DE ZERBI, Rocco
Nacque a Reggio Calabria l'11 giugno 1843 da Domenico e da Rosa Cotronei. Il padre, Domenico, avvocato e giornalista dilettante, patriota, e il nonno Rocco, intendente del governo borbonico, curarono i suoi studi a Napoli. Nel 1858 pubblicò, a soli quindici anni, il suo primo libro Florilegio letterario (Napoli), un'antologia di brani di scrittori celebri italiani e stranieri, corredata di note biografiche. Nel 1859 partecipò a un concorso bandito dall'Accademia Pontaniana di Napoli sul tema "Pier delle Vigne e il suo secolo"; per il lavoro presentato ebbe una "menzione onorevole", ma pare che la censura borbonica intervenisse a vietarne la pubblicazione.
Nel 1860, interrotti gli studi, si arruolò come volontario con Garibaldi, partecipando alla spedizione in Sicilia e all'assedio di Capua, come racconta egli stesso in Il primo passo. Note autobiografiche (Firenze 1882, pp. 189-200). Passato poi all'esercito nazionale con il grado di sottotenente di fanteria, dopo aver frequentato la scuola militare di Ivrea, conquistò la medaglia d'argento al valor militare nel 1864 per il comportamento valoroso durante lo scontro a Guardialombarda, presso Avellino, nel corso della campagna contro il brigante C. Crocco Donatelli; quindi partecipò alla guerra d'indipendenza contro gli Austriaci nel 1866 e si congedò dall'esercito nel 1868 con il grado di luogotenente.
Parallelamente a questa intensa ed entusiastica partecipazione alle vicende nazionali, il D. continuò ad applicarsi all'attività letteraria.
Sono in versi: Igaribaldini dopo la campagna (Torino 1861), Canzone in morte del conte di Cavour (Ivrea 1861) e Aspirazioni (Trapani 1864); mentre Poesia e prosa: studio d'un annoiato (Napoli 1868) e Di chila colpa? Fantasticherie d'un annoiato (ibid. 1869) sono racconti che, come ben chiariscono i sottotitoli, sono ispirati al gusto della divagazione e della riflessione estemporanea.
Ma la vera passione del D. fu il giomalismo, nel quale aveva esordito con un articolo pubblicato il 13 ott. 1860 su L'Iride; cominciò effettivamente la sua attività di pubblicista, che proseguì poi per tutta la vita con entusiasmo e continuità, con la collaborazione al giornale La Patria di Napoli (di cui erano redattori, tra gli altri, P. Turiello e V. Imbriani), come correttore di bozze, poi come articolista su temi militari, e quindi come direttore nel 1867, incarico che tenne però per soli tre mesi.
Nel 1868 fondò Il Piccolo. Giornale di Napoli (che cambiò nel 1871 il sottotitolo in Giornale della sera), dirigendolo fino al 1888. Il giornale, sopratutto all'inizio, era scritto quasi interamente dal D., che si occupava degli argomenti più diversi, dalle note di politica alla cronaca letteraria, agli interventi di critica d'arte e musicale, ai pezzi di costume e d'attualità, animati tutti dal tono brillante e spigliato che caratterizzava il suo stile.
Firmava gli articoli con una "z" minuscola. Collaborarono al Piccolo, tra gli altri: Vincenzo Morello (Rastignac), Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Roberto Bracco, Giorgio Arcoleo, Vincenzo Riccio, Achille Torelli. Il giornale divenne ben presto uno dei più importanti e influenti di Napoli; nel 1872 tirava 5.000 copie ed era pertanto il terzo giornale della città.
Il D. collaborò a molti altri periodici, tra cui: La Domenica letteraria, La Gazzetta letteraria di Torino, Il Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche, Il Fanfulla della domenica, Nuova Antologia, Fortunio. Fondò inoltre nel 1877 Il Novelliere, diretto da A. Monaco e dedicato interamente alla pubblicazione di racconti e novelle.
Lo stile giornalistico del D., brillante e spesso vivacemente polemico, applicato a rivestire i temi e gli argomenti più vari della vita sociale, politica e culturale, continua ed esalta quella funzione, tipicamente ottocentesca, del giornalismo connotata dall'intento polemico e "interventistico" piuttosto che da un ruolo informativo e cronachistico.
