Giulio I, santo
Il Liber pontificalis, nr. 36, lo dice romano di nascita, "ex patre Rustico". Fu consacrato vescovo di Roma il 6 febbraio 337. In quell'anno venne a mancare Costantino, e la sua scomparsa determinò una nuova fase della crisi ariana nella quale il vescovo di Roma fu coinvolto direttamente, come mai si era dato prima. In effetti fino ad allora la controversia aveva interessato soltanto l'Oriente: anche se papa Silvestro nel 325 era stato invitato al concilio di Nicea, dove si era fatto rappresentare dai presbiteri romani Vito e Vincenzo, di fatto egli era rimasto completamente estraneo sia alle deliberazioni del concilio sia agli avvenimenti successivi, i quali avevano visto il dispiegarsi, coll'appoggio dello stesso imperatore, di una reazione antinicena che si era potuta spingere fino alla riabilitazione di Ario (335).
Ciò si era potuto verificare perché il concilio, al di là della condanna delle proposizioni radicali di Ario (creaturalità di Cristo in quanto Figlio di Dio), nell'affermare la piena divinità di Cristo e il suo essere realmente Figlio di Dio ne aveva accentuato l'unità con il Padre, fino ad affermare di loro una sola sostanza e una sola ipostasi (persona), dottrina che si suole definire monarchiana, come monarchiani sono detti i suoi sostenitori. Queste affermazioni contrastavano l'impostazione dottrinale più diffusa in Oriente, che distingueva nettamente l'identità del Figlio da quella del Padre sostenendo di loro ipostasi distinte. La formula secondo cui il Figlio è homoousios (della stessa sostanza, consustanziale) con il Padre era stata imposta da Costantino stesso alla maggioranza riluttante del concilio, che la considerava eccessivamente unitiva, tale da far pensare che la persona del Figlio fosse assorbita in quella del Padre, come affermavano i monarchiani radicali. Di conseguenza, un diffuso stato d'animo ostile ai deliberati del concilio aveva favorito una reazione a danno dei suoi principali sostenitori, e l'imperatore, alla ricerca di una soluzione politicamente equilibrata della controversia religiosa, non l'aveva ostacolata in quanto, dopo avere colpito gli estremisti di una parte con la condanna di Ario e degli aspetti più radicali della sua dottrina (la riabilitazione di Ario nel 335 fece seguito a una sua ritrattazione, per altro poco più che formale), non vedeva con sfavore la condanna degli estremisti della parte opposta. Non intendeva però riaprire la discussione dottrinale, sì che costoro furono condannati in base ad accuse varie: immoralità, abuso di potere e altro. Tra i vescovi condannati deposti ed esiliati, accanto a vari altri, c'erano stati anche Atanasio, vescovo di Alessandria dal 327, che era stato accusato di violenza ai danni dei suoi antagonisti d'Egitto (concilio di Tiro del 335), e Marcello, vescovo di Ancira, la cui dottrina monarchiana in senso radicale, in quanto negava che la divinità di Cristo fosse preesistita alla sua incarnazione, appariva agli Orientali non meno condannabile di quella di Ario (concilio di Costantinopoli del 336). A seguito della condanna l'imperatore aveva fatto esiliare i vescovi deposti, Atanasio a Treviri, Marcello non si sa dove.
