i vari campi, sicché le terre dell'uno intersecavano spesso quelle dell'altro. Questo sistema non solo ostacolava la realizzazione di miglioramenti, come ad esempio il drenaggio sotterraneo, ma obbligava anche i contadini a seminare e a raccogliere le stesse colture nello stesso tempo; finché i campi non vennero recintati, quindi, né le rape né il trifoglio poterono essere coltivati a rotazione.Il sistema dei campi aperti ovviamente non era una prerogativa dell'Inghilterra, ma era diffuso in tutta l'Europa settentrionale dalla Loira alla Russia. In gran parte dell'Europa centrale e orientale la servitù della gleba perdurò sino al XIX secolo, rendendo impossibile un rapido progresso dell'agricoltura. Le recinzioni dei campi aperti furono attuate nell'Europa nordoccidentale a partire dal XVII secolo, ma con notevoli differenze da paese a paese. In Inghilterra, in Danimarca, nella Svezia meridionale e in alcune regioni della Germania nordoccidentale le enclosures misero fine al possesso collettivo della terra coltivabile, eliminarono la necessità di lasciare i campi a maggese, fecero sì che le terre comuni tenute a pascolo fossero divise tra singoli proprietari, e comportarono l'unificazione dei poderi: il vecchio sistema degli appezzamenti sparsi tra i vari campi venne abolito, e i contadini ricevettero blocchi di terra unificati. I campi divennero assai più estesi, e furono recintati da siepi o muri; alla fine i contadini abbandonarono le loro case nei villaggi per insediarsi al centro dei loro poderi. Ciò portò anche alla costruzione di nuove strade e di nuovi edifici rurali, e il paesaggio di gran parte dell'Europa nordoccidentale risultò trasformato. In Inghilterra la recinzione delle terre, assieme ad altri fattori, portò a un progressivo aumento della dimensione delle proprietà, sebbene le stime dei contemporanei e in seguito degli storici siano forse esagerate per eccesso. Secondo le prime stime attendibili, risalenti al 1851, in Inghilterra e nel Galles un quinto di tutti i fondi di più di due ettari non raggiungeva gli otto ettari, e il 40% aveva dimensioni inferiori ai venti ettari. I fondi superiori ai 120 ettari costituivano solo l'8%, sebbene occupassero un terzo della superficie coltivabile. Solo in Danimarca, nella Francia settentrionale e nella Germania orientale vi era una situazione analoga, mentre nella Germania occidentale e in Italia predominavano le proprietà di piccole dimensioni. Solo in questo secolo, e soprattutto a partire dal 1945, il loro numero è radicalmente diminuito. In gran parte dell'Europa occidentale, fatta eccezione per l'Inghilterra, la Svezia, la Danimarca e alcune regioni tedesche, vi furono ben pochi progressi in direzione dell'unificazione degli appezzamenti. In Francia, nel 1882 il podere medio era costituito da 22 appezzamenti sparsi, e ancora nel 1950 da un terzo alla metà circa della superficie coltivabile in Europa era frammentata. Di conseguenza l'esistenza di grandi fondi, che pure fu una caratteristica dell'Inghilterra durante la rivoluzione agricola, non costituiva una condizione essenziale per l'adozione di nuove tecniche; queste infatti per lo più richiedevano un impiego intensivo di manodopera e potevano essere applicate vantaggiosamente anche in fondi frammentati e di piccole dimensioni. Nel XIX secolo in molte aree dell'Europa occidentale dove predominava la piccola proprietà si ebbe un rapido incremento della produzione agricola, e anche l'adozione di varietà di piante altamente produttive, di fertilizzanti e di pesticidi in Asia a partire dagli anni sessanta (la cosiddetta 'rivoluzione verde') avvenne in regioni in cui le proprietà erano estremamente frammentate. Ciò si spiega con il fatto che nelle rivoluzioni agricole del XVIII e del XIX secolo la meccanizzazione ebbe un ruolo del tutto marginale. Sino alla prima metà dell'Ottocento venivano usate ben poche macchine agricole, sebbene gli attrezzi fossero stati perfezionati: l'aratro di ferro aveva rimpiazzato quello di legno, e la falce aveva sostituito il falcetto nella mietitura del grano. Tali innovazioni erano possibili e vantaggiose anche in fondi frammentati e di piccole dimensioni, mentre l'impiego delle mietitrici meccaniche e, nel XX secolo, dei trattori richiede appezzamenti di maggiore estensione.
È stato sempre sostenuto, sia dagli autori del XVIII secolo che dagli economisti moderni e dalla maggior parte degli storici dell'economia, che i contadini tendono a essere refrattari alle innovazioni, che in genere comportano l'assunzione di rischi, a meno che non possano trarne un vantaggio diretto. Per beneficiare delle innovazioni i fittavoli devono poter contare su contratti di locazione a lunga scadenza, e non saranno disposti a effettuare investimenti che non arrecano profitti nel breve periodo, né ad adottare nuove tecnologie se i profitti che ne derivano andranno ai proprietari sotto forma di un aumento del canone d'affitto. Nell'epoca feudale quindi gli affittuari difficilmente erano innovatori; nel XVI secolo però nell'Europa occidentale gran parte dei vincoli feudali - compresa la servitù della gleba, che invece nell'Europa orientale venne introdotta proprio in questo periodo - era in declino o del tutto scomparsa, sicché l'ondata di leggi che abolivano la servitù e altri vincoli feudali, iniziata nel Regno di Sardegna nel 1771 e terminata in Russia nel 1861, ebbe in pratica uno scarso impatto nei paesi occidentali, dove i contadini erano già diventati proprietari o fittavoli con contratti di locazione a lunga scadenza. In Inghilterra i possidenti erano un numero notevolmente ristretto; affinché i contadini effettuassero miglioramenti a lungo termine occorreva quindi garantire loro la sicurezza della locazione; a ciò si provvide attraverso la stipula di contratti a lunga scadenza, di venti o più anni, oppure di contratti annuali che prevedevano un indennizzo al precedente locatario per i miglioramenti da questi apportati al fondo. Gli autori del XIX secolo illustrarono esaustivamente i rispettivi vantaggi della condizione di proprietario e di quella di affittuario. I proprietari avevano la sicurezza del possesso, non dovevano pagare alcun affitto e beneficiavano appieno dei vantaggi apportati dai miglioramenti che avessero effettuato; d'altro canto avevano di rado capitali sufficienti per realizzare miglioramenti sostanziali, ed erano costretti a limitarsi a quelli che era possibile effettuare impiegando solo il proprio lavoro. In Inghilterra i bravi proprietari- che costituivano la maggioranza - provvedevano a tutti i miglioramenti del capitale fisso, mentre gli affittuari fornivano solo il capitale circolante. Alla fine del XIX secolo, epoca a cui risalgono le prime stime attendibili, in Danimarca i nove decimi degli agricoltori erano proprietari, in Olanda più della metà, in Francia i due terzi, in Germania e in Svizzera i quattro quinti, e solo un decimo in Inghilterra.
Queste stesse tesi vennero riprese in gran parte negli anni cinquanta e sessanta dagli economisti che si trovavano ad affrontare il problema dello sviluppo agricolo nel Terzo Mondo. Si pensava così che gli affittuari difficilmente avrebbero introdotto delle innovazioni, in quanto potevano facilmente essere sfrattati o vedersi aumentato il canone. La condizione essenziale per il progresso agricolo sarebbe stata una riforma agraria che limitasse il potere dei grandi possidenti o trasformasse gli affittuari in proprietari. Tuttavia quando il progresso arrivò, non fu limitato alle aree in cui i contadini erano proprietari.