Questo tipo di giornalismo puntava molto di più sull'effetto che sulla trasmissione di notizie e, in una fase in cui era scarsa l'influenza dei partiti sulla vita politica, riusciva a coagulare attorno a testate giornalistiche e gruppi redazionali più o meno estesi strati di pubblico, orientandoli e influenzandoli con i programmi e con le proposte, anche settoriali e parziali, che su quei giornali erano illustrati e sostenuti. Questo modo di praticare il giornalismo e la pubblicistica era strettamente connesso con l'articolazione della società civile e politica in Italia, e quindi anche con lo stesso meccanismo elettorale che favoriva la funzione delle aree di opinione capaci di influire sulle scelte dei candidati molto più di quanto potessero fare le embrionali organizzazioni partitiche.
Il D., inserito perfettamente in questo clima, si caratterizzava come la prima o almeno una delle prime figure del giornalismo professionale napoletano, un "artista del giornalismo" a giudizio di B. Croce, che sottolineava il favore che riscosse presso la borghesia moderata di Napoli o pel tono spassionato ed elevato, per l'agile eloquenza, per la polemica signorile, arguta e stringente" e concludeva che "al De Zerbi forse più che ad altri si deve se il giornalismo napoletano si andò spogliando di un certo che tra l'ingenuo e il provinciale che prima serbava, e si fece più svelto ed elegante, e più ammaliziato".
L'impostazione del Piccolo e dei pezzi giornalistici del D. è in questo senso analoga a quella che si ritrova nei suoi discorsi elettorali, nelle conferenze, negli interventi politici e parlamentari. Èla sua, una tipica e ben costruita tecnica oratoria che raggiungeva la massima efficacia proprio in occasioni pubbliche nelle quali gli uditori venivano affascinati ed esaltati dalle doti retoriche che il D. dispiegava ugualmente parlando di personaggi teatrali o storici, di problemi amministrativi o di politica estera, di musica o di questioni sociali.
Proprio attraverso il giornale e il giornalismo il D. divenne in breve tempo un rappresentante di rilievo dell'area moderata. Nel volume Scritti politici (Napoli 1876) sono raccolti due discorsi tenuti dal D. durante la campagna elettorale del 1874, nei quali troviamo come punti di forza i richiami patriottici e nazionalistici sostenuti da una decisa opzione per l'espansionismo militare e politico ("la nostra missione, o signori, ci è data dalla natura, ci è insegnata dalla geografia, il nostro avvenire è sul mare", p. 23) e per il rafforzamento dell'apparato militare difensivo e offensivo.
Nello stesso volume sono stampati scritti sui partiti politici in Italia dal 1870 al 1875, sulla politica ecclesiastica italiana, sulla questione sociale, ecc., temi che il D. riprenderà spesso in seguito, senza tuttavia presentare posizioni particolarmente significative e distinte dal diffuso conservatorismo della Destra storica; di questa area, del resto, condivideva la convinzione che la conclusione del processo unitario nazionale avesse comportato la chiusura di un ciclo politico e ideale, nel senso che il compito primario fosse ora concentrato sulla soluzione di tipo tecnico e pratico delle questioni della vita sociale, abbandonati, perché risolti nell'assetto unitario, i grandi temi ideologici e politici caratteristici della fase risorgimentale.
Su questa linea, e pure con sfumature e accentuazioni diverse, il D. si trovava accanto ai settori accentuatamente conservatori della Destra, ai quali si era affiancata un'area di ex garibaldini, come lo stesso D., che in Crispi riconosceva la figura più significativa ed eminente.
Su questo tipo di posizioni il D. fu eletto deputato nelle elezioni politiche del 1874 (legislatura XII), nel collegio di Palmi; nelle successive elezioni del 1876 (legislatura XIII) la sua elezione venne annullata ed egli ricoprì perciò la carica di consigliere provinciale di Napoli; venne quindi rieletto deputato nelle legislature seguenti (XIV, XV, XVI, XVII, XVIII), sempre nel collegio di Palmi e rimase pertanto fino al 1893 alla Camera, dove sedette sempre a Destra, votando tuttavia quasi sempre con la maggioranza governativa. Dopo l'iniziale adesione al gruppo crispino, si spostò nell'area accentuatamente conservatrice che faceva capo al marchese di Rudini, le cui prese di posizione decisamente e apertamente avverse a Crispi trovarono spesso il favore di rappresentanti dell'estrema Sinistra. Il D. fu membro di varie commissioni parlamentari e sempre molto attivo nelle sedute della Camera e nella vita politica.