Quando Costantino morì, tutti i vescovi esiliati rientrarono nelle loro sedi, ma solo per poco tempo finché la situazione politica si mantenne incerta. Essa si risolse in tempi brevi con la divisione di fatto dell'Impero tra i figli superstiti di Costantino, Costante, cui toccò l'Occidente, e Costanzo, cui toccò l'Oriente. Qui la condanna dell'arianesimo radicale da una parte e dei principali avversari di Ario dall'altra aveva favorito la concentrazione di un forte partito d'impostazione mediana, che s'ispirava a Origene e a Eusebio di Cesarea nell'affermare una dottrina cristologica insistente sulla divinità di Cristo in quanto Figlio reale di Dio, distinto per ipostasi da Dio Padre, a lui subordinato e unito per l'identità del volere e dell'agire, creatore e redentore del mondo e dell'uomo. Era una dottrina che, affermando la reale origine divina di Cristo, si distanziava da Ario, e affermandolo distinto dal Padre per ipostasi, prendeva le distanze dal simbolo di Nicea, di fatto accantonato anche senza essere apertamente rifiutato. A questa impostazione dottrinale si accompagnava una presa di posizione politica del tutto ostile ai vescovi che erano stati condannati ed esiliati e che erano rientrati, alla morte di Costantino, nelle loro sedi, in più luoghi tra disordini e violenze. Costanzo appoggiò questa presa di posizione, per cui Atanasio, Marcello e altri ancora furono costretti ad abbandonare nuovamente le loro sedi, ma questa volta riuscirono a evitare l'esilio rifugiandosi in Occidente, dove Costante assunse subito una posizione diversa da quella del fratello Costanzo. Egli infatti non aveva alcun interesse a contrastare quella che era l'impostazione ideologica dominante, in ambito cristiano, nella parte dell'Impero che era sotto il suo dominio, e questa si era definita subito in senso nettamente ostile agli Orientali. Per intendere questo orientamento, bisogna tener conto della convergenza di due distinti fattori. Uno era rappresentato da una tradizione dottrinale che ormai si era cristallizzata in una concezione del rapporto tra Dio e Cristo d'impostazione molto più unitiva di quanto non si desse in Oriente: qui si mirava soprattutto a preservare l'identità di Cristo in quanto Dio nel rapporto con il Padre, fino a mettere in pericolo il concetto fondamentale dell'unicità di Dio; in Occidente invece si rilevava tale unicità fino a mettere in pericolo la distinzione del Figlio di Dio rispetto al Padre. Il secondo fattore fu rappresentato dalla presenza a Roma (339) di Atanasio e Marcello, che seppero abilmente sfruttare a loro beneficio questa tendenza unitiva della dottrina trinitaria in Occidente, nel senso che presentarono l'accantonamento del simbolo niceno in Oriente come adesione alla dottrina di Ario e loro stessi come vittime, in quanto avversari di Ario, di una reazione di stampo tout court ariano. Era una presentazione dei fatti largamente tendenziosa, in quanto, come s'è accennato, gli Orientali, attestandosi in posizione mediana, se da una parte avevano accantonato il simbolo niceno, dall'altra avevano preso bene le distanze dalla vera e propria dottrina di Ario; e la loro opposizione a Marcello e ad Atanasio era motivata, molto di più che dal loro antiarianesimo, dalla dottrina monarchiana radicale di quello e dal carattere eccessivamente autoritario di questo. G., per altro, abbracciò subito la causa di Atanasio e Marcello e fece suoi tutti i loro argomenti: fu decisione gravida di conseguenze, perché, riaprendo un contenzioso che in Oriente veniva considerato già risolto, orientò in senso del tutto nuovo il corso della controversia prolungandola indefinitamente. Lo poté fare perché ormai il prestigio e l'autorità del vescovo di Roma erano in Occidente tali che, soprattutto in materia di dottrina, egli orientava l'atteggiamento dell'intero episcopato: per questo Costante, i cui rapporti col fratello non erano i migliori, non aveva alcun interesse a contrastare G., e perciò lo metteva al sicuro nei confronti di una possibile reazione violenta di Costanzo, che in effetti ci fu ma non più che indiretta e meramente verbale. Per mettere meglio a fuoco, in aggiunta agli argomenti di portata più generale qui sopra accennati, la pronta adesione di G. alla posizione rappresentata da Atanasio e Marcello non tenendo conto, come si vedrà, delle proteste degli Orientali, va rilevato che a determinarla convergevano varie motivazioni: in Occidente l'impostazione unitiva della dottrina trinitaria si accompagnava con una situazione generale di notevole arretratezza dottrinale rispetto a quanto in questo ambito si era progredito in Oriente; dopo l'exploit di Novaziano alla metà del III secolo, Roma non aveva più prodotto alcunché di dottrinalmente significativo a eccezione della lettera, quanto mai compendiosa, che Dionigi di Roma intorno al 260 aveva indirizzato a Dionigi di Alessandria, mentre in Oriente si era continuato a discutere con accanimento sul problema cristologico. Ne derivava che G. non era in condizione di entrare nei dettagli di un contenzioso dottrinale, quello del contrasto tra la tradizione origeniana e quella monarchiana, dai risvolti quanto mai complessi e sofisticati: tendeva perciò naturalmente a procedere per distinzioni nette, che non potevano riuscire a centrare esattamente la complessità della situazione dottrinale in Oriente. Ci si aggiunga che la procedura che al concilio di Tiro (335) aveva portato alla condanna di Atanasio, ancorché fondata su fatti reali quanto alle violenze perpetrate da Atanasio ai danni dei suoi avversari d'Egitto, aveva lasciato molto a desiderare, sì che Atanasio agevolmente si poteva presentare a Roma come una vittima dell'odio teologico. Da ultimo va considerato che ormai il vescovo di Roma tendeva a esaltare il primato d'onore, che tutta la cristianità tradizionalmente gli riconosceva, come vero e proprio primato di giurisdizione e quindi, facendosi forte di vari precedenti in materia verificatisi soprattutto in Occidente, era portato ad attribuirsi il diritto di fungere quale tribunale d'appello riguardo a divergenze insorte tra i vescovi di altre parti del mondo cristiano, anche orientali. In questo senso le condanne di cui erano stati vittime Atanasio, Marcello e gli altri esuli dall'Oriente offrivano a G. una buona occasione per affermare quelli che egli riteneva i diritti della Sede romana. Tratteggiato così lo sfondo politico e dottrinale dei contrasti, si presentano ora rapidamente i fatti.
