Pio V, santo
Antonio Ghislieri nacque a Bosco (oggi Bosco Marengo, Alessandria), diocesi di Tortona, nel Ducato di Milano, il 17 gennaio 1504 da Paolo e Domenica Augeria. La famiglia, presente nell'area fin dal XIV secolo, era di modesta estrazione sociale. Dopo i primi studi nel paese natale, Ghislieri entrò a quattordici anni nel convento domenicano di S. Maria della Pietà a Voghera, facente parte della Congregazione riformata di Lombardia, dove assunse il nome di Michele. Trascorse l'anno di noviziato nel convento di S. Pietro Martire a Vigevano e il 18 maggio 1521 pronunciò i voti. Presso lo "Studium" conventuale Ghislieri compì la sua formazione e nel 1528 a Genova ricevette l'ordinazione sacerdotale. Secondo tutti i biografi, avrebbe frequentato lo "Studium" generale domenicano di Bologna prima di questo evento; tuttavia T. Porcacchi, il più antico estensore di una Vita del pontefice, posticipa l'ascrizione allo Studio felsineo e un documento settecentesco la data al 20 dicembre 1529. Una solida preparazione teologica rigidamente tomista e l'assenza, di contro, di una cultura giuridica e letteraria costituirono il bagaglio teorico e intellettuale del domenicano. Lettore di teologia, negli anni Trenta del secolo Ghislieri insegnò in alcuni conventi dell'Ordine, tra cui sicuramente quello di S. Tommaso a Pavia. In questo e nel successivo decennio rivestì le cariche di procuratore e poi di priore nel convento di Vigevano; detenne il priorato anche a Soncino (dove, tuttavia, non portò a termine il mandato), ad Alba e, una seconda volta, a Vigevano. Secondo G. Catena, ad Alba Ghislieri accettò contro il proprio volere la cura del monastero femminile di S. Maria Maddalena e, per Maffei, ne difese l'edificio durante un saccheggio da identificare, probabilmente, con quello compiuto dalle truppe francesi nel 1537. Sempre Catena tramanda che Ghislieri predicò in diverse Quaresime e che in alcuni Capitoli provinciali dell'Ordine fu nominato giudice per dirimere le controversie. Durante la permanenza a Pavia o a Vigevano, fu confessore del governatore di Milano A. d'Avalos, marchese del Vasto (il quale spirò nel 1546). Nel luglio 1539 Ghislieri fu temporaneamente assegnato al convento di S. Secondo sull'isola veneziana di Sant'Erasmo e il motivo del trasferimento deve verosimilmente essere collegato all'incendio che solo un mese prima aveva distrutto gli edifici conventuali e alle operazioni di ricostruzione. Di dubbio fondamento è la notizia, riportata da Porcacchi, che Ghislieri sia stato chiamato alla carica di definitore in un Capitolo della "Provincia utriusque Lombardia" tenutosi a Roma: fu piuttosto il suo superiore a Pavia, Sante da Mantova, a partecipare con tale qualifica all'assise generale riunita a Roma nel 1542. Egli, l'11 ottobre di quell'anno, nominò Ghislieri commissario e vicario inquisitoriale per la città e la diocesi di Pavia, assegnando così al domenicano le prime responsabilità in un ambito della vita ecclesiastica e religiosa che ne avrebbe segnato l'esistenza, fino a confondersi con essa, e sarebbe stato determinante per l'ascesa nella gerarchia dell'Ordine e della Chiesa. Nel 1543, a Parma, in S. Pietro Martire, Ghislieri pronunciò le conclusioni pubbliche del Capitolo provinciale. In tale occasione - secondo quanto ricorda Catena - sostenne trentasei tesi, la maggior parte delle quali riguardò la confutazione delle dottrine riformate e la difesa della Chiesa, in perfetta aderenza alle direttive impartite nel marzo precedente da Paolo III, il quale, in vista delle assemblee periferiche di alcuni Ordini regolari, tra cui i Domenicani, aveva intimato di provvedere all'estirpazione della "eresia luterana". Nel 1550 il Capitolo provinciale riunito a Cesena nominò Ghislieri inquisitore a Como. Il domenicano subentrava al confratello A. Vacanni, il quale, a partire dal 1549, era stato protagonista di un acceso conflitto con la cittadinanza e con il Capitolo del duomo. Inseritosi in una situazione esasperata, Ghislieri rifiutò di sottostare alla volontà dei canonici e si ritrasse da ogni impegno che fosse di vincolo alla sua azione, ignorando le disposizioni emanate l'anno prima dalla comunità cittadina e confermate dal governatore di Milano, F. Gonzaga, sulla conduzione dei processi d'Inquisizione. Non mancarono, di riflesso, gli episodi di ostruzionismo, tra i quali si potrebbe annoverare l'opposizione dei canonici al sequestro, ordinato da Ghislieri, di dodici casse di libri eretici provenienti da Poschiavo e destinate ad alcune località di rilievo nella geografia ereticale. Il fatto, tramandato da Catena con riferimenti fortemente simbolici alla futura azione inquisitoriale del frate, è privo, comunque, della conferma di fonti documentarie contemporanee. Il domenicano si rivolse direttamente al Sant'Uffizio e, alla metà di luglio del 1550, alcuni membri del Capitolo furono citati come sospetti di eresia. Ghislieri, dunque, si era fatto portavoce di un doppio principio: l'autorità esclusiva del papa in materia di fede e nella persecuzione dell'eterodossia, da cui discendeva direttamente quella dell'inquisitore, e l'identificazione tra l'eretico e chi ostacolava l'opera dell'Inquisizione. All'inizio di ottobre, Gonzaga - che riteneva "che la cosa in sé fusse di puoco momento et procedesse più presto per garra, quale è fra esso inquisitore et li canonici, cha che gli fusse fondamento di heresia" (F. Chabod, p. 434) - ordinò a Ghislieri, per il tramite del podestà di Como, di presentarsi in Consiglio segreto tre giorni più tardi, ma sul momento rifiutò d'incontrare il frate. Sotto la pressione di alcune manifestazioni di violenza e informato di un possibile arresto da parte del governatore, Ghislieri lasciò Como con la protezione di B. Odescalchi, informatore laico dell'Inquisizione. In novembre, Ghislieri si recò a Bergamo su incarico del papa e dei cardinali inquisitori per raccogliere informazioni sul vescovo V. Soranzo che, in agosto, era stato oggetto di esplicite accuse di eresia. La notizia dell'inchiesta esasperò gli animi e culminò, anche in questo caso, in un'azione dimostrativa: il 5 dicembre 1550 il convento domenicano di S. Stefano, residenza dell'inquisitore e luogo di detenzione degli imputati, fu preso d'assalto. Ghislieri si mise in salvo con l'aiuto del conte G.G. Albani, si diresse alla volta di Roma, dove arrivò, secondo la tradizione, la vigilia di Natale, e consegnò ai cardinali del Sant'Uffizio l'incartamento relativo al vescovo che al momento della fuga aveva affidato al francescano A. Glianio. A Bergamo, il domenicano aveva condotto anche il procedimento contro il presunto eretico G. Medolago - un'esperienza che, per l'ambasciatore veneziano a Roma P. Tiepolo, avrebbe contribuito a segnare in negativo i rapporti tra Ghislieri, ormai pontefice, e la Repubblica di Venezia, ma di cui, però, la scarsità documentaria impedisce la datazione precisa. Arrestato dopo una prima condanna risalente al 1537, cui era sfuggito col concorso di familiari e amici riparando a Venezia, Medolago non abiurò davanti a Ghislieri e, ancora una volta, riuscì a sottrarsi, per breve tempo, alla detenzione, cosicché il domenicano dovette accontentarsi della solenne confessione dei responsabili della fuga. Il biografo Catena racconta anche che nel corso del 1550 Ghislieri si sarebbe recato a Coira su incarico dell'Inquisizione romana per appurare la fondatezza delle accuse di eresia mosse dall'arciprete di Sondrio B. von Salis contro il vescovo Th. Planta e che avrebbe dimostrato l'indegnità del prelato. Eletto alla fine del 1548, questi nella primavera del 1550 aveva ottenuto l'approvazione papale, ma venne effettivamente accusato di comportamenti eterodossi e di avere abbracciato le idee riformate. Giulio III fu indotto, pertanto, a inviare in Valtellina un emissario dell'Inquisizione. Secondo un decreto del Sant'Uffizio, il 15 aprile Antonino da Lenno fu incaricato di esaminare i testi contro il vescovo: potrebbe essere, dunque, costui, piuttosto che Ghislieri, che non è menzionato da alcuna fonte o ricostruzione storica indipendente da Catena, l'anonimo inquisitore domenicano residente a Morbegno di cui alla fine di agosto Planta neutralizzò l'indagine attraverso un formale divieto dei Grigioni. Il 24 marzo 1551 Soranzo fu arrestato dopo una seduta dell'Inquisizione. I cardinali del Sant'Uffizio avevano nei suoi confronti le idee molto chiare: "et pensano che lui sia un capo dal qual se habbi a nominar molti complici, et credono torgli il vescovado" (P. Paschini, Venezia, p. 75). In aprile Ghislieri tornò a Bergamo dove raccolse ulteriori testimonianze, sequestrò due casse di libri nella residenza di campagna della mensa episcopale e dallo studio del prelato prelevò tutti i documenti che giudicò di rilievo. Le autorità veneziane reagirono con sdegno a un'iniziativa intrapresa "senza farne intendere cosa alcuna né a noi né alli nostri Rettori" e per il "proceder suo molto sinistro et alieno da ogni termine di giustitia et honestà" (L. Chiodi, p. 472). Prima del 22 maggio, tuttavia, silenziosamente come era arrivato, Ghislieri lasciò la città e si portò a Roma. Le ottime capacità investigative e le grandi doti di tenacia e determinazione conquistarono la stima del cardinale G.P. Carafa, il quale, respinte tutte le proposte avanzate dal generale dei Domenicani, F. Romeo, suggerì a Giulio III di sostituire il defunto commissario generale dell'Inquisizione T. Scullica con Ghislieri. Il 3 giugno 1551 il papa sancì la nomina e il 9 il frate prese parte alla sua prima seduta del Sant'Uffizio. Il nuovo incarico gli consentì di svolgere un ruolo attivo nel prosieguo della causa contro il vescovo di Bergamo e nel grande castello accusatorio che il cardinale Carafa, fin dal pontificato di Paolo III, stava costruendo in modo segreto contro i cardinali R. Pole e G. Morone, contro diversi vescovi e prelati (Soranzo, appunto, P.A. di Capua, G. Grimani) e contro altri personaggi, come il protonotario fiorentino P. Carnesecchi. Sospettati di aver abbracciato le idee eterodosse diffuse di J. de Valdés e di avere contatti con individui dal profilo dottrinale luterano, costoro erano sostenitori di una visione radicalmente diversa da quella di Carafa anche per quanto riguardava le riforme ecclesiastiche, il sistema delle alleanze politiche e l'atteggiamento nei confronti dell'eresia. Nel 1552 Ghislieri assistette in qualità di commissario generale ad alcuni interrogatori su Morone, Soranzo, Carnesecchi e la loro cerchia e prese in consegna le lettere dell'eretico abiurato e delatore G.B. Scotti. Ghislieri condivideva evidentemente i convincimenti del cardinale napoletano e ne aveva fatto propri gli obiettivi assumendo una posizione diversa da quella degli altri membri domenicani del Sant'Uffizio. Dall'interno dell'Ordine, infatti, s'informò Giulio III delle indagini segrete e il papa, che già nel 1551 aveva annullato con una decisione politica i provvedimenti contro Soranzo e Planta, le interruppe, recuperò gli incartamenti attraverso F. Romeo, il vicario S. Usodimare e il maestro del Sacro Palazzo G. Muzzarelli e sottopose alla propria autorizzazione tutti gli atti contro cardinali e vescovi. Ma diverse testimonianze contro Morone e gli altri inquisiti rimasero nelle mani di Carafa e nel 1553 Ghislieri raccolse nuove prove. Nel 1554, poi, quando Giulio III concesse a Soranzo di rientrare in possesso del vescovato, l'inquisitore di Bergamo fra Adelasio e Ghislieri accusarono il vicario G. Agosti, il quale due anni più tardi subì un forzato allontanamento. Fin dall'inizio Ghislieri si distinse per essere l'elemento più esigente del Sant'Uffizio e quello meno disposto ad assumere un atteggiamento duttile verso l'autorità civile come metteva in luce nel febbraio 1552 il nunzio L. Beccadelli, scrivendo al cardinale inquisitore M. Cervini in risposta alle accuse di tepidezza mosse contro l'Inquisizione veneziana: "ho avuto [...] lettere [...] del commissario fra' Michele, alle quali io cerco di satisfare quanto posso. E perché qualche volta o il commissario [o] questi suoi rispondenti di qua hanno le voglie ardenti che non si ponno così eseguire, io non vorrei, con non piacere a loro, far danno a me" (P. Paschini, Venezia, p. 93). Quale fosse, d'altronde, l'immagine che il domenicano aveva