Sono testimonianza di questa sua intensa attività alcuni discorsi e scritti politici raccolti in volume: Chiesa e Stato (Napoli 1878), Le banche e l'abolizione del corso forzoso (ibid. 1881), Il colera del 1884. Croce bianca e croce rossa, relazione letta all'assemblea generale dei volontari il 5 ott. 1884 (ibid. 1884; il D. fu presidente della Croce bianca, il comitato di soccorso per il colera a Napoli, e per la sua opera fu decorato con la medaglia d'oro e nominato in seguito presidente della Croce rossa di Napoli, carica che ricoprì fino alla morte), L'inchiesta sulla colonia Eritrea (Roma 1891) - il D. era stato in Egitto nel 1888 e in Eritrea nel 1889 -, nel quale sosteneva l'utilità e la necessità della colonizzazione militare e agricola, L'equilibrio nel Mediterraneo (ibid. 1892), ecc.
Si ritrovano sparse in questi scritti le convinzioni espresse con ricchezza di argomenti e di considerazioni dal D. a proposito della politica estera dell'Italia, la cui impostazione avrebbe dovuto a suo giudizio essere strettamente connessa con la necessità per la giovane nazione di migliorare la propria tempra morale e ideale e la propria immagine di fronte all'Europa. L'argomento tanto diffuso nella pubblicistica postunitaria che sottolineava il ruolo militarmente marginale sostenuto dall'Italia nel processo della propria indipendenza trova nel D. un convinto e insistente sostenitore. Subordinando ogni altra questione di politica interna alla prospettiva di rafforzare il carattere degli Italiani, in funzione nazionalistica e tendenzialmente aggressiva, sintetizzava la propria posizione politica con una frase che è quasi uno slogan: "Il programma al quale ho dedicato e dedicherò la mia esistenza è quello di una patria grande e potente (Le banche e l'abolizione del corso forzoso, p. 4).
Proprio la propaganda di queste posizioni portò il nome del D. alla ribalta della scena politica, in seguito alla polemica che suscitò un suo discorso pronunziato al teatro Castelli di Milano il 2 luglio 1882, La difesa dello Stato (poi rist. nel volume Difendetevi!, Napoli 1882, insieme a una prefazione e alla risposta del D. agli attacchi che per il suo discorso aveva subito in Italia e all'estero). In questa occasione il D. aveva ripreso il tema che gli era caro della necessità del rafforzamento militare italiano, in un periodo che vedeva le altre nazioni europee in piena espansione militare, economica e politica.
Il passaggio incriminato del suo discorso che contiene un'immagine ripresa nei decenni successivi da tutti i nazionalisti, bellicisti e imperialisti, è il seguente: "un paese, uscito dalla corruzione e dalla schiavitù e che nell'unica sua prova militare contro lo straniero non fu favorito dalla fortuna né in terra né sul mare, dee piuttosto temere anziché desiderare una troppo lunga era di pace, dee piuttosto desiderare anziché temere il lavacro degli eroi, il tiepido fumante bagno di sangue!" (Difendetevi!, p. 49).
Benché questo tipo di posizioni fosse tutt'altro che isolato nel panorama politico italiano, ché, anzi, nutriti gruppi di potere finanziario e politico spingevano decisamente in quegli anni perché l'Italia partecipasse militarmente alla spartizione imperialistica che dell'Africa stavano attuando le potenze europee, tuttavia la polemica si scatenò nei confronti del D. soprattutto per il modo esplicito e insieme pesantemente retorico di propagandare una prospettiva politica che a molti pareva improntata al più forsennato avventurismo. Va del resto sottolineato che in queste parole del D. (che riecheggiavano peraltro un'analoga espressione di Crispi di qualche anno prima) si scorgevano più o meno chiaramente i segni di quel bellicismo retorico che, nel nome della prosecuzione dell'eroismo e dell'idealismo risorgimentali, tendeva a trascinare il paese in una politica di grandeur che mal si conciliava con le reali risorse e capacità del giovane Stato unitario.
A caratterizzare ulteriormente la figura intellettuale del D. di questi anni, non manca la sua adesione esplicita a quella cultura "bizantina" che proprio all'inizio degli anni Ottanta si affermava nell'Italia umbertina; ancora in un passaggio dello stesso discorso si legge: "Ora ciò che manca all'Italia è Roma! Quel che chiamiamo Roma non è Roma, è Bisanzio" (p. 50).