Eusebio di Nicomedia, leader dello schieramento episcopale antiniceno in Oriente, quando ebbe ristabilito a suo vantaggio la situazione politica compromessa dal rientro in sede dei vescovi fatti esiliare da Costantino, decise di informare in proposito il vescovo di Roma: era infatti consapevole che la nuova congiuntura politica avrebbe comportato inevitabili complicazioni, in quanto faceva prevedere che Marcello e gli altri vescovi di nuovo espulsi dalle loro sedi (Atanasio resisteva ancora ad Alessandria, ma gli avversari erano già attivi anche contro di lui) si sarebbero appellati alla Sede romana, secondo una vecchia prassi che ora poteva essere richiamata in vita, data l'indipendenza che questa aveva acquisito nei confronti dell'imperatore d'Oriente. Perciò Eusebio e alcuni dei suoi più stretti collaboratori intorno al 339 scrissero a G., invitandolo a rifiutare la sua comunione ai vescovi deposti e scacciati, in primis ad Atanasio, contro cui veniva fatta valere la condanna del concilio di Tiro, debitamente documentata. Una delegazione, composta dal presbitero Macario e dai diaconi Martirio ed Esichio, fu incaricata di recapitare la lettera a Roma. Qui i delegati si incontrarono con una delegazione inviata da Atanasio per consegnare a papa G. copia di una lettera enciclica, che era stata pubblicata, in difesa di Atanasio, da un concilio di vescovi egiziani svoltosi nel 338. Si venne a discussione e, non si sa in quali termini precisi, gli eusebiani si espressero in modo che G. interpretò come un invito a discutere la questione in un concilio. Nel frattempo la situazione di Atanasio ad Alessandria era precipitata: costretto a fuggire, egli giunse a Roma verso la fine del 339. Per sollecitazione sua e degli altri esuli, G. decise di dare esecuzione al progetto di un nuovo concilio, da tenere a Roma, per riesaminare tutto il contenzioso. I presbiteri romani Elpidio e Filosseno verso la primavera del 340 si recarono ad Antiochia latori di una lettera indirizzata a Eusebio e ai suoi colleghi, in cui G. invitava alcuni di loro ad andare a Roma per il concilio: l'invito era motivato sulla base delle lamentele che il loro operato aveva provocato e sulla incertezza, da parte di G., nel decidere in merito a una questione, quella di Atanasio, sulla quale le due parti avevano presentato documentazioni discordanti. Eusebio fece passare molto tempo prima di rispondere, e la sua risposta, che Elpidio e Filosseno recarono a Roma all'inizio del 341, era quella di chi non aveva alcun interesse a un riesame della situazione. Eusebio rifiutava di partecipare al concilio perché considerava legittimi e validi i provvedimenti che erano stati presi a carico di Atanasio e degli altri esuli e perciò non vedeva per quale motivo e con quale autorità il nuovo concilio avrebbe potuto riesaminare i vari casi. Gli Orientali riconoscevano l'importanza della Sede romana ma non per questo si sentivano a essa inferiori. Venivano ribadite le accuse contro Atanasio e Marcello e si minacciava una scissione, qualora G. avesse continuato a rimanere in comunione con loro.