Al pari di molti altri storici, Ernle attribuiva un ruolo di primo piano all'adozione di nuovi metodi; di fatto per la maggioranza degli studiosi le innovazioni tecnologiche costituiscono di per sé una rivoluzione agricola. Tuttavia si è dimostrato notevolmente difficile ricostruire la diffusione di nuovi attrezzi e nuove colture prima del XX secolo. Si tratta del resto di un problema che sussiste ancor oggi; esistono ad esempio poche stime attendibili sulla diffusione delle varietà di cereali altamente produttive in Asia. La comparsa di una nuova tecnologia viene in genere utilizzata dagli studiosi per segnalare una tappa ulteriore nel processo di trasformazione dell'agricoltura ma le innovazioni ebbero una diffusione assai lenta; a cavallo tra Settecento e Ottocento sir Coke, conte di Leicester, fervente sostenitore dei nuovi metodi nel Norfolk, calcolava che le innovazioni da lui introdotte avessero un ritmo di diffusione di un miglio all'anno. Il processo di diffusione procedette in effetti con estrema lentezza; alla metà del XVII secolo, ad esempio, il trifoglio e la rapa rappresentavano ancora una novità nell'Anglia orientale, e raggiunsero la massima diffusione in Inghilterra solo tra gli anni sessanta e settanta dell'Ottocento. Col passare del tempo tuttavia la diffusione di nuove tecnologie assunse un ritmo più rapido: i primi esperimenti col trattore, ad esempio, risalgono all'ultimo decennio dell'Ottocento, e negli anni sessanta del nostro secolo il cavallo cessa di essere registrato nelle statistiche relative all'agricoltura britannica.
Già prima del Seicento, naturalmente, vi erano state delle innovazioni nell'agricoltura, ma quelle introdotte in questo secolo ebbero un'importanza cruciale. In primo luogo vi furono le nuove colture; la coltivazione delle leguminose come il trifoglio e l'erba medica si rivelò estremamente vantaggiosa in quanto queste piante, oltre a fornire erba da pascolo e fieno, rendevano il suolo più fertile arricchendolo di azoto. In Inghilterra la coltivazione della rapa, e in seguito di radici da foraggiamento come il navone o rapa svedese, ebbe un'importanza di primo piano; seminate a filari - procedimento reso possibile alla fine del XVIII secolo dalla versione perfezionata della seminatrice inventata da Jethro Tull - queste colture potevano essere sarchiate durante la crescita, pascolate dalle pecore o date come foraggio al bestiame nelle stalle, il cui letame veniva utilizzato per concimare il terreno aumentandone la fertilità. Sebbene la rapa fosse coltivata nei Paesi Bassi come pianta da foraggiamento ancor prima di essere introdotta in Inghilterra, ebbe scarsa diffusione nell'Europa continentale. Qui venivano coltivate di preferenza la barbabietola da zucchero e la patata, seminate a filari in modo da consentire frequenti sarchiature nel corso della crescita. Dalle barbabietole si estraeva lo zucchero, e le polpe residue venivano utilizzate come mangime per il bestiame.Particolarmente importanti furono le colture importate dal Nuovo Mondo. Se il tabacco si diffuse solo in Grecia e in Turchia i pomodori - di cui nel XIX secolo si ottenne una varietà superiore con l'impollinazione diretta - divennero un'importante coltura commerciale nell'area mediterranea. Il mais si diffuse lentamente nell'Europa meridionale nel corso del XVI e del XVII secolo. Nell'Aquitania era coltivato a rotazione con il grano, ed era utilizzato sia come alimento per l'uomo che come mangime per il bestiame. In gran parte dell'Europa settentrionale il clima non era adatto alla coltivazione del mais, mentre consentiva la coltivazione della patata, che si diffuse lentamente nel XVII secolo per affermarsi definitivamente nel secolo successivo. Dai tuberi, che venivano utilizzati principalmente come mangime per il bestiame, si ricavavano anche amido e alcol. Nel XIX secolo la patata divenne un importante alimento per l'uomo, e in alcune regioni - la Norvegia occidentale, il Belgio e la Renania - addirittura uno degli elementi principali della dieta. In Irlanda in particolare, all'epoca delle carestie, occupava il 38% della superficie coltivabile.
In secondo luogo vi fu il perfezionamento degli attrezzi agricoli. Nell'Europa settentrionale si era usato per lungo tempo l'aratro a mano, ma la produzione di ferro a buon mercato nel XVIII secolo ne migliorò in misura significativa l'efficienza. Nella mietitura si registrarono scarsi progressi sino al XIX secolo. Nei primi anni dell'Ottocento la trebbiatrice meccanica si diffuse lentamente verso Sud, dalla Scozia all'Inghilterra, e divenne ben presto azionata a vapore, ma l'uso del correggiato persistette a lungo; nel 1850 la metà del grano inglese era ancora trebbiato con il correggiato, che però a distanza di trent'anni scomparve del tutto. Il falcetto fu rimpiazzato dalla falce nell'Europa occidentale all'inizio del XIX secolo. La produzione industriale di macchine agricole risale in larga misura all'Ottocento; tra gli anni trenta e gli anni quaranta di questo secolo si rese disponibile un'ampia varietà di strumenti perfezionati e di macchine, che però trovarono scarso impiego, tranne che nelle grandi aziende agricole dell'Inghilterra orientale e della Francia settentrionale. Infine, vi furono i progressi della zootecnia. Per lungo tempo le pecore erano state allevate principalmente per la lana, ma quando il crescente benessere determinò un aumento della domanda di carni, gli ovini vennero utilizzati anche come animali da macello. I bovini cominciarono a essere selezionati per ottenere razze capaci di fornire più carne e - date le preferenze alimentari del XIX secolo - più grasso. Nell'Ottocento gli allevatori inglesi vendevano razze selezionate di bovini in molte parti del mondo - in particolare la razza Hereford negli Stati Uniti e la Aberdeen Angus e la Hereford in Argentina.
La rivoluzione agricola tradizionale ebbe luogo in gran parte dell'Europa occidentale prima della metà dell'Ottocento, e quindi né le macchine né le nuove fonti di energia vi ebbero un ruolo di rilievo. Nel XVII e nel XVIII secolo i buoi restavano i più importanti animali da tiro; in molte aziende di piccole dimensioni la terra era troppo scarsa per consentire di mantenere sia buoi che cavalli, sicché la vanga svolgeva il lavoro dell'aratro - in particolare in Olanda e in Belgio. Il cavallo era stato impiegato nell'agricoltura sin dal XII secolo, dapprima per erpicare, in seguito per arare, ma sino a buona parte dell'Ottocento il bue rimase l'animale da lavoro privilegiato; persino negli Stati Uniti esso venne rimpiazzato dal cavallo e dal mulo solo tra il 1820 e il 1870. Il cavallo non era più forte, né più economico da mantenere del bue, ma era assai più veloce, requisito che divenne di importanza cruciale quando venne abolito il maggese e si moltiplicarono i raccolti da effettuare nel corso dell'anno. In Inghilterra il bue era stato rimpiazzato già dalla metà del XVII secolo, e all'inizio dell'Ottocento il suo impiego per l'aratura rappresentava una mera curiosità.
Le nuove tecnologie ebbero un ruolo determinante per l'incremento sia della produzione che della produttività, ma si è dimostrato particolarmente difficile ricostruire con esattezza il processo di diffusione di nuove colture e di nuovi metodi, perché sino alla metà dell'Ottocento mancano stime attendibili relative all'agricoltura in qualunque suo aspetto. Per ricostruire la diffusione di un'innovazione è necessario disporre di stime dettagliate relative ai singoli appezzamenti a intervalli regolari, ma informazioni di questo tipo sono abbastanza rare nell'epoca moderna, e mancano del tutto prima del Novecento. Di una certa utilità si dimostrano a questo riguardo gli inventari omologati dei beni mobili e immobili compilati alla morte del contadino. Le informazioni desunte da questi documenti sono state utilizzate per ricostruire la lenta diffusione nel Norfolk e nel Suffolk della rapa e del trifoglio; negli anni venti del Settecento queste colture occupavano rispettivamente il 9% e il 3,5% della superficie coltivabile, e solo alla metà dell'Ottocento arrivarono rispettivamente al 18% e al 20%; poiché il Norfolk era considerato il centro della rivoluzione agricola inglese, questi dati dimostrano con quale lentezza le innovazioni venissero accolte dalla maggioranza degli agricoltori.
I primi studiosi prestarono scarsa attenzione agli effetti del mutamento tecnologico, anche se era implicito in quasi tutte le analisi sulla rivoluzione agricola - tanto in Inghilterra che in Francia o negli Stati Uniti - che essi contribuirono a incrementare la produzione agricola globale e il rendimento dei raccolti. Purtroppo disponiamo di poche stime attendibili che consentano di misurare la produzione agricola dei singoli paesi. I primi dati sulle aree coltivate, sul volume della produzione per ettaro e sul numero dei capi di bestiame relativi all'Europa occidentale e agli Stati Uniti risalgono alla fine del XIX secolo, cosicché solo a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento è possibile misurare il tasso di crescita della produzione complessiva e di quella pro capite. Prima di questa data esistono poche statistiche ufficiali, e le stime dei contemporanei sono difettose. I calcoli relativi al tasso di crescita della produzione agricola prima del XIX secolo sono alquanto ingegnosi ma scarsamente attendibili, e le valutazioni cambiano ad intervalli regolari.
