Rossellini, Roberto
Il grande cinema della realtà
Nel 1945 con il film Roma città aperta Roberto Rossellini realizzò la prima compiuta espressione del neorealismo, imponendo a livello internazionale un modo nuovo e rivoluzionario di fare cinema. Attraverso innovative soluzioni tecniche e stilistiche, raccontò i giorni drammatici della guerra, ricorrendo a immagini che hanno la forza della cronaca e l’intensità della vita colta nel suo farsi. La scelta di rendere protagonisti uomini, donne e bambini nella loro quotidianità gli consentì in seguito di indagare le sfumature dell’animo umano, contribuendo all’affermazione di un cinema moderno e definitivamente adulto, in grado di testimoniare la crisi e le inquietudini dei nostri tempi
Roberto Rossellini, che era nato a Roma nel 1906, sin da ragazzo nutrì due grandi passioni: il cinema e le auto da corsa. Fu il padre, un noto costruttore dai raffinati interessi culturali, a regalargli a quindici anni la sua prima auto, una Chiribiri. E poiché aveva costruito il cinema Corso a Roma, ebbe modo di donare al figlio una tessera gratuita che gli consentì di vedere un’infinita quantità di film. Precoce fu anche l’interesse di Rossellini per le questioni tecniche, mentre frequentò svogliatamente il liceo classico.
Affascinante e fortunato con le donne, negli anni Trenta Rossellini fece del suo amore per il cinema una professione. Cominciò lavorando a Cinecittà come rumorista, addetto al doppiaggio e al montaggio. Quindi passò a scrivere sceneggiature, sino alla collaborazione più importante per Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini. Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi documentari sulla natura, diresse i suoi primi tre film: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo della croce (1943). In queste opere di propaganda bellica volute dal regime fascista, il regista mostrò un’assenza di retorica e un’attenzione alla vita quotidiana dei soldati, filmata come se si trattasse di un documentario, che si rivelarono fondamentali nei lavori successivi.
Nell’agosto del 1943 Roma, occupata dai Tedeschi, venne dichiarata città aperta, ossia zona dove non dovevano essere effettuate azioni di guerra. In realtà ebbe inizio un periodo drammatico per la capitale. Tra il terrore dei rastrellamenti per opera dei nazisti, l’attesa snervante degli Americani bloccati sul litorale di Anzio e l’incubo dei bombardamenti, nacque in Rossellini (e nei suoi amici Sergio Amidei e Alberto Consiglio, cui si aggiunse Federico Fellini in fase di sceneggiatura) l’idea di raccontare questo clima di angoscia e di attesa. Si iniziò a girare il film nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945, tra grandi difficoltà, sette mesi dopo che in città erano arrivati gli Americani e mentre nel Nord dell’Italia ancora infuriava la guerra.
Il risultato, Roma città aperta, fu un’opera corale dove non esiste un solo protagonista, ma molte storie s’intrecciano e tutte sono importanti. Quella della ‘sora’ Pina, madre del piccolo Marcello, che sta per sposare Francesco, tipografo antifascista, da cui aspetta un bambino. Quella di Manfredi, capo della Resistenza, che viene tradito dalla fidanzata, informatrice della Gestapo. Quella di don Pietro, il prete che tenta di aiutare Manfredi e verrà fucilato dai nazisti. E quella dei bambini, costretti dalla guerra a crescere troppo in fretta e a comportarsi da adulti, come nel caso dell’attentato allo scalo ferroviario, organizzato da Romoletto, un ragazzo privo di una gamba, e dai suoi piccoli complici, tra cui Marcello. Il giorno dopo, nel palazzo di Pina e Francesco viene effettuato un rastrellamento. I nazisti catturano Francesco e quando la donna, disperata, urlandone il nome corre verso il camion che lo sta portando via, viene uccisa da una raffica di mitra. Questa scena diventerà l’emblema del neorealismo. Indimenticabile come altre, tra cui quella finale in cui i ragazzi, che hanno appena assistito alla fucilazione di don Pietro, sfilano verso Roma lungo la via Trionfale, a capo chino, tenendosi per mano.
Il film mostrò un modo nuovo di concepire il cinema: raccontare l’attualità, senza artifici. Fuori dai teatri di posa, Rossellini filmava la città con le strade e i palazzi bombardati, ricorrendo a lunghi piani-sequenza (cioè sequenze costituite da un’unica inquadratura, senza stacchi) che colgono ogni aspetto del reale. Gli eventi si svolgono sullo schermo come nella vita.