La risposta negativa di Eusebio non distolse G. dalla realizzazione del concilio, che si tenne a Roma nella primavera del 341 con la partecipazione di una cinquantina di vescovi italiani. Si riunirono nella chiesa cui presiedeva il presbitero Vito, che anni prima aveva rappresentato papa Silvestro a Nicea e che evidentemente per tale motivo era considerato esperto di questioni orientali. Si conoscono le decisioni del concilio, come anche i contatti e le discussioni che lo avevano preceduto, da una lettera che G. inviò a Eusebio e ad alcuni altri vescovi orientali nominativamente indicati: l'ha tramandata Atanasio nell'Apologia contra Arianos 21-35, che, con l'Historia ecclesiastica III, 8 di Sozomeno, è testo fondamentale per la conoscenza di tutti questi fatti. G. accenna ai tanti esuli giunti a Roma da varie parti dell'Oriente, ma specificamente tratta soltanto le questioni di Atanasio e di Marcello. Riguardo al primo, G. lamenta le irregolarità della procedura del concilio di Tiro e della recente elezione di Gregorio il Cappadoce a suo successore ad Alessandria. Quanto a Marcello, dato che era stato deposto per motivi dottrinali (monarchianismo radicale), G. osserva che questi aveva illustrato al concilio la sua professione di fede e il concilio l'aveva tenuta per buona. Si è a conoscenza che in questa occasione Marcello aveva presentato al concilio un breve testo, redatto per l'occasione, in cui trascorreva su alcuni punti particolarmente contestati della sua dottrina ma confermava la fondamentale impostazione unitiva della sua riflessione trinitaria: perciò la facile assoluzione rilevava eloquentemente il divario dottrinale che allora si aveva tra Oriente e Occidente, tanto più che nella lettera di G. più volte viene enfatizzato in tono polemico l'atteggiamento filoariano degli Orientali. Nella lettera G. discute variamente anche l'opposizione di principio che gli Orientali avevano avanzato circa la pretesa della Sede romana di riesaminare in un nuovo concilio l'operato dei precedenti concili che avevano condannato Atanasio e Marcello. Il suo argomentare è generico: l'unico riferimento specifico è al canone 5 del concilio di Nicea, il quale però, demandando a concili provinciali il riesame di condanne per scomunica comminate da un vescovo a danno di qualche suo diocesano, nulla aveva in comune con i fatti dei concili di Tiro e di Costantinopoli. Altrettanto debole è il richiamo alla tradizione, che imporrebbe di sottoporre questioni di tale importanza alla preventiva approvazione del vescovo di Roma: in effetti i precedenti interventi del vescovo di Roma in questioni concernenti Chiese orientali implicavano una prassi priva di regolarità e non sancita da norme specifiche, perché nessuno dei canoni approvati a Nicea e altrove faceva parola di questa prerogativa del vescovo di Roma. In realtà, l'insistere di G. su questo argomento era controproducente, perché si configurava come indebita intrusione della Sede romana in questioni interne delle Chiese d'Oriente, gelose della loro autonomia. Questo concilio romano del 341 segnò un momento decisivo nel tormentato iter della controversia ariana, perché significò l'intervento attivo dell'Occidente in una prospettiva che si sarebbe rivelata quasi sempre antagonista rispetto alla posizione assunta dall'episcopato orientale, come fu dato di constatare immediatamente anche in quella occasione. In effetti Eusebio ritenne che non si dovesse lasciare senza risposta la dura lettera di G., ed essa fu costituita da un concilio che ancora nel 341 riunì ad Antiochia quasi cento vescovi orientali. Anche se si è ben poco ragguagliati sullo svolgimento del concilio, tre distinte professioni di fede, che furono allora pubblicate, permettono di rilevarne la posizione dottrinale: il concilio ribadì la sua estraneità alla dottrina di Ario, delle cui affermazioni più radicali fu confermata la condanna; tacque completamente riguardo al concilio di Nicea e al suo simbolo e invece pubblicò una professione di fede, la cosiddetta seconda formula antiochena del 341, di tenore tradizionale in senso origeniano, la cui impostazione di fondo è stata qui sopra già riportata. A questo