SARDEGNA (A. T., 29 bis)
Generalità. - La Sardegna, che con le isole minori circostanti occupa un'area di 24.090 kmq., è la seconda isola del Mediterraneo, inferiore di poco più di 1600 kmq. alla Sicilia. L'estremità meridionale è il Capo Teulada (38° 51′ 52′′ lat. N., all'incirca la latitudine di Catanzaro), l'estremità settentrionale è la Punta del Falcone (41° 15′ 42′′, all'incirca la latitudine di Terracina); le longitudini estreme sono 9° 50′ long. E. (Capo Comino, all'incirca sul meridiano de La Spezia) e 8° 8′ (Capo dell'Argentiera, all'incirca sul meridiano di Oneglia). Tra i due estremi in latitudine corrono circa 270 km., e 145 fra i due estremi in longitudine. In media tuttavia la distanza fra i due opposti mari è di un centinaio di chilometri. Il punto della Penisola più vicino alla Sardegna è il Promontorio di Orbetello che ne dista poco più di 180 km.; poco più di 200 ne dista il Capo Linaro presso Civitavecchia.
La situazione della Sardegna nel bacino occidentale del Mediterraneo è molto favorevole: l'Asinara è situata all'incirca alla stessa distanza (350-360 km.) da Genova, da Marsiglia e da Minorca (Baleari); analoga è la distanza fra Cagliari e Palermo. La Maddalena dista circa 270 km. da Livorno, presso a poco quanto il Capo Teulada da Tunisi; tra Punta Falcone e Barcellona intercedono 500 km., presso a poco quanto fra il Capo Carbonara e lo Stretto di Messina.
Lo sviluppo delle coste è stato calcolato a 1340 km., superiore a quello della Sicilia; ciò nondimeno la Sardegna non è molto propizia per la vita marittima, o almeno non lo era in passato. Per lunghi tratti diritte, piatte, poco portuose, le coste sono spesso orlate di stagni e furono sede del flagello della malaria, che ora soltanto accenna a essere debellato; soggette in passato ad atti pirateschi, rappresentavano piuttosto un elemento repellente per gli abitanti, proclivi a rifugiarsi sui sicuri massicci montuosi dell'interno. E pertanto i Sardi non erano e non sono molto dediti al mare; ancora oggi le attività connesse col mare sono spesso esercitate da gente di fuori. È notevole poi che le coste sono più aperte verso S. e verso O., che verso E., cioè verso la Penisola, alla quale la Sardegna presenta invece i tratti di costa più importuosi. Solo nella parte NE. la costa si frastaglia in una serie di insenature ben riparate, accompagnate da isole; ed è una circostanza propizia il fatto che questa sezione più accessibile sia proprio la più vicina alla Penisola.
Geologia. - Come è da attendersi dalla posizione geografica delle due grandi isole del Tirreno rispetto al continente italiano, la Sardegna, mentre per struttura differisce da questo, presenta stretti rapporti con la Corsica, con la quale ha infatti in comune l'antica impalcatura granitica (Massiccio Sardo-Corso). Sardegna e Corsica sono cioè relitti di una più vasta terra emersa, che si estendeva per un'area considerevole al posto dell'attuale Mediterraneo occidentale, molto prima che si formasse la penisola appenninica (v. tirrenide).
I documenti dell'antichità geologica della Sardegna si trovano nei monti dell'Iglesiente e del Sulcis, cioè nel settore sud-occidentale dell'isola, dove affiora appunto la formazione cambrica.
Questa, che finora non è stata accertata in nessun'altra parte d'Italia, consiste essenzialmente di una serie di scisti da argillosi ad arenacei a Trilobiti (Paradoxides mediterraneus, Conocoryphe Heberti, C. Levyi, Giordanella, Olenopsis, ecc.) e di calcari e dolomie ("il Metallifero") a Coralli (Archaeocyathus e Coscinocyathus) e a Spugne per una potenza variabile anche superiore ai 1000 metri. Il complesso, che presenta delle transizioni in senso verticale, viene attribuito globalmente al piano medio (Acadiano) del primo periodo dell'era paleozoica; ma forse comprende, almeno in parte, anche quello inferiore, mentre vi manca sicuramente quello superiore, perché già allora ebbe luogo un'emersione (primo nucleo di terra italiana).
Infatti la successiva formazione silurica poggia in discordanza sopra il Cambrico dislocato, dal quale provengono anche i materiali che rimaneggiati formano il conglomerato della trasgressione basale dell'Ordoviciano. Il Silurico consiste in prevalenza di sedimenti argillosi, per lo più trasformati in scisti filladici variamente cristallini, mentre i calcari sono del tutto subordinati. Questi nella Sardegna meridionale hanno notevole interesse paleontologico per le ricche faune incluse, mentre nel settore centro-orientale si presentano in forma di lenti marmoree intercalate negli scisti localmente anche con passaggi al talco e alla steatite per contatto con i graniti (Orani). Del Paleozoico sardo la formazione silurica è la meglio e più estesamente rappresentata (potenza complessiva superiore ai 1000 metri). Negli originarî sedimenti arenaceo-argillosi sono frequenti dal basso verso l'alto i Crostacei (Fillocaridi e Trilobiti dei generi Asaphus, Dalmanites, Trinucleus), i Brachiopodi (Orthis, Strophonema, Leptaena, Porambonites, ecc.) e nelle intercalazioni calcaree Echinodermi (Cistidae), Pteropodi (Tentaculites) e Briozoi. Caratteristica è la successione delle faune graptolitiche della Sardegna meridionale (Goni), che ha permesso dettagliati parallelismi con eguali formazioni dell'Europa settentrionale. Vanno ricordate numerose specie di Monograptus, Cyrtograptus, Climacograptus, Rastrites, Retiolites, ecc. Gli scisti neri, che includono queste delicate e tenui tracce di antiche specie estinte di Celenterati, diventano per un più intenso metamorfismo scisti grafitici. Notevole importanza stratigrafica e paleontologica hanno infine i calcari gothlandiani a Cefalopodi (numerose specie di Orthoceras) e Bivalvi (Cardiola) e Crinoidi, principalmente nel Fluminese.
A differenza del Silurico la successiva formazione devonica è solo scarsamente rappresentata in Sardegna. Vi appartengono con certezza calcari oscuri reticolati con tracce di Cefalopodi primitivi (Clymeniae); rocce che raggiungono uno spessore di qualche centinaio di metri nei piccoli altipiani del Gerrei sulla destra del Basso Flumendosa (S. Nicolò, Villasalto). Mentre è ancora incerta l'attribuzione degli scisti postgothlandiani dell'Iglesiente, la discordanza del Devonico sul Silurico è risultata una conseguenza di più recenti disturbi tettonici, non già di una originaria trasgressione stratigrafica. Parimenti scarse sono le tracce delle due ultime formazioni paleozoiche, del Carbonico e del Permico. A quello sono presumibilmente da riferirsi i sedimenti arenaceo-conglomeratici quarzitici del Fluminese e del Basso Coghinas (Castel Doria), discordanti sul Silurico, e nel Gerrei discordanti sul Devonico; ma l'attribuzione alla formazione carbonica non può dirsi ancora definitiva per tutti. D'altro lato i depositi antracitiferi con flora fossile dell'Ogliastra (Perdasdefogu) e della Barbagia (Seui, Seulo), ritenuti carboniferi, ora vengono assegnati alla successiva formazione permica e ciò principalmente per la presenza delle Conifere dei generi Valchia e Ulmania, che insieme con molti generi di Felci, Equiseti e Licopodî sono caratteristici di quella flora.
Si tratta di riempimenti di piccoli bacini chiusi entro una terra emersa e cioè di formazioni locali, discordanti per lo più sul Silurico, come alla base dei tacchi, del tonneri di Seui, dei monti calcarei di Baunei nella Sardegna centro-orientale, e sul Cambrico nell'Iglesiente (valle di Monteponi presso Cabitza).
La struttura clastica di questi depositi permo-carboniferi e la presenza delle piante sono indizio certo che alla fine del Paleozoico la Sardegna era entrata in una nuova fase continentale. Questa è stata determinata da un importante piegamento, esteso a tutta la regione (orogenesi varisca), mentre di un piegamento ancora più antico (orogenesi caledoniana) si hanno le prove nella giacitura del nucleo cambrico disturbato per l'interferenza di due sistemi di corrugamento. Quello più recente, cioè del Carbonico, è stato accompagnato e seguito da un'intensa attività magmatica, manifestatasi con una grandiosa intrusione granitica metallogenica, svoltasi in più fasi, e con successive eruzioni porfiriche.
Gl'importanti giacimenti piombo-zinciferi della Sardegna, che costituiscono la principale risorsa nazionale per questi metalli, devono la loro origine a complessi processi geochimici di distillazione, estrazione e concentrazione, localmente anche a successive reazioni metasomatiche, in rapporto con la venuta dell'ingente massa ignea, la quale consolidandosi ha costituito l'impalcatura granitica rigida della regione e ha influito in modo così preponderante tanto sull'ulteriore storia geologica, e quindi sull'evoluzione geografica, quanto sull'economia della Sardegna. Di eguale origine, ma meno importanti, sono state le concentrazioni di minerali di argento e di antimonio e ancor meno quelle di ferro, rame, molibdeno, nichelio, cobalto, tungsteno, cadmio, ecc.
Alla fine del Paleozoico dunque la Sardegna faceva parte di un'estesa terra emersa, dalla quale si ergevano tratti di catene a pieghe costituite principalmente da rocce scistose iniettate di granito; rilievo destinato nel volger del tempo ad essere spianato.
Durante l'era mesozoica si sono avute pertanto condizioni in gran parte continentali e solo in parte proprie di mare poco profondo. A differenza delle Alpi, dove le formazioni calcareo-dolomitiche del Trias, Giurese e Cretaceo si susseguono in pile di strati più o meno concordanti per una potenza complessiva di parecchie migliaia di metri, in Sardegna queste formazioni sono discordanti su quelle paleozoiche, le quali non sono state però mai completamente coperte (lacune stratigrafiche).
Così la formazione triassica, conservata solo per piccoli affioramenti lungo la costa occidentale (Nurra, Iglesiente), per quanto in serie ridotta, presenta caratteri litologici e faunistici, che rivelano piuttosto analogie col Trias delle regioni extra-alpine dell'Europa occidentale e media (facies germanica), fatta eccezione per il piano superiore che acquista caratteri più nettamente marini di facies alpina.
Ancor più lacunosa, però più estesa, è la successiva formazione giurese, sviluppata principalmente in facies di scogliera. Nella Sardegna centrale e orientale la serie comincia col Giurese medio (Dogger), rappresentato dapprima da depositi arenaceo-conglomeratici quarziferi, che localmente includono tracce di piante, senza però aver dato luogo a veri giacimenti di carbone fossile (flora di Laconi a Felci, Rizocarpee, Ginkgofite, Cicadofite, Conifere). Seguono poi principalmente strati calcarei e dolomitici per una potenza massima di alcune centinaia di metri (calcari a Nerinee, calcari oolitici, calcari litografici). Con sviluppo alquanto diverso questa formazione succede anche al Trias della Nurra. I giacimenti di ferro limonitico appartenenti alla base del Giurese trasgressivo sul Paleozoico della zona dei tacchi (Ogliastra, Barbagia) sono concentrazioni minerali da considerarsi come un prodotto della fase continentale anteriore a questa invasione marina e quindi non hanno a che vedere con i giacimenti di ferro della Nurra, intercalati invece negli scisti paleozoici. Anche la formazione cretacea è trasgressiva e in facies di scogliera. Infatti calcari ippuritici seguono bensì su quelli giuresi della Nurra, ma nella valle del Coghinas poggiano sul Paleozoico. Lungo la costa orientale invece il Cretaceo è rappresentato nelle assise più elevate dei monti calcarei del Golfo di Orosei (Oliena, M. Albo) e del Golfo di Terranova, dove però la serie si limita al piano inferiore (calcari chiari a noduli di selce).
Il Mesozoico sardo dunque, lacunoso e poco potente, è indizio di una relativa stabilità dell'antico massiccio dall'impalcatura granitica rigida, sul quale questi sedimenti giacciono per lo più tuttora orizzontali per effetto delle ampie oscillazioni (movimenti epirogenici), che hanno determinato avanzate e ritiri del mare ora in questo ora in quel settore dell'isola.
Ma verso la fine del Mesozoico si notano i primi sintomi di quel profondo squilibrio, che nella successiva era cenozoica ha colpito insieme con le altre regioni mediterranee anche il Massiccio Sardo-Corso (ciclo orogenico-magmatico alpino).
Così la formazione eocenica conservata nella Sardegna meridionale e in scarsi lembi presso la costa orientale (Golfo di Orosei) giace in discordanza non solo sul Paleozoico, ma anche sul Cretacico dislocato per ampie pieghe. Si tratta sempre di serie poco potenti (al massimo 200 m.: Monte Cardiga), prevalentemente clastiche, dove bisogna distinguere le arenarie a Cerizî e i calcari marnosi nummulitici del Salto di Quirra (Gerrei), dalla formazione lignitifera dell'Iglesiente (Bacu Abis). Qui l'Eocene è rappresentato da depositi grossolani arenaceo-conglomeratici, da calcari a miliolidi, nei quali sono stati rinvenuti resti di perissodattili (Atalonodon) e da strati a Cerizî e Crassatelle, ecc., passanti ad argille e scisti lignitiferi; questi sono coperti a loro volta da arenarie sterili, presumibilmente più recenti dell'Eocene.
Invece la successiva formazione oligocenica è costituita su vasta estensione da rocce eruttive e piroclastiche in prevalenza trachiti, ma anche lipariti e andesiti e solo localmente da depositi lacustri caratterizzati da legni silicizzati (flora a palme di Zuri). Questa emissione di lave e tufi è stata particolarmente abbondante nel Capo di sopra, dove tra Bosa, Alghero e Porto Torres la formazione eruttiva trachitica raggiunge una potenza anche superiore ai 1000 metri. Queste rocce affiorano pure nell'Anglona, nel Logudoro e, oltre la catena del Marghine, nel bacino del Tirso; dal più al meno con gli stessi caratteri. Un distretto eruttivo a parte è invece quello del Sulcis nella Sardegna sud-occidentale, comprese le isole di Sant'Antioco e San Pietro. Dal lato minerario la formazione trachitica oligocenica interessa per i giacimenti di manganese e in via subordinata anche per quelli cupriferi. Questo intenso vulcanismo della Sardegna rappresenta presumibilmente una reazione del massiccio paleozoico in via di sbloccamento per le spinte orogeniche, che hanno determinato i ricoprimenti alpini in Corsica.
Durante il successivo periodo miocenico gli effetti, anche geografici di questo sbloccamento sono riconoscibili dall'invasione marina delle aree tettonicamente depresse del massiccio, trasformato così in un arcipelago. Da questo tempo data infatti anche la prima separazione della Corsica dalla Sardegna. La serie miocenica sarda è incompleta: essa giace quasi dappertutto ancora orizzontale, ma discordante sulle altre formazioni. Gli affioramenti più importanti s'incontrano in una zona allungata da S. a N. tra il Golfo di Cagliari e il Golfo dell'Asinara. Le città di Cagliari e di Sassari coi loro rispettivi agri si trovano in questa formazione che ha fornito uno dei migliori terreni agrarî dell'isola; ciò che spiega forse la maggiore densità di popolazione in corrispondenza di questi affioramenti.
La formazione miocenica della Sardegna è riccamente fossilifera, specialmente di Molluschi e di Echinidi ma anche di Coralli, Brachiopodi, Foraminiferi; interesse speciale hanno poi i resti di Vertebrati dai Cetacei ai Rettili (Coccodrilli, Tartarughe, Serpenti) e alle numerose specie di Pesci, mentre sono piuttosto scarse le tracce di piante (flora di Castel Sardo). Quanto alle rocce, prevalgono i calcari per lo più grossolani nel Sassarese, nell'Anglona, nella Planargia, nei dintorni di Isili e Cagliari (cave), e marne nella Marmilla e nella Trexenta, mentre le arenarie e i conglomerati sono inegualmente distribuiti lungo la zona marginale dal Campidano di Cagliari al Logudoro, dove localmente in questa formazione sono aperte anche delle cave di sabbia quarzifera.
La potenza è variabilissima tanto che a distanze relativamente brevi da poche decine di metri si può passare anche a 500 m.
Nella Sardegna centro-occidentale la formazione miocenica è coperta da estese colate di basalto che l'hanno protetta in parte dalla distruzione durante la fase continentale pliocenica. Questo periodo ha avuto notevole importanza per l'evoluzione del rilievo dell'isola, essendo stato il Pliocene, fatta eccezione per qualche limitato settore, un periodo di emersione, accompagnato da dislocazioni e da un risveglio dell'attività vulcanica, che si protrasse fino nel Quaternario.
A questo nuovo ciclo eruttivo appartengono fra l'altro anche i piccoli centri trachiandesitici del Campidano, particolarmente interessante quello di Furtei e Serrenti per i cospicui depositi di caolino, i più importanti d'Italia. Vi appartengono inoltre i vulcanetti di scorie così caratteristici e ben conservati nel Logudoro e le colate basaltiche del Golfo di Orosei.
Di questa intensa attività vulcanica possiamo considerare come fenomeni postumi le numerose manifestazioni idrotermali (Castel Doria, S. Lucia di Bonorva, Benetutti, Fordongianus, Sardara, S. Giovanni di Dorgali, Acquacotta e numerose altre ancora), alcune utilizzate fino dall'epoca romana, ma molte suscettibili di un migliore sfruttamento.
Le ultime fasi della storia geologica della Sardegna sono riconoscibili nei terrazzamenti delle alluvioni quaternarie delle principali pianure dal Campidano alla Nurra, dalla valle del Palmas (Sulcis), alle piccole zone costiere, che si perdono per lo più negli stagni in coincidenza con lo sbocco dei fiumi (Sarrabus, Ogliastra, Baronie, ecc.), tutte zone in corso di bonifica. Queste alluvioni terrazzate sono dal più al meno contemporanee dei depositi fluvio-glaciali del continente, e più recenti della panchina quaternaria, che forma qua e là lungo la costa un'orlatura a differenti altezze. Questa è costituita di un deposito calcareo-arenaceo fossilifero (fauna a Strombus bubonius), riferito al Piano Tirrenico così comune lungo le coste di questo mare. Per quanto riguarda la Sardegna, la panchina è meglio conservata lungo la costa occidentale, dove ha fornito i materiali già agl'insediamenti punico-romani da Nora a Bithia, a Tharros.
Notevole interesse biogeografico hanno infine i diversi giacimenti di brecce ossifere della Sardegna. Si tratta per lo più di riempimenti di grotte e fessure nei terreni calcarei dai dintorni di Cagliari al Capo Figari. Il loro contenuto paleontologico può essere valutato solo in rapporto con la singolare composizione faunistica dell'isola.
Per quanto concerne le condizioni attuali di stabilità della Sardegna, dalle dislocazioni della panchina quaternaria, sollevata anche a parecchie decine di metri, e dall'emersione locale di più recenti spiagge si deduce che l'isola continua ad essere soggetta a lenti movimenti oscillatorî di assestamento. Questi sono più accentuati lungo le zone già colpite da fratture, tuttavia senza dar luogo a fenomeni sismici di qualche importanza; infatti, com'era da attendersi dalla sua salda e provata impalcatura, la Sardegna è la regione geologicamente meglio equilibrata d'Italia.
Il rilievo della Sardegna, in conformità con le vicende geologiche dell'isola, che per lunghi periodi fu terra emersa e quindi spianata, ma poi anche parzialmente e temporaneamente invasa dal mare, è caratterizzato da una profilazione orizzontale, che si ripete dal più al meno in tutte le formazioni geologiche, sia eruttive sia sedimentari.
Il paesaggio sardo presenta infatti una modellazione tipica ad altipiani: da quelli granitici del Nuorese (Fonni, Bitti, Buddusò, Alà) a quelli dei calcari giuresi dell'Ogliastra, della Barbagia, del Sarcidano o eocenici del Gerrei (Escalaplano, Salto di Quirra) o miocenici del Sassarese, dai tavolati liparitici del Sulcis agli altipiani trachitici del medio Tirso (Samugheo, Ruinas, ecc.) o del Temo (Montresta, M. Minerva, ecc.) a quelli dell'Anglona, dagli altipiani basaltici attorno al Monteferru (Planargia, Campeda, Abbasanta) a quelli del Logudoro, della Marmilla, della Trexenta e delle Baronie, gran parte della Sardegna è un succedersi di aree pianeggianti a differenti altezze e su rocce varie per età, origine e natura.
Questi altipiani sono incisi per lo più da profonde valli rettilinee di serio ostacolo alle comunicazioni, talora però anche da fiumi a meandri incastrati, che li suddividono in piccoli rilievi tabulari, ridotti per demolizione dei sedimenti (tacchi, tonneri) o degli espandimenti vulcanici (giare, gollei) a semplici testimoni in forma di torrioni o castelli, di cui esempio classico è la Perda Liana nell'alto Flumendosa.
In questa prevalente profilazione orizzontale del rilievo vediamo dunque riflessa l'antichità dell'isola. Infatti già al principio del Mesozoico la Sardegna era ridotta a penepiano; caratteristica geomorfologica mai più del tutto perduta, in quanto che l'originaria superficie di spianamento, protetta dalle coperture sedimentari o eruttive, per lo più in giacitura orizzontale (oscillazioni epirogeniche), poté essere conservata fino ad oggi per vaste estensioni (esumazione del penepiano).