Per i primi studiosi della rivoluzione agricola la misura più ovvia del rendimento era la produzione per ettaro, ma la valutazione di questo parametro presenta notevoli problemi. Poiché le colture e gli animali allevati erano di diverso tipo, idealmente dovremmo disporre di dati relativi al rendimento di ciascuno di essi: il peso del raccolto di ogni singola coltura per ettaro, il volume di latte per mucca, il numero di uova per gallina e il peso delle carni macellate, ma naturalmente tali dati mancano prima dell'epoca moderna. Inoltre, per misurare le variazioni nella produzione globale è necessario conoscere il valore di ogni singola merce, ma stime di questo genere sono assai rare prima del XX secolo. Di conseguenza gli storici si son dovuti basare su dati frammentari relativi al raccolto di grano, la coltura più importante nell'Europa preindustriale. Anche in questo caso peraltro le stime si basano su dati - o piuttosto su congetture fondate - limitati a un'area circoscritta e a un arco temporale piuttosto breve. Non sorprende pertanto che la ricostruzione cronologica degli incrementi della produttività agricola prima del XX secolo resti oggetto di accese controversie, e che le comparazioni tra i diversi paesi siano poco attendibili. Occorre tener presente inoltre che il rendimento dei raccolti può essere misurato in vari modi; nell'epoca medievale e nella prima età moderna esso era espresso dal rapporto tra il peso e il volume delle sementi piantate e il peso e il volume di quelle raccolte. A partire dal XVIII secolo si cominciò a registrare il peso o il volume del raccolto prodotto in una data area.
Di conseguenza vi sono opinioni discordi in merito al momento in cui si verificò l'incremento della produttività agricola. Per quanto riguarda l'Inghilterra, ad esempio, si assume che all'inizio del XIX secolo la produzione di grano fosse superiore a quella del tardo Medioevo, ma quando esattamente si sia verificato l'incremento cruciale resta oggetto di controversia. Il problema risiede non solo nella scarsità e nella inattendibilità delle fonti - l'uso degli inventari omologati è criticato da molti - ma anche nel fatto che le stime riguardano aree relativamente limitate del paese. Inoltre per misurare l'incremento della produttività agricola occorre tener conto non solo delle colture ma anche dell'allevamento del bestiame; uno dei tratti distintivi del XVIII e del XIX secolo infatti fu indubbiamente la crescente proporzione del valore della produzione zootecnica.
Esistono dunque opinioni contrastanti in merito al periodo critico dell'incremento della produttività in Inghilterra, in Francia e in generale in tutti i paesi dell'Europa occidentale. Secondo alcuni autori in Inghilterra il primo, significativo incremento dopo un lungo periodo di stagnazione si ebbe nel XVII secolo, mentre per altri non si verificò prima dell'Ottocento. Ad ogni modo vi è consenso generale perlomeno sul fatto che nel XVII secolo l'agricoltura conobbe delle trasformazioni cruciali, e che di conseguenza il periodo successivo al 1760 non può più essere considerato l'inizio della rivoluzione agricola dopo secoli di immobilismo. A questo proposito si rivela opportuno considerare le stime relative alla produzione media in una prospettiva temporale più lunga. Nel XIII e nel XIV secolo la produzione di grano in Inghilterra era stata di circa 700 kg per ettaro; all'inizio del XIX secolo ammontava probabilmente a 1.350-1.500 kg per ettaro, e negli anni cinquanta dell'Ottocento arrivava già a 2.000-2.200 kg per ettaro; da allora sino agli anni trenta del Novecento la produzione aumentò molto lentamente, ma tra il 1930 e il 1980 la produzione media di grano risultò triplicata: in cinquant'anni si verificò un aumento pari a quello che si era avuto nei sette secoli precedenti. L'incremento della produzione non fu limitato alla sola Gran Bretagna. Secondo le stime di Paul Bairoch, in tutta Europa la produzione di grano aumentò del 45% nel XIX secolo, del 23% nella prima metà del Novecento, e del 193% tra il 1950 e il 1985 (v. tab. I). Se dunque in alcuni paesi europei la produzione e la produttività agricole erano andate aumentando a partire perlomeno dal XVII secolo, tale incremento è surclassato da quello verificatosi nel secondo dopoguerra.
In gran parte delle prime analisi della rivoluzione agricola l'attenzione si focalizzava sull'incremento della produzione per ettaro; l'incremento della produttività del lavoro era ritenuto irrilevante, oppure non era considerato parte della rivoluzione agricola tradizionale in quanto frutto della meccanizzazione, che si ebbe solo nel tardo Ottocento. Ma nelle analisi dell'incremento della produttività agricola nel XX secolo, in assenza di dati attendibili sulla base dei quali misurare la produttività di tutti i fattori, la produzione pro capite costituisce la misura essenziale del tasso di crescita. In anni recenti gli storici hanno cercato di misurare la produttività del lavoro prima e durante la rivoluzione agricola.
Uno dei principali ostacoli allo studio della produttività del lavoro è costituito dalla difficoltà di quantificare la forza lavoro impiegata nell'agricoltura. In primo luogo, il lavoro nell'Europa preindustriale era meno specializzato: uno stesso individuo nel giro di pochi mesi poteva cambiare tipo di mansioni trasformandosi da contadino in trasportatore o in muratore. È stato calcolato che all'inizio del XIX secolo da un quarto alla metà della popolazione attiva in Francia 'fluttuava' tra il settore agricolo e quello non agricolo. In secondo luogo, il ruolo delle donne nell'agricoltura variava a seconda delle aree geografiche e dell'epoca storica, ed è particolarmente difficile da valutare. In terzo luogo, l'occupazione agricola ha un andamento stagionale, intensificandosi nell'epoca del raccolto e, in misura minore, in primavera. È difficile effettuare calcoli precisi in merito, in quanto i dati di cui disponiamo riguardano il numero dei lavoratori più che quello delle ore di lavoro. Di conseguenza gran parte delle affermazioni relative ai mutamenti della produttività del lavoro nel passato - e attualmente nella maggior parte del Terzo Mondo - debbono essere valutate con occhio critico.
A quanto risulta dagli studi più recenti, si ebbe un aumento della produttività del lavoro sia prima che durante la rivoluzione agricola, sebbene non fossero stati ancora adottati attrezzi e macchinari che comportassero un significativo risparmio di lavoro. In Inghilterra e nei Paesi Bassi la quota della popolazione totale impiegata nell'agricoltura subì un declino nel corso del XVII e del XVIII secolo, in concomitanza con una crescita dell'occupazione nei settori manifatturiero e dei servizi; tale tendenza si sarebbe arrestata se non fosse aumentata la produttività del lavoro nell'agricoltura. Recentemente è stato calcolato che in Inghilterra questa raddoppiò tra il 1300 e il 1800, un tasso di crescita analogo a quello della produzione di grano. Nel 1800 la produttività del lavoro agricolo in Inghilterra e nei Paesi Bassi era superiore a quella del resto d'Europa, sebbene la differenza nei raccolti fosse minore. Non è del tutto chiaro cosa abbia potuto determinare tale mutamento prima della meccanizzazione, che avvenne solo verso la metà dell'Ottocento. A questo proposito si possono formulare diverse ipotesi. In primo luogo, l'unificazione degli appezzamenti dei singoli contadini a seguito delle enclosures avrebbe ridotto notevolmente gli spostamenti da e per i campi, e da un appezzamento all'altro. Una migliore gestione della terra avrebbe avuto come effetto una allocazione più efficiente della manodopera. In secondo luogo, il perfezionamento degli attrezzi agricoli, in particolare l'adozione di aratri più leggeri con il vomere in ferro, avrebbe reso più veloci i tempi di coltivazione, e a ciò avrebbe contribuito anche la sostituzione del bue con il cavallo come animale da tiro. Nel XIX secolo, nella fase terminale della rivoluzione agricola classica, la falce cominciò a rimpiazzare il falcetto per la mietitura del grano nell'Europa occidentale. L'incremento della produzione aveva reso difficile reperire manodopera sufficiente a mietere il raccolto più pesante con il solo falcetto. La sostituzione del falcetto con la falce fu dunque una risposta alla scarsità di manodopera stagionale, ma si trattava di un adattamento a nuovi usi di un attrezzo preesistente, più che di una tecnologia del tutto nuova. Tuttavia secondo alcuni autori la principale differenza tra l'Inghilterra e il resto d'Europa nel 1800 era data dalla maggiore quantità di energia motrice animale disponibile pro capite. In Inghilterra infatti non solo vi erano in proporzione più cavalli che buoi rispetto al resto d'Europa, ma la forza motrice congiunta dei due animali disponibile pro capite era superiore. Questo fattore spiegherebbe la maggiore produttività del lavoro.