punto il contrasto con Roma, che finora era stato limitato a questioni di persone, dato l'esplicito richiamo che nella sua lettera G. aveva fatto al concilio di Nicea e alla tendenza filoariana dei suoi avversari, si allargava anche all'ambito dottrinale. Comunque non mancarono tentativi di raggiungere una qualche intesa: mentre una delegazione orientale inviata a questo scopo a Milano, dove allora risiedeva Costante, falliva il suo obiettivo, G. insieme con Atanasio e altri esponenti della sua parte premeva sull'imperatore al fine di riunire un concilio in cui Occidentali e Orientali si potessero confrontare finalmente in modo diretto, e, nonostante la ritrosia in proposito dell'episcopato orientale, Costanzo, pressato dal fratello, accettò la proposta: fu scelta come sede Serdica (l'attuale Sofia), in Tracia, situata nella parte dell'Impero retta da Costante, ma proprio al confine con la parte orientale. Data la rigidezza delle contrapposte posizioni, lo spazio di manovra era pressoché inesistente. Si può ipotizzare che G. contasse di poter prevalere sugli Orientali facendo forza sulla compattezza del fronte occidentale, in quanto le notizie su quello orientale, che egli recepiva dagli esuli, glielo presentavano più frazionato e discorde di quanto in realtà non fosse. Sebbene infatti in Oriente non tutti condividessero la linea affermata nel 341 ad Antiochia e la morte (341 o 342) di Eusebio di Nicomedia, abile e indiscusso leader dell'episcopato orientale, avesse ulteriormente indebolito lo schieramento, quella linea era ancora ben rappresentata e soprattutto si faceva forte del sostegno di Costanzo.
In effetti, se queste erano le speranze di G., lo svolgimento del concilio le frustrò completamente. Nell'autunno del 343 (meglio che del 342, come preferiscono alcuni studiosi) affluì a Serdica un centinaio di vescovi occidentali, capeggiati dall'influente Ossio, vescovo di Cordova. G. si fece rappresentare dai presbiteri Archidamo e Filosseno e dal diacono Leone; con un certo ritardo giunsero i vescovi orientali, tra settanta e ottanta, tra i quali facevano spicco Stefano, da poco vescovo di Antiochia, e alcuni che erano stati provati collaboratori di Eusebio, Teognide di Nicea, Narcisso di Neronia, Maride di Calcedonia. Due degli Orientali, di nome Ario e Asterio, passarono subito dalla parte degli Occidentali. I lavori, appena iniziati, si fermarono per un intoppo di carattere procedurale: gli Occidentali volevano farvi partecipare a pieno titolo Atanasio e gli altri esuli Orientali che il concilio di Roma aveva riabilitato, mentre gli Orientali rifiutavano fermamente. Non era soltanto una questione di forma: gli Orientali ritenevano valide le disposizioni in base alle quali quei vescovi a suo tempo erano stati deposti, e non avevano accettato i deliberati del concilio di Roma in senso contrario; erano perciò disposti a ridiscutere su di loro, ma sulla base della precedente condanna. Di contro gli Occidentali consideravano valide le deliberazioni del concilio di Roma e perciò esigevano che i vescovi là riabilitati sedessero nel concilio in piena parità con tutti gli altri. Si discuteva ancora quando gli Orientali ruppero gli indugi e, nonostante le proteste degli Occidentali, abbandonarono nottetempo Serdica, non prima di aver presentato in una lettera enciclica la loro versione dei fatti in contestazione, concludendo con la scomunica dei principali esponenti del partito avverso, tra cui anche Giulio. Nonostante che col ritiro degli Orientali fosse venuto meno lo scopo fondamentale per cui il concilio era stato indetto, gli Occidentali decisero di riesaminare da soli le questioni all'ordine del giorno; le loro discussioni e deliberazioni non fecero altro che ricalcare, con un po' più di attenzione, quanto si era discusso e deliberato due anni prima a Roma: fu confermata la riabilitazione di Atanasio, Marcello e tutti gli esuli, fu pubblicata una serie di canoni disciplinari e furono condannati e scomunicati Stefano e gli altri principali esponenti dell'episcopato orientale. Per la prima volta nella storia della Chiesa si era verificata una frattura ufficiale tra le cristianità d'Occidente e di Oriente.