del proprio compito, lo rivela egli stesso nelle lettere indirizzate agli inquisitori locali: al genovese G. Franchi, ad esempio, scrisse nel 1556 "che chi vol servire a Dio in questo santo offitio non convien temere minaccie ma haver sol'Iddio, la verità et la giustitia davanti agl'occhi" (Genova, Biblioteca Universitaria, E.VII.15, c. 67). Con l'ascesa al soglio pontificio, nel maggio 1555, di Paolo IV Carafa, Ghislieri acquisì rapidamente crescenti responsabilità, segno del rapporto privilegiato che si era stabilito tra i due uomini non solo per l'appartenenza del domenicano alla "familia" del cardinale napoletano, ma anche per l'intensa frequentazione e le lunghe, esclusive conversazioni in cui si erano sempre intrattenuti. L'attività del Sant'Uffizio ricevette un nuovo impulso e dal giugno ripresero segretamente le indagini contro il cardinale Morone. Il 1° settembre Ghislieri e l'assessore G.B. Bizzoni furono investiti dei medesimi poteri riservati dei cardinali in materia d'Inquisizione e ottennero la facoltà di agire contro qualunque ecclesiastico e di ordinare la tortura dei rei, dei complici e dei testimoni. Ghislieri fu anche chiamato a presiedere la commissione di soli membri dell'Inquisizione che il papa incaricò di preparare l'Indice dei libri proibiti. Due anni più tardi, il catalogo fu presentato al pontefice in una versione a stampa, ma non ricevette l'approvazione, perché, malgrado la condanna comminata in modo indiscriminato ai testi editi da stampatori riformati, la selezione non fu ritenuta adeguata ai parametri di severità intesi dal papa. Ghislieri aveva enunciato il limite che, a suo avviso, era invece opportuno non oltrepassare in una lettera che L. von Pastor data al giugno 1557: "Di prohibire Orlando, Orlandino, Cento novelle et simili altri libri, più presto daressimo da ridere ch'altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere, ma come fabule et come si legono ancor molti libri de gentili, come Luciano, Lucretio et altri simili; nondimeno, se ne parla a la congregatione de theologi, et poi a sua santità et alli reverendissimi" (ibid., c. 76v). L'Indice del 1557 è, comunque, un testo estremamente significativo, perché esito di una riflessione tutta interna al Sant'Uffizio sulla censura e sull'organizzazione del controllo e della repressione, di cui furono incaricati, non a caso, gli inquisitori locali. Il 20 gennaio 1556 Ghislieri prese parte alla seduta d'insediamento della commissione per la riforma generale della Curia, che, nelle intenzioni del papa, avrebbe dovuto costituire una sorta di concilio generale e partecipò ai lavori nella sezione teologica insieme al gesuita D. Laínez, al francescano F. Peretti (v. Sisto V) e al cardinale C. Carafa. Fu comunque un'esperienza di breve durata, che Paolo IV aveva concepito in modo strumentale alla politica estera e che fu rapidamente accantonata a vantaggio, dall'autunno successivo, di un organo dalle dimensioni ridotte e composto di soli membri dell'Inquisizione, tra cui naturalmente Ghislieri. Il 4 settembre egli fu nominato vescovo di Nepi e Sutri, quindi prefetto del palazzo dell'Inquisizione. Pochi mesi più tardi, il 15 marzo 1557, alla terza promozione, Ghislieri ricevette la porpora e Paolo IV gli assegnò la chiesa di S. Maria sopra Minerva, appositamente elevata a titolo cardinalizio, che in seguito, nel 1561, l'Alessandrino - come venne soprannominato - scambiò con S. Sabina. Alla fine di maggio del 1557 il cardinale Morone fu arrestato, contemporaneamente furono imprigionati i presuli G.T. Sanfelice e A. Centani; furono citati Soranzo, che non si mosse dal rifugio veneziano, il vescovo di Modena E. Foscarari e, alla fine di ottobre, P. Carnesecchi, il quale, accampando ragioni di salute, rifiutò a sua volta di lasciare Venezia. Nella causa contro il cardinale milanese, cui era stato assegnato insieme ai cardinali S. Rebiba, S. Reumano e V. Rosario, Ghislieri condusse personalmente l'esame del prelato. Queste iniziative nei confronti di personaggi dalla collocazione politica filoimperiale coincisero con il conflitto bellico tra Paolo IV e gli Asburgo. A tale riguardo, il cardinale prese le distanze dalle scelte del Carafa e "parlando col papa sopra le cose della pace, gli disse che non occoreva Giubileo per pregare per la pace, stando in sua mano il farla, dove Sua Santità gli rispose bruscamente scazziandoselo dinanzi con parole molto brutte, dicendogli 'frate sfratato lutherano'" (L. von Pastor, Storia dei papi, VI, p. 650). La concezione di Ghislieri dei fini cui improntare le relazioni con i principi stranieri e dei mezzi più appropriati si coglie con precisione nel contributo al dibattito sulla legittimità o meno dell'abdicazione di Carlo V e della successione del fratello Ferdinando al trono imperiale. Nel maggio del 1558 Ghislieri, che era stato nominato tra i cardinali e i canonisti incaricati di pronunciarsi in merito, si fece interprete, insieme a G. Sirleto, di una posizione in linea con l'ostilità papale agli Asburgo ma non priva di una consapevole duttilità. Egli, infatti, subordinava in modo rigoroso il riconoscimento pontificio e l'accettazione dell'ambasciatore incaricato di prestare obbedienza ad un radicale mutamento della politica religiosa dell'Impero che assicurasse il pieno sostegno alla causa cattolica e la lotta ai riformati. Se questo era, dunque, l'unico obiettivo che dovesse orientare le scelte politiche del sovrano-pontefice e, allo stesso tempo, la sola via attraverso cui un monarca potesse ottenere il favore del papa, il conflitto tra Stati cattolici non giovava che ai nemici della Chiesa. Proseguiva, frattanto, l'attività dell'Inquisizione. Nel 1558 Ghislieri diresse il processo postumo contro G. Savonarola voluto da Paolo IV. Si trattò di un'operazione complessa che Ghislieri condusse con discrezione e abilità impegnando l'Ordine domenicano al proprio fianco nella salvaguardia della figura del frate ferrarese e, contemporaneamente, nel sostegno al procedimento contro Morone. Non fu, tuttavia, questa un'occasione in cui Ghislieri assunse una posizione morbida sul piano dei principi, poiché la figura di Savonarola fu esaminata sotto il profilo meramente disciplinare e il cardinale osteggiò ogni tentativo di richiamare le ragioni dottrinali del frate, fossero pure fondate su indiscusse autorità: "et se san Bernardo dice questo, bisognia censurare ancora lui che non dice bene ogni cosa", ebbe infatti modo di replicare "quasi gridando" (M. Firpo-P. Simoncelli, p. 221). Sempre nel 1558 fu arrestato il vescovo G.F. Verdura, membro del gruppo valdesiano meridionale e già citato nel 1552. In aprile Soranzo fu condannato in contumacia e la sede episcopale bergamasca fu dichiarata vacante, ma la morte del presule, meno di un mese dopo, concluse l'annosa vicenda. In autunno giunse a Roma il domenicano E. Foscarari, che nel corso dell'anno aveva cercato di trasmettere a Morone carte che potessero scagionarlo, e fu citato il vescovo P.A. di Capua, che Giulio III aveva fatto liberare nel 1553 dopo la purgazione canonica. Il 14 dicembre 1558 il papa in Concistoro disse "che i luterani nimici della santa Chiesa crescono e che bisogna provederci et far un inquisitor generale con suprema facoltà" (M. Firpo-D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del card. Giovanni Morone, V, p. 403) e nominò Ghislieri "ad vitam". Nel gennaio 1559 Foscarari fu arrestato e in aprile Carnesecchi, già dichiarato contumace, scomunicato e privato dei benefici ecclesiastici, fu condannato. In questa fase d'intensa attività, che divenne sempre più frenetica a mano a mano che le condizioni fisiche del papa peggioravano e appariva sempre più concreto il problema della elezione di un successore, Ghislieri svolse un ruolo di primo piano ovvero, come aveva scritto nel dicembre 1557 il residente fiorentino B. Gianfigliazzi a Carnesecchi, "fa el tutto" (Idd., I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, p. XVIII). L'esperienza del cardinale, infatti, facilitava uno sforzo investigativo orientato a definire la rete di rapporti degli inquisiti, più che le singole posizioni dottrinarie, secondo un'operazione ideologica che era "ripensamento del passato prossimo della Chiesa cattolica e conseguente, lucida volontà di una sua ricostruzione" (P. Simoncelli, Inquisizione romana, p. 70). Nell'agosto del 1559 Paolo IV morì e ancor prima che il papa esalasse l'ultimo respiro la folla prese d'assalto il palazzo dell'Inquisizione, saccheggiando e "portandone libbri, scritture et ogn'altra cosa" (R. Rezzaghi, p. 549), e liberò i prigionieri. Il cardinale Morone entrò in conclave il 4 settembre e il processo contro di lui fu bruciato con l'autorizzazione di Ghislieri, che anche durante la sede vacante restò in carica, a tutti gli effetti, come sommo inquisitore. Nel suo primo conclave Ghislieri aderì al partito dei Carafa, che intendeva essere un'alternativa agli schieramenti di parte francese e asburgica, e sostenne inizialmente il nipote del defunto papa, Antonio, quindi Giovan Angelo Medici, che fu eletto il 26 dicembre. Pio IV, figura politicamente gradita alla Spagna, ma non filoimperiale, era allineato, tuttavia, su posizioni distanti da quelle degli "intransigenti", che lo avevano votato seguendo le direttive di C. Carafa, tanto da essere incorso sotto Paolo IV in accuse di eresia. Il 1° gennaio 1560, su commissione del papa, Ghislieri pronunciò la pubblica assoluzione di E. Foscarari: fu il segnale che lo stile adottato dall'Inquisizione durante il precedente regno avrebbe dovuto essere moderato e che l'ambito d'azione si sarebbe limitato d'ora in avanti esclusivamente al foro interno (11 gennaio). A Ghislieri, confermato nel suo ruolo di inquisitore maggiore, Pio IV affiancò i cardinali F. Pacheco, G. Puteo, B. Scotti e R. Pio da Carpi. Fin dal gennaio, gli "Avvisi" rilevano il conflitto in atto tra Ghislieri e il pontefice: il cardinale, "caporale e spaventevole giudice de la Inquisitione, [...] hora da papa Pio intendendo che non vuole che in cause di religione si proceda per via di spioni né che si guarda certe cose minime, domandava licentia di ritirarsi à suoi bisogni per doi o tre mesi, poiché ad ogni modo per la Inquisitione poco doveva essere adoperato; il papa sorridendo rispose dargli volentieri licentia di ritirarsi e per tre mesi, e se gli piacesse, per sempre" (M. Firpo-D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, p. XLV). Il 6 marzo 1560 Ghislieri firmò la sentenza assolutoria del cardinale Morone e nei mesi successivi fu la volta di M. Galeota, di G.F. Verdura, di G.T. Sanfelice e di altri arrestati durante il precedente pontificato. Sempre in marzo Ghislieri e B. Scotti furono incaricati di compiere la revisione della Vulgata e il 27 marzo Pio IV conferì a Ghislieri il vescovato di Mondovì, preferendo il cardinale al candidato proposto dal duca Emanuele Filiberto. Nel rivolgersi per la prima volta al Capitolo, Ghislieri raccomandò di "invigilare et avvertire insieme col R.do Vicario nostro, dove si scuoprano persone infette o sospette nelle cose di santa Fede et Religione, pigliandone buona informatione con quella maggior diligenza, prudenza et destrezza che sia possibile [...]; et di quanto succedera me ne farete avvisato pienamente" (G. Grassi, p. 75, 11 luglio 1560). Tra la seconda metà del 1560 e la prima del 1561 si svolse il processo contro i nipoti di Paolo IV, occasione per liberare i rancori contro gli esiti rovinosi della politica estera antiasburgica del papa e contro i rigori dell'Inquisizione. Nella deposizione rilasciata ai cardinali, Ghislieri narrò di essere stato aggressivamente accusato da Paolo IV per avergli taciuto il comportamento dei congiunti, ma di aver respinto ogni responsabilità in quanto all'oscuro dei fatti. In tal modo, egli prese ad un tempo le distanze dai Carafa e da quanti, come il cardinale Rebiba, furono coinvolti nella loro caduta e non aggravò la situazione accusatoria dei processati. In luglio, fu aggregato al collegio giudicante per le accuse di eresia mosse contro C. Carafa. Nel maggio 1560, intanto, Ghislieri aveva cominciato una nuova istruttoria contro P. Carnesecchi: contrariamente alle aspettative dell'inquisito, con prolungati, metodici interrogatori il cardinale trasformò quella che avrebbe dovuto