A determinare le grandi linee dell'attuale configurazione oroidrografica intervennero poi deformazioni tettoniche principalmente per frattura. La Sardegna, che manca perciò di catene a pieghe, come le Alpi e gli Appennini, risulta invece di un musaico di piccoli massicci orografici più o meno isolati tettonicamente da depressioni o solchi alluvionati e terrazzati di varia ampiezza ed estensione, come il Campidano e la Valle del Cixerri, che separano il settore sud-occidentale (Iglesiente e Sulcis) dal resto dell'isola, o la pianura fra Alghero e Porto Torres, che allo stesso modo separa la Nurra, o la depressione fra Oschiri e Terranova, che insieme con la valle del Coghinas isola la Gallura col suo bordo meridionale sollevato (Limbara) dal resto del Capo di Sopra. Allo stesso fattore tettonico si deve pure il maggiore rilievo del più elevato settore della Barbagia (Gennargentu), dove l'antica superficie di spianamento, esumata per la demolizione della sovrastruttura sedimentare (calcari giuresi dei tacchi), è stata spostata verticalmente per frattura. Da queste dislocazioni è stata in gran parte tracciata anche l'attuale rete idrografica, che rivela perciò notevoli parallelismi sia con l'orientamento delle iniezioni filoniane dell'antico nucleo granitico sia con l'andamento delle recenti linee di costa, ad esempio nel bacino medio del Flumendosa o in quelli del Tirso o del Coghinas.
In dettaglio poi la plastica del terreno varia molto secondo la natura e giacitura delle rocce, tanto che la Sardegna offre un vero campionario di paesaggi geologici (paesaggio granitico, carsico, scistoso, ecc.). Questa grande varietà di sculture è una conseguenza dell'azione erosiva esplicatasi per lunghi periodi con effetti diversi secondo il grado di resistenza dei materiali. Forme nuove sono state così messe in rilievo per erosione selettiva, come è il caso per i filoni quarzitici, che sporgono a guisa di muraglie nelle zone scistose mineralizzate della Sardegna meridionale, oppure per i dicchi porfirici e granulitici emergenti dalle aree granitiche di più facile disgregazione (arenizzazione), disseminate di enormi massi tafonati dai profili fantastici (Gallura, Ogliastra, Sarrabus, ecc.). Forme antiche sono state esumate; così ad esempio le isolette o scogli di rocce paleozoiche (graniti, scisti, marmi) già sepolti nel canale marino miocenico della Trexenta e ora riaffioranti per lo sgombero dei più teneri sedimenti arenacei, argillosi o marnosi di questa formazione. Altri piccoli rilievi nuovi (cupole, monticelli conici) devono poi la loro origine all'opera costruttiva del vulcanismo, svoltasi fra la fine del Terziario e il principio del Quaternario principalmente nelle aree di sprofondamento del Campidano con la diramazione del Cixerri e nel Logudoro, altri in fine all'azione del mare e del vento (cordoni litoranei e dune).
Così in definitiva i ripetuti cicli di erosione con i relativi terrazzamenti e la rinnovata attività vulcanica riferibili dapprima alle lente oscillazioni poi a più rapide dislocazioni di questa antica terra, mirabile testimonio della complessa storia geologica del Mediterraneo occidentale, hanno creato in Sardegna una oroidrografia particolare, che in questa misura non trova riscontro in nessun altro settore della Regione Italica.
Rilievo. - La Sardegna non ha, come si è detto, unità orografica; le mancano, anzi, vere e proprie catene montuose. Orograficamente il massiccio più importante è il Gennargentu (v.), che segna le maggiori elevazioni dell'isola con la Punta Lamarmora (1834 m.) e il Bruncu Spina (1829); esso forma il cuore della Barbagia, la regione più impervia dell'isola, e si dirama in numerosi contrafforti tra i quali, a NE., quelli che formano l'aspra regione sorgentifera del Cedrino (M. Corrasi, 1463 m.). L'alta valle del Flumendosa incide profondamente il massiccio a S., separandone i monti di Lanusei (1243 m.), che declinano a E. verso la regione costiera selvaggia e spopolata (M. Ferru 875 m.; Salto di Quirra). A S. del basso Flumendosa, nell'angolo SE. dell'isola, restano isolati i rilievi del Gerrei e il caratteristico gruppo del M. Sette Fratelli (1023 m.). A SO. si affiancano al Gennargentu i ripiani del Sarcidano e la singolare pianura detta la Giara, che è un tabulare espandimento di materiali vulcanici antichi.
Il Campidano, la maggior pianura dell'isola, antico braccio di mare, tra i golfi di Oristano e di Cagliari, separa nettamente i rilievi del SO., cioè della zona mineraria sarda; questi poi dalla valle del Cixerri sono divisi in due masse, l'Iglesiente a N. (M. Linas, 1236 m.), il Sulcis a S. (M. Nieddu, 971 m.).
Nel settentrione dell'isola i rilievi hanno prevalentemente la direzione da SO. a NE. Questa direzione si avverte già nelle dorsali del Nuorese settentrionale (Serre di Orotelli e di Orune; M. Albo; 1127 m. nella Punta Catirina); meglio ancora nel Marghine (M. Palai, 1200 m.), continuato dai monti del Goceano (1259 m.) e di Alà (1094 m.) che digradano poi fin sulla costa al C. Coda Cavallo. L'alta valle del Coghinas e quella del Padrogiano dividono questi rilievi dal gruppo granitico ben individuato del Limbara (Punta Beritta, 1362 m.) che a NE. si prolunga col M. Ultana fino a Capo Figari e a capo Ferro. La bassa valle del Coghinas isola a O. i rilievi dell'Anglona, in parte calcarei, in parte trachitici, di modesta elevazione (M. Sassu, 640 m.). A S. dell'Anglona, separato da questa per la sella di Ploaghe, resta il Logudoro, regione alternata di ampî pianori (Campo di Ozieri) e di rilievi isolati, molti dei quali sono vulcanici; i più elevati sono prossimi alla costa occidentale (Monte Mannu, 802 m.) e tra essi è inciso il corso del Temo. Isolato è presso la costa, ma più a S., il Montiferru (1050 m.), il più grande degli apparati vulcanici sardi, assai bene conservato e circondato da pianori basaltici (Planargia, Campeda; altipiano di Abbasanta). Infine il lembo NO. dell'isola è occupato dalle pianure monotone della Nurra, interrotte da piccoli rilievi isolati (M. Forte, 464 m.; M. Doglia, 437 m., ecc.).
Clima. - Per i caratteri climatici la Sardegna si avvicina forse più di qualsiasi altra regione d'Italia all'Africa settentrionale. Il mese più freddo è ovunque il gennaio, con temperature medie di 8°-10°, i mesi più caldi il luglio e l'agosto con medie superiori a 24°: la curva termica sale lentamente da gennaio ad agosto (il febbraio e anche il marzo hanno ancora temperature relativamente basse), cade rapidamente da agosto a dicembre. L'escursione annua si mantiene intorno a 14°-15° nella regione marittima e supera questo valore solo nei distretti interni. S'intende che l'altezza ha ovunque notevole influenza sul regime termico.
Nei mesi estivi, a causa dell'area di bassa pressione predominante sull'Africa settentrionale e sul Sahara, tutta l'isola è battuta da venti di N., deviati come venti di NO. dalla rotazione terrestre; la violenza di tali venti è attestata, in molte regioni, dai tronchi degli alberi piegati nell'opposta direzione. Invece d'inverno prevalgono venti originati dalle aree di pressione relativamente più alta del Mediterraneo: nella parte settentrionale dell'isola ancora venti di N., NO., o NE. (tra essi il grecale apportatore di piogge sulle coste orientali); nella parte meridionale venti meridionali. Tra questi lo scirocco si fa sentire (a Cagliari, a Sant'Antioco, a San Pietro), anche in primavera e con effetti debilitanti.
La piovosità è di 400-600 mm. hanno nell'Iglesiente e nel Sulcis, nelle zone più basse del Campidano e anche altrove, in aree al riparo dei venti; si mantiene fra 600 e 1000 mm. nelle regioni un po' elevate; supera i 1000 nel massiccio del Gennargentu, nel Limbara, nella parte più alta del Marghine, nei Sette Fratelli. Nel complesso si è calcolata a 720 mm. la media dell'isola, valore che, senza essere elevato, non è neppure eccessivamente scarso e come quantità potrebbe giudicarsi sufficiente ai bisogni agricoli, per quanto in molte delle regioni migliori dal punto di vista dell'agricoltura, che sono in genere le regioni più basse, quel valore medio non sia raggiunto. Ma sfavorevole all'agricoltura è soprattutto la distribuzione stagionale delle piogge. La parte di gran lunga maggiore delle piogge cade tra settembre e dicembre; e in questo breve periodo il terreno non riesce ad assorbire tutta l'acqua che sarebbe necessaria per le nuove semine, e una parte notevole nella precipitazione defluisce rapidamente a mare. Da giugno a tutto agosto, per contro, domina siccità assoluta, e scarsissima è in genere la precipitazione da aprile a ottobre. Alcuni elementi del clima sono esposti, su dati per talune stazioni alquanto approssimati, nella tabella qui sopra.
Idrografia. - Le caratteristiche dei corsi d'acqua della Sardegna sono in stretta dipendenza dalla struttura geologica, dalla conformazione orografica, dal clima. Il 45% dei terreni dell'isola sono classificati come impermeabili, il 35% come semipermeabili, e solo il 20% come permeabili. Ciò nondimeno - poiché anche i terreni impermeabili e soprattutto il granito sono spesso scompaginati dalle numerose masse eruttive filoniane onde le acque piovane possono in qualche misura penetrare e circolare in profondità - le sorgenti sono numerose (una recente indagine sistematica ne ha noverate 26.000), ma la stragrande maggioranza di esse ha portate limitatissime; soltanto 530 hanno una portata di magra superiore a 1 litro al secondo. E poiché manca qualsiasi ampia raccolta di nevi, i fiumi che l'estate potrebbero convogliare solo acque sorgive riducono molto spesso in quel periodo il loro deflusso a zero. In sostanza tutti i corsi d'acqua dell'isola, anche i maggiori, hanno carattere nettamente torrentizio. Le violente piogge invernali, scaricate sul suolo prevalentemente impermeabile, si riversano rapidamente negli alvei, e poiché dal tronco montano si passa di solito in pochi chilometri a quello di pianura, anche qui i deflussi conservano gli stessi caratteri di violenza e impetuosità, onde le piene improvvise e distruttrici. I letti di pianura, poco ben delimitati, anzi talora appena delineati, sono incapaci a contenere tutte le acque di piena, e i frequenti insabbiamenti alle foci impediscono anche, o ritardano, il defluire delle masse acquee a mare; da ciò il frequente dilagare nelle campagne e gli acquitrini più o meno temporanei che ne sono il residuo. Il diboscamento ha aggravato da tempo remoto il disordine idraulico, al quale soltanto oggi si cerca di riparare con un programma sistematico di lavori.
I corsi d'acqua più importanti sono quattro: il Tirso (km. 150; superficie del bacino 3375 kmq.), il Coghinas, formato dal Rio Mannu di Berchidda e dal Rio Mannu di Ozieri (105 km. e 2475 kmq.), il Flumendosa (km. 182 e 1782 kmq.) e il Samassi o Fluminimannu col Cixerri (km. 76 e 2290 kmq.). I due primi sono regolati e utilizzati mediante la formazione di due grandi bacini artificiali; anche sull'alto Flumendosa sarà creato un bacino di 40 milioni di mc.; il Fluminimannu resta molto al disotto degli altri tre per portata.
Tra i minori si ricordano il Cedrino o fiume di Oliena, che nasce sul versante NE. del Gennargentu e, alimentato dalle grosse sorgenti di Cologone, porta acqua anche d'estate, fino al mare, ove sbocca presso Orosei in numerosi stagni in corso di bonifica; il Posada, che raccoglie parte delle acque del M. Albo e dell'altipiano di Buddusò; il Mannu di Porto Torres, anch'esso provvisto sempre di acqua anche in estate, perché alimentato da sorgenti calcaree della Nurra; il Palmas, il Pabillonis, il Temo, navigabile da Bosa al mare per circa 4 km. Nessun altro fiume sardo si presta, per le caratteristiche sopra segnalate, alla navigazione.
A prescindere dai grandi laghi artificiali del Tirso e del Coghinas, la Sardegna non ha che stagni litoranei o prossimi alle coste, molti dei quali hanno dato luogo a grandi lavori di bonifica. Così quello di Santa Gilla presso Cagliari, veramente una laguna nella quale si versano il Samassi e il Cixerri, ora del tutto sistemato; quelli di Montelargius, Quarto, Simbirizzi e Maracalagonis a E. di Cagliari; quelli di Cabras, di S. Giusta, di Sassu e di S. Giovanni, tutti alle spalle del Golfo di Oristano, lo stagno di Calich presso Alghero, quelli di Tortolì, ecc. Meno avanzata è la bonifica di altri stagni della costa orientale, tra i quali quello di Urzulei non ha, per l'origine, rapporti col mare. Altri stagni più lontani dalla costa attuale sono in relazione con antiche posizioni del litorale, come lo stagno di Sanluri ora prosciugato, quello di Nuraminis, pure bonificato, e alcuni della Nurra.
Flora e vegetazione. - La Sardegna costituisce una speciale zona del settore sardo-corso o tirrenico e presenta particolare interesse non solo dal punto di vista fitogeografico, ma anche per la costituzione geologica dei suoi terreni, fra i quali si trovano i più antichi.
I boschi si trovano solo sulle ripide pendici delle montagne del centro e, nel resto dell'isola, sono localizzati nelle conche e nelle valli riparate: questo dipende dai venti impetuosi di ponente e di maestro che spazzano la parte occidentale dell'isola che è più dolcemente declinante verso il mare, mentre nella orientale le montagne vi scendono quasi a picco. Sui monti le formazioni boschive si arrestano assai prima delle creste e a un livello molto più basso di quello consentito dalla latitudine, livello di molto inferiore a quello che si osserva nell'adiacente Corsica. Un tempo i boschi coprivano un quinto della superficie dell'isola, ora sono ridotti alla diciannovesima parte: essi constano essenzialmente di querce sempreverdi (Q. ilex e suber), di roveri, castagni (ristretti tra il Sarcidano e il massiccio del Gennargentu, oltre a piccole superficie e nella Gallura e sul Montiferru), frassini, aceri, olmi; mancano il faggio e l'abete; i pini sono sporadici e riuniti a piccoli gruppi sparsi qua e là. I boschi meglio curati e più importanti sono rappresentati dalle sugherete della Gallura, il cui razionale sfruttamento costituisce un cespite di commercio e d'industria abbastanza importante. Nel centro, specialmente verso il N. a Ozieri, ecc., vi sono vaste associazioni di olivi selvatici, mentre nella parte media orientale i ginepri (Juniperus oxycedrus e phoenicea) costituiscono vaste formazioni di individui ben sviluppati, dall'aspetto di alberetti, alti fino a 7 m. e col tronco di 3 dm. di diametro. Nel Montiferru sopra Cuglieri esistono i residui di un bosco d'agrifogli (Ilex aquifolium) molto interessante, perché rarissimo in formazione pura, che rappresenta un importante documento fitogeografico.
Vaste superficie dell'isola sono coperte dalla macchia bassa (ora destinata in molte località a scomparire per i lavori di bonifica); questa macchia consta di cisti, lentischi associati e frammisti con mirto, erica, fillirea, ginepri, laurotino, euforbie arborescenti: spesso vi sono associazioni pure di soli cisti (Cistus monspeliensis) o di stecade (Lavandula stoechas) o di mirti; frequentemente si trovano rosmarino, ginestra, Thymelaea hirsuta. Dalla macchia bassa si passa da una parte alla macchia alta e al bosco e dall'altra alla landa e alla steppa: vastissime zone nell'interno dell'isola sono ricoperte di graminacee e di Ferula.
Un elemento interessante e importante della vegetazione sarda è la palma nana o di S. Pietro martire (Chamaerops humilis) che si riscontra anche in qualche punto della costa occidentale della penisola: essa abbonda nella Nurra, nel Sulcis, a Orosei e le sue foglie alimentano una fiorente industria d'intreccio com'è detto più avanti.
L'inverno mite permette una rigogliosa vegetazione ininterrotta: le giornate di gran freddo sono molto rare, cosicché si vedono fioriti in pieno inverno il Prunus spinosa, il mandorlo, il laurotino, il rosmarino, i narcisi, talune Orchidacee e Gigliacee, le Bellis, ecc.
Esistono anche formazioni palustri ed acquatiche, tanto di acque salmastre (stagno di S. Gilla presso Cagliari, stagno di Oristano ora in via di scomparsa per i lavori di bonifica) quanto d'acque dolci stagnanti o correnti.
La flora sarda è ricca di endemismi: sessantacinque sono le forme endemiche del settore sardo-corso (e di queste 14 Monocotiledoni e 51 Dicotiledoni), quarantaquattro sono quelle proprie della Sardegna e isole adiacenti delle quali 7 Monocotiledoni e 37 Dicotiledoni: la famiglia che presenta il maggior numero di endemismi è quella delle Composte ove vi sono 10 specie endemiche comuni alla Sardegna e alla Corsica e 11 esclusive della Sardegna; segue poi la famiglia delle Labiate.
Dal punto di vista fitogeografico sono interessanti anche nella flora sarda gli elementi floristici sudmediterranei e quelli mediterranei occidentali; per quanto riguarda la flora italiana, dei primi si trovano esclusivamente in Sardegna: Cynosurus polybracteatus, Ranunculus xantholeucus var. pusillus, Erodium bipinnatum, Echium grandiflorum, Leontodon hispidulus var. Muelleri. Tra gli elementi mediterranei occidentali, sono esclusivi della flora sarda per l'Italia: Catapodium tuberculosum, Coeloglossum diphyllum, Viola arborescens, Ranunculus Balbisii, Sedum glandulosum, Lathyrus tingitanus, Euphorbia Lagascae, Buxus balearica, Centranthus orbiculatus, Carlina racemosa, oltre a numerose altre specie che si trovano anche in altre isole o località della Penisola italiana. Gli elementi mediterranei occidentali sono assai più numerosi dei sudmediterranei.
Nella vegetazione dell'isola abbondano le piante aromatiche e da essenze: rosmarino, salvie, timi, teucri, lavanda, stecade, melissa, mirto, santolina, elicrisi, alcune Ombrellifere, ecc.; non mancano le piante medicinali e fra queste importantissima la Digitalis purpurea var. tomentosa abbondante al Limbara e al Gennargentu: inoltre stramonio, genziana, scilla marittima (che si spinge fin sulle montagne), assenzio, altea, centaurea minore, malve, verbasco, papavero, ecc.
Fauna. - La fauna sarda è molto interessante oltreche dal punto di vista strettamente zoogeografico, anche perché sui dati faunistici sardi e insieme della Corsica sono state fondate ipotesi paleogeografiche.
Per i Mammiferi noteremo l'assenza di uno degl'insettivori più comuni in Europa, la talpa. Esistono però un toporagno appartenente a una forma particolare per la Sardegna (Crocidura russula ichnusae). I Chirotteri sono rappresentati da circa 15 specie e tra i Carnivori citeremo la donnola dai piedi rossi, caratteristica della Sardegna, il gatto selvatico, dalle orecchie munite all'estremità di ciuffi di peli, la volpe sarda; mancano gli orsi, i lupi, i tassi, le lontre, le manguste, le genette, che si trovano in altre regioni sud-occidentali dell'Europa.
Frequenti lungo le coste sono le foche. Tra i Rosicanti citeremo la lepre sarda, il coniglio selvatico, il ghiro pallido. Tra gli Ungulati il cinghiale sardo, il cervo, il muflone, il daino, oltre i domestici quali il maiale, varie capre, pecore, buoi interessanti per la loro origine molto discussa. L'avifauna sarda è molto simile a quella dell'Europa sudoccidentale. Ricordiamo l'avvoltoio, il grifone, l'aquila del Bonelli, il falco della regina, il corvo, la ghiandaia, varie silvie e la pernice sarda. Manca il passero italico sostituito da un altro passero (Passer hispaniolensis). Comune negli stagni è il pollo sultano.
Interessante è la fauna erpetologica. Ricorderemo il Phyllodactylus europaeus ed altri lacertidi quali il Chalcides ocellatus detto comunemente gongilo; manca la vipera, laddove comune è il Tropidonotus viperinus. Varie testuggini vivono nell'isola. Per gli Anfibî noteremo la mancanza della rana comune (R. esculenta) e del rospo volgare (Bufo vulgaris), mentre abbondanti sono il Discoglosso e il Bufo viridis. Notiamo ancora la presenza di varî Urodeli, quali la Molge del Rusconi, lo Spelerpes fuscus e la Salamandra maculosa.
Tra i pesci d'acqua dolce sono da ricordare varî gobioli, lo spinarello, trote, alose, anguille, pesci che in fondo sono di acqua salmastra e che hanno risalito le acque dolci colonizzando i fiumi.
Regioni naturali e storiche. - Il massiccio impervio del Gennargentu, il rilievo del Marghine col Montiferru dividono la Sardegna in due grandi regioni naturali, denominate comunemente Capo di Sopra (la parte settentrionale) e Capo di Sotto (la parte meridionale). Il frazionamento del rilievo, l'alternanza di gruppi montuosi quasi isolati e di pianure, l'isolamento di alcune vallate hanno poi favorito la costituzione di cantoni naturali, che per molto tempo sono vissuti di vita propria, e vengono designati quasi sempre con nomi speciali spesso vivissimi tuttora nell'uso. Alcuni di tali nomi, come Barbagia, Sulcis, risalgono all'antichità, altri sono di origine medievale; taluni alludono a caratteristiche del terreno, come Campidano, Planargia, Montacuto, Marghine, o della situazione (Meilogu), o della vegetazione (Ogliastra); parecchi sono di origine e significato incerto.