Di tutte queste discussioni e deliberazioni fu data notizia in una lettera sinodale di tono completamente antitetico rispetto a quello della sinodale degli Orientali, che fu indirizzata dal concilio a papa G.; di qui fu stralciata la parte che riguardava Atanasio e la situazione della Chiesa di Alessandria e fu inviata, in lettere specificamente indirizzate, alle Chiese di Alessandria e di Egitto e Libia. La lettera sinodale concludeva la discussione riguardante i personaggi contestati con una lunga professione di fede, anch'essa contrapposta a quella con cui gli Orientali avevano concluso la loro lettera sinodale ricalcando in forma abbreviata la formula antiochena del 341. In questa dichiarazione di fede, che contiene vari sorprendenti tratti arcaici, gli Occidentali prendono le distanze dal monarchianismo radicale che veniva attribuito a Marcello di Ancira, ma, pur senza mai nominare esplicitamente il simbolo niceno, professano una sola ousia (sostanza) e una sola ipostasi della Trinità, là dove si sa che gli Orientali, in grande maggioranza, professavano tre ipostasi trinitarie, e la differenza tra le due impostazioni dottrinali era sostanziale. Quindi, anche a livello di dottrina il concilio non ebbe altro esito che accentuare il contrasto con gli Orientali. Tra i canoni pubblicati a Serdica, ispirati soprattutto dall'esigenza di regolamentare i rapporti tra vescovi di sedi diverse, tra il vescovo e il suo clero, tra il vescovo e il concilio, sono importanti, ai fini dell'argomento qui trattato, soprattutto i canoni 3, 3b. Dopo aver proibito a ogni vescovo di esercitare funzioni ecclesiali fuori della sua sede a meno di non essere stato invitato a ciò, essi regolano il ricorso in appello in caso di condanna di un vescovo da parte degli altri vescovi della sua provincia. È proibito nel giudizio in prima istanza il ricorso a vescovi estranei alla provincia, ma è data al vescovo deposto la facoltà di ricorrere al vescovo di Roma. Questi o ratificherà la sentenza che perciò risulterà definitiva, ovvero demanderà un giudizio d'appello ai vescovi di una provincia vicina, con facoltà di farsi qui rappresentare da uno o più presbiteri. Questa procedura in sostanza mirava a raggiungere un compromesso tra la prassi, ora per la prima volta codificata ma ormai tradizionale in Occidente, che dava al vescovo di Roma la possibilità di riesaminare in sede superiore questioni già risolte in sede locale, e le nuove norme che in quegli anni venivano variamente emanate in Oriente, miranti a risolvere mediante concili provinciali e interprovinciali i contrasti tra vescovi di una stessa provincia o di più province. È per altro ovvio che una norma di tal genere difficilmente poteva riuscire accetta ai vescovi orientali tanto sospettosi dell'ingerenza del vescovo di Roma nelle loro questioni.
Sul momento le svariate riabilitazioni deliberate dal concilio di Serdica non soltanto rimasero lettera morta ma sollecitarono Costanzo ad accentuare la repressione a danno dei partigiani di Atanasio e del simbolo niceno. Ma gradatamente l'atmosfera si fece più respirabile e ci fu qualche tentativo d'intesa, che anche se andò fallito contribuiva a mantenere viva l'esigenza che in qualche modo si provvedesse a eliminare la frattura che divideva la cristianità. In questo contesto s'inserì anche Costanzo che, dietro richiesta di Costante, nel 345 autorizzò Atanasio a riprendere possesso della sede alessandrina, senza per altro che la condanna a lui inflitta dal concilio di Tiro (335) fosse formalmente cassata. Quando Atanasio rientrò in Alessandria il 21 ottobre del 346 recava con sé una lettera che, di passaggio per Roma, gli aveva affidato papa G., indirizzata ai presbiteri, ai diaconi e a tutti i fedeli di Alessandria: egli si congratula con loro, oltre che con Atanasio, per il ritorno del loro presule, che tornava nella sua sede molto più illustre di quanto non fosse quando si era allontanato, ed esalta la loro fedeltà alla retta fede, per cui con animo invitto avevano sempre respinto le insidie degli ariani. Qualche tempo dopo il rientro di Atanasio, giunse a G. una lettera di Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum (l'attuale Belgrado), due vescovi dell'Illirico, perciò occidentali, ma che erano stati sempre, fin dal concilio di Tiro, tra i nemici più accaniti di Atanasio e del simbolo niceno. Ora, a seguito della rottura che si era avuta nel concilio di Serdica, dove gli Occidentali li avevano nominativamente condannati, essi si trovavano in una situazione molto precaria, perché le loro sedi episcopali si trovavano nella parte dell'Impero retta da Costante. Perciò i due, in occasione del rientro di Atanasio ad Alessandria, pensarono bene di riappacificarsi formalmente con lui e di darne notizia anche a Giulio. Nella lettera indirizzata a quest'ultimo ritrattano tutto quello che di male avevano fatto e detto a danno di Atanasio e condannano Ario, i suoi partigiani e la sua dottrina. Essi accennano anche a un libellus del medesimo tenore che avevano presentato a Milano. Ilario (Collectanea antiariana Parisina A V 1 [8, 2]) precisa che i due erano stati riammessi nella comunione della Chiesa in un concilio tenuto a Milano, ma sulla data e lo svolgimento di questo concilio, che avrebbe deliberato la condanna per eresia di Fotino di Sirmio, continuatore della dottrina di Marcello di Ancira, si è poco e male informati. G. morì il 12 aprile (giorno in cui la liturgia romana ne celebra la memoria) del 352.