essere una mera formalità, a legittimazione della sentenza assolutoria voluta dal papa, nell'opera di ricostituzione del materiale documentario perduto nell'incendio del Sant'Uffizio. In novembre, Carnesecchi tentò di accelerare il procedimento proponendo a Pio IV, attraverso il duca Cosimo de' Medici, di far giudicare il suo caso da due cardinali, recusando, tuttavia, come pregiudizievoli R. Pio da Carpi e Ghislieri. Risaputosi ciò, quest'ultimo reagì con prontezza e costrinse il papa a rimangiarsi la promessa di presiedere egli stesso la causa del fiorentino. Dopo questo fatto Pio IV provvide a nominare tra gli inquisitori del Sant'Uffizio anche G. Seripando - il quale già in settembre aveva sostituito Ghislieri nella revisione della Bibbia - per bilanciare la profonda influenza del domenicano e neutralizzarne il rigido tomismo dottrinario. Nel febbraio 1561 l'ambasciatore veneziano da Mula, incaricato di esortare la concessione del pallio al patriarca di Aquileia G. Grimani, riferiva al Senato che il papa aveva dichiarato in toni drammatici la sua impotenza a riguardo ("S. Maria, ormai non potrete comprendere che abbiamo le mani legate [...] Dio volesse che ce lo lasciassero fare i cardinali, che lo faremmo volentieri"; P. Simoncelli, Inquisizione romana, p. 71 n. 203) e, per giustificare il rifiuto, aveva ordinato a Ghislieri di dare lettura dell'incartamento inquisitoriale relativo al prelato. La vicenda rivela il grande potere di selezione e orientamento che i cardinali inquisitori, e tra tutti Ghislieri, erano in grado di esercitare sulle nomine ecclesiastiche e sulla composizione della gerarchia e individua proprio nel controllo su questo ambito, che per il papa avrebbe dovuto essere fuori dagli obiettivi primari del Sant'Uffizio, il centro del conflitto tra Pio IV e l'istituzione. Il 4 giugno 1561 Pio IV decretò l'assoluzione di Carnesecchi e Ghislieri la proclamò, pur avendo desiderato l'abiura del protonotario e continuando a essere convinto della sua eterodossia. Poche settimane più tardi, il 29 giugno, il cardinale lasciò Roma per recarsi nella diocesi di Mondovì. Questa decisione, tuttavia, non si era resa opportuna solo in ragione degli eventi romani: il 5 giugno, infatti, Emanuele Filiberto aveva stipulato a sorpresa con i valdesi del Ducato l'accordo di Cavour e, pertanto, la visita assunse un carattere d'impellenza e un significato più ampio di quello che avrebbe avuto altrimenti. Come anticipava il cardinale C. Borromeo al nunzio sabaudo, infatti, Ghislieri avrebbe avuto, oltre che sulla propria diocesi, "una general sopraintendentia a quelle degli altri ancora in tutto cotesto stato" (Nunziature di Savoia, p. 67), e non solo per le questioni di eresia, alle quali era stato deputato con particolari facoltà in luglio. Ma, soprattutto, Ghislieri avrebbe dovuto indurre il duca a rompere l'accordo di giugno e a ritrattare alcuni decreti che sottraevano agli ecclesiastici la giurisdizione ordinaria e delegata. Giunto a Mondovì il 7 agosto, Ghislieri con grande rapidità ordinò la visita pastorale e la compì personalmente in alcuni luoghi. Dopo un primo incontro formale col duca, il cardinale gli si rivolse con una lettera per esortarlo a revocare l'editto sul foro competente, a soddisfare alcune pretensioni del vescovato monregalese e a corrispondere a una richiesta personale: "et poiché nella Diocesi mia ritrovo alcuni ministri secolari non molto affezionati alle cose cattoliche, et poco fidi nell'esecuzione del Sant'Officio, supplico Vostra Altezza Serenissima si degni farmi grazia d'uno dei suoi Bargelli, commettendoli ch'abbi ad eseguire, quanto da me gli sarà imposto nella Diocesi mia, et fuori della Diocesi ancora" (Lettera del cardinale, p. 255). Il silenzio del duca e la palese inanità dell'azione diplomatica indussero Ghislieri a rinunciare ad un prolungamento della visita; a metà ottobre, deluso al punto da meditare la rinuncia del vescovato a favore di F. Spinola, ripartì per Roma, dove giunse alla fine di novembre. In questa brevissima esperienza di governo episcopale diretto, dunque, Ghislieri agì a partire dal peculiare ruolo di inquisitore e fu dominato dalla preoccupazione di assicurare il pieno esercizio dell'attività del Sant'Uffizio, su cui si era attribuito fin dall'inizio del mandato l'esclusivo controllo. Negli anni seguenti, Ghislieri seguì e diresse le missioni dei padri gesuiti N. Bobadilla e C. Rodriguez tra i valdesi della Calabria e della Puglia. Fu l'occasione per confrontare ed esprimere due visioni divergenti del modo di condurre l'opera convertitrice, che Ghislieri intendeva rigorosa e mirata ("doppoi che noi haveremo usato la dolcezza, vedendo che non giovi, si usarà poi la severità, con l'esterminio di quella città et di tutta quella generatione"; M. Scaduto, p. 44, Ghislieri a C. Rodriguez, 8 settembre 1563), e della figura dell'inquisitore ("altro è la persona di confessore, altro è di giudice: il confessore crede tutto quello che li viene detto; il giudice ha sempre sospetto il reo della verità, et massime in hoc genere causarum"; ibid., p. 45). Anche a Trento, durante l'ultima fase del concilio, giungeva l'eco dell'attività dell'Inquisizione e della sorda prova di forza che Ghislieri aveva ingaggiato sul terreno delle scritture processuali con il cardinale Morone, capo della Legazione pontificia. Alla morte del cardinale Puteo, avvenuta nell'aprile 1563, Ghislieri fu informato della presenza degli atti relativi al procedimento contro il cardinale tra gli effetti personali del defunto e inviò a prelevarli l'assessore G.B. Bizzoni. In autunno, ogni tentativo di Morone di rientrare in possesso delle carte presentate a propria difesa, tra cui l'Apologia redatta durante la detenzione, fu destinato al fallimento. Ghislieri - come aveva previsto l'agente del cardinale - si giustificò con il papa dicendo che "le scritture stavano meglio ne l'ufficio de l'Inquisitione che in mano d'altri et che a nessun modo haveva pensato male di lei [Morone], perché essendogli amico et havendo sottoscritta la sententia, procurerebbe il dishonore proprio" (M. Firpo-D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del card. Giovanni Morone, II, p. 149). Sempre in aprile furono citati otto vescovi francesi, tra cui J. de Monluc, F. de Noailles e A. Caracciolo, negoziatori col cardinale O. de Coligny detto di Châtillon al colloquio di Poissy, contro i quali l'Inquisizione aveva acquisito prove della fede ugonotta. Nel Concistoro del 22 ottobre Ghislieri affrontò apertamente la questione: lamentò la contumacia dei presuli, presentò le accuse e le testimonianze e chiese la condanna di Caracciolo, Monluc e L. d'Albret, eretici notori, e la sospensione ecclesiastica degli altri. Pio IV ordinò ai cardinali inquisitori di leggere l'incartamento e di decidere quali prelati dovessero essere trattati da eretici e quali da contumaci, quindi su istanza del fiscale pronunciò la sentenza, la cui promulgazione fu rimandata, tuttavia, al momento in cui i cardinali avessero valutato gli atti. Per quanto riguarda gli esiti del concilio, nel Concistoro del 26 gennaio 1564 Ghislieri e G.B. Cicada, unici tra i cardinali, sollevarono obiezioni alla ratifica dei decreti tridentini dato che, a loro avviso, il trasferimento ai vescovi della facoltà di assolvere in foro interno alcuni delitti contro la fede, altrimenti riservata al papa, costituiva una menomazione delle competenze dell'Inquisizione romana. Pio IV, tuttavia, considerò deleteria per l'autorità dell'assise conciliare e della Chiesa la messa in discussione o l'approvazione parziale dei decreti e procedette alla loro promulgazione. In questa fase del pontificato i rapporti tra Ghislieri e il papa raggiunsero il punto più negativo. Nella prima metà dell'anno il cardinale fu privato dell'alloggio in Vaticano. In giugno un decreto varato dagli inquisitori generali in una seduta in cui Ghislieri era assente per ragioni di salute gli riconobbe la facoltà di ordinare la carcerazione e di sbrigare la corrispondenza, purché rendesse conto alla prima occasione di quanto operato. Inoltre la composizione del Sant'Uffizio fu ritoccata, come già era avvenuto nell'ottobre 1562 e si sarebbe ripetuto nel 1565: alla fine di luglio l'ambasciatore veneziano G. Soranzo informava il Senato "che la somma dell'Inquisizione non è più in mano dell'ill.mo Alessandrino; ma sua Santità ha deputato sette cardinali con egual autorità" (P. Paschini, Venezia, p. 144). Segni dell'espansione e del riequilibrio delle forze all'interno dell'istituzione, ma anche della sua perdurante autorità, si riscontrano nella Congregazione deputata al concilio che Pio IV istituì il 2 agosto nominandovi otto cardinali, sette dei quali appartenevano all'Inquisizione, e tra essi naturalmente Ghislieri. Di fronte al marcato ridimensionamento di potere, Ghislieri stabilì di ritirarsi nella sua diocesi, ma la perdita, ad opera dei pirati, di tutto il mobilio spedito in Piemonte per mare e le condizioni fisiche estremamente precarie, tali da indurlo a predisporre il sepolcro in S. Maria sopra Minerva, lo convinsero a posticipare la visita alla fine dell'anno, quindi alla primavera successiva, e poi a rinunciarvi del tutto. Alla morte di Pio IV (9 dicembre 1565), il 20 dicembre si aprì il conclave. La candidatura del cardinale Morone cadde rapidamente ad opera di Ghislieri, il quale, secondo la prassi inaugurata da Carafa, si presentò in conclave con il processo contro il cardinale "che diceva di haver ivi in seno" e che "si tien per fermo che porti continuamente nella sacchozza" (M. Firpo, Inquisizione romana, p. 198). D'altronde, Morone aveva visto declinare fin dagli anni 1559-1560 a vantaggio di Ghislieri il favore di Filippo II, il quale autorizzò l'ambasciatore spagnolo L. de Requenses a individuare il candidato che rispondesse alle caratteristiche volute dal re e si affidò interamente al giudizio di C. Borromeo. Il cardinal nepote, fallite le candidature di A. Farnese, G. Ricci e Sirleto, scelse Ghislieri tra quattro candidati proposti dal cardinale Farnese. Il sostegno della Spagna fu dunque determinante per il prevalere di Ghislieri, sebbene fosse stato più sfumato che in altre occasioni. Forse non fu ininfluente nella scelta anche la precaria salute dell'Alessandrino, che per tutto il primo anno del pontificato fu ritenuto prossimo alla morte. Il 7 gennaio 1566, a sessantadue anni circa, Ghislieri fu eletto papa e assunse il nome del predecessore in segno di omaggio al cardinale che ne aveva determinato l'ascesa al soglio pontificio. Il 17 gennaio P. fu incoronato e dieci giorni più tardi ebbe luogo la solenne cerimonia della presa di possesso. L'episodio più rimarcabile, oltre alla razionale e ordinata distribuzione di elemosine e all'inedito attraversamento del Campidoglio da parte del corteo, fu il lungo, inatteso colloquio che il papa intrattenne con F. Borgia, generale dei Gesuiti. Gli uomini di cui P. si circondò furono sperimentati compagni della sua attività nell'Inquisizione, come il segretario G. Rusticucci e il teatino M.A. Maffei, o uomini legati a Paolo IV, quali i cardinali S. Reumano, V. Vitelli, S. Rebiba e B. Scotti. Questi ultimi due, insieme a G.F. Gambara e a F. Pacheco, furono deputati all'Inquisizione, il cui organico fu ridimensionato in tal misura nel primo decreto varato dal papa il 17 gennaio. In questa fase di riassestamento degli equilibri concistoriali attorno al nuovo pontefice, l'apparente preponderanza di Reumano indusse Farnese ed altri membri del Collegio a chiedere la nomina di un cardinal nepote. Il 6 marzo P. chiamò a tale incarico il pronipote "ex sorore" Michele Bonelli, anch'egli domenicano, del tutto inesperto delle questioni di governo e per questo motivo fedele esecutore della volontà del papa, al quale avrebbe dovuto sottoporre tutti i suoi atti, pena la nullità. P., infatti, mostrò subito grande autonomia di giudizio e di azione: secondo Cusano, "si governava secondo le sue massime theologiche" (L. von Pastor, Storia dei papi, VIII, p. 44 n. 3). D'altro canto, la partenza per Milano di Borromeo, la morte alla fine di aprile di Reumano e il ritiro nell'ombra di Farnese e Vitelli lasciarono rapidamente il papa in grado di operare in completa libertà. Entro pochi mesi, la macchina di governo era organizzata in modo