Molti di questi nomi territoriali ricevettero una significazione precisa per la divisione in giudicati e curatorie (v. giudicati) estesa a tutta la Sardegna nei secoli dal XII al XIV. Le vicende storiche di queste divisioni sono complicatissime; col sopravvenire di nuovi ordinamenti (p. es., sotto la dominazione spagnola), alcune si mantennero, ma spesso con estensione mutata, altre furono eliminate, mentre se ne introdussero di nuove. Nell'uso vivo attuale sono sopravvissuti nomi che corrisposero a giudicati (Gallura, Logudoro; mentre è scomparso Arborea), e più spesso a curatorie; essi si mantengono, non ostante che non abbiano oggi alcun valore o significato amministrativo, perché corrispondono appunto a individui naturali; ma i confini non sono sempre molto chiaramente indicabili. Nella cartina a p. 839, n. 4, si è tuttavia cercato di indicarli approssimativamente e con riguardo alla significazione odierna; per ciascuno dei nomi si rimanda poi alle singole voci.
Popolazione. Dati demografici. - La popolazione della Sardegna, presente alla data del censimento 21 aprile 1931, risultò di 973.125 ab., in confronto a 864.174, quanti ne furono noverati nel censimento del 1° dicembre 1921. I dati dei due censimenti posti a raffronto, secondo la circoscrizione amministrativa attuale, sono offerti dalla seguente tabella:
La densità media dell'isola è più bassa che in qualsiasi altro compartimento italiano, e le due provincie di Nuoro e Sassari dànno le cifre più basse di densità di tutte le provincie italiane.
Poche regioni d'Italia hanno avuto, attraverso le varie epoche storiche, vicende demografiche più complesse e più varie della Sardegna. Senza risalire all'epoca nuragica, allorché, a quanto si ritiene, l'isola era, almeno in alcune sue parti, molto fittamente popolata, si vuole che verso la fine del periodo cartaginese (circa la metà del sec. III a. C.) la Sardegna avesse intorno a 400.000 ab. (sec. il Beloch 300-500.000). Con la conquista romana si verificò una diminuzione, soprattutto per il gran numero di schiavi che furon menati via dall'isola a forza; ma anche durante l'età romana l'isola subì probabilmente varie alternative. Nei primi decennî del sec. V d. C. le si attribuiscono circa 350.000 ab.; ma l'alto Medioevo fu, come altrove, un periodo di decadenza demografica: al principio del sec. XI si ritiene che la popolazione fosse ridotta a 250.00 ab. In seguito si ebbe, pure attraverso nuove alternative, un periodo d'incremento; intorno alla metà del sec. XIV gli abitanti erano forse di nuovo circa 350.000. Ma il dominio aragonese rappresenta per l'isola, in confronto al periodo pisano, un'epoca di grande decadenza: quasi un secolo di guerre continue, l'abbandono dell'agricoltura e delle miniere, carestie e altri malanni misero a dura prova la Sardegna. Ne abbiamo la documentazione nella prima operazione statistica ufficiale, che fu eseguita nell'isola nel 1485; i risultati di essa, che si conoscono per fuochi, sono variamente interpretati dagli studiosi moderni; ma il risultato dei calcoli oscilla fra 158.000 e 240.000 ab. per tutta l'isola. Anche se quest'ultima cifra debba, come pare, esser ritenuta più vicina al vero, se ne deduce un'estrema penuria demografica, con una densità media inferiore a 10 ab. per kmq. Nel sec. XVI si ebbe un nuovo incremento, pur interrotto da taluni eventi sfavorevoli (pestilenza del 1582); un nuovo censimento del 1603 dà circa 270-300.000 ab.; settantacinque anni dopo si hanno (in seguito a un periodo di prosperità, annullato tuttavia dalle epidemie del 1652 e anni seguenti) 310-335.000 ab. (1678). Seguì la spaventosa carestia e la pestilenza del 1680 che si vuole costasse la vita a 80-90.000 persone. Il censimento del 1688, che è da ritenersi assai attendibile, perché eseguito, non per fuochi, ma per teste, diede 230.321 ab., cifra forse un po' troppa bassa, ma certo non lontana dal vero. All'inizio del dominio sabaudo, l'isola non aveva certamente molto più di 300.000 ab. Per le epoche successive vi hanno censimenti i cui risultati sono degni di considerazione anche se, per tutto il sec. XVIII, siano forse da ritenere inferiori al vero. Ne diamo qui di seguito i risultati complessivi:
L'aumento della popolazione dal 1700 in poi è stato dunque continuo, ma con ritmo molto diverso. Il sec. XVIII rappresenta in generale un periodo di prosperità demografica, mentre il torbido quarantennio che va dal 1782 al 1821 segna un incremento assai lento, in contrasto col periodo successivo (potrebbe, anzi, farsi cominciare intorno al 1817) che vede di nuovo accrescersi la popolazione fino all'epidemia colerica del 1854-55. Più tardi, un altro periodo di grande incremento è il trentennio 1881-1911; dopo il decennio che include la parentesi della guerra mondiale, l'ascesa demografica riprende; il decennio 1921-31 segna infatti un aumento senza precedenti, che continua tuttora: la popolazione dell'isola, calcolata alla fine del 1934, sale infatti intorno a 1.015.000 abitanti.
Anche la distribuzione della popolazione è mutata profondamente attraverso le varie epoche storiche. Le coste e le regioni litoranee, al pari delle grandi pianure, erano nell'antichità probabilmente assai più popolate che non le aspre zone elevate dell'interno; sembra invece che nei periodi più torbidi del Medioevo, a più riprese la popolazione abbandonasse il mare e le fertili aree pianeggianti e, sia per sfuggire a incursioni, saccheggi e rapine, sia per l'abbandono di taluni porti e del traffico marittimo, sia per la malaria conseguita al disordine idraulico, si rifugiasse nelle regioni interne più appartate e più povere di risorse. Gli effetti di questo stato di cose si vanno solo ai nostri giorni gradatamente attenuando e debbono in ogni modo esser tenuti presenti per spiegare il quadro della distribuzione attuale della densità di popolazione, come in seguito si dirà.
La popolazione della Sardegna vive in gran parte (92%) agglomerata; la popolazione sparsa è scarsissima, tranne che nella Gallura e nel Sulcis, dove raggiunge il 35-40% circa. Ma la popolazione sparsa della Gallura, vivente in abitazioni caratteristiche, dette stazzi, è dovuta, almeno in parte, all'infiltrazione di elementi immigrati dalla Corsica; quella del Sulcis è di formazione recente, come pure quella - distribuita in stazzi, ma assai meno numerosa - della Nurra, dove per contro gli antichi centri agglomerati sardi sono scomparsi.
La popolazione sarda è composta quasi esclusivamente di individui nati nell'isola: i nati in altre regioni d'Italia rappresentavano nel 1931 appena il 3,206; ora questa percentuale si andrà lievemente accrescendo per effetto del trasferimento di coloni dall'Italia continentale in alcuni territorî di recente bonifica. Gli stranieri residenti in Sardegna rappresentano appena il 2,5 per mille.
La natalità sarda è superiore alla media del regno (nel quadriennio 1929-32, 29,7 in Sardegna e 26,2 nel regno), ma anche la mortalità è, sia pur lievemente, maggiore (Sardegna 15,6; regno 15), per quanto resti al disotto di tutte le altre regioni del Mezzogiorno. L'eccedenza dei nati sui morti risulta perciò del 14,1 per mille (regno 10,2). La famiglia naturale sarda è meno numerosa della famiglia media italiana, il che è in rapporto con l'economia familiare e con le forme prevalenti nella conduzione dei fondi.
Le condizioni sanitarie della Sardegna potrebbero qualificarsi come ottime, se non perdurasse il flagello della malaria, per la quale l'isola ha il primato in Italia. Si è discusso a lungo se e in che misura questa grave e diffusa infezione abbia avuto influenza sullo sviluppo civile e sociale della Sardegna; è probabile che tale influenza abbia avuto effetti notevoli, ma si è esagerato certamente quando si è voluto attribuire a recrudescenze del morbo i periodi di maggior decadenza dell'isola. In ogni modo, gli energici e sistematici provvedimenti presi ora dal governo mirano a debellare il terribile male e ad accelerare la rinascita dell'isola.
Il fenomeno migratorio in Sardegna ebbe scarsa importanza fino agli ultimi anni del secolo XIX. A partire dal 1901 esso cominciò a sottrarre dai 2000 ai 4000 ab. l'anno, poi dai 6 ai 9000; l'immigrazione superò i 10.000 nel 1907 (11.659) e raggiunse il massimo nel 1913 (12.274). Affievolita durante e dopo la guerra mondiale, riprese nel 1919 e toccò un nuovo massimo nel 1920 (6621 ab.); poi si è contratta di nuovo. L'emigrazione era diretta principalmente a paesi europei o dell'Africa settentrionale; solo dopo il 1910 si cominciavano a delineare forti correnti dirette nell'Argentina e negli Stati Uniti (rispettivamente il 35% e il 20% degli emigranti nel 1913), attenuate assai nel dopoguerra. Oggi i pochi emigranti sono quasi esclusivamente lavoratori diretti in paesi europei.
Antropologia. - Il nucleo principale delle nostre conoscenze attuali sull'antropologia della Sardegna è ancora costituito dai risultati della inchiesta sulle classi di leva '59-'63 per tutta l'Italia, raccolti ed elaborati da Ridolfo Livi. Il numero di individui sardi, misurati in questa inchiesta, fu di 6687, certo sufficiente per darci le linee generali, sebbene certi mandamenti sieno stati rappresentati da un numero piuttosto esiguo di individui. Il risultato più importante raggiunto dal Livi è che la Sardegna, per molti caratteri antropometrici, ad es. indice cefalico, statura, colorito, è ad un estremo della variazione presentata dagli Italiani. "I Sardi - secondo dice il Livi - sono in complesso il popolo meno alto, più bruno di occhi, capelli, pelle, più dolicocefalo di tutti gli Italiani". Mentre la statura media generale per gli Italiani è di cm. 164,5 la statura media dei Sardi è di 161,9. Essendo la media generale degli Italiani, per il colorito degli occhi e capelli, il 50,1 per cento di tipo bruno misto e il 25,4 per cento del tipo bruno puro (cioè del tipo a occhi e capelli bruni), le proporzioni dei tipi stessi per i Sardi sono: 70,4 e 49,7, cioè più forti che nella stessa Calabria, che viene subito dopo la Sardegna pel colorito scuro. Essendo l'indice cefalico medio per gli Italiani di 82,73, i Sardi hanno un indice medio di 77,5. È però qui da osservare che, a ragione dello strumento usato nelle misurazioni (il quadro a massima), l'indice reale è all'incirca di un'unità inferiore. Esistono tuttavia delle differenze sensibili fra i diversi distretti geografici della Sardegna, che naturalmente le circoscrizioni amministrative, di circondario e mandamento, usate dal Livi, esprimono solo in parte. Il circondario di Tempio ha così la più alta statura, il colorito più chiaro e l'indice cefalico più elevato. In complesso si può dire che le parti settentrionali dell'isola presentano le più alte stature, i coloriti più chiari e gl'indici cefalici più alti. Gl'indici cefalici di dolicocefalia estrema non sono proprî però della regione centrale, montagnosa, intorno al Gennargentu, la cosiddetta Barbagia, come si potrebbe pensare, ma si trovano divisi tra il circondario di Oristano e quello di Cagliari. Molto dolicocefali sono poi i mandamenti di Lanusei e di Ierzu. Siccome qua abbiamo ancora stature basse e colorito scurissimo, il tipo sardo è rappresentato, nella sua maggiore purezza, dalle dette località. Il Livi ritiene che le deviazioni del settentrione dell'isola, e soprattutto della Gallura, da questo tipo siano dovute ad influenze provenienti dalla Corsica; G. Sera pensa che, allo stato odierno delle conoscenze antropologiche sulla Corsica, invero ancora scarse, detta affermazione appare anche più dubbia che pel passato e pensa che l'ipotesi di una precedente stratificazione umana, che abbia avuto una più lunga evoluzione locale, sia preferibile: in altre parole, i Sardi centro-meridionali potrebbero appartenere a una ondata posteriore cronologicamente, ma proveniente anch'essa da un centro meridionale. La zona sarda a caratteri di sviluppo è geograficamente ben determinata, secondo il Sera, essendo coincidente quasi perfettamente col territorio al nord-ovest del fiume Tirso e del Marghine da una parte e per l'altra col territorio al nord dei monti di Alà e Nieddu. La Gallura, con la sua seconda cortina di monti (Limbara e Ultana) sarebbe stata ancora più protetta dai nuovi sopraggiunti.
Misurazioni su buone serie di cranî sardi sono state date da G. Sergi, E. Ardu-Onnis e da W. H. Duckworth: 55 cranî maschili dei primi due osservatori e di altri diedero un indice cefalico medio di 74,8; 70 cranî maschili di W. H. Duckworth ne diedero uno di 71,53. È probabile vi sieno differenze di provenienza nelle serie studiate. L'indice di altezza basilo-bregmatica dei 70 maschili dell'ultimo autore è di 71. Ciò significa che il cranio è ortocefalo e non basso e piatto, come da alcuni è stato affermato. I dati della capacità non sono ineccepibili, giacché quasi sempre non si può stabilire se gli autori dànno delle capacità effettivamente misurate o calcolate su formule. Ma non si va lontano dal vero affermando che essa deve essere piuttosto piccola. È anche degno di ricordo che l'Alfieri pose in luce nelle donne cagliaritane un tipo di bacino speciale che egli dice rotondeggiante.
Negli ultimi tempi, la scuola di L. Castaldi non solo ha eseguito molti studî sui rapporti dei caratteri antropologici dei Sardi con le costituzioni, ma ha dato molta attenzione ai caratteri dei Sardi preistorici (neolitici). Il Castaldi sintetizza queste ricerche, dicendo che le caratteristiche craniche primitive si sono mantenute nella maggioranza degli abitatori della Sardegna centro-meridionale. Molto importanti sono i risultati delle ricerche sui gruppi sanguigni dei Sardi. I dati relativi, raccolti da L. Lattes, per 2715 Sardi dànno le seguenti percentuali dei geni r, p, q (corrispondenti ai gruppi sanguigni O, A, B): 71,1; 18,5; 10,9. È evidente la forte prevalenza di r (O) in confronto del piccolo sviluppo di p e q. Gl'Italiani del nord e del centro (11.227 individui) darebbero le proporzioni: 64,8; 27,5; 7,6; vale a dire un accrescersi relativo di p (A). I Siciliani, al contrario (1100 individui), la proporzione di 65,6; 22,4; 11,7: il che vuol dire un relativo accrescersi di q (B).
P. Steffan, nel suo trattato del 1932, rileva la singolarità del comportamento dei gruppi sanguigni dei Sardi, che prendono una posizione speciale nel suo triangolo geografico. Tuttavia non li fa rientrare in nessuno dei suoi otto gruppi.
Condizioni economiche. - Agricoltura. Pesca. - Il paesaggio della Sardegna è caratterizzato dalla grande estensione dei terreni incolti, steppici, occupati da pascoli magri, ovvero da macchia sempreverde, ora alta e rigogliosa tanto da trapassare al vero e proprio bosco, ma spesso anche in forma di cespuglieto basso e stentato. Di solito immediatamente intorno ai villaggi si osserva una cintura più o meno completa di terreni coltivati, molto irregolarmente divisi in piccole e grandi proprietà, separate da muretti a secco o da siepi di fichi d'India. All'esterno di questa segue una cintura di terreno, non cintato, ma tuttavia di proprietà privata, del quale piccoli tratti vengono coltivati, per lo più, a cereali, per turno, in modo che circa 9/10 restano ogni anno incolti e solo 1/10 è messo a coltura. Al di là rimane la parte spesso maggiore del territorio, costituito da latifondi di grandi proprietarî o anche da proprietà di comuni, e occupato da pascoli, macchie, sodaglie, sterpeti; esso viene utilizzato per legname e soprattutto per il nutrimento del bestiame nomade che vi vaga liberamente. Queste condizioni si riscontrano, un po' modificate, in tutta l'isola: solo nelle parti basse (Campidano) con terreni alluvionali, le aree coltivate soprattutto a cereali sono molto estese, e la proprietà molto frazionata, mentre nei comuni montani prevale assolutamente l'economia pastorale: le proprietà, spesso molto vaste, sono chiuse da muri a secco (tanche), dove si trovano ricoveri per i pastori e, nelle vicinanze di essi, pochi appezzamenti coltivati.
La popolazione sparsa in campagna, con case situate in mezzo ai fondi, manca quasi del tutto, se si faccia eccezione, come si è già detto, per la Gallura e per qualche altra regione limitata. L'agricoltura è pertanto in grandissima prevalenza estensiva: un'utilizzazione intensiva del suolo, con colture miste, come si ha nella pianura napoletana e in molte plaghe costiere del Mezzogiorno e della Sicilia, si trova solo nei dintorni immediati di qualche grosso centro, come Cagliari, Sassari, Lanusei, Tortolì, Domusnovas, in alcune parti del Campidano, ecc. L'anello coltivato intorno ai villaggi - nei quali risiedono quasi esclusivamente i contadini - si va, è vero, progressivamente allargando, ma le aree incolte o quasi sono ancora estesissime. Questo stato di cose non si spiegherebbe, secondo taluni studiosi, con condizioni di suolo e di clima, ma sarebbe piuttosto un risultato di fattori storici e umani, che avrebbero determinato un sistema di occupazione estensiva del suolo, risalente, nelle sue basi fondamentali, per lo meno all'età dei giudicati; e modificata, ma essenzialmente solo per quanto riguarda il regime della proprietà, nell'epoca feudale e sotto la dominazione spagnola.
Le statistiche ufficiali ascrivono il 96,5% dell'area della Sardegna alla superficie agraria e forestale, e appena il 3,5% all'improduttiva. Ma dell'area totale dell'isola il 51,5% è costituito da pascoli permanenti, una percentuale di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro compartimento del regno (la Lucania, che viene seconda, ne ha il 29,3%); il 10,3% è classificato come incolto produttivo (percentuale solo lievemente superata dalla Venezia Giulia: 10,6%), cioè macchia, cespuglieto, ecc. I boschi si ragguagliano al 5% appena (compresi i castagneti), le colture legnose specializzate al 2,6%, i prati e pascoli permanenti mancano quasi affatto (0,3%). Resta per i seminativi il 26,8%, cifra molto inferiore alla media del regno (41,4%), appena più elevata di quella del Piemonte (26,3%) che ha tuttavia ben più vaste aree adibite a prati permanenti e a colture legnose, e superiore soltanto a quella di compartimenti nettamente montani (Liguria, Venezia Tridentina e Venezia Giulia). E ancora è da osservare che una parte del terreno seminativo resta, alternativamente, ogni anno in riposo, cosicché l'area effettivamente coltivata annualmente non supera forse il 15-18%.
Il bosco, che nella prima metà del sec. XIX, al tempo di A. Lamarmora, si vuole abbracciasse un quinto dell'isola, occupa un'area di circa 1210 kmq. ed è costituito da quercus ilex, prevalente, q. rober e q. suber. Il sughero, del quale si hanno superbe distese specialmente in Gallura, costituisce un notevole provento per l'isola: il centro dell'industria e del commercio è Tempio, donde il prodotto viene esportato nella Penisola e nell'Europa centrale. I castagneti occupano circa 1150 ha., soprattutto nel massiccio centrale e nelle pendici occidentali del Gennargentu (Aritzo, Desulo, Ovodda, Tonara), in aree ristrette del Montiferru (Santulussurgiu) e qua e là nella Gallura. Tra le piante costitutive della macchia si trova nei dintorni di Alghero e nella Nurra, come pure a Sant'Antioco e nel Sulcis, la palma nana, utilizzata da alcune piccole industrie locali (canestri, stuoie, scope, corde, ecc.).
Le colture erbacee sono poco variate in Sardegna. La principale è il frumento (con predominio delle varietà dure), alla quale nel 1933 erano destinati circa 215.400 ha., con notevole, rapido aumento rispetto agli anni precedenti (1931: 187.000 ha.; 1932: 199.000 ha.), soprattutto in seguito alla sua introduzione nei territorî di recente bonifica. La produzione si ragguagliò nel 1933 a 1.670.000 q. (1.442.000 nel 1934), ma aveva superato nel 1932 i 2.200.000. La produzione per ettaro si aggira intorno a 8,5 q., restando perciò notevolmente inferiore a quella di qualsiasi altro compartimento. La distribuzione per provincie, esposta nello specchietto seguente, dimostra la prevalenza del Cagliaritano per area coltivata - in relazione alla presenza di vaste aree pianeggianti - la prevalenza del Capodisopra per produzione unitaria, connessa probabilmente con più favorevoli condizioni di clima.
Tra i cereali segue l'orzo (nel 1933: 31.000 ha. e 278.000 q.) che è proprio delle regioni montuose, mentre la coltura dell'avena è recente, ma si va gradualmente diffondendo (13.200 ha. e 129.000 q.), al pari del mais, cui si cominciano a dedicare alcune aree nelle vallate irrigue (5400 ha. e 38.000 q.). La segale è sconosciuta e scarsissimo rilievo ha la coltura della patata, che in parecchie regioni montuose d'Italia integra quella dei cereali. Tra le leguminose ha importanza la fava (43.100 ha. e 424.000 q.); tra gli ortaggi quasi soltanto il carciofo, per cui la Sardegna segue, sebbene a notevole distanza, la Sicilia e il Lazio (88.000 q. nel 1933). Tra le piante industriali solo il tabacco ha qualche diffusione nei dintorni di Sassari, ma la produzione tocca appena i 2000 q. Modesta è la produzione dei foraggi.