Il Catalogo Liberiano, nr. 36, con cui concorda il Liber pontificalis, nr. 36, riporta a G. la costruzione di cinque chiese: due urbane e tre suburbane. Gli edifici di culto urbani sono la basilica "Iulia" nella VII regione, presso il foro di Traiano, e una basilica a Trastevere nella XIV regione detta "iuxta Callistum". La localizzazione precisa del primo edificio è problematica poiché di esso non è rimasta alcuna traccia archeologica, anche se sono state proposte diverse ipotesi di identificazione: S. Maria Antiqua, "titulus Apostolorum", "SS. Philippus et Iacobus", cioè la chiesa dei SS. Apostoli. La "basilicam trans Tiberim iuxta Callistum" è più facilmente identificabile con l'attuale S. Maria in Trastevere. Dell'edificio più antico mancano testimonianze sufficienti per consentirne una ricostruzione, anche se scavi effettuati tra il 1865 e il 1869 hanno permesso di individuare alcune strutture precedenti la basilica del XII secolo. Nel Catalogo Liberiano la chiesa trasteverina è detta "iuxta Callistum", cioè posta nelle vicinanze di una preesistente memoria urbana di Callisto di cui non si sa però nulla di certo. Se per la basilica "Iulia iuxta forum Traiani" una funzione titolare è solo ipotizzabile, per la fondazione di G. in Trastevere sembra si possa legittimamente ritenere che si trattasse di un titulus (parrocchia) come dimostra la firma di un presbitero "tituli sancti Iulii et Callisti" negli atti del sinodo romano del 595 (M.G.H., Epistolae, I, 1, a cura di P. Ewald-L.M. Hartmann, 1887, nr. 367). Nel suburbio della città G. promosse la costruzione di tre basiliche: l'anonima al III miglio della via Portuense, quella dedicata a s. Valentino al II miglio della via Flaminia, quella lungo la via Aurelia, al III miglio, presso la sepoltura di papa Callisto. Del primo edificio non si conosce la funzione né la fisionomia monumentale, anche se è probabilmente da porre in connessione con la tomba dello sconosciuto martire romano di nome Felice ricordato nel Martyrologium Hieronymianum al 29 luglio con altri martiri della via Portuense (Acta Sanctorum Novembris [...], II, 2, Bruxellis 1931, pp. 402-04). L'edificio dedicato al martire Valentino è anche menzionato nella omonima Passio dedicata al solo Valentino, in cui si legge: "a Iulio papa fabricata est ecclesia in honorem s. Valentini presbyteris et martyris et mirifice decorata" (Acta Sanctorum [...], Ianuarii, I, Antverpiae 1643, pp. 580-83). A differenza degli altri edifici suburbani, per la basilica di S. Valentino si può disporre di dati archeologici probanti riferibili all'abside e al muro di fondo di una chiesa di dimensioni modeste, alla quale nel corso dei pontificati di Onorio e Teodoro si sostituì una grande aula a tre navate rinvenuta alla fine del secolo scorso. L'ultimo edificio suburbano realizzato da papa G. è la basilica al III miglio della via Aurelia presso il sepolcro di papa Callisto, nel cimitero di Calepodio, dove venne sepolto lo stesso Giulio. Questo edificio, non ancora precisamente individuato sul terreno, è da localizzare nell'area subdiale del cimitero di Calepodio, come confermato dalla Depositio episcoporum in cui si dice: "postea eadem via pervenies ad ecclesiam: ibi invenies sanctum Calistum papam et martirem, et in altero [loco] in superiori domo sanctus Iulius papa" (Liber pontificalis [I, pp. 8-9]). Secondo una recente ipotesi la basilica di G. potrebbe identificarsi con l'ambiente ipogeo realizzato intorno al sepolcro di papa Callisto, mentre la sua tomba sarebbe da collocare in un altro ambiente, semipogeo, che forse costituiva la parte interrata di un edificio a due piani sovrapposti emergenti in superficie. Le reliquie di G. vennero traslate da Pasquale I, insieme a quelle di numerosi santi, nella basilica di S. Prassede, come testimonia l'epigrafe fatta porre nella prima metà del XIII secolo all'interno della chiesa (ibid. [II, pp. 63-4 n. 12]).