minuzioso e funzionava a pieno regime: la settimana era scandita dagli incontri delle Congregazioni del Concilio, degli Studi, della Riforma del breviario, dell'Inquisizione e della Riforma del clero, alle cui ultime due P. partecipava personalmente, così come aveva fatto Paolo IV. Nel novembre 1566 le responsabilità del papa in politica estera poterono usufruire della consulenza di Morone, Farnese, M.A. da Mula, A. de Granvelle e G.F. Commendone, nominati membri della Congregazione per i Principi. La politica adottata da P. nei confronti della capitale si propose di offrire un emblema dell'applicazione dei decreti tridentini e del buon governo del principe cristiano. Nel febbraio 1566 egli dette nuovo impulso alla visita apostolica che si protraeva da circa due anni: fu completato l'esame delle parrocchie e in estate il pontefice compì personalmente la visita di S. Pietro, S. Spirito, S. Giovanni e S. Maria Maggiore. Si trattò del primo passo verso una radicale trasformazione della vita civile e religiosa della città. N. Ormaneto, uomo formato alla scuola del vescovo G.M. Giberti e vicario di Borromeo, fu "chiamato dal papa, dicono, per riformar Roma et suo distretto et anco a settembrio per adoperarlo nel Concilio provinciale che vuol fare" (B.A.V., Urb. lat. 1040, c. 252). Egli, insieme a T. Orfini, A. Binarini e G. Oliva, portò a termine l'indagine dei monasteri femminili e, dal settembre 1566, intraprese una nuova revisione delle parrocchie. Inoltre il cardinale vicario G. Savelli emanò un importante provvedimento che regolava la vita dei preti (Edictum super reformatione cleri Urbis). In qualità di "riformatore", a partire da ottobre Ormaneto si occupò anche di dare seguito alla volontà papale di imporre una nuova rigidezza ai costumi dei cardinali e di quanti frequentavano i Palazzi Apostolici. Già nel suo primo Concistoro, il 23 gennaio, P. aveva ordinato che ogni prelato lasciasse Roma per andare a risiedere presso la propria chiesa e aveva espresso il desiderio che i cardinali vescovi vi si trattenessero per almeno sei mesi. Egli nel quotidiano intendeva restare fedele allo stile consueto, per cui, come aveva anticipato in una lettera di dieci anni prima, "qualunque penserà di viver meco fa bisogno che pensi di far vita religiosa, che altrimenti non lo vorria né per parente né per amico, se ben mi fosse fratello" (E. Motta, p. 362). Alla metà del 1567 fu ridimensionato l'organico della Corte col licenziamento di centocinquanta persone e si ridusse la spesa sulle regalie; i 1.000 scudi impiegati ogni anno per il banchetto d'anniversario dell'incoronazione furono destinati a monasteri; negli anni successivi analoghi provvedimenti interessarono le guardie svizzere e i benefici con obbligo di residenza dei cortigiani. Anche i costumi della cittadinanza furono improntati ad una nuova severità: dal 1566 si susseguirono l'ordine ai medici di sospendere le cure dei malati se costoro rifiutavano i sacramenti; l'editto contro il perturbamento del culto; ripetute prescrizioni suntuarie; l'espulsione di zingari e vagabondi; l'inasprimento delle pene per il reato di adulterio. Le prostitute, falliti i tentativi di convertirne la vita e di indurle al matrimonio, nell'agosto del 1568 furono relegate in un'area di residenza coatta detta l'Hortaccio. Queste misure si combinarono con interventi tesi a fornire un adeguato supporto umano e materiale alla loro riuscita e ad assicurare una più stretta partecipazione della popolazione ai sacramenti e alla vita cristiana. Nei confronti della povertà si prevedettero razionali distribuzioni di viveri e denaro, ma soprattutto si aiutarono con cospicue donazioni del papa o con la difesa delle proprietà alcune delle istituzioni deputate all'assistenza, come il Monte di Pietà e gli ospedali di S. Pietro e di S. Spirito. Nel 1567 Ormaneto, il cardinale Alciati e il gesuita Toledo furono incaricati di procedere all'esame di tutti i confessori delle chiese di Roma. Nel 1569 si costituì una nuova commissione di visitatori delle parrocchie, i cui membri furono scelti dalla Congregazione dell'Oratorio. Nel 1571 si stabilì anche a Roma la Confraternita della dottrina cristiana, che riuniva società dedite alla catechesi dei ragazzi. Questa politica s'impiantò sulla rimarcata distinzione tra cristiani ed ebrei: il 19 aprile 1566 P. aveva ripristinato le norme antigiudaiche di Paolo IV (Romanus pontifex); l'anno seguente gli ebrei furono privati del diritto di proprietà su qualunque bene acquisito durante il precedente pontificato e le conseguenti requisizioni andarono a beneficio della Casa dei catecumeni e del Monte di Pietà; anche il tasso d'interesse sul prestito ebraico fu abbassato, quindi eliminato del tutto e, infine, il 26 febbraio 1569 fu decretata l'espulsione delle comunità dallo Stato della Chiesa, con l'eccezione delle città di Roma, Ancona e Avignone (Hebreorum gens sola). L'ultimo mercoledì di ogni mese P. dava udienza per ascoltare le lamentele sull'amministrazione della giustizia e l'operato dei tribunali. A partire dal 1566 e per tutto il pontificato si lavorò alla riforma delle istituzioni giudiziarie e degli uffici di Curia, ma non si oltrepassò lo stadio del progetto. Piuttosto furono alcuni organi ecclesiastici ad essere oggetto di misure destinate ad eliminare gli abusi. La Dataria fu sottoposta alla direzione di Maffei, pur con il controllo dei cardinali Reumano, Rebiba e Scotti, e il papa nell'aprile 1567 si riappropriò del diritto di assegnare chiese e benefici, concesso dai suoi predecessori ai cardinali. La Penitenzieria, di cui durante il pontificato Medici Ghislieri era stato il secondo al vertice, fu abolita, poi riformata con competenze limitate al foro interno e alle dispense d'irregolarità matrimoniali non di natura occulta con due atti del 18 maggio 1569 (In omnibus rebus e Ut bonus). Il Sant'Uffizio, invece, fu favorito dal papa: nell'aprile 1566, le entrate furono rimpinguate con l'attribuzione delle rendite della tenuta di Conca nella Marittima, pari a 3.000 scudi secondo Porcacchi, e il mese successivo gli fu assegnato un palazzo del valore di 6.000 scudi, quale nuova sede, per la cui ristrutturazione s'impiegò la manodopera della Fabbrica di S. Pietro; in seguito la Congregazione beneficiò di altre entrate occasionali, come i beni confiscati al fiscale A. Pallantieri, e di una salina. La politica finanziaria di P. fu fortemente condizionata dagli esosi obiettivi religiosi e diplomatici del pontefice. Egli puntò alla crescita delle entrate con strumenti fiscali (imposizioni sul clero regolare e sui consumi, gabelle sul pane e sulla carne) o di altra natura (erezione di Monti, vendita di uffici) e al recupero delle rendite ecclesiastiche fruite da privati, ciò che si espresse soprattutto nell'importante bolla del 29 marzo 1567 (Admonet nos) che dichiarava l'inalienabilità delle terre di pertinenza della Chiesa e il divieto di infeudarle. Effetto non secondario della bolla fu la fine del periodo del cosiddetto "grande nepotismo" col quale ai parenti dei pontefici erano state devolute fino ad allora ampie giurisdizioni. Questi provvedimenti sono il tratto più marcato del governo dello Stato di P., che restò ambito marginale e sussidiario rispetto all'amministrazione di Roma e della Chiesa. In un quadro segnato dall'assenza di misure riguardanti l'apparato burocratico e dalla tolleranza delle autonomie locali e baronali, infatti, la bolla del 1567 appare un'iniziativa volta ad affermare i diritti della Chiesa, piuttosto che a realizzare mutamenti in senso centralizzatore della compagine statuale. L'attività benefica e il mecenatismo di P. furono coerenti con il programma di severo rinnovamento religioso. Per onorare Paolo IV Carafa incaricò Pirro Ligorio di innalzare un solenne monumento in S. Maria sopra Minerva e in tal modo tributò il proprio riconoscimento ad altre personalità ecclesiastiche, come i cardinali R. Pio da Carpi e A. Carafa, sicché l'ambasciatore veneto Tiepolo poté concludere nel 1569 che il papa "piglia tutto il suo piacere a fabbricar tumuli per questo e per quello" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 196). Tutte le statue dell'antichità classica furono eliminate dai palazzi papali; in Vaticano fece erigere solo la torre Pia, dotata di tre cappelle. Alcuni luoghi di culto romani conservano i suoi interventi: la Cappella Sistina e S. Giovanni in Laterano, dei quali fece restaurare il soffitto, S. Maria degli Angeli, S. Maria in Traspontina, SS. Domenico e Sisto, che fece costruire con l'annesso convento delle Domenicane. All'Istituto delle neofite delle Domenicane della Ss. Annunziata assegnò nel 1566 la chiesa di S. Basilio nel Foro di Augusto e il complesso che fece ristrutturare a sue spese. A livello urbanistico il papa provvide a far ripristinare l'acquedotto dell'Acqua Vergine e altre fonti di approvvigionamento idrico che servivano le aree più popolose e attive, come quella di piazza del Popolo e Campo Marzio. Ancor più emblematiche furono alcune delle imprese avviate fuori dello Stato pontificio. Nel paese natale P. fece costruire un convento che assegnò ai Frati Predicatori (1° agosto 1566); nella annessa chiesa, destinata ad accogliere le spoglie del pontefice, Vasari realizzò l'altare maggiore e un ignoto autore (probabilmente G. Buzi) il sepolcro. Nel gennaio 1567 il papa ideò la creazione di un collegio a Pavia dove ospitare giovani studenti; nel corso dell'anno furono acquistati alcuni stabili e il progetto fu affidato a P. Pellegrini, mentre il cardinale Borromeo avrebbe seguito i lavori; in novembre l'istituzione fu formalmente varata e si stabilì che avrebbe accolto per un periodo settennale di formazione ragazzi provenienti da Bosco, dal contado di Tortona e Alessandria, dalle diocesi di Vigevano, Alessandria e Pavia. Ad Assisi, infine, fu avviata la costruzione della basilica di S. Maria degli Angeli. Nei confronti dei familiari, che tenne sempre a distanza, si mantenne rigoroso, donando ai più stretti congiunti alcune modeste proprietà vincolate a fedecommessi e agevolando piuttosto attraverso il nipote la formazione dei più giovani presso il Collegio Germanico. A tal fine le rendite assai contenute di Bonelli furono accresciute e alla fine del 1568 il papa acconsentì a dargli il redditizio camerlengato, vacante per la morte del cardinale V. Vitelli. Tuttavia Bonelli dovette venderlo al cardinale Cornaro nel 1570 per contribuire alle spese della guerra contro i Turchi. Quanto stava realizzando in forme microcosmiche nella riforma della città di Roma, P. lo estese contemporaneamente a tutta la Chiesa. Fin dai primi momenti di regno, la volontà papale di dare compimento all'ideale tridentino fu comunicata con un'enciclica ai vescovi francesi e spagnoli e il testo conciliare fu inviato in Messico, Guatemala, Honduras e Venezuela insieme all'annuncio della sua elezione. L'attività pastorale fu attentamente seguita attraverso l'opera di appositi visitatori apostolici: nel 1566 T. Orfini, recandosi a prendere possesso del vescovato calabrese di Strongoli, ispezionò le chiese del Regno di Napoli e L. Marini, destinato alla sede episcopale di Alba, fece altrettanto lungo l'Italia centrosettentrionale. Nel 1569 il patriarcato di Aquileia fu percorso ed esaminato da B. di Porcia. Anche Oltralpe si procedette nello stesso modo: l'arcivescovo di Sorrento, G. Pavesi, nella primavera 1566 fu incaricato di indagare lo stato della Chiesa e del clero nei Paesi Bassi al fine di predisporre adeguate misure in difesa del cattolicesimo e contro il diffondersi dell'eresia e il legato G.F. Commendone nel 1569 visitò i conventi della Germania meridionale. Nelle due creazioni cardinalizie del marzo 1568 e del maggio 1570, pur seguendo anche logiche di opportunità politica, P. dette un esplicito riconoscimento a quelle che a suo avviso erano le forme d'impegno ideali in seno alla Chiesa: la scelta monastica e quella inquisitoriale. Nella prima creazione ottennero la porpora quattro prelati ovvero D. de Espinosa, primo ministro spagnolo; G. Souchier, generale dei Cistercensi; A. Carafa e G.P. della Chiesa; nella seconda i francesi Ch. d'Angennes de Rambouillet e N. de Pellevé; gli spagnoli G. de Zuñiga Avellaneda e G. Cervantes; il generale dei Domenicani V. Giustiniani; quello dei Teatini