Bizantinismo significò prima di tutto critica aspra e netto rifiuto delle linee della realtà sociale e culturale come si era stabilizzata dopo l'Unità; sostanzialmente su due versanti, strettamente connessi, quello dell'antiparlamentarismo, che poggiava sulla convinzione che il regime parlamentare fosse fonte di indebolimento, quando non di corruzione, dello Stato e della sua capacità di iniziativa, e, insieme, quello dell'espansionismo di tipo economico e militare che puntava sull'emigrazione e sul riarmo accelerato per conquistare all'Italia terre e zone d'influenza nel quadro imperialistico mondiale. Bizantinismo significò ancora un certo tipo di pratica letteraria e di scrittura, tesa a contrastare ogni dimensione realistica, naturalistica e prosaica dell'esercizio letterario, esaltando la preziosità e la ricercatezza della lingua come espressione di una letterarietà che andava riaffermata come valore nella distanza accentuata dalla meschinità, dal tono dimesso e piatto della vita culturale e politica della nazione. Tutti questi elementi si ritrovano nella produzione politica e letteraria del D. che, pure nella sua superficialità e approssimazione, aderisce perfettamente a un clima intellettuale del quale fu, anche se per breve tempo, una figura di rilievo.
Nel 1883 il D. pubblicherà, non a caso presso l'editore Sommaruga di Roma che fu il centro aggregatore di quella cultura, il libro Ilmio romanzo. Confessioni e documenti, che rimane il suo lavoro letterario più interessante. Vi sono ristampate novelle e leggende già pubblicate su riviste (Il granato del mago, Il ramo d'ulivo, Suor Angiola Vittoria, Pergolesi) e Il mio romanzo. Confessione di un anonimo, un lungo racconto costruito su diversi registri narrativi (racconto nel racconto, scambi epistolari, visioni, giochi di finzione, ecc.) che rimanda al linguaggio e alla ispirazione di certa letteratura scapigliata e insieme al tardo romanticismo dominante nella narrativa italiana del decennio 1870-80, che rappresenta un ponte significativo verso il dannunzianesimo letterario di fine secolo. C'è, in più e proprio del D., il gusto di tipo barocco per la costruzione eloquente della frase, come per la ridondanza lessicale e stilistica, per la trascrizione delle ansie e dei deliri dei personaggi, in alcuni dei quali sono ravvisabili tratti autobiografici.
Sull'onda del successo di questo primo romanzo (più volte ristampato), l'editore Sommaruga gli pubblicò nel 1884 L'avvelenatrice (anch'esso ristampato diverse volte), dallo stesso D. presentato come titolo da "drammaccio d'arena" (p. 5) ovvero romanzo d'appendice del quale ha la trama a forti tinte, i personaggi stagliati nettamente, espressioni concitate ed esaltate di sentimenti e stati d'animo, e insomma l'intero andamento narrativo. Questo libro ottenne ancora più del precedente un grande successo e suscitò uno scalpore dovuto probabilmente alla tonalità oltranzista della vicenda narrata e dei personaggi che vi comparivano. Qui meglio che in Ilmio romanzo è possibile cogliere nel protagonista maschile molti elementi di tipo autobiografico, soprattutto nelle caratteristiche psicologiche del ritratto che il D. ce ne offre: "Egli era impressionabile, facile a commuoversi, facile a innamorarsi di un'idea originale, fantastico, immaginoso ... uno scettico fuso con un mistico" (p. 173).
Già nel 1870, dopo i primi romanzi giovanili, il D. aveva pubblicato un romanzo Senza titolo (Napoli), la cui quarta edizione (ibid. 1881) porta il titolo L'ebrea; ancora del 1877 è Vistilia. Scene tiberiane (ibid.), da cui fu tratto un libretto di G. Targioni Tozzetti e G. Menasci che doveva essere musicato da P. Mascagni. Si tratta di una storia, ispirata a un passo degli Annali di Tacito, ambientata nella Roma dell'imperatore Tiberio, che consente al D. uno sfoggio di fantasia, di erudizione e di eloquio che, in forma di narrazione o di conferenza, rimane il tratto distintivo della sua personalità.