fonti e bibliografia
Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92: I, nr. 36, pp. 205-06. Dal Catalogo Liberiano, nr. 36, contenuto nel Liber pontificalis, s'apprendono, oltre le coordinate temporali, le notizie sulle chiese fatte edificare da Giulio. Da qui dipende il Liber pontificalis, per le restanti notizie inattendibile. La lettera di G. ai vescovi orientali (341), fondamentale per la conoscenza del concilio di Roma e dei fatti che lo precedettero, è riportata da Atanasio, Apologia contra Arianos 21-35, a cura di H.-G. Opitz, in Athanasius Werke, II, 1, Berlin 1939, pp. 102-13; la lettera del concilio di Serdica (343) a G. è riportata da Ilario nei Collectanea antiariana Parisina (Fragmenta historica) B II 2, 1-5 (2, 9-13), a cura di A. Feder, Vindobonae-Lipsiae 1916 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 65), pp. 126-30; i canoni del concilio di Serdica sono pubblicati in Ecclesiae Occidentalis Monumenta Iuris Antiquissima [...], a cura di C.H. Turner, I, 2, Oxonii 1930, pp. 442-560; la lettera di G. alla Chiesa di Alessandria è riportata da Atanasio, Apologia contra Arianos 52-54, pp. 133-35; la lettera di Valente e Ursacio a G. è riportata da Ilario nei Collectanea antiariana Parisina B II 6 (2, 20), pp. 143-44.
Sul pontificato di G. in generale, cfr. E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 143-65; sul suo operato nel contesto della controversia ariana, v.: G. Bardy, in Histoire de l'Église, a cura di A. Fliche-V. Martin, III, Paris 1950, pp. 116-37; M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, pp. 139-202; Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I, ivi 1976, pp. 187-237; H.-Ch. Brennecke, Hilarius von Poitiers und die Bischofsopposition gegen Konstantius II. Untersuchungen zur dritten Phase des arianischen Streites (337-361), Berlin 1984, pp. 3-64; R.P.C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God. The Arian Controversy 318-381, Edinburgh 1988, pp. 274-314; J. Ulrich, Die Anfänge der abendländischen Rezeption des Nizänums, Berlin-New York 1994, pp. 28-91.
Per quanto riguarda la documentazione archeologica v.: R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), III-IV, Città del Vaticano 1971-76: III, pp. 235-62 (S. Prassede); IV, pp. 276-98 (S. Valentino); G.N. Verrando, La Passio Callisti e il santuario della via Aurelia, "Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquité", 96, 1984, pp. 1039-83; Id., L'attività edilizia di Giulio I e la basilica al III miglio della via Aurelia ad Callistum, ibid., 97, 1985, pt. 2, pp. 1021-61; Id., Il santuario di S. Felice sulla via Portuense, ibid., 100, 1988, pp. 347-48, 358-60; V. Fiocchi Nicolai, Il culto di S. Valentino tra Terni e Roma: una messa a punto, in L'Umbria Meridionale fra Tardo-Antico ed Altomedioevo (Acquasparta, 6-7 maggio 1989), Assisi 1991, pp. 165-78; Lexicon Topographicum Urbis Romae, I, Roma 1993, s.v. Basilica Iulii iuxta forum Traiani, pp. 180-81; s.v. S. Callixtus trans Tiberim, p. 215; s.v. Area Callisti, pp. 113-14; ibid., II, ivi 1995, s.v. Domus: Callixtus (?), pp. 74-5; ibid., III, ivi 1996, s.v. Iulius et Callistus, basilica, pp. 119-20; V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di Roma dal III al VI secolo, in Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra epigrafica, a cura di I. Di Stefano Manzella, Città del Vaticano 1997, pp. 121-41.