La meccanizzazione non ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione agricola classica, anche se questa vide un incremento della produttività del lavoro. Se si definisce la rivoluzione agricola come la transizione dall'agricoltura tradizionale ai primi stadi dell'industrializzazione, le principali trasformazioni che la caratterizzarono furono in primo luogo l'eliminazione delle istituzioni medievali che erano d'ostacolo al progresso, come la servitù della gleba, i campi aperti e la proprietà comune della terra, e in secondo luogo la diffusione dell'agricoltura mista, basata sull'avvicendamento colturale, sulla coltivazione di leguminose foraggere e di piante seminate a filari, su una migliore alimentazione del bestiame e su un maggiore uso di concime organico. Verso la metà dell'Ottocento questo sistema predominava nelle campagne inglesi e scozzesi, e si andava affermando in gran parte dell'Europa occidentale, anche se la sua diffusione non fu completa che negli anni trenta del nostro secolo, quando peraltro cominciò a essere rimpiazzato da un'agricoltura basata sui fertilizzanti chimici, sui pesticidi e sulle macchine. Sino alla metà del XIX secolo si prestò scarsa attenzione al risparmio di lavoro nell'agricoltura, poiché la popolazione rurale era numerosa e quindi non vi era scarsità di manodopera - anche se nei primi decenni del secolo si ebbero fenomeni di scarsità stagionale. Gli Stati Uniti però erano assai meno densamente popolati dell'Europa, sia a est che a ovest degli Appalachi, e nelle regioni occidentali a una grande abbondanza di terre potenzialmente coltivabili faceva riscontro una scarsità di manodopera. Qui, dunque, le macchine per risparmiare lavoro costituivano una reale necessità, e per questo motivo le nuove tecnologie verranno in misura crescente dagli Stati Uniti.Alla fine del XVIII secolo il correggiato restava il metodo universalmente usato per battere il grano. Una macchina per eseguire questa operazione venne inventata in Scozia da Andrew Meikle nel 1786; trainata dapprima dai cavalli o azionata ad acqua, a partire dagli anni trenta dell'Ottocento fu dotata di motore a vapore. L'introduzione del vapore costituiva una rottura decisiva con il passato, ma a differenza di quanto accadde nel settore industriale, esso non produsse molti progressi nelle campagne. Ancora alla fine del secolo nei paesi dell'Europa occidentale le trebbiatrici azionate a vapore erano poche, e l'aratro a vapore rimase una curiosità presente solo in poche aziende agricole in Gran Bretagna e in Germania. La meccanizzazione del raccolto dei cereali - la coltura di gran lunga più importante all'epoca - iniziò in Gran Bretagna negli anni venti dell'Ottocento con l'invenzione della mietitrice meccanica ad opera di Patrick Bell, ma la domanda per il nuovo dispositivo restò scarsa finché vi fu abbondanza di manodopera; fu invece la macchina mietitrice messa a punto negli Stati Uniti da Cyrus McCormick negli anni trenta dello stesso secolo a diventare la norma. La sua diffusione in Gran Bretagna fu assai più lenta che non negli Stati Uniti; nel 1850 la percentuale del grano mietuto con la nuova macchina era irrisoria in entrambi i paesi, ma vent'anni dopo negli Stati Uniti i quattro quinti del grano risultavano mietuti a macchina, e solo un quarto in Inghilterra e nel Galles. Ai primi del Novecento la mietitrice meccanica prese definitivamente piede in America, e solo negli anni trenta ebbe analoga diffusione in Inghilterra e nel Galles. Ancor più lento fu il suo affermarsi nel resto d'Europa; alla fine dell'Ottocento solo l'11% del grano francese era mietuto a macchina, e il 6% in Germania. Verso gli anni ottanta dell'Ottocento venne messa a punto la mietilegatrice, in grado di compiere le due operazioni della mietitura e della legatura dei covoni; un impianto di sollevamento rendeva più facile ammucchiare il fieno.
Sebbene verso la fine dell'Ottocento venissero compiuti esperimenti in vari paesi, furono gli Stati Uniti a produrre i primi trattori pienamente riusciti; essi ebbero scarsa diffusione nell'Europa occidentale tra le due guerre. In effetti, a causa della loro inaffidabilità e delle difficoltà di impiego e manutenzione che comportavano, all'inizio non presentavano un rapporto costi-benefici vantaggioso, e solo dopo il 1945 il trattore rimpiazzò definitivamente il cavallo. L'altra, importante invenzione fu la mietitrebbiatrice, in grado di effettuare le due operazioni della mietitura e della trebbiatura. Macchine per mietere trainate dai cavalli erano in uso in California negli anni ottanta dell'Ottocento, ma solo quando le mietitrici vennero azionate con motori a benzina rimpiazzarono la mietilegatrice, ancora una volta perlopiù alla fine della seconda guerra mondiale. La meccanizzazione dell'agricoltura quindi ebbe inizio già negli anni trenta dell'Ottocento, con l'invenzione della mietitrice negli Stati Uniti e della macchina trebbiatrice azionata a vapore in Inghilterra. Da allora e sino alla seconda guerra mondiale i progressi furono piuttosto lenti, tranne che nella mietitura del grano.
Secondo i primi studiosi la rivoluzione agricola si svolse parallelamente alla rivoluzione industriale, e le trasformazioni cruciali in entrambi i settori ebbero inizio nel 1760; in seguito altri autori rilevarono che l'incremento del tasso di crescita della popolazione si verificò in gran parte nello stesso periodo. Da allora queste tre decisive trasformazioni avvenute nella società sono state oggetto di nuove valutazioni, e tuttavia alle loro interrelazioni reciproche si è prestata sorprendentemente scarsa attenzione.
Il primo, serio studio sull'impatto della rivoluzione agricola sulla rivoluzione industriale si ebbe solo negli anni cinquanta del nostro secolo e si dovette agli economisti che affrontavano il problema dello sviluppo agricolo nel Terzo Mondo. Negli anni cinquanta oltre il 70% della popolazione delle aree sottosviluppate era impiegato nell'agricoltura, che produceva la metà del prodotto interno lordo. Sembrava evidente che in assenza di un massiccio aiuto estero lo sviluppo industriale avrebbe dovuto essere promosso con le risorse provenienti dal settore agricolo, e che per realizzare una rivoluzione industriale sarebbe stato necessario dare la priorità alla crescita della produttività agricola. Partendo da questi presupposti, gli economisti formularono una serie di generalizzazioni sul ruolo dell'agricoltura nella rivoluzione industriale.In primo luogo, si sostenne che un incremento della produttività agricola era essenziale per fornire cibo a basso costo per la popolazione urbana in costante aumento rispetto a quella rurale. In caso contrario, la domanda avrebbe superato l'offerta e i prezzi dei generi alimentari sarebbero saliti, ostacolando la crescita industriale. Questa tesi tuttavia non trova conferma nell'esperienza della rivoluzione agricola inglese. In Gran Bretagna infatti tra il 1760 e il 1815 il prezzo dei cereali subì un aumento, e il periodo delle guerre napoleoniche fu contrassegnato da gravi crisi alimentari. Tuttavia sino agli anni trenta dell'Ottocento l'agricoltura inglese riuscì a nutrire una popolazione che era raddoppiata tra il 1760 e il 1831 senza ricorrere alle importazioni, da cui invece negli anni successivi il paese venne a dipendere in misura crescente.