A questo proposito F. Verdinois scrisse: "Gli piace stordire la folla con la varietà infinita delle cognizioni raggranellate, con la scienza delle cose più astruse, con la conoscenza, di molte lingue e di molte letterature, gli piace che il pubblico grosso si domandi tutto ammirato: come fa costui a sapere tante cose?" (p. 140).
Tutto questo bagaglio di conoscenze e di curiosità si ritrova nei temi delle conferenze e dei discorsi che tenne sugli argomenti più diversi e che furono stampate poi in volume. Tra gli altri: Illinguaggio dell'uomo primitivo, conferenza al Circolo filologico, di Napoli (Napoli 1878), Faust. Gli amanti di Faust. Sogni di cloralio (ibid. 1879), tradotta anche in tedesco, Amleto. Studio psicologico, detto nell'istituto di belle arti di Napoli (Torino 1880), Per la morte di Giuseppe Garibaldi (Bologna 1882), Rossini e la musica nuova (Firenze 1892), Pisani e napoletani (Pisa 1884), Commemorazione di Marco Minghetti (Legnago 1889), Ottone di Bismarck (Parma 1890), ecc., oltre ai già citati discorsi elettorali e politici.
A giudizio dei contemporanei il D. eccelleva nell'arte oratoria, essendo capace di dominare il pubblico con il ricorso a tutti gli strumenti e gli espedienti della comunicazione e della persuasione, dalla citazione dotta all'immagine fantasiosa, dal ragionamento paradossale al ricorso al buon senso, dalla mimica alla voce, che sapeva modulare e piegare a ogni esigenza: insomma una affinata tecnica oratoria che va collocata, come scrive il Russo, in una "ideale storia dell'eloquenza forense teatrale meridionale" (p. 119) piuttosto che nella storia letteraria. Il carattere brillante e vivace della sua oratoria era rafforzato dalla carica polemica con la quale rivestiva le considerazioni e prese di posizione su questioni d'attualità (per es. a proposito di una legge sugli Ordini monastici, una legge sul risanamento di Napoli, un disegno di legge riguardante la regia marina, ecc.), come su temi letterari e di costume.
La polemica più clamorosa fu avviata dal D. nei confronti di G. Carducci con un articolo pubblicato il 6 genn. 1879 su Il Piccolo con il titolo Sommario della poesia italiana nel 1878, nel quale Carducci era definito, tra l'altro, un "Marte invecchiato" che "per far colpo ricorre alla cantaride e all'elixir Coca"; ancora un pesante attacco il D. indirizzava alla poesia carducciana nell'articolo La nuova metrica, sempre su Il Piccolo (2 sett. 1879), dove, a proposito dei versi di Carducci, il D. scriveva che essi erano "mori vestiti da inglesi, che si annunziano come parigini". Come si vede da questi passi l'attacco del D. aveva tutti i caratteri della provocazione; Carducci non rispose, finché il 7 sett. 1879 sul Fanfulla della domenica apparve un nuovo articolo del D. intitolato Ad un poeta della nuova scuola nel quale veniva tratteggiata la figura letteraria e culturale di Tibullo la cui poesia era perfettamente aderente, a giudizio del D., alla sensualità e alla brutalità della società romana antica. Di qui prese lo spunto Carducci per rispondere (Per il cavaliere Albio Tibullo, in Fanfulla della domenica, 21 sett. 1879), correggendo le citazioni imprecise che il D. aveva prodotto dei passi di Tibullo e, in genere, contestando sarcasticamente l'immagine che del poeta romano ne aveva dato.
La polemica divampò con interventi successivi di entrambi, prima sulla stessa rivista, poi sul Il Piccolo e su La Patria di Bologna, e si concluse con l'ultima replica del D. alla quale Carducci non credette necessario rispondere, convinto di avere dimostrato "che il signor De Zerbi non conosce Tibullo, del quale egli aveva troppo parlato". L'episodio suscitò notevole scalpore, soprattutto per l'ardimento provocatorio dimostrato dal D. nel colpire apertamente e con insistenza una figura come quella di Carducci all'apice del successo letterario e culturale; gli articoli su Tibullo vennero rapidamente raccolti in volume e pubblicati dall'editore Treves con il titolo Tibullo. Polemica fra Giosuè Carducci e R. D. (Milano 1880). Al di là della sostanza dell'oggetto della polemica, interessa rilevare l'irruenza e la decisa vena battagliera del D., un elemento tipico del suo carattere che lo portò, tra l'altro, a dover sostenere in molte occasioni, come era costume dell'epoca, duelli, e che comunque, in genere, favorì la sua brillante carriera.