Le colture arboree hanno, come si è veduto, un'estensione di gran lunga inferiore a quella che si potrebbe attendere date le condizioni di suolo e di clima. Unica veramente importante è quella della vite, estesa, sotto forma esclusiva di coltura specializzata, per 31.800 ha.; essa dà uve eccellenti da vino e da tavola. Tra le zone più tipiche si citano il Campidano a NE. di Cagliari, il Campidano di Oristano, l'agro di Bosa e quello di Oliena. Il vino prodotto è di poco inferiore ai 500.000 hl. annui; alcuni vini sardi, molto alcoolici, robusti (nuragus, monica, nasco, malvasia, vernaccia), sono esportati nella Penisola. L'olivo si estende per oltre 19.000 ha. come coltura esclusiva, per altrettanti e più come coltura promiscua; è una risorsa particolare del Sassarese, dell'Algherese e Bosano e del Montiferru (Cuglieri); la produzione complessiva non supera i 15.000 hl. annui. Gli olivi semiselvatici si incontrano tuttavia frequentissimi quasi ovunque nell'isola. Gli alberi da frutto sono frequenti nelle vicinanze dei villaggi, ma in nessun luogo, si può dire, dànno vita a una coltura industriale. Il più importante è il mandorlo, per la cui produzione (circa 100.000 q. nel 1933) la Sardegna segue terza, pur a grande distanza, dopo la Puglia e la Sicilia; in più luoghi i già segnalati freddi tardivi del marzo danneggiano il prodotto. Qualche importanza ha il noce. Gli agrumi, che potrebbero costituire una cospicua risorsa, sono trascurati: occupano nell'insieme un'area inferiore a 550 ha., con un predominio dell'aranceto (50.000 q. di aranci), che ha i suoi centri a Milis, Tortolì, Muravera, Fluminimaggiore e San Sperate; il limone predomina a Villacidro.
Il bestiame vive in Sardegna esclusivamente allo stato brado: gli ovini si alimentano quasi unicamente sui pascoli naturali, i buoi da lavoro si foraggiano con paglia e fave, i cavalli con orzo e paglia di orzo. Il censimento del 1930 noverò circa 2.054.000 ovini, un quinto del patrimonio totale d'Italia; questa cifra dà alla Sardegna un primato assoluto in Italia (per numero relativamente all'area il primato spetta tuttavia al Lazio). E la Sardegna è anche l'unica regione d'Italia nella quale gli ovini siano aumentati (del 10% circa) rispetto al 1908; e si deve notare che il numero esistente a quell'anno (1.877.000) rappresentava un aumento di oltre un milione rispetto al 1885. Anche i caprini erano in enorme aumento fino al 1908; da quell'epoca si è avuta una diminuzione (del 14% circa); nel 1930 essi erano 436.000 (il 23% del totale del regno), cifra che dà ancora alla Sardegna un primato, sia in linea assoluta, sia rispetto all'area.
Molto minore importanza, anche in relazione alla mancanza di prati artificiali, ha l'allevamento bovino. Con 240.000 bovini, la Sardegna aveva nel 1930 appena il 3,5% del totale del regno; e la consistenza numerica appariva diminuita del 36% rispetto al 1908, diminuzione che non si riscontra altrove, se non in Puglia. I suini, per i quali le querce offrono ottimo alimento, sono circa 102.000; la Barbagia e il Gennargentu ne hanno la parte maggiore, ma il numero è diminuito, rispetto al 1908, del 35% e più; in maniera impressionante dunque, che non ha riscontro altrove in Italia (sono in diminuzione, ma non per aliquote così forti, Puglia e Sicilia). Gli equini sono 101.400 con qualche superiorità degli asini sui cavalli (il mulo è sconosciuto); il numero tende ad accrescersi.
I prodotti dell'allevamento ovino - carne, latte, formaggio, lana - rappresentano un cospicuo reddito per la Sardegna e fanno la fortuna di alcuni comuni montani, come Desulo e Fonni. Si ricavano 60-70 litri di latte l'anno da una pecora di due anni, fino a 90 da una di 3-4 anni, da 80 a 150 litri da una capra. Il formaggio sardo - pecorino - secco e forte, è largamente esportato nel resto d'Italia e soprattutto nell'America Settentrionale. La lana è impiegata specialmente per un tessuto locale - l'orbace (v.) - del quale oggi si è molto intensificata la produzione.
La pesca ha una parte importante nell'economia sarda. Primeggia quella del tonno, che si pratica su vasta scala sulla costa occidentale, dall'Asinara a S. Pietro, ed è antichissima. Delle numerose tonnare, alcune sono peraltro abbandonate: per la loro distribuzione v. la carta alla voce italia (XIX, p. 757, in basso). Molte di esse sono proprietà di Genovesi; centro principale dei pescatori è Carloforte. L'epoca della pesca comprende i mesi di maggio-giugno; il prodotto è molto oscillante, ma negli ultimi anni è in diminuzione (v. tonno).
Un'altra pesca importante è quella delle aragoste, che si fa nella Sardegna di NO. (Alghero, Asinara), nei dintorni della Maddalena, nei pressi di Tortolì, Porto Corallo, ecc., quasi sempre da pescatori non sardi (molti vengono dalle Isole Pontine e dal Napoletano); essa alimenta una notevole esportazione diretta a Napoli, a Livorno, a Genova, a Marsiglia e in altre località francesi. La pesca delle sardine, un tempo molto abbondante, è ora straordinariamente ridotta, ma conserva qualche importanza a Porto Torres, nella parte meridionale del Golfo di Cagliari e a Capo Sperone. La pesca negli stagni costieri si effettua quasi ovunque ed è molto redditizia (stagni di S. Gilla, dei Colostrai, Tortolì, Cabras, Sassu, S. Giusta, Calich; stagni dell'isola S. Antioco, stagno Pilo presso Portotorres); si pescano muggini, anguille, ghiozzi, orade, granchi, arselle; nello stagno di S. Gilla anche tinche. In questo stagno, demaniale, la pesca è pubblica, ma il concessionario percepisce, in natura o in denaro, un quarto del prodotto.
Miniere, industrie. - La Sardegna è, insieme con la Toscana, la più importante regione mineraria d'Italia.
Le ricchezze del sottosuolo erano note già ai Fenici e ai Romani; nel Medioevo furono pure saltuariamente sfruttate, p. es. sotto il dominio pisano, ma solo nel sec. XIX l'avvaloramento dell'isola sotto questo riguardo è stato sviluppato con ricerche sistematiche e con mezzi adeguati. L'esplorazione geologico-mineraria è ora assai progredita. La ricchezza di minerali è in relazione con l'affioramento di terreni antichi: prevalgono i minerali metallici connessi con i grandi sistemi di fessure negli scisti e calcari paleozoici al contatto coi graniti. La produzione di minerali metalliferi della piccola Sardegna si ragguaglia forse a un cinquantesimo di quella di tutto il globo; negli anni precedenti la guerra mondiale il valore della produzione oscillava intorno ai 32 milioni di lire annue, prima dell'attuale periodo di crisi raggiunse i 200 milioni. La regione più importante è il SO. (Iglesiente e Sulcis) e al primo posto stanno ivi lo zinco (calamina, blenda, smithsonite), e il piombo (galena, cerussite, anglesite), spesso associate (galena con blenda; calamina con cerussite o galena, ecc.). La quasi totalità del piombo italiano proviene dalla Sardegna, ma per l'avvenire dell'isola lo zinco ha importanza anche maggiore. Si calcola che fino al 1933 la Sardegna abbia dato oltre 6 milioni e mezzo di tonnellate di minerali di zinco e 2 e mezzo di minerali di piombo. La produzione annua normale potrebbe essere di circa 150.000 tonn. per lo zinco (pari a 57.000 tonn. di metallo) e 45.000 di piombo (pari a 2.5.000 tonn. di metallo); ma negli ultimi anni essa si è fortemente contratta, soprattutto dal 1933. Le miniere più importanti sono quelle di Monteponi, Gennamari-Ingurtosu, S. Giovanni, Masua, Acqua Rexi, Nebida. I giacimenti di piombo, specialmente quelli filoniani entro i calcari e le dolomie cambriche, sono poi spesso argentiferi. Minerali di piombo si trovano anche in giacimenti del Sarrabus, del vicino Gerrei, dell'alta Ogliastra, ecc.
Un notevole giacimento cuprifero è quello di Funtana Raminosa nella Barbagia meridionale; un altro è quello di Cala Bona presso Alghero. Da ricordarsi ancora i minerali di molibdeno (Sarroch, Gonnosfanadiga, Arbus), di nichelio e cobalto (orlo meridionale del massiccio granitico dell'Arburese), di manganese (numerose manifestazioni nei terreni vulcanici del Sulcis, dell'Isola S. Pietro e dell'Algherese), di antimonio e arsenico (Villasalto). Il ferro si trova in numerosi giacimenti sparsi, ma di piccola entità; il maggiore è quello della Nurra (limonite e siderite oolitica), attualmente non utilizzato.
Nella generale scarsezza di combustibili fossili, che si lamenta in Italia, acquistano speciale importanza i giacimenti di lignite picea del bacino di Gonnesa (Bacu Abis, Terras Collu), valutati a forse 50 milioni di tonn., su un'area di 40 kmq.; si sfruttano attualmente intorno a 50 mila tonn. annue soltanto, essendo il prodotto di scarso valore come combustibile da caldaia. Un notevole giacimento di antracite si trova a Seui nella Barbagia. La Sardegna dà inoltre barite (Iglesiente; Tertenia in provincia di Nuoro), caolino (Serrenti e Furtei in prov. di Cagliari), talco e steatite (Orani); e ancora buoni marmi e calcari ornamentali, porfidi, ecc.
L'avvenire dell'industria mineraria sarda è legato in parte all'elaborazione in posto dei minerali, che oggi vengono in massima parte esportati, e questa dipende a sua volta dall'utilizzazione su larga scala dell'energia idroelettrica messa a disposizione dai grandiosi impianti del Tirso, del Coghinas e da altri progettati, dei quali si dirà in seguito.
Al difuori delle industrie minerarie, di quelle direttamente connesse con l'allevamento (industria casearia, concia delle pelli, ecc.), di quella, già ricordata, del sughero, le industrie sarde hanno finora modesto sviluppo. Tra quelle tessili ha acquistato oggi notevole importanza la fabbricazione dell'orbace, tessuto di lana, da tempo in uso presso la marina, ora prescritto per l'uniforme invernale del partito fascista; opportunamente disciplinata, essa si viene perfezionando e fornisce, in quantità sempre maggiori, un tessuto prettamente nazionale, di ottimo impiego.
Qualche importanza ha il mobilificio; ma questo, al pari di talune minori industrie tessili e dell'abbigliamento, ecc., ha ancora in parte il carattere di piccola industria artigiana o domestica. Per le industrie domestiche in genere, la Sardegna ha conservato, forse più di ogni altra regione d'Italia, una tenace tradizione e una varietà veramente degna di rilievo. I prodotti sono molto noti e formano oggetto di esportazione, soprattutto come curiosità folkloristiche. Tra le industrie più caratteristiche si ricordano quella dei tappeti, delle coperte e bisacce, con disegni di arte popolare, che si conserva, con varietà di tecnica, di colori, di motivi, in moltissime località, ed è oggi ravvivata dalle scuole di Isili e Aggius; l'industria del ricamo, già fiorentissima, soprattutto nel tipo detto a granelli o a pibioni, e anche nella rete (Bosa, Oristano, Tresnuraghes) e nel punto riccio (Teulada); l'industria del legno intagliato (Aritzo e altri paesi del Gennargentu), quella del cuoio lavorato (Dorgali), quella dei panieri, scatole, ceste, ecc., intessuti con le foglie della palma nana e avvivati da disegni geometrici o floreali (Castelsardo, Alghero, Sennori, ecc.). La palma nana serve anche a fabbricare corde e funi (Sorso); inoltre si utilizzano l'asfodelo (Tinnura e altrove), il giunco (Sinnai), ecc. La ceramica ha nobili e antiche tradizioni e fiorisce ancora a Oristano, Dorgali, Assemini, Tortolì, Nurallao, Pabillonis, Teulada. Decaduta è la lavorazione dei metalli, che un tempo dava prodotti di gran pregio: persiste a Isili (rame), a Gavoi, a Cagliari (ferri battuti). Parecchie scuole e istituzioni favoriscono oggi lo sviluppo di queste piccole industrie e lo smercio dei prodotti.
Comunicazioni. - Per le comunicazioni in Sardegna due fatti hanno soprattutto importanza: i caratteri delle coste, le quali, ora erte e scoscese, ora basse e orlate di stagni e acquitrini, poco si prestano al passaggio di strade; l'orografia, frazionata in molti massicci, separati da pianure, aree depresse o valli, che segnano talune direttrici naturali. Facili sono le comunicazioni tra i golfi di Cagliari e di Oristano attraverso il Campidano; e dal Golfo di Oristano girando (sia a E. sia a O.) il Montiferru, si può raggiungere la Sardegna di NO. e il Sassarese. Dal Golfo di Cagliari l'ampia breccia segnalata dalla valle del Samassi (Fluminimannu) apre l'accesso verso N. e permette di raggiungere, passando a O. del Gennargentu, il bacino medio del Tirso, poi, costeggiando a E. il Marghine, la valle del Mannu (Coghinas) e perciò il N. dell'isola. Le valli del Temo e del Tirso rappresentano le migliori vie di accesso dalla costa occidentale verso il Nuorese, donde per la valle del Cedrino si perviene alla costa orientale. Il Campo di Ozieri è un centro di comunicazioni importante anche per l'accesso dalla costa NE. (Golfo di Terranova), che è il punto più indicato per i rapporti con la Penisola.
Le linee ferroviarie principali, a scartamento normale, esercitate dallo stato, seguono queste direttrici: l'arteria fondamentale è la Terranova-Cagliari per Macomer e Oristano, con diramazioni a Chilivani (Campo di Ozieri) per Sassari e Porto Torres, e a Decimomannu per Iglesias. Sono in totale solo 418 km. di linee, cui se ne aggiungono altre, per km. 950, a scartamento ridotto, esercitate dall'industria privata; di queste tuttavia la più parte, obbligate dalla natura del terreno a lunghi giri e povere di opere d'arte atte ad abbreviare i percorsi, sono lentissime. In totale si hanno 1368 km. di linee, pari a 56,7 per kmq. (media del regno 73,7). Per densità di linee solo la Venezia Tridentina resta al disotto.
Alla deficienza delle ferrovie supplisce ora, in parte almeno, la rete stradale che è stata oggetto di grandi cure da parte del regime fascista e sulla quale il traffico automobilistico si va intensificando (v. sotto). Le strade statali sommano a 1440 km., in buona parte pavimentate o in corso di pavimentazione; le linee automobilistiche in servizio pubblico erano, nel 1934, 124 per una lunghezza di 4581 km.; esse trasportarono 1.200.000 viaggiatori (1933). Vi sono linee a lungo percorso, come la Cagliari-Tortolì (139 km.), la Cagliari-S. Antioco (94 km.), la Cagliari-Sorgono (123 km.), la Sassari-Bosa (82 km.), la Nuoro-Tempio (144 km.), la Nuoro-Orosei-Terranova (140 km.), la Tortolì-Orosei (84 km.), la Nuoro-Ortueri (95 km.), ecc.
Di porti, il solo veramente importante è Cagliari, oggi molto migliorato, all'incirca il dodicesimo d'Italia per movimento di merci, il quindicesimo per movimento di viaggiatori. Ma per i viaggiatori il porto delle comunicazioni col continente è Terranova, situato nella costa nord-orientale più frastagliata e più vicina alla Penisola. Vengono dopo Carloforte, Porto Torres e Alghero; gli altri minori hanno movimento modesto. La Maddalena è porto militare. Le comunicazioni marittime tra Terranova e Civitavecchia sono giornaliere e oggi assai rapide e comode; Cagliari è pure collegata direttamente da linee di navigazione (settimanali) con Civitavecchia e con Napoli. Servizî secondarî provvedono alle comunicazioni dei porti minori tra loro e con Cagliari e anche a quelle dell'isola con Genova, Livorno, Palermo, Bastia, Tunisi.
Alle comunicazioni celeri con la penisola provvede una linea aerea, inaugurata nel 1928, che collega sei volte alla settimana l'idroscalo di Ostia con quello di Elmas (Cagliari). Il percorso diretto Ostia-Elmas si compie in due ore e mezzo. Nel 1934 la linea trasportò circa 6500 passeggieri, 1670 kg. di posta, oltre 5700 di giornali e 8330 di merci.
È attuato il collegamento telefonico e radiotelefonico della Sardegna con la Penisola.
Densità della popolazione. Centri abitati. - Come si è già accennato, la Sardegna è la regione d'Italia che dimostra la più bassa cifra di densità della popolazione, appena 40 ab. per kmq. secondo il censimento del 1931. Tuttavia questa densità è raddoppiata in poco più di un secolo, perché era inferiore ai 20 ab. nel 1821 (alla fine del sec. XVII era inferiore ai 10). Ma le zone con meno di 20 ab. per kmq. sono ancora assai estese, specialmente nella parte orientale dell'isola, mentre nella parte occidentale predominano le aree con densità superiore alla media, come è dimostrato dalla tavola annessa. Questa mette poi in vista la scarsa influenza esercitata dal mare nel richiamare la popolazione, la quale, anzi, se si eccettuino poche zone, rifugge dalle coste. Una zona a densità relativamente alta è rappresentata dal Campidano, coi dintorni di Cagliari, un'altra dalla regione Sassari-Alghero (esclusa la Nurra), una terza dall'Iglesiente e dalle isole sulcitane. Nelle prime due di queste regioni l'addensamento è dovuto principalmente all'economia agricola bene sviluppata, nella terza invece all'economia industriale (miniere; pesca).
Al difuori di queste tre zone le aree ad alta densità sono ristrette e isolate. Una densità relativamente elevata dimostrano anche zone situate a notevole altezza; l'influenza diradatrice delle condizioni altimetriche si avverte in modo evidente solo al disopra di 600 m. circa. Il centro più elevato dell'isola è Fonni (1000 m.); una diecina di centri superano gli 800 m. Una ricerca recente, fondata sul censimento del 1931, fa ascendere a 473 i centri abitati dell'isola, cioè uno ogni 51 kmq., mentre nel complesso del regno si ha all'incirca un centro ogni 10 kmq. I centri con vita veramente cittadina non sono molti. Cagliari, il maggiore, ha nel centro un po' meno di 75.000 ab., Sassari circa 42.000. Gli altri centri che superano o si avvicinano a 10.000 ab. sono Monserrato e Quartu Sant'Elena, satelliti di Cagliari; Iglesias, Alghero, Oristano, Nuoro. Tra le minori città si annoverano Carloforte, Guspini, Sant'Antioco, Terralba, Villacidro, Bosa, Dorgali, Lanusei, Macomer, Bonorva, Ittiri, Portotorres, Sorso, Tempio, Terranova, La Maddalena, Tortolì (v. per ciascuno alle rispettive voci).
Le provvidenze attuate dal regime fascista (v. appresso) portano anzitutto un incremento della densità nelle zone messe a coltura più intensiva e a un graduale ripopolamento delle regioni marittime. La regione del Campidano soprattutto si viene allargando, e tende a formare con l'Iglesiente e zone finitime un'area continua a densità relativamente elevata, che comprende naturalmente anche il Cagliaritano. Anche la zona del Sassarese si dilata sempre più. Quanto alle regioni costiere, il flusso della popolazione verso di esse, iniziatosi già al principio del secolo XIX, allorché scomparve definitivamente il pericolo delle incursioni così frequenti in passato, si va accentuando man mano che procedono il risanamento idraulico e la lotta contro la malaria. Le bonifiche insediano nuclei di popolazione in zone prima del tutto disabitate; presto si faranno sentire anche gli effetti della bonifica di regioni montane. Pertanto la Sardegna è destinata a vedere, in un prossimo avvenire, non solo un accelerato aumento della sua popolazione, ma anche una graduale modificazione nella distribuzione di essa.
Le opere del regime fascista in Sardegna. - Le poco felici condizioni economiche, demografiche, sanitarie della Sardegna - dovute, più che a cause d'ordine naturale, a fatti umani determinatisi in un lungo periodo storico e che l'uomo stesso può perciò modificare - si stanno effettivamente migliorando e trasformando con ritmo accelerato, mercé una serie complessa e grandiosa di iniziative diverse ma organicamente connesse, che si viene attuando per opera del regime fascista.
Hanno fra queste il primo posto, per mole e imponenza di opere, quelle concepite dall'ingegnere Angelo Omodeo e dirette alla sistemazione idraulica della Sardegna, con l'immagazzinamento in bacini artificiali delle disponibilità idriche invernali e la disciplina rigorosa dei deflussi nelle varie stagioni e secondo le necessità agricole e industriali. Il lago artificiale del Tirso, compiuto nel 1923 mediante lo costruzione della grande diga di Santa Chiara, il più grande d'Europa, è lungo circa 26 km., a contorni frastagliati e ha una capacità di 416 milioni di mc.; l'impianto idroelettrico ha una potenza di 30.000 HP (v. tirso). Il lago artificiale del Coghinas, creato nel 1926 con una diga che sbarra la gola di Muzzone, ha una capacità di 254 milioni di mc.; la centrale idroelettrica, scavata in una caverna, consta di quattro gruppi generatori della potenza complessiva di 30.000 HP (v. coghinas). Questi due serbatoi, e quelli in progetto sul Flumendosa, potranno raccogliere oltre un miliardo di mc. d'acqua; essi appartengono a una medesima società, e possono fornire energia elettrica per 240 milioni di kW/ora, e acqua per irrigare fino a 150.000 ettari. Il gigantesco insieme di opere è capace di avviare una completa trasformazione dell'economia sarda. Altri bacini artificiali sono in progetto: tra essi uno sul Taloro presso la Cantoniera S. Pietro della strada Sorgono-Gavvi.