P. Burali e quello dei Francescani F. Peretti; G. Aldobrandini; il segretario del papa G. Rusticucci; M.A. Maffei; G.G. Albani, conosciuto a Bergamo nel lontano 1550; il domenicano A. Bianchi, "socius" dell'inquisitore Ghislieri fin dal 1551, confessore del papa, commissario generale dell'Inquisizione e prefetto della Congregazione dell'Indice; G.A. Santori, anch'egli operante nel Sant'Uffizio; C. de Grassis, governatore di Roma; P.D. Cesi; G. Acquaviva. La nomina di A. Carafa coronò la revisione del processo intentato da Pio IV, l'annullamento della sentenza il 26 settembre 1567 e la solenne riabilitazione dei Carafa nel Concistoro del 1° ottobre, con cui P. intese sancire il profondo legame spirituale con Paolo IV. Il controllo sul reclutamento del clero e delle gerarchie ecclesiali, presupposto del rinnovamento del corpo della Chiesa, fu assicurato, da un lato, con la crescita del numero dei seminari (Milano, Modena, Vicenza, Nola, Napoli, Avellino), dall'altro lato, con l'esame dei presuli italiani e con la creazione nel 1567 di una commissione, composta da M.A. Maffei, G.A. Santoro e Feruffina, incaricata di vagliare coloro che sarebbero stati proposti in Concistoro per un vescovado o un'abbazia. Nel 1572, infine, fu istituita la Congregazione dei Vescovi e Regolari, un organo centrale affidato ai cardinali L. Madruzzo, G.A. Santoro, P. Burali e G. Aldobrandini che assunse competenze prima riservate ai presuli. Nella selezione episcopale fu rispettata l'opzione prevalsa in quella cardinalizia, favorendo i Domenicani e gli inquisitori (ad es. T. Scotti, E. Locatelli, G. Boldrini e C. Campeggi, che per i meriti acquisiti nel processo mantovano a E. Calandra avrebbe avuto la sede di Nepi e Sutri, già di Ghislieri). P. procedette anche alla riforma del clero regolare secondo le rigorose indicazioni provenienti dalla riflessione curiale, risalente al Consilium de emendanda ecclesia (1537), e dal concilio di Trento. A partire dal novembre 1566 i rami conventuali degli Ordini mendicanti furono soppressi e riuniti agli Osservanti o ad un Ordine affine. A tutti il papa impose la clausura, l'ufficiatura corale, la professione solenne e nel rispetto dei limiti d'età, il divieto di risiedere fuori dal convento e quello di passare da un Ordine all'altro (Regularium personarum, 24 dicembre 1566) e sancì l'uso della forza per imporre la riforma (Cum sicut, 15 giugno 1567). Fu inasprita la clausura dei conventi con gravi conseguenze su alcune forme d'impegno devozionale, quale, ad esempio, quella ideata da Angela Merici. Nel dicembre 1569 l'abbazia di S. Croce a Fontavellana fu tolta agli Avellaniti e ceduta ai Camaldolesi e nel 1571 l'Ordine degli Umiliati, alcuni dei quali erano stati ritenuti responsabili di un attentato contro Borromeo, loro cardinale protettore e riformatore, fu soppresso. Furono, d'altro canto, promossi organismi di recente costituzione: i Barnabiti, di cui P. fin dal 1560 era stato il protettore e di cui aveva seguito le conferenze, furono istituiti in Congregazione di Chierici Regolari e altrettanto avvenne per i Fratelli della Misericordia. I Domenicani, che avevano ottenuto dal papa la precedenza su tutti gli altri Ordini mendicanti (27 agosto 1566), furono deputati a gestire la devozione del Rosario (29 giugno 1567). Importante fu anche l'opera di preparazione ed edizione dei testi liturgici. Nel 1566 P. incaricò Sirleto di correggere e preparare per la stampa il Catechismo romano, già approntato nel 1565 da una commissione presieduta da Borromeo. Il cardinale rivide il testo, in gran parte opera sua, con L. Marini e il maestro del Sacro Palazzo T. Manriquez e in settembre fu pubblicato, senza che fosse stato accolto l'unico suggerimento del papa, cioè la divisione in capitoli e parti. Nel 1568 uscì il Breviario e due anni più tardi il Messale. Nel 1566 il papa costituì una commissione per riesaminare il Corpus Iuris Canonici; nel 1569 fu la volta di una Congregazione per l'edizione della Bibbia. Nel marzo del 1571, dopo che nell'autunno precedente il pontefice aveva incaricato Manriquez di correggere alcune categorie di opere, fu istituita una Congregazione per la revisione dell'Indice del 1564, che, alla morte di P., il successore Gregorio XIII avrebbe reso formalmente stabile e a cui furono deputati i cardinali Souchier, Bianchi, Giustiniani e Peretti. Nell'aprile 1572 questo organo ripristinò l'Indice paolino, che il concilio di Trento aveva mitigato. Nel 1567 P. nominò Tommaso d'Aquino dottore della Chiesa e nel 1570 ne promosse personalmente l'edizione delle opere; i quattro dottori della Chiesa d'Oriente furono equiparati ai corrispettivi d'Occidente. Il 1° ottobre 1567 P. condannò (Ex omnibus afflictionibus) oltre settanta tesi contenute nelle opere del teologo e scritturista M. Baio (de Bay), pur senza nominare il professore della facoltà di Lovanio. Su consiglio del cardinale Granvelle, la bolla non fu pubblicata, ma comunicata all'interessato attraverso il vicario del cardinale, il quale doveva procedere con mitezza nell'esecuzione. Baio si sottomise, ma poco più di un anno dopo indirizzò al papa un'apologia difendendo, per la loro fedeltà al pensiero di s. Agostino, le sole trenta tesi che riconosceva come proprie. Nondimeno, il 13 maggio 1569 P. confermò la condanna e impose l'abiura. Baio, allora, basandosi sulla mancanza di punteggiatura del testo della bolla e sulle conseguenti interpretazioni della condanna, si appellò al fatto di non essere stato censurato per il senso letterale delle proposizioni, ma poi cedette. La vertenza, tuttavia, proseguì, poiché il teologo fu nominato decano nel 1570 e si scatenò la controversia, cui dette il suo contributo tra i polemisti contrari a Baio anche R. Bellarmino, sicché il duca d'Alba decise di rendere pubblica la bolla di condanna e di farla giurare da tutti i professori della facoltà. L'opera di evangelizzazione delle aree extraeuropee ricevette un grande impulso soprattutto attraverso il fecondo rapporto tra P. e il generale della Compagnia di Gesù F. Borgia, che fin dall'inizio del regno si prestò ad affiancare il pontefice nell'organizzare e coordinare l'intensa attività. Nel corso del 1566 diversi gruppi di Gesuiti ricevettero la benedizione papale al momento della loro partenza per le missioni in Germania, Francia (dove nel 1568-1570 fu attivo A. Possevino) e altri paesi dell'Europa, nelle Indie Occidentali, dove si recavano per espressa volontà di Filippo II, e in Estremo Oriente. Risale a questo periodo la disposizione, comunicata a Borgia e da questi ai missionari delle Molucche, che condensa la posizione di P. sulle modalità di espansione del cattolicesimo: era opportuno battezzare solo coloro che si sarebbero potuti conservare alla religione cattolica, quindi rafforzarne la fede e poi procedere ad altre conversioni. In una fitta serie di messaggi rivolti alle autorità coloniali e allo stesso sovrano spagnolo, il papa completava il suo pensiero e definiva le responsabilità: il comportamento dei cattolici sarebbe stato per gli indigeni il modello concreto della vita cristiana, lo specchio dell'insegnamento dei missionari e pertanto avrebbe dovuto essere rigoroso ed esemplare, a livello sia individuale sia collettivo. D'altronde, per il pontefice "che si attenda alla conversione dell'infedeli" era "il fine per la quale fu a i re cattolici di Spagna concessa la conquista di quei paesi" (L. Lopetegui, p. 20). Nel maggio 1568, per il tramite del cardinale A. Crivelli, fece sapere a Borgia che avrebbe desiderato inviare nelle Indie Orientali e Occidentali alcuni membri della Compagnia quali visitatori del papa; dopo aver interpellato l'ambasciatore portoghese, fu deciso, comunque, di deputare per i possedimenti lusitani i vescovi locali, accompagnati da Gesuiti. Per quanto riguardava i domini coloniali spagnoli, invece, il papa aveva prospettato a Filippo di Spagna di nominare un nunzio, ma l'idea fu respinta dal governo. Dal progetto della primavera scaturì l'idea di costituire una Congregazione cardinalizia che affiancasse il pontefice nella guida spirituale di aree così lontane ed essa fu istituita il 23 luglio con i cardinali da Mula, Crivelli, Sirleto e Carafa. Sebbene dal gennaio dell'anno successivo si perdano le tracce dell'istituzione, la sua importanza risiede nel fatto di essere stata l'anticipatrice della Congregazione "de Propaganda Fide" costituita da Urbano VIII oltre mezzo secolo più tardi. Di riflesso, s'incaricò una analoga commissione per le aree europee sotto il dominio dei riformati, in modo particolare per la Germania, cui furono nominati Granvelle, Commendone, O. Truchsess e F. Baldo. Intrinsecamente legata al programma di riforma religiosa, di diffusione del cattolicesimo e di contrasto dell'eresia, la politica estera di P. fu improntata alla difesa della giurisdizione ecclesiastica dall'erosione dei poteri laici e all'alleanza di tutti i sovrani cattolici in una solidale lotta contro gli eterodossi e l'espansionismo turco, con la prospettiva sempre sottesa di arrivare fino alla liberazione di Gerusalemme. Tuttavia, fin dall'inizio gli obiettivi del pontefice non coincisero con quelli dei sovrani cattolici e solo in talune congiunture le soluzioni politiche incontrarono i desideri tutti spirituali di P. che, per indurre i monarchi ad assecondare le sue volontà, ricorse a incessanti pressioni diplomatiche e a generosi finanziamenti. Nel 1566 il papa confermò la Legazione di G.F. Commendone presso l'imperatore Massimiliano II. Il legato avrebbe dovuto impedire che la Dieta, prevista ad Augusta in febbraio, affrontasse questioni religiose stabilite dal concilio e di pertinenza della Chiesa, ottenere l'applicazione dei decreti tridentini almeno nelle diocesi della fascia alpina meridionale (Salisburgo, Costanza, Eichstätt, Augusta, Frisinga, Passau, Bressanone e Trento) e avviare i negoziati per una lega antiturca. Massimiliano II, tuttavia, considerando inopportuna la presenza del legato e dei gesuiti che lo accompagnavano, tentò di far richiamare Commendone, anche se la promessa di un aiuto finanziario del papa per la campagna contro i Turchi, che fu versato alla fine della Dieta, ammorbidì l'imperatore. In un contesto in cui anche i cattolici sostenevano l'equilibrio assicurato dalla pace di Augusta (1555) per evitare un aggravamento della propria posizione, l'accettazione negli Stati fedeli alla Chiesa di Roma dei decreti conciliari fu considerato uno splendido risultato, ancorché l'unico ottenuto dal legato. In primavera, con disappunto dell'imperatore, P. girò alla regina di Scozia il sussidio destinato a Massimiliano II, dato che l'attacco turco all'Impero non appariva imminente. Maria Stuart era sopravvissuta ad una congiura ordita dal marito e dai nobili riformati e attraverso il vescovo Chisholm aveva sollecitato l'aiuto del papa. In giugno P. creò nunzio in Scozia V. Lauro e gli affidò l'incarico di versare la somma destinata alla sovrana e di affrontare il problema della restaurazione cattolica nell'isola, nonostante i pareri dissenzienti dei Gesuiti scozzesi che consideravano più efficace affiancare a Maria un conterraneo in posizione di consigliere. Così come in Germania, i rapporti con la Francia erano condizionati dal problema ancora aperto dell'introduzione dei decreti tridentini. Carlo IX, cui il nunzio M. della Torre nel maggio 1566 aveva presentato le credenziali, rifiutò la promulgazione ufficiale e affidò a personaggi sospettati di aderire alle idee riformate o addirittura condannati per eresia, quali il cancelliere M. de l'Hospital e il vescovo di Valence, J. de Monluc, il compito di esaminare il problema. P., attento ad ottenere soprattutto l'applicazione concreta delle disposizioni conciliari, poté inviare, comunque, ai prelati francesi i brevi che imponevano loro l'osservanza e il re, cui era stato chiesto un particolare impegno nei riguardi della riforma del clero, anche per la facoltà di assegnare i vescovati e le abbazie del Regno riconosciutagli dal Concordato, acconsentì a decretare l'obbligo di residenza. Con grande chiarezza, P. individuava nell'adesione formale dei sovrani alle disposizioni tridentine l'unica via per assicurare uniformità religiosa al Regno e garantire la salvaguardia della fede e del trono, ma la politica religiosa della