In secondo luogo, si affermò che un incremento della produttività agricola sarebbe stato necessario per accrescere il benessere nelle aree rurali, in cui nell'epoca preindustriale erano impiegati i due terzi o più della popolazione e che costituivano pertanto il principale mercato per i prodotti industriali - tessuti per il vestiario, ferro per le attrezzature agricole, utensili da cucina, ecc. La situazione però era diversa nell'Inghilterra del XVIII secolo, dove i prodotti industriali non erano destinati principalmente al mercato interno, bensì all'esportazione.In terzo luogo, riprendendo una tesi sostenuta da alcuni storici, si assumeva che l'agricoltura avrebbe costituito la principale fonte di forza lavoro per le nuove industrie, e ciò grazie alla recinzione delle terre, che privava i piccoli proprietari dei loro fondi e i nullatenenti dei loro diritti alla proprietà comune. Ciò avrebbe determinato un imponente flusso di forza lavoro dalle campagne alle città, un flusso così abbondante da consentire non solo una rapida crescita urbana, ma anche di mantenere bassi i livelli salariali in conseguenza della competizione tra i lavoratori. Tuttavia è stato dimostrato che le enclosures non ebbero un effetto così dirompente sugli abitanti dei villaggi come ritenevano Ernle, Levy, gli Hammond e altri autori dell'Ottocento; inoltre, in gran parte delle regioni che tra la fine del Settecento e l'inizio del secolo successivo costituivano la fonte della manodopera immigrata per molte aree industriali della Gran Bretagna, le recinzioni erano state effettuate già da lungo tempo. Senza dubbio il ruolo dell'incremento naturale della popolazione fu sottovalutato nella spiegazione della crescita urbana. La migrazione rurale-urbana ebbe senz'altro un ruolo importante, ma nel Settecento e nell'Ottocento non fu determinata tanto da condizioni di vita svantaggiose delle campagne, quanto dalla prospettiva di salari più alti nelle città. Poiché le enclosures ebbero scarsa incidenza nel resto dell'Europa occidentale, non possono essere considerate la principale determinante della migrazione dalle campagne alle città. Tuttavia la progressiva riduzione delle dimensioni dei fondi in corrispondenza con l'aumento della popolazione rurale che si registrò sino alla fine del XIX secolo ebbe un ruolo importante nella migrazione urbana.
Un'ulteriore connessione tra la rivoluzione agricola e quella industriale si pensava risiedesse nell'investimento di capitali, ma vi sono scarse evidenze quantitative al riguardo. In Francia l'onere fiscale ricadeva soprattutto sulla popolazione agricola, e ciò costituiva un incentivo per migliorare le infrastrutture, di cui si avvantaggiava l'agricoltura, in particolare facilitando l'accesso ai mercati. Così come in Inghilterra, anche in Francia i proprietari terrieri investivano direttamente nelle industrie manifatturiere sulle loro proprietà e acquistavano azioni in borsa, ma il loro ruolo non sembra essere stato decisivo nell'aumentare gli investimenti per l'industrializzazione.
L'industrializzazione ebbe un profondo impatto sull'agricoltura in ogni paese dell'Europa occidentale, in primo luogo riducendone l'importanza relativa nell'economia. Nelle società preindustriali l'agricoltura aveva un ruolo dominante: dal 70 al 90% della popolazione era impiegato in questo settore, che forniva dal 40 al 60% del prodotto interno lordo. Nel corso dell'industrializzazione la popolazione complessiva aumentò, e aumentò anche la quota impiegata nell'agricoltura, ma non con lo stesso ritmo della popolazione impiegata nei settori manifatturiero e dei servizi. Da allora in poi la percentuale della popolazione agricola è andata progressivamente diminuendo, in tempi diversi a seconda dei paesi e delle regioni. In Gran Bretagna la quota della popolazione impiegata nell'agricoltura scese al di sotto del 50% all'inizio del XVIII secolo, ma altrove lo stesso fenomeno si verificò molto più tardi: negli anni quaranta dell'Ottocento nei Paesi Bassi, negli anni sessanta dello stesso secolo in Francia e in Germania, negli anni ottanta in Scandinavia, e solo nel secondo dopoguerra in alcune regioni dell'Europa orientale e mediterranea (v. tab. II).Come abbiamo già accennato, nelle prime fasi della rivoluzione industriale si registrò un aumento sia della popolazione industriale, sia della popolazione agricola. Dopo il 1750 nelle aree rurali diminuì la mortalità e crebbe la fertilità, ma l'agricoltura potè assorbire l'aumentata popolazione perché la rivoluzione agricola comportò un aumento della domanda di manodopera. Tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX vi fu una notevole estensione delle aree coltivate; le nuove colture richiedevano un lavoro intensivo di sarchiatura, e anche il lavoro richiesto per nutrire il bestiame nelle stalle e per trasportare il letame usato come concime per i campi aumentava la domanda di manodopera. Sebbene continuasse a sussistere un ininterrotto flusso migratorio dalle campagne alle città, iniziato già nel Medioevo, questo rimase al di sotto dell'incremento naturale della popolazione rurale, che di conseguenza continuò ad aumentare. A un certo momento, tuttavia, la migrazione eguagliò l'incremento naturale e la popolazione agricola si stabilizzò, per poi iniziare a declinare. Tale processo iniziò verso il 1850 in Gran Bretagna e in Belgio, i paesi pionieri dell'industrializzazione, e interessò Svizzera, Francia e Germania nell'ultimo ventennio del secolo. Nella maggior parte dei paesi europei tuttavia il calo della popolazione agricola non si verificò prima del XX secolo, e in gran parte dell'Europa orientale e meridionale ebbe luogo solo nel secondo dopoguerra (v. tab. II).
La popolazione agricola dell'Europa occidentale nel suo complesso cominciò a declinare negli anni venti, ma questa tendenza subì una notevole accelerazione dopo gli anni cinquanta. Negli anni ottanta la forza lavoro impiegata nell'agricoltura era ridotta a un quarto rispetto a quella della fine dell'Ottocento. Nelle prime fasi di questo processo la maggioranza dei lavoratori che abbandonavano le campagne era costituita da braccianti; a partire dagli anni quaranta si aggiunsero i piccoli fittavoli, cui la campagna non era più in grado di assicurare un livello di vita paragonabile a quello raggiungibile nelle città. Il calo della quota impiegata nell'agricoltura è stato una funzione del tasso di incremento naturale della popolazione agricola e del tasso di migrazione dall'agricoltura ad altri settori occupazionali. Quest'ultimo fenomeno è da mettere in gran parte in relazione con le differenze di reddito tra il settore agricolo e quello non agricolo. La popolazione agricola è quindi residuale; nelle comunità rurali dell'Europa occidentale infatti le aziende agricole a gestione familiare assorbivano gli individui in eccedenza, impiegando anche i bambini. Di conseguenza il principale fattore cui ricondurre l'andamento della popolazione agricola è il tasso di industrializzazione e la capacità dell'industria di assorbire la manodopera proveniente dalle campagne.La meccanizzazione ha avuto un ruolo chiave nell'andamento dell'occupazione agricola. La Gran Bretagna fu il primo paese ad adottare macchine in grado di far risparmiare lavoro; la loro diffusione avvenne in ritardo negli altri paesi europei, dove il calo della forza lavoro si verificò in epoca successiva.