I lavori di bonifica classificati al 1° luglio 1933 riguardano una superficie complessiva di oltre 25.000 ettari, dei quali circa 400.000 in pianura o terreni pianeggianti. L'esempio più completo e grandioso è la bonifica di Terralba e dello stagno di Sassu che permette di conquistare all'agricoltura 12.000 ettari di terreno, dei quali 5000 sono già dissodati e apponderati e ospitano circa 3000 agricoltori; la borgata rurale, eretta a comune nel 1930, reca il nome di Mussolinia di Sardegna (v.). La bonifica di Sanluri, iniziata già nel 1838, poi abbandonata, fu ripresa nel 1919 dall'Opera nazionale combattenti e ora può dirsi ultimata La bonifica di Decimoputzu, comprendente tra l'altro le opere di inalveazione del Fluminimannu, permette di prosciugare e mettere a coltura 23.000 ettari; quella di San Sperate (Rio Flumineddu) riguarda una superficie di 5000 ettari in parte già messi a coltura. Sono in corso la bonifica di Senorbì e della Trexenta, quella di Guspini e Pabillonis, iniziata nel 1933, la grande bonifica della bassa valle del Tirso, che comprende anche la sistemazione degli stagni di Cabras e Santa Giusta, le bonifiche del basso Sulcis, che mirano a dar lavoro anche a famiglie di ex-minatori, le bonifiche del Sarrabus, quelle della media valle del Coghinas, dove sono ultimate le bonifiche di Campo Lasari e Piano di Siligo e in corso quelle di Campo Giavesu e Campo Santa Lucia, la bonifica della valle del Cedrino, le bonifiche della Nurra, dove si inizia ora, a cura dell'Ente Ferrarese di colonizzazione, una vasta opera tendente a colonizzare con agricoltori del Ferrarese un'area di 6000 ettari. Sono in corso di bonifica anche numerosi stagni costieri. Tutto l'insieme delle opere di bonifica è oggi posto sotto la sorveglianza del Provveditorato alle opere pubbliche per la Sardegna, istituito nel 1925, come organo statale autonomo, che ha il compito di studiare tutti i problemi riguardanti i lavori pubblici dell'isola.
Il provveditorato ha un vastissimo campo d'azione. Imminente è il programma, in parte attuato e in parte in corso di attuazione, delle opere stradali, che va dal miglioramento della rete delle grandi comunicazioni, passata nel 1928 all'Azienda autonoma statale per la strada, alla costruzione di numerosi tronchi per allacciare centri montani isolati, per accedere alle stazioni ferroviarie, ecc. Notevoli le opere per il rimboschimento e l'irrigazione, e poi tutta la serie di iniziative nel campo igienico-sociale: costruzione di acquedotti per l'approvvigionamento idrico (acquedotto nuovo di Cagliari, acquedotti di Sassari, della Maddalena, di Orosei, del Sarcidano, del Sulcis), opere di fognatura, edifici scolastici, ospedali, cimiteri.
Tra le opere marittime primeggiano quelle per il porto di Cagliari (v.) ma nessuno dei porti minori è stato trascurato. Sono poi da ricordare le opere di consolidamento di centri minacciati da alluvioni e frane, ecc.
Concorrono, in campi diversi, al miglioramento dell'economia sarda altre istituzioni, come l'Istituto regionale di credito agrario, la Federazione delle latterie sociali e quella delle cantine sociali. Nel campo sanitario sono attive la Croce Rossa Italiana e la Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d'Italia; nel campo culturale l'Ente di cultura e di educazione della Sardegna, creato nel 1926 con lo scopo di favorire l'educazione e l'istruzione popolare. Per quanto riguarda l'istruzione superiore si ricordi il notevole incremento dato alle università di Cagliari e Sassari.
La trascuranza e l'isolamento che pesarono per secoli e secoli sulla Sardegna vengono pertanto a poco a poco superati da una mole imponente di provvedimenti rigeneratori.
Bibl.: La Sardegna possiede oggi un buon repertorio bibliografico: R. Ciasca, Bibliografia della Sardegna, voll. 5, Roma 1931-34: Per la geologia, la geografia fisica, v. ecc., anche M. Taricco e T. Sotgia, Bibliografia geologica, mineralogica, paleontologica e mineraria della Sardegna, Roma 1922.
Fondamentali sono ancora le opere di A. La Marmora, Voyage en Sardaigne ou description statistique physique et politique de cette île, Parigi 1839, voll. 2, e Voyage en Sardaigne, parte 3ª: Description géolog. et paléontol., Torino 1857, voll. 2, e Atlante; Itinéraire de l'île de Sardaigne pour faire suite au voyage en cette contrée, Torino 1860, voll. 2. Del Voyage esiste una traduzione di V. Martelli col titolo Viaggio in Sardegna, Cagliari 1928, voll. 4. Dell'Itinéraire compendiato da G. Spano, una traduzione di P. Marica (voll. 2, Caserta-Roma 1917-20).
Tra le vecchie opere generali si possono ricordare: Tyndal, The Island of Sardinia, Londra 1849, voll. 3; J. D. F. Neigebaur, Die Insel Sardinien, 2ª ed., Lipsia 1858; A. Bouillier, L'île de Sardaigne, Parigi 1865; H. Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, Lipsia 1869; P. Mantegazza, Profili e paesaggi di Sardegna, Milano 1870; R. Tennant, Sardinia and its resources, Londra 1885.
Tra le più recenti: M. Vinelli, La Sardegna nel problema economico, Cagliari 1896; Pais-Serra, Relazione dell'inchiesta sulle condizioni economiche della Sardegna, Torino 1902; A. Steinitzer, Die vergessene Insel, Gotha 1904; G. Gusmano, La Sardegna agricola, Milano 1906; G. Sergi, La Sardegna, Torino 1907 (antropologia); A. Terracciano, Il dominio floristico sardo e le sue zone di vegetazione, in Bull. ist. bot. di Sassari, 1909; G. Anfossi, Ricerche sulla distribuzione della popolazione in Sardegna, in Boll. Soc. geogr. ital., 1915; A. Cossu, L'isola di Sardegna. Saggio monografico di geografia fisica e di antropogeografia, 2ª ed., Milano 1916; L. Wagner, Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache, in Zeitschr. für Sprach- u. Sachforschung, Heidelberg 1921, fasc. 4 (trad. di V. Martelli, Cagliari 1928); O. Pedrazzi, La Sardegna e i suoi problemi, Milano 1922; E. Scheu, Sardinien, Lipsia 1923 (piccola monografia geografica d'insieme, buona); A. Imeroni, Piccole industrie sarde, Milano 1924; G. Angioi, Il problema agricolo sardo, Milano 1924; id., Cenni sullo stato economico-industriale della Sardegna, Milano s. a.; G. Pardi, La Sardegna e la sua popolazione attraverso i secoli, Cagliari 1925; A. Cossu, Sardegna e Corsica, Torino 1926; V. Martelli, La Sardegna e i Sardi, fasc. 3, Cagliari 1926; E. Prettenhofer, Sardinien und die Sarden, in Mitteil. geogr. Gesellsch., Vienna 1927; Risorse idrauliche per forza motrice utilizzate e ancora disponibili, fasc. 2°: Sardegna, Roma, Min. lav. pubbl., 1928; G. Seghetti, La mano d'opera agricola e la colonizzazione in Sardegna, Roma, Min. dei lav. pubbl., 1929; E. Turbati, Rapporto fra proprietà, impresa e mano d'opera, nell'agricoltura italiana, X: Sardegna, Roma, Ist. di econ. agraria, 1931; R. Sirchia, Le irrigazioni in Sardegna, Roma, Min. lav. pubbl. 1931; G. Alivia, Economia e popolazione della Sardegna settentrionale, Sassari 1931; G. C. Casu, Il pascolo in Sardegna, Ozieri 1932; G. L. Faà di Bruno, Quelques aspects du développement économique de la Sardaigne sous le régime fasciste, Parigi 1932 (con ricca bibl.); E. Schmid, Beiträge zur Flora der Insel Sardinien, in Mitteil. aus d. botan. Mus. der Univers. Zurich, 1933; A. Welte, Ländlicher Wirtschaftsysteme und mittelmeerische Kulturlandschaft in Sardinien, in Zeitschr. Ges. Erdkunde, Berlino 1933; Guida delle escursioni attraverso la Sardegna a cura del XII Congresso geografico italiano, Cagliari 1934 (con capitoletti generali di varî autori dedicati ai diversi aspetti geografici dell'isola); S. Vardabasso, Visioni geomorfologiche della Sardegna, Cagliari 1934.
Sulla pesca e i centri pescherecci in Sardegna si veda una serie di scritti di P. Mola, in Boll. di pesca, piscicultura e idrobiologia, 1932.
Per l'antropologia in particolare: R. Livi, Antropometria militare, voll. 2, Roma 1896; G. Sergi, La Sardegna, Torino 1907; W. L. H. Duckworth, A study of the Craniology of the modern Inhabitants of Sardinia, in Zeitsch. f. Morphol. und Anthropologie, XIII (1911); P. Steffan e S. Wellisch, Die geographische Verteilung d. Blutgruppen (serie VI), in Zeitsch. z. Rassenphysiologie, VI (1933); L. Castaldi, Caratteri etnici della Sardegna, in Guida delle escursioni attraverso la Sardegna, pubblicazione del XII Congresso geogr. italiano, Cagliari 1934. Una buona bibliografia antropologica sulla Sardegna è data in: F. Fontana Zanco e L. Castaldi, Bibliografia zoologica sarda, in Atti Soc. Cultori scienze mediche e naturali in Cagliari, 1933.
Gli Atti del XII Congresso geografico italiano tenuto in Sardegna nel 1934 e pubblicati a cura di S. Verdabasso (Cagliari 1935) contengono una ricca e preziosa serie di memorie, note e comunicazioni su tutti, si può dire, i problemi e gli aspetti della geografia dell'isola.
Preistoria.
I limiti della preistoria per la Sardegna sono assai più ampî che per altri paesi del Mediterraneo orientale. La fase preistorica, che s'inizia col neolitico, si protrae con l'età del bronzo e con quella del ferro, sino a periodi che per altri centri di civiltà sono già nella piena luce della storia. Sinora in Sardegna non sono state constatate le tracce del periodo paleolitico; il braccio di mare che la separava dalle terre vicine fu ostacolo alla penetrazione dell'uomo primitivo, forse anche lo furono le manifestazioni dell'attività vulcanica dei focolari più recenti che esistevano in varie parti dell'isola, e non consentivano la vita di famiglie umane. L'ipotesi di qualche etnografo, tra cui L. Cipriani, di una fase prequaternaria di uomo sardo, alla quale si possano far risalire le tracce negritoidi qua e là affioranti nell'ethnos sardo, non è sufficientemente fondata, e attende più ampio corredo di fatti.
L'uomo preistorico sardo è neolitico, e ci viene rivelato sinora nelle grotte naturali di Cagliari e dell'Iglesiente - sono note quelle di Capo S. Elia e di Fluminimaggiore - come anche nelle tracce di villaggi all'aperto, attorno agli stagni di Quartu S. Elena, a quelli dell'Oristanese e di altri punti dell'isola, ma soprattutto nelle grotticelle artificiali, che in numero di varie migliaia, a piccoli gruppi, sono state segnalate in tante parti della Sardegna. Notevoli quelle di Cagliari, Capo S. Elia, di Abealzu, presso Osilo, di Dorgali, e, per i materiali rivelati, quelle di Coguttu e soprattutto di Anghelu Ruju, presso Alghero. Da queste ultime uscirono le testimonianze della vita dei Sardi del III millennio a. C., attestanti, con il culto dei morti, anche le fogge di armi di ossidiana e di pietra: pugnali, coltelli, cuspidi di frecce, rarissime lame di coltelli in bronzo, di fogge arcaiche, e pochi aghi e punteruoli; le ceramiche, col tipico vaso a campana ornato a impressioni, e rari motivi cromatici; pendagli in conchiglie, in quarzo, in argento nativo; accettine in rocce dure non isolane, indizî questi di commerci transmarini con terre d'Iberia e d'Italia, dove si esportavano le armi di ossidiana prodotte nei giacimenti così ricchi di questa materia esistenti in varie località della Sardegna. Le indagini rivelarono una prevalenza di cranî dolicocefali, di tipo mediterraneo, non esclusa però un'infiltrazione di tipi armenoidi orientali già nel periodo neolitico ed eneolitico.
Si possono cogliere elementi di continuità tra lo strato delle popolazioni sarde del periodo neolitico e quelle delle successive epoche del bronzo, in cui si matura la civiltà nuragica; tali sono i tipi di ceramica, di talune categorie di armi di pietra, di tombe scavate nella roccia, con disposizioni caratteristiche di camere comunicanti, e soprattutto qualche elemento dei riti e dei culti funerarî rivolti a divinità tauromorfe, che si presentano nelle tombe di più remota età, come in tutta l'età nuragica, nei templi e nei depositi sacri.
Per la struttura, l'aspetto e l'uso di questi monumenti megalitici caratteristici della Sardegna, rivelatori di una potenza costruttiva e orga- nizzativa di prim'ordine, v. nuraghe. Qui diremo solo, che questi edifici, destinati alla vita, alla tutela, sorveglianza e dominio dell'isola, sono sparsi in tutta la terra sarda, e sono situati in quei luoghi dove potevano compiere una funzione utile al loro scopo. La densità dei nuraghi sul territorio dell'isola si rileva dalla carta a p. 847.
Alla dimora dei morti sono serbati i monumenti megalitici detti tumbas de sos gigantes, sviluppatisi dai dolmen, a forma di corridoi coperti da grandi lastre, con stele funerarie, e taluni con area semicircolare, munita di gradini per gli assistenti alle cerimonie funerarie; un altro tipo di tomba dell'età nuragica è dato dalle domus de gianas, simili alle grotticelle neolitiche, ma più vaste e scavate nelle rocce dure, come il basalto e il granito.
Questa civiltà ebbe armi e strumenti di bronzo, con metalli tratti dai monti dell'isola e lavorati su modelli indigeni o elaborati sul posto da esemplari orientali e occidentali, in modo da mostrare rapporti commerciali con l'Iberia da un lato, e con la civiltà cretese, nel suo pieno sviluppo, dall'altro; lance, pugnali, accette, bipenni, spade lunghe e corte, falci, scalpelli, seghe, sono il corredo più frequente di tombe e di strati d'abitazione dei nuragici, che ebbero invece sobrî e rudi ornamenti, braccialetti, aghi crinali, anelli, quali si convengono a gente guerriera.
Guerra e ardimento rivelano le immagini che ci sono pervenute della gente nuragica, per lo più dalle tombe e dai templi.
Questi templi sono di due tipi, a cella rettangolare, ipetrali, sull'alto dei monti e degli altipiani, dedicati a divinità del cielo, con altare e tavole di offerta di voti, oppure a pozzo, di accurata costruzione, coperto da una bella cupola nuragica, sistemata in modo da proteggere e conservare le acque salutari, o purissime o medicali e termali in genere, dedicate alle divinità del misterioso mondo sotterraneo, minacciose e terribili, ma pure latrici del bene, della salute, e soprattutto della luce della verità, che scaturiva e si rendeva palese attraverso i riti ordalici, giudizî di Dio, i quali, secondo ci è noto dagli scrittori, avvenivano con la prova dell'acqua, ed erano seguiti dalla pena capitale, non appena provata la colpa dell'accusato.
Da entrambi questi tipi di templi proviene tutta una caratteristica arte plastica di piccoli bronzi votivi, permeati da un alto senso di verismo e d'immediatezza di espressione, arte sana e sincera per quanto rudimentale, che ci dà l'immagine di un popolo guerriero, saldo, austero, tenuto insieme da una disciplina militare e religiosa ad un tempo; accanto a poche statuette di pastori, di donne, per lo più sacerdotesse, talora madri col figlio in grembo, abbiamo i guerrieri in atteggiamento di preghiera, arcieri e spadieri, con caratteristici elmi cornuti e armature attillate, capi tribù con ampio mantello e bastone di comando, in atteggiamento altero.
Ma nella vita dei clan, pugnaci e gelosi, mancò la forza che potesse imporre una fusione di tutte le razze con un regime unitario, e che conducesse a una lotta fortunata contro l'invasore. La preistoria sarda fu tutta una serie di lotte anarchiche tra pastori e coltivatori, in un ambiente che favoriva, come sempre, questa duplice forma di vita e questo contrasto d'interessi. Queste lotte, che allontanarono dalla vita del mare un popolo che pure viveva in mezzo al mare, non consentirono che la gente sarda, numerosa e bellicosa, gettasse in mare il tenace navigatore che veniva dall'Oriente, ammaestrato di maggiori risorse di civiltà. I Fenici dapprima, poi i loro discendenti di Cartagine, occuparono con scali e fattorie commerciali tutti i punti di sbarco più sicuri, trasformandoli in cittadine coloniali, con svolgimento agricolo nel retroterra. A difesa di questa conquista importarono in Sardegna le genti delle regioni libiche e maure, fiere e combattive, già attratte nell'orbita cartaginese. Queste genti ben armate e fortemente disciplinate, lentamente spazzarono dalle pianure circostanti alle sedi coloniali l'elemento indigeno. Furono lotte lunghe, in cui tutte le acropoli nuragiche erette attorno alle pianure feraci e allo sbocco delle valli, andarono a poco a poco espugnate e rovinate, in una guerriglia che durò a lungo, ma che terminò con la vittoria dell'elemento invasore. La preistoria sarda si chiude quindi assai tardi, verso il sec. VII a. C., con la perdita del litorale di pressoché tutta l'isola, che cadde sotto il dominio e il controllo di Cartagine, insieme coi feraci piani dei Campidani e della Romandia turritana. Ma il valore sardo non consentì la penetrazione militare punica entro le alte vallate e gli altipiani del centro, dove la razza si ridusse dopo una guerra incessante.
Roma, sbarcata nell'isola e occupate senza sforzo le zone possedute dai Cartaginesi, si trovò di contro le genti sarde, ostili, indomite, ribelli; e soltanto dopo lunghe campagne, che le costarono molto sangue, ma depauperarono inesorabilmente la Sardegna, poté finalmente aver ragione della resistenza isolana e sottoporre quelle genti alle sue leggi e alle sue armi, di cui divennero poi, nei secoli della storia, tenaci e validissimi difensori.
Bibl.: Oltre ai vecchi lavori di G. Spano, di A. Lamarmora, di F. Vivanet, citati in opere più recenti, v.: G. Pinza, I monumenti primitivi della Sardegna, in Mon. Lincei, XI (1901); D. Mackenzie, in Papers of British School, 1910; V. Bissing, Die sardinischen Bronzen, in Röm. Mitteilungen, 1928; F. von Duhn, Ital. Gräberkunde, Heidelberg 1924; A. Taramelli, in Atti del Convegno archeologico di Cagliari, 1929; id., Santuario nuragico di S. Vittoria di Serri, in Mon. Lincei, 1931; id., Antichissime vicende dell'uomo sardo; Cosa insegna una carta archeologica della Sardegna, in Atti del XII Congresso geogr. ital., 1935; G. Patroni, L'origine del nuraghe sardo, in Atene e Roma, 1916, p. 145; U. Rellini, Miniere e forni preistorici, in Riv. di antropologia, 1922.
Storia.
La Sardegna entra nella storia della civiltà occidentale con il contrasto tra elemento greco ed elemento fenicio per la supremazia sul Tirreno. Che i Fenici, già prima dell'intervento di Cartagine in Sardegna, vi abbiano fondato fattorie è probabile, non dimostrato.
Pochissimo contano le testimonianze tarde, le quali sembrerebbero connettere direttamente con la Fenicia talune città poi cartaginesi (Claudiano, per es., nel De bello gildonico, v. 520, chiama Cagliari Tyrio fundata potenti). Più valgono indizî, la cui interpretazione peraltro è dubbia. L'arcaismo di alcune manifestazioni artistiche e culturali ha fatto pensare a rapporti diretti con la Fenicia: l'osservazione è stata fatta, per es., a proposito di una testina di terracotta pubblicata in Notizie scavi, 1908, p. 145 segg., e può ripetersi a maggior diritto per il carattere arcaico assolutamente impensato che aveva ancora in età imperiale romana a Bitia l'alfabeto fenicio secondo un'iscrizione pubblicata da poco (G. Levi Della Vida, L'iscrizione punica di Bitia in Sardegna, in Atti Accad. scienze di Torino, LXX, 1935, p. 185 segg.).