monarchia restava incerta e la presenza ugonotta alla corte e nel Consiglio della Reggenza era importante. Se in Spagna e nei Viceregni di Napoli e Milano Filippo II aveva accolto i decreti conciliari, alcune questioni giurisdizionali turbavano le relazioni tra la monarchia e il papato. P. e il nunzio G.B. Castagna non ottennero alcun risultato positivo alla ripetuta richiesta di abolire il "recurso de fuerza", che consentiva al governo spagnolo di opporsi a qualunque atto di un'autorità della Chiesa, agendo di conseguenza invece che limitandosi a segnalarlo. Contemporaneamente, però, Filippo II insistette con il papa per ottenere alcuni sussidi derivanti dalla proprietà ecclesiastica. In questo contesto, giunse a Roma, in settembre, la notizia dei disordini iconoclasti accaduti nelle Fiandre all'inizio di agosto. P., avvertito delle concessioni che sotto la spinta dell'insurrezione la reggente Margherita d'Asburgo aveva dovuto fare per ottenere la pacificazione temporanea del paese, tra cui vi era la libertà di culto calvinista nei luoghi dove era già stato autorizzato, protestò con Filippo II, il quale lo assicurò che mai avrebbe approvato tali misure. P. decise comunque di inviare a Madrid P. Camaiani, vescovo d'Ascoli, per spronare il sovrano a compiere un viaggio nei Paesi Bassi al fine di garantire con la sua presenza la risoluzione dello stato di crisi. Si trattava di un'idea a cui il papa aveva ripetutamente cercato di far aderire Filippo II, fin dall'inizio del pontificato, nella convinzione che "non andandovi di persona, si hanno quei Stati Bassi per persi quanto alla religione, et forsi di breve saranno non men persi quanto all'obbedienza verso Sua Maestà Cattolica e de quivi si perde la speranza che haver si può del ritorno alla fede catholica del regno d'Inghilterra, e di poter risanar la Francia, per li continui commerci che hanno alli negotii et mercantie" (B. de Meester, p. 33 n. 1). Per P., dunque, l'identità tra eterodossia e sovversione politica rendeva coincidenti gli obiettivi del papa e dei sovrani e, allo stesso tempo, la diffusione del dissenso religioso ben oltre le frontiere degli Stati e la solidarietà tra gli "eretici" doveva spingere all'alleanza i Regni cattolici. Di contro, il radicamento del cattolicesimo in un'area avrebbe giovato a tutte quelle vicine, come ebbe modo di scrivere a proposito delle diocesi meridionali dell'Impero, che, "ridotte in buono stato, serviranno per antemurale all'Italia contro le fraude et prave communicationi de gli altri paesi heretici" (Nuntiaturberichte, V, pp. 58-9). Tuttavia, per i principi proprio la compresenza di elementi eterodossi e di ribelli costringeva a una strategia d'intervento più cauta e duttile di quella desiderata dal papa. Il duca di Savoia, ad esempio, nell'ottobre 1566 esprimeva con efficacia questo punto di vista: "Altro è l'esser in Roma lungi dalle insidie: altro è l'esser qui in mezzo di esse [...]. So bene che il tollerare gl'heretici è cosa perniciosissima: ma non bisogna ingannarsi: castigarli tutti a me è impossibile, abbruciarne alcuni infiamma crudelmente gli altri alla vendetta" (A. Pascal, 1929, pp. 55-6). La missione di Camaiani a Madrid durò dall'inizio di novembre del 1566 al febbraio dell'anno successivo e si rivelò un fallimento. Il vescovo superò le disposizioni papali criticando i preparativi della spedizione militare nelle Fiandre, mentre avrebbe dovuto limitarsi a dimostrare che l'invio dell'esercito non annullava l'opportunità del viaggio del sovrano, dato che il contingente era destinato alla punizione dei sediziosi e non degli eretici. Se ad offendere Filippo II furono lo zelo del diplomatico, le ragioni stesse della missione e l'ostinazione di un papa che - secondo il cardinale A. de Granvelle - "tiene poca esperiencia de negocios, y de tractar con principes grandes, y tiene muchos al lado que saben menos, a los quales da gran credito porque son de buena consciencia" (B. de Meester, p. 31 n. 1), la questione del viaggio nei Paesi Bassi rivelava, in ogni caso, un'irriducibile distanza tra il papa e il monarca circa il modo di riguardare i Fiammighi e gli strumenti da adottare nei loro confronti. Per Filippo II, infatti, essi erano solo sudditi ribelli, per P. anche eretici. Vi erano, comunque, tra i due Stati altri motivi di dissapore, legati al reciproco intervento nell'altrui ambito giurisdizionale, come la questione della Monarchia Sicula, ovvero i diritti esercitati in Sicilia dal sovrano in campo ecclesiastico, e l'opposizione esercitata dal Senato milanese alla riforma di Borromeo. L'atteggiamento nei confronti dell'Inquisizione romana aggiunse un ulteriore elemento ai rapporti diplomatici. Durante il pontificato di P., l'attività centrale e periferica del Sant'Uffizio conobbe uno slancio d'intensità tale da far apparire agli occhi dei contemporanei quella precedente come "da scherzo" (S. Pagano, p. 50) e per gli Stati questo significò richieste, ingerenze e contrapposizioni giurisdizionali. Allo stesso tempo, però, la straordinaria importanza che P. accordò all'Inquisizione, che continuava a dirigere di persona ("vede ogni processo et legge tutte le scritture"; ibid., p. 36) e la riapertura di tutti i procedimenti in corso durante il pontificato Carafa (Inter multiplices curas, 21 dicembre 1566), consentirono a principi e a sovrani di assicurarsi il favore del pontefice e di spenderlo su questioni di maggior interesse che la vita di un presunto eretico. Nel giugno 1566 P. inviò a Firenze T. Manriquez per richiedere al duca Cosimo I la consegna di P. Carnesecchi e attraverso il nunzio a Venezia, G.A. Facchinetti, sollecitò l'arresto di G. Giannetti. Mentre il duca, reso consapevole che acconsentendo avrebbe dato ai futuri rapporti col papa una decisa impronta positiva, inviava a Roma il protonotario, in luglio, nei medesimi giorni in cui si avviava il processo contro Carnesecchi, il Consiglio dei Dieci autorizzò il fermo del Fanese, ma senza concedere l'estradizione. Con vivissima partecipazione emotiva, P. insistette presso la Repubblica di Venezia per quello che era un suo suddito e su cui, per propria ammissione, "ha[veva] l'occhio adosso dal primo tempo che [...] vene in questa città" (A. Stella, p. 225). Il desiderio di P. di ottenere Giannetti organizzava e dominava la gerarchia delle priorità tra i molti aspetti connessi alla carica ed era di tale intensità che "se quel Serenissimo Dominio havesse nelle mani Ravenna [...] 'l papa torria più volentieri costui che la detta città" (ibid., n. 104). L'attaccamento all'ufficio di inquisitore e la volontà di condurre personalmente le indagini nascevano dalla convinzione che non vi fossero "altri [che] intendano così bene le cose dell'Inquisitione come le intendemo noi", che "vi havemo consumato in questa pratica la vita et l'intelletto nostro" (ibid., p. 228). In agosto il Consiglio cedette, poiché la congiuntura non era favorevole né ai riformati, né ai Veneziani medesimi. Il papa, infatti, aveva respinto l'ambasciatore N. da Ponte dalla delegazione inviata ad omaggiarlo a causa del suo coinvolgimento a favore degli eretici e in giugno aveva fatto sequestrare le carte personali di Giulia Gonzaga, a pochi mesi di distanza dalla morte della nobildonna, che avrebbero contribuito alla riapertura dei processi contro Carnesecchi e i membri del circolo valdesiano napoletano (B. Perez, M. Galeota, D. Lullo). Nel dicembre 1566, si diede seguito alla promessa di Filippo II di far esaminare a Roma l'arcivescovo di Toledo B. Carranza da sette anni prigioniero dell'Inquisizione spagnola. P. intendeva appurare la fondatezza delle accuse mosse contro il prelato, già membro del concilio e diplomatico presso la corte inglese sotto Maria Tudor, mentre Filippo II, che beneficiava delle cospicue rendite della vacante sede episcopale toletana, non intendeva rischiare di veder minata l'autorità dell'istituzione inquisitoriale spagnola, e, di riflesso, la propria, nel caso di un'assoluzione. A decidere il sovrano, nel maggio precedente, era stata, tuttavia, la prospettiva di ottenere dal papa la "Bula de Cruzada" ovvero la devoluzione alle casse reali del più ingente prelievo ecclesiastico, destinato a finanziare la liberazione di Gerusalemme. Sempre in dicembre P. pronunciò la sentenza di colpevolezza contro sei degli otto prelati francesi citati nel 1563. Il Parlamento di Parigi, però, rivendicò al sovrano il diritto di applicare la pena e pertanto il provvedimento rimase privo di effetti. Per tutto il 1567 P. continuò a insistere perché Filippo II partisse alla volta dei Paesi Bassi, suggerendo anche l'itinerario con grande allarme della Repubblica di Venezia che, nell'eventualità del passaggio dell'esercito spagnolo, mise in stato d'allerta la cittadella di Brescia. Il re, però, subordinò la realizzazione del progetto all'ottenimento di un adeguato supporto finanziario da parte del papa, che già nel marzo del 1566 aveva concesso il "sussidio delle galere" per cinque anni e che contemporaneamente rifiutava a Margherita d'Asburgo metà delle rendite ecclesiastiche fiamminghe. Tra gli obiettivi che l'eventuale, temporanea presenza di Filippo II avrebbe consentito di realizzare, nell'idea di P., vi era anche la stipula di una lega con la Francia e l'Impero contro il Turco. Peraltro, in marzo anche la Repubblica di Venezia fece dei passi per verificare l'ipotesi di un'analoga alleanza, ma il papa invitò piuttosto i Veneziani a prestare aiuto all'imperatore, al quale egli stesso concesse a più riprese nel corso dell'anno ingenti mezzi per la fortificazione dei confini esposti agli attacchi ottomani. Sempre nel marzo Filippo II annunciò ufficialmente il viaggio e il papa gli concesse il diritto di riscuotere in ogni parrocchia la decima dell'uomo più ricco ("excusado"). La notizia destò, tuttavia, preoccupazione in Francia, dove in vista del passaggio dell'esercito spagnolo attraverso il Ducato di Savoia Carlo IX dispose che seimila soldati svizzeri presidiassero la frontiera. Il gesto, approvato dal nunzio, approfondì la già aspra rivalità tra i due Stati cattolici, tra cui P. desiderava, piuttosto, che prevalesse l'armonia, anche per consentire il pieno dispiegamento della lotta contro gli ugonotti. In occasione del Giovedì santo 1567 P. promulgò la bolla In coena Domini. Già l'anno prima il provvedimento, cui egli affidava la volontà di riaffermare l'autorità della Chiesa, aveva agitato la diplomazia spagnola per le importanti novità contenute, prima delle quali la lettura in volgare nelle chiese. Ora la bolla estendeva le censure previste in ambito fiscale al prelievo delle "gabellas" e ciò fu considerato dal governo vicereale di Napoli una grave ingerenza nei diritti e nell'autonomia giurisdizionale degli Stati, oltre che un elemento di disordine per la potenziale opposizione delle autorità ecclesiastiche all'esazione delle imposte. Per giunta la pubblicazione della bolla era avvenuta senza richiedere l'autorizzazione regia e per l'analogo comportamento tenuto in occasione della visita apostolica di Orfini le relazioni tra il Vicereame e il papa erano tese fin dall'inverno precedente. In maggio Carranza giunse a Roma e avviò il procedimento che doveva appurare le accuse di eresia rivolte dall'Inquisizione spagnola. In estate l'Inquisizione agì anche a Mantova dove, come comunicava P. al duca Guglielmo Gonzaga, erano coinvolti nell'indagine anche i ministri ducali. Il cardinale Rebiba trasmetteva ordini severi del papa al duca, sbandierando la consueta minaccia che "gli heretici attendono alla mutatione de Stati" (S. Pagano, p. 30), ma ciò che appariva sempre più chiaro, mentre si estendevano le accuse anche a membri femminili della famiglia Gonzaga e fioccavano gli arresti di collaboratori del duca, come G.B. Bertano, era l'impossibilità per i principi, da un lato, di gestire e risolvere solo sul piano giurisdizionale l'ingerente intervento del Sant'Uffizio, dall'altro lato, di sottrarsi alla piena collaborazione con esso. La missione diplomatica che il duca Guglielmo inviò a Roma nel dicembre 1567 confermò le molti voci concordi sull'assenza di spazi di mediazione possibile in materia d'Inquisizione, data la rigidità del papa "che in niun altro negocio procede pesantemente, né si rende tanto difficile" (ibid., p. 52). D'altronde, le