A rafforzare tutto ciò contribuirono gli attori, sia quelli non professionisti – voluti dal regista perché in grado di rendere credibili i vari personaggi attraverso la propria fisicità e l’appartenenza a un determinato ambiente – sia quelli professionisti – scelti per interpretare ruoli molto diversi rispetto a quelli consueti. Così il comico Aldo Fabrizi conferisce dolente umanità a don Pietro, e Anna Magnani, allora nota come soubrette della rivista, costruisce una splendida figura di donna del popolo, spontanea in ogni gesto.
Nel 1946, l’anno in cui Roma città aperta ottenne la Palma d’oro al primo Festival di Cannes, Rossellini realizzò Paisà, altro capolavoro del neorealismo, concepito come una raccolta di racconti che descrivono l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Po. In ognuno dei sei episodi la macchina da presa segue i personaggi all’interno di una realtà quotidiana sconvolta dalla guerra: come nell’episodio napoletano in cui il soldato nero americano e lo scugnizzo, deciso a rubargli le scarpe, attraversano la città devastata, o come in quello finale, in cui i partigiani e gli alleati lottano fianco a fianco lungo il delta padano. In ogni inquadratura il paesaggio, con le acque della palude e i canneti, contribuisce a esprimere le emozioni degli uomini che combattono.
Nel successivo Germania anno zero (1948) il disperato girovagare del tredicenne Edmund avviene tra le macerie di Berlino che rappresentano l’equivalente visivo delle ferite incise nel suo animo. Costretto a lavorare e poi a rubare per mantenere la famiglia, alla fine, privato dell’infanzia e dell’innocenza, Edmund si arrende alla disperazione, suicidandosi.
Nel 1948 l’attrice svedese Ingrid Bergman, grande star del cinema hollywoodiano, colpita dall’autenticità dei film di Rossellini, scrisse al regista una lettera in cui gli chiedeva di lavorare con lui. Tra i due nacque una storia d’amore e un importante rapporto artistico. Insieme realizzarono cinque film (più un episodio del film collettivo Siamo donne, 1953) che allora suscitarono molte critiche, ma ebbero anche grande influenza sul cinema successivo, in particolare sui giovani registi (tra cui François Truffaut) che diedero vita al movimento francese della nouvelle vague.
In Stromboli – Terra di Dio (1950), Europa ’51 (1952) e Viaggio in Italia (1954), Rossellini costruì sulla Bergman tre figure di donna, straniere come lei, che a confronto con un ambiente estraneo, a tratti ostile, imparano a conoscere quella realtà e contemporaneamente a conoscere sé stesse. L’illuminazione naturale, l’uso di piani-sequenza che consentono di cogliere tutti gli elementi di una scena, quello del suono che accoglie i rumori della strada, sono scelte tecniche che accentuano l’impressione di realtà e delle quali Rossellini si servì per raccontare la solitudine e lo smarrimento della protagonista.
Il desiderio sempre più forte di realizzare un cinema ‘antispettacolare’, che non fosse condizionato dalle esigenze commerciali, spinse Rossellini a compiere un lungo viaggio in India e a girare una grande quantità di materiali con cui realizzò una serie televisiva e un film, India (1958). Quest’ultimo, strutturato in episodi come Paisà, risponde a una profonda necessità di ricerca spirituale del regista e anticipa quella sua vocazione didattica che lo spinse in seguito a dedicarsi alla televisione.
Dal 1964 Rossellini realizzò infatti una serie di documentari in cui vengono approfonditi importanti periodi della storia, come La presa del potere di Luigi XIV (1966). Trovò così nel giovane mezzo televisivo una libertà che il cinema ormai non gli garantiva. E pur se gli ultimi film girati (tra cui Il generale della Rovere, 1959), d’impianto più tradizionale, avevano avuto un notevole successo di pubblico, volle abbandonare il grande schermo al quale non credeva più. Tuttavia tornò al cinema per realizzare le sue due ultime opere, distribuite saltuariamente sugli schermi: Anno uno (1974) e Il Messia (1975).
La morte lo colse a Roma nel 1977, mentre stava lavorando a un film su Karl Marx.