La Sardegna insomma, per il carattere conservativo che è sempre stato proprio del suo isolamento, avrebbe mantenuto fino a tardi tradizioni fenicie precartaginesi. Certo è solo che verso la metà del sec. VI a. C. Cartaginesi e Greci se ne contendevano il possesso. Di sicure colonie greche non conosciamo se non Olbia (Terranova Pausania). Poiché i Focesi di Marsiglia fondarono un'altra Olbia in terra gallica e poiché notoriamente furono essi i maggiori rivali di Cartagine nel Tirreno, può ritenersi assodato che anche la Olbia sarda fu loro fondazione. La quale dunque va riportata a una data anteriore a quella battaglia di Alalia (537 circa), in cui i Cartaginesi alleatisi con gli Etruschi riuscirono a battere i Focesi e a costringerli a rinunciare a ogni tentativo di colonizzazione così in Corsica come in Sardegna: una data più tarda della metà del sec. VI a. C. per la fondazione di Olbia è senz'altro esclusa. Dopo la battaglia di Alalia, i Cartaginesi e gli Etruschi si divisero le zone d'influenza, e ai Cartaginesi toccò la Sardegna, agli Etruschi la Corsica. L'egemonia sul mare rese allora abbastanza facile la conquista del litorale sardo, che, secondo un oscuro accenno di Giustino (XVIII, 7), i Cartaginesi avevano già tentato con sfortuna una volta, probabilmente prima della battaglia di Alalia. L'occupazione avvenne per opera dei due fratelli Asdrubale e Amilcare figli di Magone (Giustino, XIX, 7, 19) press'a poco al tempo della spedizione di Dorieo in Italia, cioè intorno al 510.
La conquista cartaginese non troncò naturalmente del tutto i rapporti della Sardegna col mondo greco, sia perché i conquistatori mantennero anche dalla Sardegna le relazioni loro abituali con i Greci, sia perché, come meglio vedremo, l'occupazione cartaginese fu solo parziale.
Secondo Erodoto (V, 124), che risale a Ecateo di Mileto, Aristagora consigliava verso il 496 a. C. agli Ioni di emigrare in Sardegna: ciò significa che la conquista cartaginese era ancora poco estesa. Il medesimo consiglio si trova poi trasferito in Erodoto stesso (I, 170) al saggio Biante, per gli Ioni che intorno al 546 dovevano passare al dominio persiano; mentre l'epica ellenistica lo attribuì a Manticlo dopo la presa di Ira nella seconda guerra messenica: in entrambi i casi, e per lo meno sicuramente nel secondo, si tratta di fantasticherie, le quali tuttavia testimoniano del perdurante interesse all'isola sottratta all'influenza greca. Concrete tracce di Greci in Sardegna sono le due iscrizioni abbastanza arcaiche di Massalioti morti nella punica Tharros, sul Golfo di Oristano. A rapporti commerciali con la Sicilia può anche accennare il toponimo Siculensi (Σικουλήνσιοι) conservato da Tolomeo (Geografia, III, 3, 6); ma è incerto a che età risalga. Dubbia è anche l'interpretazione dell'altro toponimo Heraion, pure conservato da Tolomeo (III, 3, 7); si tratta di una semplice assimilazione di un nome indigeno a nome greco? Più curioso il conflitto tra le aspirazioni greche e il diritto di conquista punica, che si può intravedere nelle leggende mitiche fiorite intorno alla Sardegna: noi abbiamo solo fonti greche, ma esse ci conservano anche taluni elementi punici. I Cartaginesi si dovettero appropriare una malcerta figura di divinità sarda, che noi conosciamo dalle fonti classiche con il nome di Sardus pater: infatti esso viene definito da Pausania (X, 17) figlio di Makeris "chiamato Eracle da Egiziani e Libî", ed è facile riconoscere sotto il nome Makeris il dio fenicio Melqart, abitualmente identificato con Eracle. Anche l'unica sicura rappresentazione figurativa del Sardus pater, che abbiamo, su una moneta repubblicana romana assai discussa, è iconograficamente di tipo punico (C. Albizzati, Sardus pater, in Il convegno archeologico in Sardegna, 1926, Reggio 1929, pag. 87 segg.). A questa tradizione, che faceva insomma del dio sardo un divino ecista punico, i Greci contrapposero una tradizione analoga: spiegarono il nome di Iolei, che portava la più importante tribù indigena ancora non doma dai Cartaginesi, come derivante da Iolao, il nipote e compagno di Eracle, che sarebbe andato in Sardegna con numerosi figli di Eracle stesso e delle sorelle Tespiadi, e identificarono questo Iolao con il Sardus pater, tanto da affermare che egli era venerato in Sardegna col nome di Iolao padre (Diod., IV, 30, 2 da Timeo). Di qui probabilmente per un ulteriore passaggio l'identificazione di Iolao con una divinità punica nel patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia, presso Polibio, VII, 9, 2 (cfr. W. W. Baudissin, Adonis und Esmun, Lipsia 1911, p. 282 segg. e L. F. Benedetto, Le divinità del giuramento annibalico, in Riv. Indo-Greco-Italica, III, 1919, p. 121 segg., che s'integrano a vicenda nell'apparente contraddirsi). Nei rapporti commerciali e quindi culturali, l'identificazione del Sardus pater con una figura mitica greca dovette acquistare qualche credito anche in Sardegna, perché Pausania (X, 17, 1) asserisce che si trovava a Delfi una statua del Sardus pater inviata dai Sardi, e non c'è alcuna ragione per non credergli, benché la data dell'offerta sia ignota.
Comunque, il dominio punico in Sardegna non fu più contrastato seriamente dai Greci. I cartaginesi s'insediarono sulle coste meridionali e occidentali con città di nuova fondazione o da loro occupate: pochissimo penetrarono nell'interno. I principali loro centri sono Cagliari (lat. Caralis), Nora, il cui nome è certamente prepunico, Porto di Ercole (?), Bitia, Sulci (odierna Sant'Antioco), Neapolis (traduzione greca di termine punico?), Tharros, Othoca, Cornus, Bosa. Più nell'interno Gurulis Vetus e Gurulis Nova. Anche la greca Olbia fu occupata e punicizzata.
Molte induzioni si sono fatte dalla toponomastica locale, per identificare località puniche: come i risultati siano incerti, può indicare il caso, che sembrava più sicuro, dell'attuale villaggio Magomadas ai confini della Planania, che s'interpreta abitualmente come dal fenicio maqom ḥadas "luogo nuovo", mentre B. Terracini ha rilevato la possibilità che il nome vada scisso in Mago-madas, giusta una terminazione madas che si trova in altri toponimi sardi (Osservazioni sugli strati più antichi della toponomastica sarda, in Il Convegno archeol., cit., p. 123 segg.). I risultati più sicuri verranno sempre dagli scavi, di cui sono stati finora particolarmente fruttuosi quelli delle necropoli, se anche di regola saccheggiate in età antica o moderna. Le necropoli di Tharros (A. Taramelli, Guida del Museo Nazionale di Cagliari, Cagliari 1914, passim), di Nora (illustrata da G. Patroni, in Monumenti Lincei, XIV, 1904), quella di S. Avendrace presso Cagliari (A. Taramelli, in Mon. Lincei, XXI, 1912) sono le più significative; e si aggiungono le ricognizioni nelle tombe di Sulci (Not. scavi, 1908, p. 145 segg.), di Olbia (ib., 1911, p. 228), di Cornus (ib., 1918, p. 322), ecc., nonché in necropoli dell'interno (a S. Sperate, Not. scavi, 1879, p. 172, ecc.). I risultati attendono ancora di essere riesaminati nel loro insieme, da un punto di vista storico, alla luce di tutta la civiltà fenicia e cartaginese: fin d'ora si possono intravedere testimoniati numerosi rapporti col mondo greco; notevole invece l'assenza di prodotti etruschi, nonostante l'amicizia punico-etrusca. Delle monete risalenti a età punica ha potuto essere isolato qualche gruppo sicuramente di coniazione isolana, che probabilmente non è anteriore al sec. III a. C. Un gruppo non grande, ma ricco di contenuto, d' iscrizioni puniche completa il materiale a nostra disposizione: anche quando tali iscrizioni sono di età romana conservano naturalmente resti delle condizioni puniche preesistenti.
Le principali città costituivano dei comuni con autonomia amministrativa sotto il governo di suffeti e di un senato: ciò è documentato per Cagliari, Sulci, Bitia. Questa relativa autonomia spiega come dei Sardi (evidentemente Fenici di Sardegna) siano notati fra gli ambasciatori a Babilonia presso Alessandro Magno, dopo che la conquista della Fenicia doveva aver gettato lo stupore e il terrore fra le genti di là originarie (Giustino, III, 13, 1).
I Cartaginesi costituivano anche qui un'aristocrazia commerciale, la cui ricchezza è confermata dagli oggetti preziosi trovati nella necropoli di Tharros, la più risparmiata. Non mancava naturalmente il latifondo, a coltivare il quale dovettero essere trasportati dall'Africa dei Libî (cfr. Cicerone, Pro Scauro, 19, 42). Accanto all'aristocrazia propria i Cartaginesi lasciarono prosperare un latifondismo indigeno, che sarà più tardi loro alleato.
Le popolazioni soggiogate pagavano tributi in forma di decima con modalità ignote. Esse prestavano inoltre servizio nell'esercito cartaginese come mercenarî: compaiono già nella battaglia d'Imera (480). Per il controllo militare dell'isola i Cartaginesi avevano un presidio: può essere che derivi da mercenario iberico stanziato in Sardegna l'iscrizione iberica di ignoto significato trovata nell'isola (Ephemeris Epigraphica, VIII, 1899, pag. 513 e W. v. Landau, Neue phönicische und iberische Inschriften aus Sardinien, in Mitteil d. vorderas. Gesell., 1900, 3, n. 8). Dall'isola i Cartaginesi ricavavano soprattutto grano e metalli (piombo e ferro): il centro del mercato del piombo doveva essere Sulci. Note anche le saline. Il vino vi veniva importato da paesi greci, forse per opera di commercianti punici. Ha carattere di favola di carattere etnografico, la quale ha evidenti paralleli, l'asserzione dello pseudo-Aristotele (De mirabil. auscultationibus, 100) derivante da Timeo, che i Cartaginesi vi avessero distrutte tutte le piante da frutto preesistenti e ne impedissero sotto pena di morte la piantagione: ma la sua parziale verità sta nella proibizione di certe coltivazioni (probabilmente vite e olivo) che i Sardi dovettero subire. In qual modo i Cartaginesi cercassero, secondo un noto principio della loro politica commerciale, d'impedire alle navi degli altri stati di avvicinarsi alla Sardegna come agli altri loro possedimenti, sarà fra poco meglio chiarito dalle clausole al riguardo dei trattati cartaginesi con Roma: qui basterà avvertire che queste stesse clausole, alla pari delle altre notizie già ricordate sui traffici con i paesi greci, mettono in rilievo i limiti con cui va interpretato il famoso lamento di Eratostene presso Strabone (XVII, p. 802), secondo cui i Cartaginesi avrebbero senz'altro affondato le navi che si avvicinavano alla Sardegna e alle Colonne d'Ercole.
Da molti luoghi della costa i Cartaginesi dovettero essere tenuti lontani dalla malaria, documentata in Sardegna fino dalla seconda guerra punica. Nell'interno rimasero libere, e seppero difendersi con la tenacia che conserveranno nei secoli, le tribù indigene, di cui le più note sono quelle degli Iolei (anche dette Iliensi, donde le favole sull'origine troiana) e dei Balari, la cui affinità con le popolazioni delle Isole Baleari è indubbia, come i nuraghi hanno rapporto con i talaiots delle medesime isole. Popolazioni còrse si erano stanziate nella parte settentrionale. Sia pure sotto influenza punica, si continuò tra queste popolazioni la civiltà nuragica e la vita nei nuraghi stessi, che gli osservatori greci scambiarono probabilmente per spelonche. I nuraghi avranno servito da baluardo contro gl'invasori. Risalgono a età punica le osservazioni che i Greci fecero sulle pratiche religiose sarde: come l'incubazione presso le tombe degli avi divinizzati (già Aristotele, Physic., IV, 11, 1) e l'ordalia per mezzo dell'acqua (Solino, IV, 6). Ma è verosimile che il culto del Sardus pater nel grande santuario sul Golfo di Oristano presso il Capo della Frasca conservato in età romana (cfr. Tolomeo, III, 3, 2) accogliesse molti elementi punici. Da queste tribù libere venivano gli aiuti contro il conquistatore nel momento delle ribellioni dei sudditi: ci è nota una ribellione nel 379-8 a. C. (di qualche anno più tarda, secondo il Beloch), quando Cartagine era impegnata contro Dionisio di Siracusa in Sicilia. Che i Greci di Sicilia dovessero del resto pensare a creare difficoltà ai loro rivali Cartaginesi anche in Sardegna è naturale. Può essere che si connetta con qualche episodio di questi rapporti tra Greci di Sicilia e Sardi una moneta, sicula quasi certo, ma di dubbia provenienza (data di solito come di Tauromenio senza ragione), che contiene in greco la scritta Sardo o Sardoi (E. Gabrici, La monetazione del bronzo nella Sicilia antica, Palermo 1927, p. 189).
Mentre il pericolo greco si attenuava davanti alla politica cartaginese, sorgeva quello di stirpi italiche, e in particolare dei Latini di Roma. Dal moderno toponimo Kentu Istaflas, che in osco dà centum stabula, W. Meyer Lübke (zeitschr. f. öst. Gymn., 1902, p. 67) ha ricavato l'esistenza di una colonia osca in Sardegna: ciò è possibile, ma può essere avvenuto più verosimilmente dopo l'occupazione romana. Per età anteriore, le uniche notizie sicure riguardano Roma stessa. La Sardegna è contemplata nei due trattati di cui Polibio dà il testo (III, 23-24); il primo permette e regola il commercio romano in Sardegna, il secondo lo proibisce e fa insieme divieto di colonizzazione. Sono note le difficoltà per datare questo trattato. A. Momigliano segue E. Meyer (Kleine Schriften, II, p. 259 seguenti) nel credere il secondo trattato anteriore al 338 a. C., perché non presuppone ancora tutte le città latine sotto il controllo di Roma, e quindi nel considerarlo il trattato che la tradizione ricorda per il 348 a. C.; mentre accetta l'asserzione di Polibio che il primo trattato risalga all'inizio della repubblica (cfr. anche W. Hoffmann, Rom und die griechische Welt im IV. Jahr., in Philologus, suppl: XXVII, 1935, pag. 1 segg.). Qualche avvenimento deve aver consigliato i Cartaginesi a proibire la colonizzazione romana in Sardegna. Ora una notizia di Diodoro (XV, 27, 4) all'anno 378 parla di una colonia di 500 cittadini inviata dai Romani εἰς Σαρδωνίαν, che è naturale interpretare per Sardegna. La notizia è generalmente rigettata, e offre effettivamente fortissime difficoltà, soprattutto perché non ha riscontro nella tradizione. Ma essa innanzi tutto è congrua con il mutamento dei trattati con Cartagine, poi coincide con la ribellione dei Sardi contro Cartagine appunto in quegli anni, infine è sostenuta dall'analogia di un'altra impresa consimile che Teofrasto (Hist. plant., V, 8, 2) ricorda i Romani aver tentato infelicemente in Corsica, certo nel sec. IV, di cui è interamente arbitrario dubitare. È dunque per lo meno da considerare possibile che già nel secolo IV Roma abbia avuto delle mire in Sardegna, prontamente stroncate da Cartagine.
Con il secondo trattato, la posizione di Cartagine in Sardegna era naturalmente rafforzata. I Romani intanto però erano sempre più coinvolti nella politica nell'Italia meridionale, donde per altra via doveva nascere il conflitto definitivo con Cartagine. La Sardegna vi ha solo un valore episodico. Secondo Zonara (VIII, 10), durante la prima guerra punica nel 262 a. C., i Cartaginesi avrebbero pensato di fare della Sardegna la base per un colpo diretto sul Lazio; ma non avvenne nulla, e dunque la notizia è forse esagerata. Nel 259 il console L. Cornelio Scipione fece una spedizione in Corsica e Sardegna, che ebbe successi momentanei in Corsica e nemmeno tali in Sardegna, come di contro alla tradizione annalistica più tarda assicura l'accordo di Zonara (VIII, 11) e dell'elogio del generale romano stesso (Corpus Inscr. Lat., I, 32). L'anno dopo una flotta romana riuscì a bloccare in Sulci una flotta cartaginese, senza ulteriori conseguenze. In definitiva i Cartaginesi mantennero il dominio marittimo dell'alto Tirreno e quindi la base di rifornimento in Sardegna. L'abbozzo di pace di Attilio Regolo imponeva ai Cartaginesi anche la cessione della Sardegna; la pace di Lutazio Catulo (241 a. C.) la lasciò invece ai loro possessori. I Romani poterono impadronirsi della Sardegna (e della Corsica) solo poco dopo, durante la ribellione dei mercenarî di Cartagine estesasi anche in Sardegna. I Cartaginesi finirono col riconoscere loro il possesso (238 a. C.).
La risolutezza con cui, dopo le esitazioni di carattere morale e giuridico, i Romani afferrarono le due isole tirreniche indica come essi avessero riconosciuto esattamente che ne dipendeva la sicurezza del loro predominio nella penisola. Inoltre, la Sardegna non solo diventerà uno dei centri del rifornimento granario di Roma (ancora in età ciceroniana, la Sardegna era con l'Africa e la Sicilia uno dei tria subsidia reipublicae firmissima, Cicer., De imperio Cn. Pompei, 12, 34); ma costituirà un nodo del loro sistema difensivo e offensivo rispetto all'Africa e alla Spagna. La superiorità navale di Roma durante la seconda guerra punica è dovuta in non piccola parte al possesso della Sardegna.
Nell'impiantarsi in Sardegna i Romani ebbero da lottare contro l'ostilità di tutti gli abitanti: non solo delle popolazioni indigene dell'interno, ma anche naturalmente dei Punici e punicizzati delle coste, legati agl'interessi mercantili di Cartagine. È ben comprensibile tuttavia che l'ostilità cessasse assai prima nelle città costiere, che trovarono presto nel sistema politico romano uguali e maggiori vantaggi economici. D'altro lato il governo di Roma ebbe cura scrupolosa di tutelare, già in periodo repubblicano, le autonomie locali della Sardegna, lasciandole sussistere nella loro fisionomia punica; e la monetazione di tipo punico continuò in età repubblicana. La penetrazione romana fu tanto più profonda nell'isola, così da sopravvivere a quegli stessi fattori (Vandali, Bizantini e Arabi) che cancellarono la romanizzazione dell'Africa, quanto più lentamente si sovrappose alla cultura punica. Le ribellioni cominciano negli anni immediatamente seguenti all'occupazione (236-31), riprendono con maggiore gravità dopo Canne (216). Un tipico latifondista punicizzato, Ampsicora, avendo a centro della resistenza la città punica di Cornus, guida la ribellione, tosto sostenuto da una flotta cartaginese. I Romani vi debbono impegnare due legioni e l'appoggio della flotta; ma, essendo riusciti a battere già una volta separatamente gl'indigeni, poterono poi facilmente vincere i loro resti rafforzati dai Cartaginesi. Un'ulteriore apparizione della flotta punica nel 210 non ebbe conseguenze. La Sardegna non fu più minacciata seriamente, grazie alle due legioni che i Romani vi tennero in continuazione per tutta la guerra. Fino dal 226 l'isola era stata sistemata a provincia con la Corsica sotto il governo di un pretore; e vi era stato mantenuto il sistema punico della decima, che dava larghe disponibilità di grano ai Romani. Udiamo anche di requisizioni di tessuti. Dalla Sardegna partirono i rifornimenti per le guerre in Africa, come poi in Oriente. Lo sfruttamento a cui in tal modo la Sardegna veniva sottoposta, e contro cui invano lottava Catone il Vecchio nella sua pretura del 198, diede occasione ad altre rivolte: l'irrequietudine, che perdura lungo tutto il sec. II, ha le esplosioni più gravi nel 177-76, anno in cui intervenne, in specie contro le popolazioni dell'interno, il console Tiberio Sempronio Gracco, e poi tra il 126 e il 122 a. C. Dopo di allora le regioni costiere sono durevolmente pacificate, e incombe anzi ai Romani il compito di difenderle dalle aggressioni e rapine delle indome popolazioni dell'interno: queste ultime vengono designate dai Romani come barbarae o barbaricinae, il nome sopravvivente nell'odierna Barbagia.
Durante il primo secolo a. C. l'isola è contesa tra le varie fazioni in Roma. Nel 78 Emilio Lepido tenta invano di occuparla; negli anni successivi è nido di corsari, da cui viene liberata nel 67 da Pompeo. Da allora per circa un ventennio Pompeo vi predomina, servendosi dei rifornimenti granarî della Sardegna ai suoi fini (nel 56 appunto fa quel viaggio nell'isola, che gli dà l'occasione di pronunciare il "vivere non est necesse, navigare est necesse"). Nel 54 il malgoverno del propretore pompeiano in Sardegna dell'anno precedente, M. Emilio Scauro, dà occasione in Roma a un processo politico clamoroso, in cui Scauro, difeso da Cicerone in un'orazione parzialmente giuntaci, è assolto: interessante che l'accusa sia sostenuta da elementi punici. Cesare occupa l'isola nel 49, e poiché per rivalità con Cagliari Sulci si mantiene pompeiana, la punisce nel 46 con multa ritornando dopo la vittoria di Tapso in Italia per la Sardegna. Nel 43 l'isola passa a Ottaviano; a cui viene strappata nel 40 da Sesto Pompeo, grazie alla sua superiorità navale. L'isola continua dunque ad essere uno dei punti centrali della lotta per la sua importanza strategica e logistica. Pompeo cerca di rafforzarvi il dominio distribuendovi terre ai suoi liberti. La perdita dell'isola nel 38, per il tradimento di Menodoro, segna il tramonto della fortuna di Pompeo.