Se il processo di meccanizzazione procedette con lentezza tra la metà dell'Ottocento e gli anni quaranta del secolo successivo, la diffusione di macchine agricole di vario tipo ha conosciuto una straordinaria accelerazione nel secondo dopoguerra, in conseguenza della rapida crescita industriale che attirò nelle fabbriche numerosi braccianti e contadini, e impose la meccanizzazione a coloro che rimanevano nelle campagne. Ma questo non fu l'unico effetto dell'industrializzazione sull'agricoltura. Altrettanto importante fu la crescente specializzazione nella produzione alimentare verificatasi tra il XVIII e il XIX secolo. Tutta una serie di attività che prima erano svolte all'interno dell'azienda agricola vennero trasferite altrove. I produttori specializzati - a differenza dei contadini che svolgevano un'ampia gamma di attività lavorative - servivano numerose aziende agricole e quindi traevano vantaggio dalle economie di scala. Questo processo ebbe ripercussioni sia sugli inputs che sugli outputs. Prima del XIX secolo nell'azienda agricola tradizionale la maggior parte degli inputs proveniva dall'azienda stessa: le sementi erano ricavate dai precedenti raccolti, i fertilizzanti dal letame del bestiame, l'energia motrice era fornita dagli animali da tiro o dal lavoro umano; la sarchiatura dei campi effettuata con la zappa richiedeva considerevoli inputs di lavoro; per combattere gli uccelli e altri animali nocivi venivano adottati sistemi rudimentali, come l'uso degli spaventapasseri. Esistevano ben pochi metodi per combattere la diffusione dei parassiti, a parte la rotazione delle colture e un'accurata preparazione del terreno tra un raccolto e l'altro, onde prevenire l'impoverimento del suolo. Sino alla prima metà del XIX secolo i contadini acquistavano pochi prodotti al di fuori dell'azienda. In Svezia negli anni sessanta dell'Ottocento le merci acquistate al di fuori dell'azienda rappresentavano solo il 6% del valore lordo della produzione, ma negli anni ottanta del nostro secolo tale percentuale è aumentata, arrivando a superare il 50% sia in Svezia che nella maggior parte dei paesi sviluppati. Nella seconda metà dell'Ottocento gli agricoltori cominciarono ad acquistare una quota crescente dei loro inputs dal settore industriale. L'uso di fertilizzanti commerciali risale agli anni quaranta dell'Ottocento, anche se rimase confinato in larga misura all'Europa nordoccidentale; ancora all'inizio del Novecento tali fertilizzanti erano poco diffusi nelle regioni del Nordamerica, dell'Australia e dell'area temperata del Sudamerica, dove vi era abbondanza di terra. Di cruciale importanza fu la produzione industriale di fertilizzanti azotati, resa possibile dal processo Haber-Bosch messo a punto intorno al 1913. Ma solo a partire dal secondo dopoguerra i fertilizzanti chimici si diffusero nell'Europa occidentale. Il controllo dei parassiti e degli animali nocivi fu un'acquisizione ancora più recente, sebbene verso la metà dell'Ottocento alcuni insetticidi chimici fossero usati per proteggere le viti in Francia e le colture di patate negli Stati Uniti.
La produzione industriale di attrezzi e macchine agricole iniziò ai primi dell'Ottocento, ma ancora una volta la diffusione delle macchine, fatta eccezione per la mietitrice meccanica, procedette con lentezza sino al secondo dopoguerra. L'impiego di sementi selezionate è anch'esso relativamente recente. Sebbene il commercio delle sementi esistesse sin dal XVIII secolo, è solo nel Novecento che la maggioranza degli agricoltori le acquista dai commercianti. La riscoperta, agli inizi del secolo, delle ricerche di Mendel sulla genetica delle piante consentì di selezionare varietà dotate di qualità specifiche, come ad esempio l'immunità a una determinata malattia, o la capacità di crescere in climi più aridi. Alla selezione di nuove varietà si deve lo straordinario incremento della produttività agricola negli ultimi cinquant'anni.L'agricoltore moderno non dipende più dal lavoro degli animali e dell'uomo, ma compra sul mercato energia motrice sotto forma di carburante diesel e di elettricità. Gli Stati Uniti furono il primo paese in cui si verificò questo mutamento. Verso la metà dell'Ottocento gli animali e il lavoro umano fornivano il 94% dell'energia motrice nelle fattorie americane, nel 1943 solo il 6%.Gli agricoltori hanno sempre coltivato prodotti che devono essere sottoposti a lavorazione prima di essere consumati; il latte viene trasformato in formaggio e in burro, l'uva in vino, le barbabietole in zucchero, la farina in grano, e via dicendo. La lavorazione dei prodotti era effettuata per lo più all'interno dell'azienda per il consumo domestico, oppure veniva eseguita in mulini o stabilimenti su piccola scala situati nelle vicinanze. A partire dal XIX secolo questi processi di lavorazione uscirono dalle aziende per essere affidati a produttori specializzati. Oltre a trasformare le materie prime dell'agricoltura in generi alimentari di prima necessità, le industrie producono anche cibi già confezionati di pronto consumo. Così, ad esempio, mentre nell'Ottocento i mulini vendevano la farina ai singoli consumatori o ai fornai, ora questo prodotto andava direttamente alle industrie che producono dolciumi, merendine, cereali per la prima colazione, ecc.
A partire dagli anni cinquanta i cibi preconfezionati si sono diffusi in tutte le famiglie, sicché la cucina serve solo a riscaldare alimenti già pronti acquistati nei negozi.L'industrializzazione ha avuto quindi un impatto di immensa portata sull'agricoltura, e il ruolo dei contadini nella produzione alimentare si è notevolmente ridotto; i significativi incrementi della produttività che hanno caratterizzato l'ultimo secolo non si devono alle maggiori capacità degli agricoltori, ma all'applicazione dei ritrovati della scienza e alla produzione industriale di attrezzi, fertilizzanti e pesticidi. Alla luce di questi sviluppi è possibile vedere con maggior chiarezza la natura della rivoluzione agricola europea: essa fu essenzialmente il risultato dell'applicazione di tecniche e di colture note da lungo tempo in nuove combinazioni. Tali progressi furono in larga misura indipendenti dal settore industriale, fatta eccezione per l'uso di ferro a buon mercato per gli attrezzi agricoli a partire dalla metà del XVIII secolo. Probabilmente l'effetto più significativo dell'industrializzazione sull'agricoltura fu la creazione di un mercato urbano più ampio, e dopo gli anni trenta e quaranta dell'Ottocento anche più ricco, in cui alla domanda di pane e patate si aggiungeva quella di carne e di latte. L'autentica rivoluzione agricola precedette i pieni effetti dell'industrializzazione, in particolare quello della diminuzione della forza lavoro impiegata nell'agricoltura allorché la migrazione dalle campagne alla città ridusse le popolazioni rurali e agricole.
Prima del XIX secolo la popolazione dell'Europa occidentale era soggetta a frequenti crisi alimentari a livello locale e al verificarsi periodico di carestie in aree più ampie. Gran parte della popolazione era malnutrita data la carenza di nutrienti essenziali. Come conseguenza della dieta inadeguata la popolazione era di statura inferiore rispetto a quella attuale: i maschi adulti europei sono oggi in media 6-9 centimetri più alti di quanto non lo fossero negli anni settanta dell'Ottocento. In Norvegia l'altezza media degli individui adulti non subì cambiamenti di rilievo tra il 1750 e il 1830, ma aumentò di 3 mm per decennio nei successivi 45 anni, e di 6 mm ogni dieci anni dal 1875 al 1935. A Londra l'altezza media degli adolescenti di tredici anni nati tra il 1750 e il 1780 era di 1,30 m, nel 1965 l'altezza media salì a 1,55 m. Questo incremento della statura si deve in gran parte a una migliore nutrizione. All'inizio del XIX secolo la dieta della popolazione dell'Europa occidentale era simile a quella delle popolazioni attuali nel Terzo Mondo, con un consumo giornaliero di circa 2.200 calorie pro capite. Il 70% delle calorie era fornito dal pane e dalle patate, mentre gli alimenti di origine animale, la frutta e la verdura avevano un ruolo trascurabile nella dieta. Un cambiamento significativo si ebbe nel secolo successivo. Nella maggior parte dei paesi europei all'inizio del Novecento l'assunzione giornaliera superava le 3.000 calorie pro capite, con un aumento dei consumi non solo di pane, ma anche di carne e latte, burro e formaggio, frutta e verdura, zucchero e oli vegetali. Questa trasformazione della dieta può essere ricondotta a diversi fattori. Di grande importanza fu l'aumento dei salari reali, in particolare dopo gli anni quaranta dell'Ottocento, che consentì alla popolazione di acquistare maggiori quantità di cibo, e soprattutto di alimenti costosi come la carne. Egualmente importante fu la riduzione dei costi di trasporto e l'introduzione della refrigerazione, che permise il trasporto su lunghe distanze delle carni e dei prodotti caseari. Il fattore decisivo nel cambiamento della dieta fu comunque, ovviamente, l'aumento della produzione alimentare: la rivoluzione agricola portò a una rivoluzione della dieta. Le malattie da carenze alimentari, come ad esempio il rachitismo, continuarono a esistere nell'Europa occidentale sino agli anni trenta, ma a partire dagli anni sessanta cominciò a essere la sovralimentazione a destare preoccupazioni. La fame era stata sconfitta assai prima. Le ultime gravi carestie si erano verificate in Inghilterra e in Scozia negli anni settanta e novanta del Seicento, in Germania, in Svizzera e in Scandinavia nel 1732, in Francia nel 1795. Nel 1816 in molte regioni dell'Europa occidentale si ebbero raccolti scarsi e prezzi elevati dei generi alimentari, ma con l'eccezione dell'Irlanda tra il 1845 e il 1851, l'epoca delle carestie poteva considerarsi conclusa. Ciò fu dovuto in parte ai progressi nei trasporti, in parte all'azione dei governi, che cominciarono a prestare maggiore attenzione al problema, ma soprattutto all'aumentata produzione agricola e alla minore variabilità del raccolto.