Questa carriera ebbe tuttavia un finale tragico, nel 1893, quando il D. fu travolto dal grave scandalo della Banca romana che aveva occupato la scena politica e parlamentare già da molti mesi e che fu avviato alla Camera dalle rivelazioni di N. Colajanni. Il D., che era stato nella XVII legislatura segretario della commissione parlamentare per l'esame del progetto di riforma bancaria, ricevette all'inizio del 1893 un mandato di comparizione con l'accusa di corruzione: in pratica era accusato di avere accettato, in cambio di oltre mezzo milione di lire, di sostenere una campagna giornalistica a favore della Banca romana, diretta da Bernardo Tanlongo, anch'egli coinvolto nello scandalo, e di avere inoltre sostenuto, da parlamentare, le posizioni più vantaggiose per il sistema di credito voluto dal gruppo finanziario che faceva capo alla Banca romana; in una parola di avere venduto il suo voto. Lo scalpore suscitato dalla vicenda fu molto grande, anche perché giornali e gruppi d'opposizione coinvolsero nell'accusa molti personaggi di spicco del giornalismo, della finanza e della politica, Crispi e Rudinì compresi, alludendo a un intreccio di interessi e di corruzione morale che andava ben al di là del caso in questione. Dall'altra parte si evocavano la malafede e la strumentalizzazione dell'episodio a fini di lotta politica contro determinati gruppi politici ed economici.
Il 3 febbr. 1893 la Camera concesse all'unanimità e per sollecitazione dello stesso D. l'autorizzazione a procedere contro di lui. Il 20 febbr. 1893 il D., che continuò fino alla fine a protestare la propria innocenza, colpito da attacco cardiaco, moriva a Roma.
Il 21 febbraio, in occasione della commemorazione che la Camera fece del deputato scomparso, si ebbero incidenti, quando alcuni deputati presero spunto dalla morte del D. per attribuire al governo e a Giolitti che lo presiedeva la responsabilità morale e politica dell'accaduto e della intera vicenda, la quale ebbe, dopo la morte del D., strascichi rilevanti nella vita politica e parlamentare e tuttavia il nome del D. rimase l'unico emerso con chiarezza tra i tanti chiamati in causa. Si sparse subito la voce che il D. si fosse suicidato ingerendo arsenico, come la protagonista del suo romanzo L'avvelenatrice. Attorno al suo nome e alla sua fine fiorirono leggende di ogni genere e benché tutte fossero smentite decisamente dalla famiglia e dagli amici, le voci continuarono a circolare avvalorate dalla convinzione di molti che nel D. si fosse voluto individuare il capro espiatorio di una situazione di corruzione morale e politica che in realtà affondava le sue radici in ambienti molto più ampi e rimasti coperti. Tuttavia la documentazione in base alla quale la Camera autorizzò la procedura contro il D. era abbondante e particolareggiata e comunque sufficiente a dimostrare il suo coinvolgimento nella vicenda, anche se non certo in un ruolo esclusivo o di primo piano.
Nel 1893 uscì l'ultima prova narrativa del D., Due amori o Dolore per dolore (Napoli, 2 voll.); finiva così nel silenzio reticente della stampa, anche di quella a cui egli aveva assiduamente collaborato, la brillante e rapida affermazione di un ingegno vivace e versatile, che era stato decisamente e impetuosamente partecipe degli umori di settori influenti della società letteraria e politica italiana, quei settori conservatori e reazionari che, benché in modo non organico e omogeneo, andavano elaborando e praticando una serie di scelte ideologiche e politiche che segnarono l'ultimo ventennio dell'Ottocento in Italia.
Come è successo ad altri intellettuali dell'epoca, anche di maggior peso e statura, da Oriani a Mosca, Turiello, Pareto, anche il D. fu indicato come precursore dal nazionalismo prima e dal fascismo poi, soprattutto per la sua visione della politica estera e il suo antiparlamentarismo. Ricollocato precisamente nell'epoca in cui visse, le sue posizioni, senza perdere nulla del loro carattere squisitamente antidemocratico e nazionalista, si presentano come una delle manifestazioni tipiche e significative delle difficoltà, degli squilibri e delle insofferenze della società nazionale postunitaria.
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