Nell'ordinamento del 27 a. C. Augusto lasciò la Sardegna al Senato, ma la riprese nel 6 d. C. per reprimervi il brigantaggio delle popolazioni centrali, e la governò da allora durevolmente per mezzo di un procuratore (talvolta chiamato anche prefetto). Solo col governo imperiale la romanizzazione dell'isola prende uno sviluppo organico e si estende all'interno. In età repubblicana i Romani non concessero la cittadinanza romana a nessun centro indigeno della Sardegna: anche le espressioni di città sociae o amicae che si trovano per il periodo più antico dell'occupazione non hanno valore giuridico, indicando città stipendiarie. Cicerone (Pro Scauro, 22, 44) affermava che la Sardegna era la sola provincia, quae nullam habeat amicam populo romano aut liberam civitatem. Vi fu però una notevole emigrazione romana accanto alla quale si dovette già avere allora una notevole emigrazione di altri Italici: oltre i possibili Osci già citati, si ricordino i Falesce quei in Sardinia sunt della celebre iscrizione arcaica (Corp. Inscr. Lat., XI, 3078), che formavano una comunità organizzata, e la città di Feronia sulla costa orientale, che sembra connessa con questi Falisci, essendone Feronia divinità tutelare. Nell'interno Valentia (conservato nella denominazione Parte Valenza) sembra essere di origine repubblicana, ma non fu che un centro senza sistemazione giuridica. Con Cesare si ha probabilmente la prima attribuzione del diritto municipale a una città indigena, Cagliari. E probabilmente è pure di fondazione sua la colonia di Turris Libysonis (Portotorres), importante anche come indicazione di un interesse per la parte settentrionale dell'isola trascurata dai Cartaginesi. Altri probabili municipî romani della prima età imperiale sembrano essere Sulci e Tharros; Cornus fu forse colonia (cfr. Corpus Inscr. Lat., X, 7915). Nel 158 d. C. Uselis era sicuramente colonia romana; prima fu forse municipio latino. Di altrettanta importanza la sistemazione che le tribù dell'interno hanno da Augusto. Sottomesse effettivamente al controllo romano, vengono ordinate in civitates e sottoposte a un prefetto speciale (si cfr. Corpus, XIV, 2954, Sex. Julius evocatus D(ivi) Augusti praefectus I Cohortis Corsorum et civitatum Barbariae in Sardinia; una dedica dei medesimi Barbaricini a un imperatore, forse Augusto, in Notizie scavi, 1920, p. 347 segg.). Se abbia relazione con questa politica di avvicinamento agl'indigeni la moneta su citata con la rappresentazione del Sardus pater, che taluni pongono intorno al 59 a. C., altri all'età di Augusto, è dubbio. La pacificazione dell'isola si riflette anche nella scarsità della guarnigione, due coorti ausiliarie di Sardi stessi, o Corsi o Liguri: i Sardi servivano anche come ausiliarî altrove, specie in Africa. Un distaccamento della flotta misenate stazionava a Cagliari. Il governo imperiale si preoccupava del resto di non mandarvi truppe migliori, dato il clima. E perciò fu considerata la peggiore punizione che Tiberio decidesse d'inviare quattromila Ebrei di Roma a presidio delle parti interne dell'isola; il provvedimento dai particolari incerti ebbe breve durata.
Un eccellente sistema di strade collegava i varî centri dell'isola: tre erano le vie più importanti, quelle litoranee da Cagliari a Turris Libysonis, per la costa occidentale e da Cagliari a Olbia per la costa orientale, e quella interna da Cagliari a Olbia attraverso il Gennargentu. Ma accanto alla formazione di nuovi centri urbani, tra cui, per es., Forum Traiani (odierna Fordongianus), assistiamo a un assestarsi del sistema latifondistico preesistente, in cui accanto a proprietarî indigeni, ben riconoscibili ancora dalla nomenclatura dei saltus, si vengono a porre proprietarî romani (che spesso li sostituiscono). Particolare importanza hanno i fondi imperiali e di liberti imperiali: famosi quelli della favorita di Nerone, Atte, che vi esercitava anche un'industria di laterizî. Le miniere venivano monopolizzate dagl'imperatori. Le ricerche epigrafiche e archeologiche sono state particolarmente fortunate nel mettere in evidenza la rete di villae e di saltus. Entro di questa verrà poi a inserirsi nel Basso Impero la proprietà fondiaria della Chiesa, su cui ci dà a svolgimento compiuto ampie notizie l'epistolario di S. Gregorio Magno. La toponomastica medievale e moderna, contribuisce a fissare la fisionomia del latifondo romano. S'intende che con la conquista dell'Egitto e l'estensione dell'occupazione dell'Africa la Sardegna perdette la fondamentale importanza che aveva per i rifornimenti dell'Italia. Di qui un ovvio motivo per il decadere della posizione della provincia nel sistema imperiale, in cui non aveva ormai nemmeno più valore strategico. La provincia resta dunque alla periferia dell'interesse imperiale, non mai però trascurata, come dimostrano le stesse numerose opere pubbliche, e in particolare la floridità che gli scavi attestano per le città costiere, soprattutto per Cagliari. Tutto ciò spiega piuttosto come la Sardegna diventi terra di esilio e di ozî malinconici: dell'uno e degli altri è la più significativa testimonianza la serie di epigrammi tombali greci e latini scritti da un esule, M. Cassio Filippo, altrimenti ignoto, per la moglie Atilia Pomptilla nel monumento detto abitualmente Grotta della Vipera (Corpus, X, 7563: l'ultima migliore edizione di G. Coppola, in Rend. Acc. Lincei, 1931, p. 388 seg.). Ciò contribuisce pure a spiegare come la cultura punica abbia avuto più facilità a conservarsi specie intorno ai santuarî: nel santuario a un dio imprecisato di Bitia, la lingua punica è ancora documentata al tempo degli Antonini, secondo l'iscrizione già citata. In taluni culti è facile vedere sotto il nome romano la fisionomia punica. Così per Esculapio, la cui identità con il punico Eshmun è curiosamente accentuata nella famosa iscrizione trilingue di età repubblicana di Pauli Gerrei (Corpus Inscr. Lat., X, 7856; Corpus Inscr. Semiticarum, I, 143, in fenicio, greco e latino) dal chiamare Esculapio col soprannome di Merre, cioè importato, straniero. Accanto persistevano i nuclei delle tribù indigene con le loro abitudini inveterate e i culti aviti. Delle prime può dare prova il monumento forse più interessante del governo provinciale romano in Sardegna, un'iscrizione del 69 d. C. (Corpus Inscr. Lat., X, 7852), che indica come una questione di confini tra i Patulcenses Campani e i Gallilenses si trascinasse dalla fine del sec. II a. C. Dei secondi è ancora testimone Gregorio Magno: dum Barbaricini omnes ut insensata animalia vivent, Deum verum nesciant, ligna autem et lapides adorent (Epist. III, 23). Perciò il cristianesimo si diffuse lentamente, e certo alla sua diffusione contribuirono molto gli elementi venuti dal di fuori. È notevole che i martiri cristiani siano in prevalenza militari. Sappiamo del resto di cristiani inviati per punizione ai lavori delle miniere in Sardegna. Al tempo di Commodo vi fu, per es., deportato il futuro papa Callisto. Si noti, anche per il proselitismo cristiano, che in Sardegna esistevano nuclei di Ebrei (a Sulci catacomba giudaica, Notizie scavi, 1908, p. 150 segg.). Affermatosi, il cristianesimo avrà un estremismo ortodosso, su cui non saranno estranee influenze africane, oltre a condizioni psicologiche indigene; sarà modello e campione il vescovo Lucifero (v.) nel sec. IV ostinato così nella lotta contro l'arianizzante Costanzo, tanto da patirne l'esilio, come contro i Niceni troppo lassi, tanto da finire scismatico. Anche Eusebio da Vercelli, poi i papi Ilaro (461-68) e Simmaco (498-514) sono di origine sarda.
Amministrativamente, la Sardegna fu restituita al governo senatorio due volte per breve tempo: da Nerone nel 66 in cambio dell'Acaia fatta libera (e poi ripresa da Vespasiano), e da Marco Aurelio o Commodo; per essere poi di nuovo provincia imperiale al tempo di Settimio Severo. Da Diocleziano la Sardegna appartiene alla diocesi italiciana ed è governata da un preside: l'amministrazione delle sacrae largitiones (antico fisco) è però controllata da un rationalis comune con la Corsica e la Sicilia (rationalis trium provinciarum). La legislazione del Basso Impero ha poco che riguardi particolarmente la Sardegna: forse la cosa più interessante è la disposizione del codice Teodosiano, II, 25, 1 del 325, che lascia scorgere il trapasso di beni imperiali in enfiteusi di privati e testimonia il perdurare di una forte economia schiavistica accanto al colonato vero e proprio. Per il resto, la rarità stessa delle notizie conferma la calma alquanto morta, in cui la vita si svolge. L'isola è rifugio per i latifondisti italiani minacciati nella penisola durante il IV e il V secolo. Ma l'impoverimento dell'impero si riflette nella decadenza della vita civile: si hanno al più ricordi di restauri, non di nuove costruzioni.
Della generale crisi del Basso Impero gravi ripercussioni avvertì la Sardegna. A datare dal secolo V, nessun'altra regione italiana presentò forse un numero pari di centri cittadini rapidamente decaduti. Dal generale silenzio emergono Caralis, Tharros degradata a castrum, nell'interno dell'isola Uselis, il casirum di Forum Traiani (odierno Fordongianus), a nord Torres, a occidente, in luogo di Olbia, il modesto borgo di Pausania. I Vandali, affermata sotto Genserico la loro signoria sull'isola - forse, dopo vani tentativi, nel 455 - spezzarono lo stampo dell'organizzazione romana dell'isola, e fecero di essa e della Corsica i presidî settentrionali del loro regno. Riguadagnata, dopo circa 80 anni, all'impero romano in seguito alla vittoria del duca Cirillo nelle acque sarde, ed alla scomparsa del regno vandalo dall'Africa, costituì sotto Giustiniano (534) una delle sette provincie della prefettura africana del Pretorio; avente a capo un praeses per gli uffici civili e giudiziarî (detto perciò anche iudex) e un dux comandante delle milizie. Ma il governo bizantino non significò inizio di rinascita, anche perché, per i bisogni crescenti dell'impero, il fisco gravò pesantemente la mano sulle già stremate popolazioni. E poi, diminuita dopo Giustiniano l'autorità imperiale, assorbito l'impero da più gravi ed urgenti problemi, l'ordinamento dato da Bisanzio decadde; i funzionarî bizantini si abbandonarono a vessazioni e soprusi; crebbero il disordine e la miseria in Sardegna. Ne profittò il goto Totila per ridurre la Sardegna (e la Corsica) in poter suo (582). Breve parentesi: ché dopo poco, declinata la fortuna del regno goto, la Sardegna tornò con l'Italia a Bisanzio. Il comando delle milizie abbandonò allora Forum Traiani e preferì Cagliari, sul mare. La resistenza dei Barbaricini dell'interno durò ancora sino alla fine del sec. VI.
Nell'abbandono in cui l'impero d'Oriente lasciò la Sardegna, si rafforzò gradatamente l'autorità del pontefice. La chiesa di Roma, infatti, che fino dal sec. VI appariva tra i più grandi proprietarî fondiarî, compì con Gregorio Magno il primo tentativo apprezzabile di riordinamento religioso e civile dell'isola. Fu inoltre merito del pontefice romano, ma anche della virtù guerriera dei Sardi, se l'isola andò immune dalla signoria dei Longobardi, tornati più volte a tentare le coste dell'isola. Tutto ciò non valse però a contenere la marea araba. Per tre secoli infatti - a datare sicuramente dall'incursione sulle coste sarde del 711, compiuta da Mūsà, - la Sardegna vide depredate le sue coste dai Mori dell'Africa, delle Baleari, della Sicilia. Le frequenti invasioni e le stragi (ad es., del 721-22, 735-36, 752-53, 807, 816-17, 821-22, 846, 934-35, 1015-1016, ecc.) furono arginate o respinte non da truppe bizantine, ma soprattutto dal valore dei Sardi, aiutati talvolta dal re franco del quale furono per qualche tempo alleati, e, nel. 1016 (contro Museto), da navi e truppe di Pisa e di Genova.
Durante quegli avvenimenti si vennero allentando sempre più, fino a spezzarsi del tutto, i legami con Bisanzio.
Il comune pericolo finì con stringere i rapporti fra l'isola, capitanata dallo iudex, e il pontefice, organizzatore della resistenza di Roma e delle città italiane contro il pericolo saraceno. Ma anche il pontefice era lontano, se pur non assente. La necessità della difesa contro i Saraceni pirateggianti le coste portò al deciso affermarsi dell'autorità non solo del capo militare e civile dell'isola, residente a Cagliari, indicato nelle fonti col nome di arconte, consul et dux, poi iudex, ma anche di quegli alti funzionarî preposti alla difesa delle più importanti circoscrizioni dell'isola, cioè dei territorî facenti capo a Tharros (Arborea), a Turris (Torres, Logudoro), a Civita (odierna Tempio Pausania); finché anche questi ultimi assunsero o usurparono il nome e il potere dello iudex sui territorî loro affidati. Così per una spontanea trasformazione interna coordinata alle necessità militari e alla singolare storia sarda, sorsero nelle quattro regioni geografiche della Sardegna i quattro giudicati (di Cagliari, Arborea, Logudoro, Gallura), in cui appare divisa la Sardegna dopo il 1000. Ciò è molto probabile; ma è pura ipotesi di A. Solmi che i giudici delle quattro principali circoscrizioni dell'isola appartenessero a una sola famiglia, a quella di Lacon-Unali o Gunali.
Il movimento decentratore non andò oltre la quadripartizione dei giudicati. Ogni giudicato era diviso amministrativamente in distretti (curatorie). Il giudicato di Torres ne comprendeva 20, 13 l'Arborea, 14 il Cagliaritano, 10 la Gallura. Sono cifre approssimative: ché il numero variò secondo le circostanze, come pure variarono, talvolta profondamente, nelle aspre lotte fra i giudici, i confini dei giudicati e delle curatorie, delle divisioni territoriali urbane e delle circoscrizioni non urbane. Nell'ambito del giudicato si affermò l'autorità del giudice, accanto ad essa le "corone" (assemblee) esercitavano molte attribuzioni giuridiche e amministrative e talune anche politiche.
La serie sicuramente documentata dei giudici si apre con Torchitorio di Lacon-Unali, cui s'intitola una carta latina del 1066 ma non è il più antico, come argomenta giustamente A. Solmi che identifica quattro giudici di quel nome su cinque generazioni. Il figlio dell'ultimo di essi, Costantino - Salusio IV, morto senza eredi maschi (1162 circa) ma con tre figlie, s'era imparentato con Pietro di Torres, con Oberto marchese di Massa e signore di Corsica, e con Tedice, conte di Donoratico, rappresentanti questi ultimi di due potenti famiglie pisane.
Dai tempi di Gregorio Magno in poi l'influenza ognora più decisa della Chiesa sulla vita civile sarda è ampiamente documentata. A stringere i rapporti con l'Italia giovò pure, se anche indirettamente, l'invio frequente nell'isola di monaci di Montecassino (a datare, sembra, dal 1063), di Camaldoli, di Vallombrosa, che fondarono chiese e conventi, divennero proprietarî di terre, tagliarono boschi e dissodarono, contribuendo così al risorgimento economico dell'isola, e non rimasero del tutto estranei alla vita politica.
A fianco dell'influenza di Roma e del monachesimo italiano, ancor prima dell'inizio del sec. XI si profilò l'influenza di Pisa. Col tempo i rapporti, inizialmente soltanto commerciali, divennero più attivi e duraturi e sboccarono nella già ricordata azione militare del 1016 di Pisani (e di Genovesi) contro la flotta saracena. Protezione gelosa ed esclusiva: ad affermare la quale giovò l'abile politica pisana di fiancheggiamento della S. Sede. Quella politica fu rimeritata dal papa con la nomina dell'arcivescovo pisano a legato pontificio per la Sardegna con diritto di controllo su tutti i vescovi dell'isola: supremazia religiosa che velava di sottilissimo velo la potestà politica, e che fra secolo XI e XII trovò espressione in un complesso di concessioni, d'immunità, di privilegi, goduti da consoli e ufficiali pisani, in giuramenti di fedeltà, in donazioni di territorî, in promessa di pagamento di canone annuo da parte dei Sardi. Legami e influenza crebbero nel corso del sec. XII. Forze della Sardegna (e della Corsica) cooperarono alla grande impresa delle Baleari guidata dall'arcivescovo pisano (1113-1115), l'esito vittorioso della quale finì per consolidare sempre più l'influenza pisana sui giudicati.
A contendere a Pisa quell'esclusivo campo d'influenza sopraggiunse Genova. Mercanti genovesi, a gara coi Pisani, compravano sale, poi grano, formaggi, pellami, legni, cuoi, lane, e vi vendevano spezie e prodotti manifatturati del continente. Dalla gara commerciale, a quella politica; ché, riusciti a metter piede in Sardegna, ben presto i Genovesi ottennero larghi doni e un annuo censo per la loro chiesa. Ciò non poteva non adombrare Pisa e dare origine a contrasti. Sopita momentaneamente la lotta per far fronte simultaneamente al piano di rivendicazioni vagheggiato da Federico I sull'isola, essa riprese subito come eco del più largo duello fra le due città combattuto in Oriente e nei porti del Mediterraneo.
Nella lotta per la successione al giudicato di Cagliari fra Pietro di Torres e Barisone d'Arborea dopo la morte di Costantino Salusio IV, quello fu sostenuto dai Pisani e per loro mezzo, scacciato Barisone d'Arborea, prozio di Costantino Salusio IV, guadagnò il trono; l'altro fu aiutato vigorosamente dai Genovesi, che aspiravano per suo mezzo a prevalere nell'isola. Nella lotta prevalse Genova che aveva tirato dalla sua Pietro. Ma i Pisani mossero alla riscossa; inviarono nel 1187 una flotta potente, scacciarono da Cagliari i mercanti genovesi, occuparono il giudicato cagliaritano; e messo in fuga Pietro, sostennero i diritti di Guglielmo, figlio di Oberto, marchese di Massa, che riuscì a farsi riconoscere l'ufficio ed il titolo di "lociservatore" e di giudice e re di Cagliari (gennaio 1190).
S'iniziava così il dominio indiretto di Pisa in Sardegna. Nel 1205 il cittadino pisano Lamberto Visconti, sposando Elena di Gallura, diveniva giudice di quella regione e la legava alla madre patria. Pisa si affermava anche nel Logudoro, dove avevano a lungo mirato i Genovesi. Da Pisa, Sassari riconosceva la propria dipendenza; da essa grandi famiglie pisane erano poste a capo di terre e di feudi in Sardegna. Tutto ciò avveniva non senza grossi contrasti col pontefice e con Genova. Il matrimonio del Visconti che attraversava il disegno d'Innocenzo III favorevole al proprio nipote Trasamondo, diede origine a una guerra fra Genovesi, avvicinatisi al papa, e Pisani, per terra e per mare, nel Cagliaritano e forse in Gallura. Chiusasi con un armistizio (1209), la contesa si riaprì novellamente allorché si discusse del possesso esclusivo della Gallura e dell'Arborea, e poi dell'ancor più grossa questione relativa al giudicato di Cagliari. Guglielmo, riconosciutone signore, con l'aiuto di Pisa s'impadroniva rapidamente del giudicato di Arborea. Il matrimonio di due sue figlie con Ugo di Basso, giudice di Arborea, e con Mariano, giudice di Torres, lo rese autorevole e temuto. Ma con la maggiore sua figliuola, Benedetta, proclamata sovrana, in mancanza di eredi maschi, del giudicato di Cagliari, sposata ad un figliuolo di Pietro d'Arborea, nuovi contrasti tra Pisa, sospettosa del giudice cagliaritano, con Genova, spadroneggiante per ragione di crediti in Arborea e affermantesi nel Logudoro. Il Visconti, sbarcato a Cagliari, impose il ferreo volere di Pisa. Per reazione, il giudice si appellò al papa, s'alleò con Genova cui concesse nuove facilitazioni commerciali (1° dicembre 1217). Ma rimasta vedova Benedetta (1218), nuova invasione del giudicato cagliaritano e di castelli spettanti alla S. Sede da parte del Visconti, e nuove rimostranze e minacce del papa: infine Pisa divenne padrona assoluta.