estradizioni di Firenze e Venezia, i contemporanei processi a Napoli contro gli ultimi valdesiani, l'avvio del procedimento contro A. Paleario, in seguito condotto a Roma, la condanna capitale di Carnesecchi, eseguita il 1° ottobre 1567, così come la vicenda di B. Bartoccio, che la Repubblica di Genova proprio tra l'autunno e il gennaio doveva cedere al papa, malgrado le minacciate ritorsioni commerciali dei Cantoni svizzeri di Ginevra e Berna, erano prove inequivocabili del corso dato all'attività inquisitoriale. Né si trattava di un momento particolare nell'attività del Sant'Uffizio, perché a Modena nel biennio 1567-1568 fu repressa l'intera comunità eterodossa, a Faenza furono arrestati e portati a Roma numerosi inquisiti, a Bologna e Imola crebbe il numero dei processi. Queste iniziative andarono di pari passo con la volontà di rendere anche sul piano istituzionale più autonoma ed efficace l'azione del Sant'Uffizio: nel Ducato di Firenze si affidarono all'inquisitore competenze fino ad allora condivise con il nunzio e il suo vicario e a Lucca nel 1568 il papa tentò di nominare un commissario del Sant'Uffizio. La tensione franco-spagnola accesasi intorno al viaggio di Filippo II scemò grazie all'opera diplomatica del nunzio Castagna (v. Urbano VII) e nel mese di luglio 1567 i pericoli della guerra erano scongiurati. I rappresentanti papali a Madrid e a Parigi, per volontà del papa, tentarono anche di combinare un incontro tra i sovrani, ma senza risultato, tanto più che in agosto, nonostante i frenetici preparativi, la partenza di Filippo II per le Fiandre fu annullata. L'arrivo nei Paesi Bassi dell'esercito guidato dal duca d'Alba e l'arresto di lì a poco dei conti di Egmont e Hornes avallò la sospensione di un progetto malvisto dal re e dalla corte. Inizialmente P. ritenne di essere stato truffato e solo la dura repressione del duca d'Alba lo ammorbidì. Nei riguardi dell'intervento militare, però, il papa riteneva sufficiente un'azione dimostrativa che piegasse i ribelli in vista dei negoziati col re, ma il duca d'Alba ribadì la natura eminentemente politica dell'operazione militare, diretta contro sudditi ribelli, dalla quale il papa doveva restare fuori. In luglio, giunse a Roma la notizia delle recenti nozze di Maria Stuart con J. Bothwell, avvenute con rito anglicano. L'evento segnò la rottura delle relazioni con la Scozia che dall'inverno precedente, con la procrastinata accoglienza di Lauro e il perdono generale concesso ai ribelli dalla sovrana in dicembre, erano peggiorate al punto di decidere il nunzio in aprile a ritornare in Italia. Né, fino alla metà del 1569, il precipitare delle sorti di Maria, costretta ad abdicare, sconfitta sul campo a Langside (16 maggio 1568) e, infine, prigioniera di Elisabetta I, mutò l'atteggiamento del papa. In agosto, il duca di Savoia Emanuele Filiberto - che alla fine del 1566 per la disponibilità offerta al passaggio delle truppe del duca d'Alba aveva visto cadere il veto ispano e pontificio agli accordi da lui stipulati con i Bernesi nel 1564 - concluse un patto temporaneo con Ginevra. Ma il papa arrivò ad auspicare la perdita definitiva dei territori contesi, piuttosto che stringere simili compromessi o rischiare di porre a contatto i sudditi cattolici e quelli vissuti con i riformati. Alla fine di settembre gli ugonotti francesi si sollevarono e in ottobre Caterina de' Medici e Carlo IX chiesero a P. un donativo di 2 o 300.000 scudi per rispondere con le armi. Il papa acconsentì alla richiesta e s'impegnò a inviare anche mille uomini a condizione che l'impresa bellica fosse effettivamente tale e il re non stringesse un accordo disonorevole con i nemici. Il rappresentante della regina, A. Rucellai, ottenne anche l'appoggio di Cosimo I de' Medici e di Emanuele Filiberto di Savoia e un contingente di cavalleria dal duca d'Alba. Dopo la vittoria cattolica di St-Denis, P. moltiplicò gli sforzi a favore di Carlo IX, inviando lettere in Spagna e in Savoia e incaricando il vescovo P.D. Cesi di una missione diplomatica presso i sovrani italiani, ma la riproposizione degli argomenti cari al papa non sortì l'effetto sperato. Per di più, alla fine di dicembre, le parti in lotta sembrarono aver raggiunto un'intesa e P., deluso e irato, respinse duramente la richiesta di danaro di Caterina de' Medici col dire che avrebbe preferito inviarle soldati, e contestò l'operato della monarchia francese. La pace, che le ulteriori azioni diplomatiche e le pesanti richieste ugonotte procrastinarono, fu comunque siglata a Longjumeau il 23 marzo 1568. In aprile, i calvinisti dei Paesi Bassi si sollevarono: Luigi di Nassau invase la Frisia e inferse una sconfitta all'esercito spagnolo che perdette il capo della fanteria, il conte d'Arenberg. Di fronte a queste notizie, P. approvò come male necessario la repressione che si scatenò e che vide, tra l'altro, l'esecuzione di Egmont e Hornes. La pubblicazione della nuova bolla In coena Domini nel 1568 sollevò il malcontento degli Stati per le ingerenze in ambito fiscale. P., in un colloquio con l'ambasciatore veneziano, colse l'occasione per ribadire il proprio pensiero circa il ruolo del pontefice nei confronti di principi e sudditi e la sua superiorità rispetto all'autorità civile: "la cura del governo de' popoli cristiani principalmente è sopra le nostre spalle ed a noi spetta vedere che siano governati con carità ed ovviare che non siano tiranneggiati e poste le gravezze insopportabili e levargliele" (M.C. Giannini, p. 97). Il papa, come avrebbe spiegato anche in un memoriale a Filippo II, si preoccupava di conservare attraverso queste misure l'armonia sociale e di conseguenza la pace religiosa e politica. D'altronde, anche a proposito delle rendite ecclesiastiche concesse al sovrano, P. si era preoccupato di chiedere nel 1566 che fossero riscosse da persone "discrete", "acciò i cridi de li oppressi penetrando le divine orechie non gli riportano magior dano che l'armata turchesca" (Correspondencia diplomática, I, p. 131). A Napoli, dove la bolla fu pubblicata ancora una volta senza autorizzazione regia, la contrapposizione fu frontale, perché il viceré aveva ordinato di esentare dalla riscossione fiscale le persone e le istituzioni ecclesiastiche, ma il nunzio P. Odescalchi, nominato con estesissime facoltà in gennaio, e il visitatore apostolico dettero mandato ai confessori di non assolvere quanti erano incorsi nelle censure. Anche a Milano, la promulgazione del provvedimento aggravò uno stato di conflitto asperrimo tra il potere laico e quello ecclesiastico. Fu tuttavia l'apice della tensione, perché l'anno seguente fu possibile graduare l'impatto della bolla e le ragioni della concordia, in nome dei progetti internazionali di P., prevalsero su quelle del conflitto. Nel corso dell'estate 1568, una ennesima missione di Rucellai presso il papa segnò la ripresa delle trattative per una nuova guerra contro i riformati francesi. In agosto, il vescovo F.M. Frangipane, uomo vicino al cardinale A. Farnese, sostituì il nunzio della Torre e partì per Parigi con l'incarico di amministrare l'ingente contributo finanziario, pari a 150.000 lire tornesi, che il papa aveva concesso al re sulle rendite ecclesiastiche per perseguire una decisa politica antiugonotta. Tra le condizioni poste dal papa a tutela degli interessi della Chiesa vi erano l'allontanamento dei riformati dalla corte di Francia, ciò che riuscì al nunzio almeno per quanto riguarda il vescovo di Valence, J. de Monluc, e l'adozione di misure repressive contro gli ugonotti e i loro dirigenti. In settembre, dopo il fallito tentativo di catturare il principe di Condé e l'ammiraglio G. de Coligny organizzato dal cardinale di Lorena, scoppiò il conflitto, sancito dall'editto di St-Maur, che annullava i termini dell'accordo di Longjumeau, e dall'allontanamento di Michel de l'Hospital. Motivo di apprensione per il papa fu il tentativo di Guglielmo d'Orange, il capo degli insorti fiamminghi sfuggito alle repressioni del duca d'Alba, di coalizzarsi con le forze ugonotte, tentativo che peraltro aveva avuto l'appoggio segreto di Carlo IX, ma in dicembre la notizia della vittoria del duca d'Alba contro le truppe di Guglielmo dissolse i timori. Anche dall'Impero pervennero informazioni che suscitarono l'indignazione di P.: in settembre, infatti, l'ambasciatore P. d'Arco mise il papa a conoscenza del fatto che poche settimane prima Massimiliano II aveva concesso ai nobili riformati della Bassa Austria di professare liberamente il culto nella forma della "Confessio augustana" del 1530. Con imprevista tempestività, P. inviò all'imperatore Commendone per indurre il monarca a ritirare il provvedimento. Ma Massimiliano, cui era premuto piuttosto garantirsi il favore dei protestanti in vista delle richieste finanziarie che avrebbe rivolto alla Dieta, nei colloqui di novembre cedette solo formalmente alle rimostranze papali. All'inizio del 1569 l'imperatore inviò il fratello, l'arciduca Carlo, in Spagna e messi presso il duca d'Alba e l'Orange al fine di interrompere lo scontro armato in atto nei Paesi Bassi, ma si trattò di un'iniziativa di facciata a beneficio dei grandi elettori tedeschi che ebbe come conseguenza solo la concessione di un'amnistia da parte di Filippo II (che il duca d'Alba non avrebbe promulgato, tuttavia, prima del luglio 1570) e un imprevisto accordo nuziale tra il re di Spagna e la nipote. Rassicurato sui reali sentimenti di Filippo II, avverso ad ogni ipotesi di conciliazione, e dando seguito agli impegni assunti, P. inviò in Francia quattromila fanti e cinquecento cavalieri al comando di G.A. Sforza, duca di Santa Fiora, che partirono in aprile 1569, poco dopo la grave sconfitta ugonotta a Jarnac, spalleggiati da un contingente del duca di Toscana. L'esercito pontificio era destinato all'occorrenza ad operare nei Paesi Bassi, così come gli uomini del duca d'Alba cooperarono contro i riformati francesi e congiuntamente in ottobre s'imposero nella battaglia di Moncontour. Nel corso del 1570 si moltiplicarono le iniziative di P. contro i "nemici" della Chiesa. In gennaio la volontà di Carlo IX d'intavolare trattative con il fronte dei ribelli allarmò il papa che condannò direttamente e attraverso il nunzio Frangipane a più riprese la lenta e difficoltosa iniziativa di pace e l'ipotesi di un riconoscimento politico-militare degli ugonotti, quale ad esempio la concessione del presidio di La Rochelle. In febbraio il pontefice decise di inviare in qualità di legato straordinario presso Filippo II L. de Torres e il generale dei Domenicani V. Giustiniani per promuovere l'adesione della Spagna alla lega antiturca. Questa missione diplomatica fu resa più complessa da ulteriori iniziative del papa. La diffusione, in dicembre, della bolla con cui il 27 agosto precedente P. aveva accordato a Cosimo I il titolo granducale aveva fornito un nuovo motivo di risentimento a Massimiliano II e a Filippo II, di entrambi i quali il Medici era vassallo. P. aveva inteso premiare lo zelo con cui Cosimo aveva agito contro Carnesecchi e molti altri presunti eretici, dimostrandosi pronto a corrispondere alle richieste del Sant'Uffizio, e il suo contributo alla terza guerra ugonotta e alle iniziative di Filippo II in Fiandra e nel Mediterraneo. Riuscì in tal modo al duca fiorentino un'operazione che aveva posto in essere fin dal pontificato di Pio IV e a cui era stata fatale allora l'opposizione dell'Impero e della Spagna. Ma per gli Asburgo era fonte di dissidio con P. la formulazione stessa della bolla in base alla quale il pontefice pretendeva di avere il diritto di conferire titoli anche relativamente a terre di giurisdizione non papale. Alla cerimonia solenne d'investitura, il 5 marzo, l'ambasciatore imperiale P. d'Arco abbandonò la sala e Massimiliano inviò una deputazione a Roma per consegnare una protesta formale. In tale occasione P. istituì una Congregazione per gestire diplomaticamente la vertenza e formulare un'appropriata risposta. L'incarico di presiedere questa commissione fu affidato al cardinale Morone, che proprio tra 1569 e 1570 era oggetto di nuove indagini inquisitoriali da parte di Santoro. Questo fatto, tuttavia, pone in luce che ormai davanti ad un personaggio così in vista, collegato direttamente al concilio e assolto da Pio IV, era giocoforza per