Nel XIX secolo la popolazione dell'Europa occidentale crebbe con un ritmo senza precedenti, eppure il consumo di cibo pro capite rimase invariato, anzi aumentò addirittura. Alla fine del secolo l'assunzione globale di calorie pro capite era superiore del 50% a quella che si aveva al principio dell'Ottocento. Si trattava di una situazione del tutto nuova. In passato infatti le fasi di crescita demografica si arrestavano in genere a seguito di pandemie o di un calo del consumo di cibo pro capite. Così l'incremento demografico iniziato nell'XI secolo in Gran Bretagna e in Francia subì un arresto negli anni venti del XIV secolo, quando la produzione di cibo pro capite a quanto pare diminuì, e terminò bruscamente negli anni quaranta, quando la peste bubbonica si propagò in tutto il continente. Una ripresa si verificò nel XV secolo, e il Cinquecento vide un rapido aumento della popolazione, che terminò alla metà del XVII secolo; sino alla metà del secolo successivo non si verificò più alcuna crescita demografica.
Le relazioni tra produzione alimentare e crescita demografica sono state investigate a fondo, ma i risultati restano insoddisfacenti. Per lungo tempo si pensò che l'aumento del tasso di crescita verificatosi alla metà del XVIII secolo fosse dovuto a un declino del tasso di mortalità, e che in seguito gli alti tassi di crescita della popolazione fossero il risultato di questo declino e degli alti tassi di natalità rimasti inalterati. Il declino del tasso di mortalità era attribuito ai progressi della medicina e dell'igiene, ma McKeown dimostrò che questi ultimi in Gran Bretagna non si verificarono prima della fine dell'Ottocento, mentre i primi non ebbero alcun effetto sino agli anni trenta del Novecento. Secondo McKeown, l'unica spiegazione alternativa è da ricercarsi in un miglioramento della dieta, che avrebbe contribuito non solo a ridurre la mortalità, ma anche ad accrescere la fertilità. Sebbene questa tesi sia oggetto di controversie, è nondimeno evidente che l'aumentata disponibilità di cibo fu una conseguenza della rivoluzione agricola.
Possiamo ora riconsiderare le caratteristiche della rivoluzione agricola classica. Si trattò di una fase di incremento della produttività della terra e del lavoro che iniziò nell'Europa occidentale prima della rivoluzione industriale; sebbene questo incremento sia continuato sino a oggi, la rivoluzione agricola classica può considerarsi finita con i primi stadi dell'industrializzazione. Essa fu caratterizzata innanzitutto da un cambiamento a livello istituzionale. In gran parte dell'Europa occidentale la servitù della gleba venne finalmente abolita, e con essa l'istituzione delle terre comuni, anche se gli appezzamenti frammentati dei campi aperti sopravvissero in molte regioni sino alla metà del XX secolo.In secondo luogo vi fu la diffusione su larga scala di metodi e di attrezzi peraltro già noti. La coltivazione di piante da foraggiamento e di leguminose, ad esempio, era praticata nei Paesi Bassi sin dal XV e dal XVI secolo, ma fu l'introduzione di queste colture nell'agricoltura estensiva - a paragone con quella delle Fiandre - dell'Inghilterra orientale a segnare una svolta cruciale. L'allevamento controllato del bestiame e il perfezionamento dell'aratro costituirono progressi significativi, ma il fattore più importante fu l'integrazione a reciproco beneficio dell'allevamento e dell'agricoltura nella stessa azienda.Il terzo elemento da porre in rilievo è dato dal fatto che la rivoluzione agricola si basò in larga misura su risorse fornite dalla stessa azienda agricola; pochi inputs venivano acquistati all'esterno, sebbene la maggior parte della produzione non fosse per il consumo locale ma venisse venduta sul mercato. I fertilizzanti erano forniti dal concime organico e dalla coltivazione delle leguminose, e solo di rado le sementi venivano acquistate; i semplici attrezzi impiegati erano fabbricati localmente da artigiani, e non dalle industrie.
La lenta crescita della produttività cominciò in Inghilterra intorno al 1650, probabilmente più tardi nel resto dell'Europa occidentale. Ovunque, peraltro, la rivoluzione agricola ebbe conseguenze di grande portata. Prima di tutto divenne possibile, per la prima volta nella storia, disporre di cibo a sufficienza per una popolazione in costante crescita. Le carestie si fecero sempre più rare dalla fine del XVII secolo, e la produzione di cibo fu superiore al sensibile aumento della popolazione iniziato verso la metà del Settecento. In secondo luogo l'incremento della produttività fu sufficiente a sostenere non solo un incremento della popolazione complessiva, ma anche una crescita della popolazione urbana e industriale. In terzo luogo, l'aumento della produttività e del benessere nelle campagne creò un mercato per i primi prodotti industriali, determinò un flusso migratorio rurale-urbano, e fu probabilmente un'importante fonte di capitali per gli imprenditori industriali.
L'aumento della produttività agricola da allora non ha subito stasi, ma si possono individuare alcuni importanti mutamenti nelle modalità con cui tale crescita è stata raggiunta. Prima di tutto, la rivoluzione agricola classica determinò un aumento della produttività del lavoro, ma scarsi furono i tentativi di introdurre nuove tecnologie atte a risparmiare lavoro, data l'esistenza di una manodopera abbondante e a basso costo. La seminatrice, poco diffusa in Inghilterra e in altri paesi sino alla metà dell'Ottocento, era usata soprattutto per piantare le colture a filari piuttosto che per risparmiare il lavoro della semina a spaglio. La mietitrice inventata da Patrick Bell verso il 1820 fu ignorata dagli agricoltori; messa a punto negli Stati Uniti da Cyrus McCormick, fu adottata in Inghilterra solo quando cominciò il declino della manodopera nelle campagne. È quest'ultimo, di fatto, l'elemento chiave per stabilire una periodizzazione della crescita della produttività. Sino alla metà dell'Ottocento le popolazioni rurali e agricole in tutta l'Europa occidentale registrarono un aumento; da allora in poi, ma in tempi diversi nei singoli paesi, cominciò un calo costante della forza lavoro nelle campagne, che rese di importanza prioritaria l'adozione di macchine atte a risparmiare lavoro.
In secondo luogo, tra gli anni quaranta e cinquanta dell'Ottocento aumentò costantemente l'impiego di inputs ottenuti non dall'azienda agricola ma dal settore industriale; la produzione industriale di fertilizzanti iniziò negli anni quaranta, ma per gran parte del secolo ebbe un'importanza trascurabile. L'acquisto di sementi dai commercianti aumentò, ma prese definitivamente piede solo al principio del Novecento, con la creazione di centri specializzati di seletto-coltura. L'energia motrice continuò a essere fornita dalla forza muscolare animale e umana, ma negli anni quaranta cominciò a diffondersi l'uso della mietitrice a vapore, preannuncio dell'imminente meccanizzazione. In sintesi, la rivoluzione agricola classica terminò in Inghilterra verso la metà dell'Ottocento. Differenti processi di trasformazione dell'agricoltura emersero lentamente, iniziando in tempi diversi nei vari paesi europei, secondo una scansione cronologica determinata in larga misura dallo sviluppo dell'industrializzazione e dal conseguente declino della forza lavoro agricola.
La rivoluzione agricola classica ebbe origine nei Paesi Bassi, in Inghilterra e successivamente nella Francia settentrionale, per poi diffondersi lentamente in altre aree dell'Europa occidentale nel corso del XIX secolo. Ma quando questa diffusione ebbe luogo le tecnologie agricole erano in via di trasformazione. All'inizio del Novecento esisteva già un'ampia gamma di tecnologie industriali: fertilizzanti chimici, attrezzi, sementi, trattori e macchine azionate a vapore. Se nel XVIII secolo e all'inizio del secolo successivo il principale flusso di merci, uomini e capitali andava dalle campagne alle città e alle industrie, alla fine dell'Ottocento la direzione di tale flusso si inverte. Non solo l'industria manifatturiera fornisce ora gran parte degli inputs, ma nuove tecnologie vengono scoperte e promosse in misura crescente da specialisti della zootecnia, agroingegneri, chimici e genetisti. Inoltre la scoperta e l'invenzione di nuove tecnologie agricole cominciò a essere promossa dallo Stato, a partire dalla fondazione nel 1851 di un istituto di ricerca in Sassonia. Nel 1862 negli Stati Uniti vennero effettuate assegnazioni di terra per finanziare i dipartimenti di agraria nelle università. In seguito, sino agli anni sessanta del secolo successivo, lo Stato assunse il ruolo di ricercatore e promosse la diffusione di invenzioni e scoperte attraverso servizi di consulenza per l'agricoltura. Alla fine dell'Ottocento il complesso di trasformazioni verificatesi nell'agricoltura presentava caratteristiche assai diverse dai mutamenti intervenuti sino al 1850, e l'espressione 'rivoluzione agricola' in questo caso denota non solo fenomeni differenti, ma anche un contesto economico generale profondamente diverso.
Per quanto sia perfettamente lecito che gli storici parlino di 'rivoluzioni agricole' per descrivere i cambiamenti intercorsi in epoche successive o in altre aree geografiche, tuttavia in questo caso l'espressione ha come referenti contesti e processi profondamente diversi da quelli tipici della rivoluzione agricola classica. Così, ad esempio, nelle aree di insediamento europeo del Nordamerica e dell'Australasia non esistevano vincoli feudali da superare, né campi aperti da recingere. La situazione demografica era completamente diversa: l'offerta di manodopera era scarsa e la terra relativamente abbondante. Di conseguenza la rivoluzione agricola attuatasi in queste aree geografiche tra la fine del Settecento e gli anni cinquanta del nostro secolo fu sostanzialmente differente da quella che interessò l'Europa occidentale. Qui l'alta densità della popolazione e la scarsità di terra facevano sì che quest'ultima fosse costosa e la manodopera, viceversa, a basso costo; la maggior parte delle migliorie apportate ai fondi era finalizzata a preservare la fertilità del suolo e ad aumentare la produzione. I contadini americani e australiani invece mostravano scarsa preoccupazione per la fertilità del suolo e miravano a massimizzare la produzione pro capite piuttosto che quella per ettaro. La scarsità e l'alto costo della terra nei paesi dell'Europa occidentale rendevano necessari sistemi ad alta intensità di lavoro - come ad esempio la viticoltura, l'orticoltura e l'industria casearia - mentre nel Nordamerica prevalevano sistemi di agricoltura estensiva, perlomeno a ovest degli Appalachi. Così, mentre la produttività del lavoro aumentava, i rendimenti restavano stagnanti. Negli anni trenta del Novecento la produzione media di grano nelle regioni d'oltreoceano era inferiore a quella di fine Ottocento, e i raccolti erano i due terzi o anche meno di quelli dell'Europa occidentale.
A partire dagli anni cinquanta tanto nel Nordamerica che nei paesi dell'Europa occidentale si è registrato un notevole incremento sia della produzione che della produttività. Diversamente da quanto era accaduto in passato, nell'area europea è aumentata non solo la produzione per ettaro, ma grazie alla meccanizzazione anche quella pro capite. Nel Nordamerica la tendenza alla meccanizzazione e all'aumento della produttività del lavoro è continuata, ma si è avuto anche un considerevole incremento nel rendimento dei raccolti. Vi è stato dunque un notevole incremento della produttività su entrambe le sponde dell'Atlantico, e ciò ha indotto molti studiosi a parlare di una rivoluzione agricola in riferimento a questo periodo.
L'espressione 'rivoluzione verde' si riferisce alle profonde trasformazioni agricole intercorse a partire dagli anni sessanta in alcune regioni dell'Asia. Prima di questa data gran parte del continente asiatico presentava caratteristiche strutturali assai simili a quelle dell'Europa preindustriale: la maggioranza della popolazione - oltre il 70% - dipendeva dall'agricoltura, l'industrializzazione aveva fatto scarsi progressi e il reddito pro capite era basso. La produttività agricola era anch'essa bassa, fatta eccezione per alcune enclaves. La meccanizzazione era pressoché sconosciuta e la produzione pro capite ridotta. La produzione di riso raramente superava le 1,8 tonnellate per ettaro, tranne che nelle aree densamente popolate quali la Cina, la Corea, Taiwan, le regioni del delta del Tonking e del Mekong, dove i massicci inputs di lavoro per la semina, il trapianto e l'irrigazione consentivano raccolti di oltre 5 tonnellate. Prima degli anni cinquanta la produzione era rimasta stagnante in molte regioni dell'Asia, ma non in Giappone, Taiwan e Corea. Alla fine dell'Ottocento gran parte del riso giapponese era irrigato; la selezione del riso locale di una varietà altamente produttiva (ponlai), assieme all'uso di fertilizzanti chimici, determinò un incremento costante della produzione sia in Giappone che in Corea e a Taiwan, occupata dai Giapponesi nel 1900.
Essenzialmente la stessa configurazione di fattori divenne la base della rivoluzione verde. Nel 1965-1966 vennero introdotte in Asia una varietà di grano quasi nana selezionata in Messico e una varietà di riso IR-8 selezionata nelle Filippine. Quest'ultima risultava insensibile alla durata del giorno e quindi in grado di essere coltivata a ogni latitudine, altamente reattiva ai fertilizzanti, e caratterizzata da steli corti e resistenti che evitavano l'allettamento delle piante. Le nuove varietà avevano un ciclo vegetativo più rapido rispetto a quelle tradizionali, e quindi consentivano raccolti multipli; tuttavia necessitavano di terreni irrigati, e poiché non avevano l'immunità alle malattie che caratterizza le varietà tradizionali, richiedevano il trattamento con i pesticidi.
Le nuove varietà ad alto rendimento vennero rapidamente adottate in molte regioni asiatiche; in Cina vennero selezionate varietà con proprietà simili a quelle del riso IR-8, e il grano quasi nano messicano venne ibridato con varietà indigene. I nuovi inputs - sementi, fertilizzanti e pesticidi - potevano essere acquistati in piccole quantità, e quindi, a differenza delle macchine come la mietifalciatrice, era possibile adottarli anche in aziende di piccole dimensioni. L'irrigazione costituiva una condizione essenziale per la coltura delle nuove varietà. Solo un terzo della superficie coltivabile asiatica è irrigata, e fu qui che esse si diffusero con maggiore rapidità. Nel 1975, dieci anni dopo la sua introduzione in Asia, la varietà di riso IR-8 era coltivata soprattutto nelle Filippine, nello Sri Lanka, in Pakistan, in Indonesia e in Malesia, dove la maggioranza delle superfici a riso era irrigata, mentre in Birmania, nel Bangladesh e in Thailandia, dove le terre irrigate sono una percentuale minima, le nuove varietà ad alto rendimento ebbero scarsa diffusione.
All'inizio degli anni ottanta in Asia il 48% della superficie a grano e il 56% di quella a riso erano coltivati con varietà ad alto rendimento. La produzione di grano è stata il doppio rispetto a quella degli anni sessanta e quella di riso superiore dei due terzi; negli stessi anni l'uso di fertilizzanti chimici per ettaro è aumentato in media di sei volte, le superfici irrigate sono raddoppiate e vi è stato un notevole incremento della superficie che produce raccolti doppi in Cina e in Malesia. Di conseguenza, a partire dagli anni ottanta, la produzione alimentare ha avuto un incremento di oltre il 3% annuo. In base a ogni standard si tratta di un tasso di incremento assai elevato, e forse merita di essere definito una rivoluzione agricola.
Con l'espressione rivoluzione agricola si tende oggi a designare un sensibile e prolungato incremento della produzione e della produttività dopo un lungo periodo di stagnazione; lo studio comparato delle rivoluzioni agricole nelle varie aree geografiche e nelle diverse epoche è un modo per comprendere pienamente le cause e i meccanismi della crescita della produttività. E tuttavia sarebbe forse preferibile continuare a usare il concetto di rivoluzione agricola nel suo significato originario, per indicare il periodo di transizione compreso tra la fine del XVII secolo e la fine dell'Ottocento nell'Europa occidentale. La rivoluzione agricola di questo specifico contesto storico-geografico ha caratteristiche uniche: strettamente interrelata all'incremento demografico e all'affermarsi dell'industrializzazione, essa comportò tra le altre cose il primo, prolungato incremento della produzione di cibo pro capite. (V. anche Agricoltura; Degrado ambientale; Demografia; Economia; Industrializzazione; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Macchine; Neolitica, rivoluzione; Rendita).
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