l'Inquisizione recedere per non compromettere le basi ideologiche della politica di Pio V. In aprile il re di Spagna fu messo a conoscenza, prima dal suo ambasciatore, poi dal legato de Torres, del provvedimento preso da P. contro la regina di Inghilterra. Il 25 febbraio, infatti, dopo un breve processo il papa aveva promulgato la bolla di scomunica con cui dichiarava Elisabetta I colpevole di eresia e decaduta dal diritto di governare. Si trattava di una misura con cui il pontefice intendeva fomentare e legittimare la ribellione cattolica interna al Regno inglese e che aveva meditato fin dalla primavera precedente, quando aveva inviato il penitenziere N. Morton per verificare l'eventuale accoglienza del provvedimento. Erano risultati inutili i tentativi papali, nel marzo e nel novembre 1569, di far intervenire contro l'Inghilterra la monarchia spagnola, e in modo particolare il duca d'Alba, avverso all'iniziativa anche in presenza di un irrigidimento delle relazioni tra i due Stati, e il grave ritardo con cui si venne a conoscenza della fallita sollevazione del novembre precedente convinse P. ad agire. In realtà la ritorsione del governo sui sudditi cattolici fu pesante. Filippo II, che aveva sempre sostenuto la regina d'Inghilterra per contrastare un'espansione del potere dell'alleanza franco-scozzese, proibì che il provvedimento fosse pubblicato nel suo Regno e prese le distanze dall'iniziativa papale, e Carlo IX fece altrettanto. Malgrado queste differenze, il 20 maggio 1570, dopo numerose sedute del Consiglio di Stato, il sovrano spagnolo prese la decisione di aderire alla lega antiturca. Il 1° luglio si aprì l'incontro tra le delegazioni pontificia (cardinali Bonelli, Morone, Cesi, Grassi, Aldobrandini), spagnola (Granvelle, Pacheco e l'ambasciatore Zuniga) e veneziana (M. Soriano e G. Soranzo), mentre Cipro era invasa dai Turchi e Nicosia cinta d'assedio. Stabilito l'assetto delle flotte e accettato da parte di Filippo II il comando generale di M.A. Colonna, le squadre navali si incontravano alla fine di agosto. Il precipitare all'inizio di settembre della situazione veneziana a Cipro con la capitolazione di Nicosia rese più urgente l'intervento delle forze della lega, ma dopo una prima azione fallita per ragioni meteorologiche e prevalendo le divisioni in seno al comando la campagna si arrestò. Frattanto la stipula, in agosto, della pace di St-Germain-en-Laye tra Carlo IX e gli ugonotti aveva rinfocolato le proteste papali, che pure si erano susseguite attraverso numerosi messaggi inviati nel corso dell'anno al re, alla regina madre e ai personaggi più in vista della corte francese. Il nunzio Frangipane si era adoperato per ottenere che l'accordo fosse interpretato in senso restrittivo e a vantaggio del cattolicesimo e alla fine di settembre indirizzò al sovrano e alla corte un'accesa protesta contro un patto che vanificava completamente la superiorità conquistata dai cattolici sul campo di battaglia, incoraggiando invece il proseguimento delle operazioni militari. P., dal canto suo, chiese ai cardinali di Lorena e di Borbone di lavorare per ottenere la rottura dell'accordo e inviò il protonotario F. Bramante per comunicare la sua personale disapprovazione e ribadire l'opportunità che il clero francese dimostrasse il proprio assoggettamento a Roma attraverso la residenza dei vescovi e le visite "ad limina". Vi fu anche il problema della difesa dall'influenza ugonotta del Contado Venassino e di Avignone, che furono sottratti alle pretese monarchiche e affidati ad un contingente militare facente parte del corpo di spedizione pontificio. Era comunque in corso una manovra sotterranea: nell'ottica papale di una schedatura generale degli eterodossi, Bramante stilò liste di nobili ugonotti o ad essi vicini e il nunzio informò il papa di una doppia politica dei sovrani che dietro l'apparente tolleranza meditavano un'azione stragista. Tuttavia, sempre in agosto si prefigurò l'ipotesi di unioni nuziali tra Enrico d'Angiò, fratello del re e campione del partito cattolico, ed Elisabetta d'Inghilterra e tra Margherita di Valois, promessa a Sebastiano di Portogallo, e Enrico di Navarra. Tali progetti, anche per la mancanza di chiarezza della monarchia francese, costituirono un ulteriore motivo di tensione con P. che, peraltro, fin dal 1569 aveva prospettato l'unione delle dinastie cattoliche attraverso le nozze fra Filippo II e Anna d'Austria, Carlo IX e Isabella d'Austria, Sebastiano di Portogallo e Margherita di Valois. Nell'autunno 1570 Commendone, di passaggio verso la Polonia, si recò nuovamente a Vienna con l'obiettivo di attirare l'Impero nella vasta coalizione antiturca e per affrontare direttamente la questione del titolo granducale. Massimiliano II, tuttavia, non dette la sua disponibilità per intervenire in un conflitto che, per quanto riguardava i suoi domini, aveva chiuso con la pace di Adrianopoli del febbraio 1568. In novembre ripresero le trattative della lega e dopo un primo risultato, la decisione di affidare il comando delle operazioni militari a don Giovanni d'Austria, subentrò il problema della vacanza del comando, che il papa voleva affidata a M.A. Colonna, e i negoziati segnarono il passo. All'inizio del 1571, la volontà di concludere l'alleanza spinse P. a concedere a Filippo II il rinnovo della "cruzada" e del "sussidio" sul clero spagnolo a condizione che il re mantenesse sessanta galee. Non mancavano, comunque, le incertezze tra i protagonisti della vicenda diplomatica: il governo spagnolo si ostinava sul contributo che avrebbe dovuto fornire alla flotta e da Venezia, dove il Senato era favorevole all'iniziativa ma il Consiglio dei Dieci propendeva per la pace con i Turchi, fu inviato a Costantinopoli G. Ragazzoni per intessere trattative. All'inizio di aprile, su consiglio del cardinale Morone e del nunzio Facchinetti, P. mandò M.A. Colonna a Venezia per sbloccare lo stato di stallo e a seguito di questa missione la Repubblica decise di aderire alla lega. Il 20 maggio, anche a seguito delle preoccupanti notizie sui movimenti della flotta turca, le delegazioni raggiunsero a Roma un accordo e il 25 i capitoli dell'alleanza furono letti, approvati dai cardinali e giurati dal papa e dai rappresentanti diplomatici degli Stati aderenti. Ai primi di giugno don Giovanni d'Austria partì per raggiungere la flotta e P. annunciò il viaggio nella penisola iberica del cardinal nepote Bonelli. Sebbene si trattasse di una missione destinata a congratulare Filippo II per l'impegno sottoscritto, la diplomazia spagnola tentò di procrastinarla per evitare la discussione delle questioni ancora aperte tra le due corti, soprattutto in materia giurisdizionale. Bonelli avrebbe visitato anche il re portoghese Sebastiano per ottenerne l'adesione alla lega e per superare gli ostacoli relativi al progettato matrimonio con Margherita di Valois. Durante l'estate le flotte si radunarono a Messina: in luglio giunsero quella pontificia, sotto la cui bandiera vi erano anche navi toscane, e quella veneziana, agli ordini di S. Venier, in agosto quella spagnola con don Giovanni che a Napoli aveva ricevuto le insegne del comando e il vessillo benedetto dal papa. La spedizione navale, composta da oltre duecento unità, prese il largo alla metà di settembre, a Igoumenítsa (Epiro); il 3 ottobre si apprese la notizia della capitolazione di Famagosta e della morte di Bragadin. Il 7 ottobre, all'alba, ebbe luogo presso le isole Curzolari la battaglia di Lepanto dove s'impose la flotta cristiana su quella turca. La vittoria cristiana produsse un'enorme impressione in Europa ed ebbe un'importante ricaduta sul piano della devozione, soprattutto mariana: alla Vergine, infatti, si attribuì l'esito dello scontro navale e il papa consacrò alla Madonna della Vittoria la prima domenica di ottobre, come stabilì nel Concistoro del 17 marzo 1572. A fronte di questi risultati, la legazione straordinaria di Bonelli, arrivato a Madrid alla fine di settembre, fu fonte di delusioni. Il cardinal nepote non ottenne da Filippo II che vaghe promesse di un suo intervento per indurre Massimiliano II e Carlo IX ad aderire all'alleanza antiturca e sulle vertenze giurisdizionali incontrò la totale chiusura del re. Durante la permanenza, Bonelli fu informato della volontà del papa di inviarlo anche in Francia per scongiurare il matrimonio tra Margherita di Valois e Enrico di Navarra, che i sovrani francesi avevano esplicitamente prospettato al papa, e chiarire, se mai ce ne fosse stato bisogno, che P. era fermamente contrario a concedere la dispensa per i vincoli di sangue, se lo sposo non si fosse innanzitutto riconciliato con la Chiesa. Con tempi accelerati, ma pur sempre troppo lenti per l'impazienza del papa, Bonelli compì la missione in Portogallo, dove il re Sebastiano si dichiarò disponibile a sposare la principessa francese. Quindi, spronato dai rimproveri che arrivavano da Roma, Bonelli raggiunse la Francia, dove era stato preceduto nel gennaio 1572 dal nunzio straordinario A.M. Salviati. L'accoglienza francese fu commisurata alla volontà reale di corrispondere ai disegni pontifici: tra ritardi, attese e percorsi tortuosi, il legato riuscì a precedere a Blois la regina di Navarra, attesa fin dal novembre precedente per definire l'accordo nuziale, e a avviare i colloqui con il re. L'intesa raggiunta tra le madri dei futuri sposi segnò, però, la fine della missione pontificia. Carlo IX respinse tutte le richieste formulate da Bonelli sull'ingresso nella lega antiturca, sulla promulgazione dei decreti tridentini e sulla rottura del progetto matrimoniale tra la sorella e il futuro Enrico IV. Solo prima di partire, alla fine di febbraio, il cardinale indirizzava a P. un oscuro messaggio ("alcuni particulari [...] dei quali ragguaglierò Nostro Signore a bocca") che lasciava intravvedere qualche bagliore nel cupo fallimento ("posso dir di non partirmi à fatto mal espedito") e che alcuni studiosi, a partire da Ranke, hanno considerato un'anticipazione della strage della notte di S. Bartolomeo. Alleanze nuziali e schieramenti politico-diplomatici sfuggivano però a P., che, dopo il breve momento di Lepanto, non riuscì ad impedire che ciascun sovrano seguisse interessi personali. Filippo II riorientò la propria strategia mediterranea in direzione del Nord Africa, sebbene alla ripresa delle trattative in dicembre don Giovanni avesse appoggiato con il papa l'ambizioso progetto di attacco all'Impero ottomano formulato da Venezia. Il re spagnolo, inoltre, aveva contribuito a far naufragare il matrimonio tra Sebastiano di Portogallo e Margherita di Valois, cui il pontefice aspirava, per evitare che l'influenza francese si estendesse al Regno lusitano, come, d'altronde, si era adoperato per impedire l'unione tra il duca d'Angiò ed Elisabetta I. La Francia, dal canto suo, si avvicinò all'Impero ottomano e nell'aprile 1572 stipulò l'alleanza difensiva di Blois con l'Inghilterra, disdegnando la richiesta del papa di sostenere un intervento di Filippo II in favore di Maria Stuart. P. morì il 1° maggio del 1572 e fu sepolto provvisoriamente nella basilica vaticana, nella cappella di S. Andrea, vicino alla tomba di Pio III. Benché avesse disposto di essere tumulato nella chiesa fondata a Bosco, Sisto V innalzò in suo onore un monumento funebre (opera di D. Fontana e G.B. della Porta) in S. Maria Maggiore, nella cappella del Ss. Sacramento, dove la salma venne traslata con una solenne cerimonia il 9 gennaio 1588. Nel 1616-1617 Paolo V autorizzò l'istruttoria dell'autorità ordinaria, a Roma e in altre località italiane. Nel 1624 Urbano VIII consentì alle autorità apostoliche di procedere e processi si tennero a Roma, Osimo, Urbino, Fano, Bologna, Milano, Cortona, Bergamo e Madrid. Pervenuti gli atti alla Congregazione dei Riti, i tre auditori più anziani della Rota riconobbero la correttezza formale dei fascicoli processuali, la comune opinione di santità del papa e otto miracoli, di cui due compiuti in vita. Nel 1629-1630 la Congregazione si riunì periodicamente per esaminare ed approvare le conclusioni rotali. P. fu beatificato il 1° maggio 1672, sotto Clemente X, e fu proclamato santo il 22 maggio 1712 da Clemente XI. La Chiesa lo festeggia il giorno 30 aprile (in precedenza il 5 maggio).
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