Nel Logudoro e in metà almeno dell'Arborea prevalevano invece i Genovesi, alleati col giudice Mariano e poi col figlio Barisone (24 gennaio 1233): alleanza accetta ai Doria, fastidiosa ai Visconti. A Sassari, il popolo, stanco della durezza e del fiscalismo di Barisone, rompeva in violento moto insurrezionale (1234). L'insurrezione era stata aiutata dai Doria e da altri Genovesi. Contro di essi Pisa preparò la guerra. La ferrea volontà di Onorio III riuscì per allora a imporre pace e ad ottenere che Adelasia, Pietro di Basso, Agnese giudichessa di Cagliari donassero alla S. sede i loro giudicati, riottenendoli in nome di S. Pietro, cui sarebbero ricaduti in mancanza di eredi legittimi. Rimaneva insoluta la successione della Gallura che Ubaldo Visconti morendo assegnava non ad Adelasia, cui toccava per la morte di Barisone, ma al proprio cugino Giovanni Visconti. A fronteggiarlo, Adelasia si strinse ai Doria. Il pontefice, temendo che nuove complicazioni politiche nascessero da improvvise nozze di Adelasia, intendeva imporle uno sposo di sua fiducia. Prevalse, com'è noto, Federico II, che nell'intento di ribadire i diritti dell'impero sull'isola, riuscì a far accettare la mano del figlio Enzo. Questi però abbandonò subito la sposa per altre imprese nel continente italiano e provvide al governo delle terre sarde nominandovi dei vicarî. Le difficoltà politiche seguite alla sua lontananza, i progressi di Pisa nel Cagliaritano ed altrove indussero Adelasia ad avvicinarsi a Innocenzo IV per ottenere l'assoluzione dalla scomunica e il divorzio da Enzo (1249). Era un colpo al ghibellinismo; a parare il quale, Federico II inviò in Sardegna 6 galee agli ordini di Ansaldo de Mari e perseguitò vescovi e sostenitori del pontefice. Delle vicende guerresche si giovarono soprattutto alcune famiglie genovesi che, avendo prestato al papa e ad Adelasia su garanzia di ville e corti, non rimborsate puntualmente, s'impossessarono di vastissime proprietà immobiliari, fondamento della loro potenza politica. Morta Adelasia, i dominî del Logudoro e di Gallura furono disputati dalla S. Sede, da Pisa, da Genova. Sconfitta per mare dalle flotte genovese e sarda, Pisa strappò la vittoria nella battaglia campale presso S. Igia (1256); poi, profittando che Genova era impegnata in guerra contro Venezia, concentrò le sue forze per la rivincita in Sardegna. La resa a discrezione di Cagliari dopo vigoroso assedio e la capitolazione di S. Igia, ultimo baluardo genovese (20 luglio 1258), portarono non solo alla riconquista del giudicato cagliaritano (tripartito poi alle famiglie pisane dei Capraia, Gherardesca, Visconti), ma anche al capovolgimento della forluna genovese nel Logudoro, dove Spinola e Doria furono privati di loro beni, ed entro la stessa Sassari, dove prevalse il partito pisano di Ugolino della Gherardesca, mentre l'arcivescovo pisano Federico Visconti, zio del giudice di Gallura, affermava i suoi diritti su tutta l'isola. Completa vittoria di Pisa, dunque.
Ma la guerra fra Genovesi e Pisani riarse ben presto nuovamente. Sceso Corradino di Svevia in Italia per rivendicare i suoi diritti, Pisa gli si avvicinò. Il papa lanciò allora l'interdetto sulla città e la privò dell'arcivescovado e di tutti i diritti sull'isola. I Doria e il comune di Genova si affrettarono a farsi avanti per guadagnare il vicariato, e soffiarono nella proposta, d'iniziativa di Sassari e dei "boni homines" del Logudorese, di eleggere a re di tutta la Sardegna Filippo figlio di Carlo d'Angiò, salvo i diritti della Chiesa e l'assenso del papa (1269). La vittoria toccò ancora una volta a Pisa, alleata di Venezia, che dopo aspra lotta espugnò Sassari, e si affermò per mezzo dei Gherardesca e Mariano nel Logudoro e in Arborea. Ma i Genovesi tornarono all'offensiva: in breve Doria e Spinola rientrarono in possesso delle loro terre, stipularono nel 1278 trattati con Sassari, si rafforzarono nel Logudoro. Colpo ancora più grave per Pisa fu il riconoscimento da parte dell'imperatore Rodolfo (1275, 1278, 1279) di tutti i diritti che la Chiesa vantava sulla Sardegna. Pisa reagì. E ne derivò un aspro conflitto combattuto per mare con grosse squadre di galee, per terra con l'assedio della ben munita Alghero caduta nelle mani pisane, a vendicar la quale Corrado Doria, inviato con 54 galee, sconfiggeva l'avversa armata di Andreotto Saraceno (luglio 1283). Un tentativo di subornare Sassari sottraendola alla tutela pisana, fallì miseramente. Pisa, rinnovata l'alleanza con Venezia il 31 dicembre 1283, ritenne giunto il momento per uno sforzo supremo in Sardegna. Sforzo non fortunato: ché presso Tavolara la flotta pisana fu sconfitta. La battaglia navale di poco posteriore, alla Meloria, non chiuse il conflitto; ché Cagliari, ben protetta da una corona di castelli, difesa da navi veneziane alleate di Pisa, resisteva alla guerriglia condotta da Branca Doria ed Enrico Spinola. Ma la pace s'imponeva anche per motivi generali. Facilitata da un accordo dei Doria col comune di Genova che in gran parte si sostituiva loro nei diritti e nelle proprietà in Sardegna, fu firmata il 15 aprile 1288. Dura pace; ché Pisa doveva entro l'anno cedere Cagliari e castelli, il borgo di S. Igia, le saline, il golfo di Cagliari da Carbonara a Capoterra, Sassari con la Romandia, parecchi castelli del giudicato di Arborea, e veniva esclusa dal Logudoro. I Pisani non vi si rassegnarono; e ruppero in nuova guerra allorché Guelfo, signore di Cagliari, giurò col fratello la Compagna genovese promettendo di cederle Cagliari ed altre terre tenute da Pisani, accordandole esenzione da imposte e da tributi. Pisa, alleata col giudice di Arborea, fu vittoriosa a Iglesias, e guadagnò alcuni castelli dell'Iglesiente e del Cagliaritano. Ma Genova ottenne in piena dedizione Sassari (14 marzo 1294); Nino di Gallura unito coi Sassaresi, col marchese Malaspina e Branca Doria, invadeva l'Arborea.
Per l'influenza secolare di Pisa e di Genova, la Sardegna, dopo l'interruzione dovuta al dominio bizantino e alle incursioni saracene, venne riguadagnata nuovamente alla civiltà medievale italiana, ricevendo impronte mai più cancellate nell'arte, nella lingua, nel costume, nel diritto. Si rinnovò la sua economia per i traffici di Pisani e Genovesi, e altresì di navi napoletane, amalfitane, gaetane, reggiane, siciliane, provenzali, catalane e di altri paesi trafficanti nel Mediterraneo. Porti antichi ripresero vita; nuovi se ne aprirono. Le popolazioni dell'interno dell'isola tornarono sulle coste donde erano fuggite. A Cagliari sorse il quartiere verso lo stagno di Santa Gilla; Sassari, modesta e scarsa villa del sec. XII, divenne alla fine di quel secolo forte e fiorente città; sorse Villa di Chiesa nel centro minerario frequentato da Genovesi; sorsero Alghero e Castelgenovese. Anche la struttura sociale, la legislazione, la costituzione politica risentirono profondamente del mutato ambiente. Restarono le curatorie e le ville dell'antica costituzione politica dei giudicati, ma furono traversate da signorie diverse, da proprietà privilegiate, da numerosi castelli. L'antico diritto sardo fu integrato da nuovi istituti sorti a garantire e favorire i nuovi dominatori, a proteggere le classi medie urbane dei liberi mercanti e dei proprietarî di terre, anelanti a libero reggimento (si ricordino il Breve regni Callaris, ispirato alle esigenze giuridiche locali, ma con elementi attinti alla legislazione pisana; la Carta de logu de Arborea; il Breve Castelli Castri; il Breve di Villa di Chiesa, Iglesias; gli statuti del comune di Sassari ridotti in forma volgare nel 1316, ecc. Anche la struttura e l'organizzazione del governo subirono mutamenti profondi per il determinarsi di forze nuove e di nuovi interessi, per il sorgere dei comuni, fra i quali Sassari rappresentò l'esempio più vivace e significativo.
Mentre Genova e Pisa si combattevano aspramente per il dominio dell'isola, Bonifacio VIII, mirando ad affermare la sua autorità sovrana, infeudava la Sardegna e la Corsica a Giacomo II d'Aragona. L'investitura rimase per qualche tempo senza pratico risultato. Morto papa Bonifacio, nuovo giuramento di fedeltà di Giacomo a Clemente V, e nuova investitura (29 ottobre 1305). Alla spedizione Giacomo si venne preparando con arti politiche e col danaro, attirando a sé i Doria e procurandosi l'appoggio della Lega guelfa, con Firenze e Lucca alla testa. Di fronte ai nemici coalizzati, Pisa perdette terreno, specialmente dopo che Branca Doria tentò di farsi nominare re di Sardegna da Enrico VII imperatore (1311), e i Doria ripresero nel Logudoro a osteggiare i Pisani, i Catalani, alleati coi Fiorentini (1316) e i Malaspina, e il re d'Aragona cominciò i preparativi militari contro la Sardegna, e il giudice d'Arborea passò dalla parte nemica (1314). Pisa provvide ad affrettare i lavori di fortificazione, ma non seppe prevenire le manovre politiche avversarie, vincere le consorterie feudali interne, reprimere le guerre civili. La ribellione sanguinosa del giudice Ugone d'Arborea la privò della linea difensiva di quei castelli, Sassari si ribellò a Pisani e Genovesi, proclamando la signoria d'Aragona; Bonifacio elesse a suo podestà uno dei più fieri nemici di Pisa, Branca Doria. Prima che la flotta aragonese, toccasse le coste sarde (11 giugno 1323), Pisa era già stretta alla gola dai suoi nemici. La resa di Cagliari, dopo lungo assedio per terra e per mare, chiuse la prima fase della guerra. I patti della resa furono firmati il 19 luglio 1324: Pisa poteva conservare a titolo di feudo Cagliari con adiacenze, le saline e il diritto del libero commercio obbligandosi al censo annuo di lire genovesi 3000. Ma, riprese le armi, la nuova pace (marzo 1326) le impose la rinunzia a tutti i suoi possedimenti in Sardegna.
Gli Aragonesi intesero far pagare all'isola lo sforzo della guerra di conquista, e smungerle i mezzi per svolgere la intrapresa politica di espansione quasi superiore alle loro forze. Maggiore sicurezza derivò all'isola dal dominio aragonese; ma anche i danni dello sfruttamento e dell'arbitrio. Le città furono violentemente private della loro autonomia; Sassari, insorta nel 1324, 1325, 1329, fu domata con repressioni sanguinose. Di qui, povertà e abbandono dell'isola.
Contro lo sfruttatore dominio straniero, l'isola si aderse fieramente in un moto generale di protesta. Sollevazioni popolari si alternavano alle guerre con Doria, Malaspina, Gherardeschi, Genovesi, Pisani. Fra tanti contrasti, i nuovi dominatori non trovarono altra salvezza che accentuare la politica d'infeudamento con elementi catalani e aragonesi. Quel metodo favorì la loro penetrazione politica nell'isola, ma provocò per reazione rivolte sanguinose e guerre. Nel 1347 i Doria, padroni di Alghero e di Castelgenovese, sostenuti da Genova e dai Malaspina, si levarono in armi contro gli Aragonesi e l'alleato Mariano giudice d'Arborea, assediarono Sassari, vinsero ad Aidu Turdu Aragonesi e Arboresi che andavano a sbloccare la città, uccidendo lo stesso luogotenente regio e non pochi cavalieri. Ripresa però la guerra, furono sconfitti e cacciati dall'isola (1348). Rialzatisi per rinforzi venuti da Genova, lottarono con alterna vicenda, finché l'Aragonese, divisili, ottenne Alghero le cui terre riconcesse in feudo, sulla base del riconoscimento dell'autorità regia. Genova resisté. Rioccupò Alghero, mentre Mariano d'Arborea, fino allora devoto e principale sostegno del re aragonese, si ribellava. La nuova guerra ebbe una fase drammatica nel memorando assedio di Alghero (23 giugno 1354), ma finì col trionfo di Mariano, che acquistò terre regie e castelli in Gallura e nel Montacuto e ottenne riconoscimento della sovranità in Arborea, e di Matteo Doria, riconfermato nel feudo di Monteleone e Castelgenovese. Ma nonostante nuovi patti di alleanza stipulati nel fervore della lotta (15 febbraio 1353), il comune di Genova non riuscì a riottenere Alghero che rimase appoggio formidabile e propugnacolo della dominazione aragonese nell'isola.
Pietro IV, riordinando amministrativamente l'isola, sperò averla pacificata. Ma appena se ne fu allontanato, riarse nuova insurrezione generale. Inviò un grosso esercito agli ordini del generale Pietro de Luna (1368), che si congiunse alle truppe operanti in Sardegna, comandate da Berengario Carroz. La lotta, durata circa un cinquantennio, è tra le più memorabili della storia sarda, ed è l'ultima combattuta a difesa dell'indipendenza isolana. Nelle vicende di essa, Mariano d'Arborea e Brancaleone Doria, marito di Eleonora d'Arborea, si trovarono a fianco, contro la monarchia feudale e marinara, ricca di mezzi. Il massimo sforzo delle truppe aragonesi fu volto contro Mariano assediato in Oristano; ma furono disfatte: il generale de Luna e il fratello tra i primi trovarono la morte (1368). I presidî aragonesi si asserragliarono in Alghero e Cagliari, mentre Mariano occupava il Logudoro e Sassari (1369). Ma Brancaleone, passato per gelosia di Mariano al re aragonese, gli toglieva Sassari e gli resisteva nel Logudoro. Un simultaneo tentativo di blocco ad Alghero e Cagliari, sostenuto da quaranta galee genovesi, fallì (1374). Il pontefice Urbano VI pensò perfino (1364) di ritirare l'investitura a Pietro d'Aragona e intendersi con Mariano. Ma l'Aragonese firmò la pace con Genova, riassicurò il papa. Venuto a morte in Oristano Mariano IV di Arborea (1376), il figlio Ugone (III) rinnovò (1377) un trattato d'alleanza antiaragonese con Luigi I d'Angiò reggente di Francia e ostilissimo agli Aragonesi. Morto poco di poi Ugone, venne a contrastargli il passo la sorella di lui, Eleonora d'Arborea, che aveva avviato intese e chiesto asilo a Genova (1382). Ucciso appena Ugone, alla testa delle truppe l'intrepida giudichessa volò ad Oristano, troncò il tentativo di costituirvi un comune indipendente sotto l'alta protezione di Genova con la quale già cominciavano i dissapori, occupò le terre già del fratello Ugone, punì i congiurati. Mentre Eleonora svolgeva questa politica di forza in Sardegna, il marito Brancaleone, recatosi in Catalogna, lavorava per ottenere il riconoscimento giuridico dal sovrano. Ma Pietro lo tenne in ostaggio, lo mandò poi quasi prigioniero con una spedizione contro la Sardegna. Per riavere il marito, Eleonora dové piegare alla dura pace del gennaio 1388. Ma presto riarse nuovamente la guerra: Eleonora sollevò il Logudoro, Branca occupò Sassari e la bassa Gallura, compì colpi di mano contro la Gallura superiore, accerchiò Alghero, Longonsardo e Cagliari. Il 1° marzo 1392 Eleonora e Branca furono dichiarati ribelli e spergiuri. Durante i preparativi di guerra, Eleonora promulgò la "Carta de logu", carta fondamentale, regolatrice del diritto pubblico e privato, penale e civile.
La morte di Eleonora durante la pestilenza del 1404 fu foriera di tramonto. Lotte per la successione di Eleonora, guerre contro Martino d'Aragona - l'orgoglioso conquistatore di Sicilia -, i reiterati assedî di Oristano contesa a volta a volta da Arborea e da Aragonesi, la memoranda battaglia campale di Sanluri, la resa di Oristano del 1410, le alterne vicende delle ripercussioni in Sardegna delle lotte dinastiche della penisola iberica, riempirono la storia sarda dei primi due decennî del sec. XV. I Sardi dovettero piegare. Re Alfonso recatosi in Sardegna nel 1420, espugnate Terranova e Longonsardo, ottenuta in dedizione Sassari, riscattate le terre infeudate al visconte di Narbona, riunì per la prima volta tutta la Sardegna sotto la sua signoria, a oltre un secolo e un quarto dall'investitura. Ma il marchesato di Oristano rimase in armi, ancora a lungo; i Cubello e poi gli Alagon condussero energicamente la resistenza e la guerra. Fra 1470 e '77, dopo la vittoria arborese contro i regi a Uras e i patti di pace del '74, l'assalto a Cagliari e la cattura nel porto di navi aragonesi, sembrò che la fortuna d'Arborea si sollevasse. Ma lo scontro decisivo a Macomer fra Aragonesi e le truppe d'Arborea fu sfavorevole a queste ultime e Oristano fu occupata.
Le vicende alterne della guerra contro Pisa, contro i comuni sardi e gli Arborea portarono gli Aragonesi a una politica di adattamento e di concessioni, della quale si valsero feudatarî e nobili, quasi tutti di origine spagnola, per conseguire nel governo dell'isola una reale indipendenza. Vantandosi discendente dei cavalieri che avevano accompagnato Alfonso d'Aragona alla conquista di Sardegna, mettendo innanzi immunità e titoli feudali, fissata la propria residenza a Cagliari o a Sassari, l'aristocrazia di origine catalano-aragonese, aspirò a monopolizzare le cariche pubbliche dalle quali voleva esclusi i Sardi. Per la debolezza del potere centrale, quelle richieste furono quasi sempre accolte. Si formò così uno stato di privilegio, che condizionò a lungo lo svolgimento della vita isolana.
Più che al governo centrale spagnolo, perseguente una politica estera di grande stile e sogni di egemonia mondiale, più che al fiscalismo volto a trovare, smungendo le popolazioni, i mezzi per realizzare quella politica, la responsabilità della decadenza della nobile isola che aveva avuto secoli di splendore, tocca alle classi elevate di origine spagnola. La monarchia spagnola non fu del tutto dimentica della Sardegna, né oscurantista. Spesso anzi manifestò il proposito di elevare economicamente l'isola, di migliorarne l'amministrazione e la struttura civile e sociale. Basterebbe ricordare l'ordinamento giudiziario di Filippo II improntato a giustizia ed umanità, il divieto di conferire alte prelature a stranieri perché non uscissero le rendite dall'isola, l'istituzione del tribunale della R. Udienza (1564, riformato nel 1573), la difesa costiera dell'isola con robuste torri e apposita organizzazione militare, l'istituzione in ogni centro abitato del "padre dei poveri", i provvedimenti varî per proteggere l'agricoltura e l'economia isolana, l'aver chiamato a reggente nel seno del "Sacro supremo real Consiglio d'Aragona" un sardo, Francesco De Vico (che raccolse prammatiche e rescritti regi per dare al diritto sardo indirizzo unico). La monarchia prese pure qualche iniziativa nel campo culturale, quale, ad esempio, la fondazione delle università a Cagliari e a Sassari. Ma essa non ebbe il coraggio di romperla con l'aristocrazia privilegiata rafforzatasi durante le crisi del regno. Parve anzi buona politica lasciarle la cura dell'amministrazione e limitare gli atti di sovranità all'esazione dei tributi e dei donativi. Non mancarono, è vero, energici viceré che mirarono a rintuzzare l'albagia dei feudatarî e indussero il governo centrale a meditare sull'opportunità di mutare indirizzo. Ma quei tentativi altro risultato non ebbero che malumori da parte degli offesi e reazioni talvolta sanguinose. Mancò una classe che prendesse a cuore le condizioni disgraziate dell'isola; l'aristocrazia e l'alto clero, indifferenti o egoisti; gli altri ceti cittadini, senza un'apprezzabile influenza sociale; le classi rurali, abbrutite dalla malaria, dalla miseria, dall'ignoranza, viventi all'ombra o servi del signore feudale.
Gli avvenimenti politici esteriori del periodo spagnolo ebbero qualche ripercussione in Sardegna. L'avvenimento più notevole fu lo sbarco, durante la guerra franco-spagnola, di quattromila Francesi capitanati da Andrea Doria sulla spiaggia di Longonsardo (1527) e di Castelgenovese, sbarco che portò alla presa di Sassari; ma i Francesi furono presto ricacciati (1528) da truppe spagnole.
All'interno, la lotta tra alta nobiltà, altera e gelosa di sue prerogative e la monarchia e i suoi rappresentanti nell'isola (il viceré, il reggente la cancelleria e l'avvocato fiscale), fra nobiltà e clero, fra alti prelati e basso clero, fra nobiltà ed esercenti le professioni liberali riempì la storia dell'isola fino al primo quarto del sec. XVIII.
Nei secoli dal XV al XVIII l'isola generosa, che aveva profondamente sentito l'influsso dell'arte, della cultura e del diritto italiano, venne conquistata, sia pur lentamente e attraverso resistenze ostinate, alla Spagna dominatrice. Ferdinando il Cattolico, unificando la legislazione, si sforzò di cancellarvi quanto ricordava Pisa e Genova, e la lotta per il possesso dell'isola durata pressocché un secolo e mezzo; già avanti la metà del sec. XVI, Sassari, Iglesias, Oristano, Castelgenovese (chiamato da allora in poi, Castellaragonese) ebbero mutato l'ordinamento civico sul modello di Cagliari ricalcato su Barcellona; i parlamenti, convocati raramente, si limitarono a chiedere grazie in cambio di denaro; la popolazione era tanto diminuita da rendere necessaria una riduzione nel numero delle diocesi. Infrante le resistenze tenaci della Sardegna, spento il fiore della civiltà italica, la lingua, la cultura, le costumanze, il diritto, il modo di vivere erano divenuti spagnoli. C'era da temere veramente che l'isola maggiore del Tirreno fosse perduta per l'Italia.
Devota o almeno supinamente rassegnata alla signoria spagnola fu la popolazione di Sardegna, quando, apertasi la guerra per la successione spagnola, flotte inglesi (1701 e 1703) costeggiarono l'isola quasi per eccitarla a prendere partito. La nobiltà si scisse tra sostenitori di Carlo III e di Filippo V. Avendo il viceré ricevuto ordini. di difendere l'isola con mezzi proprî o di cederla al nemico se la difesa era impossibile, il partito austriaco, aiutato dall'imperatore e dall'Inghilterra, prese il sopravvento e finì per trionfare, allorché la flotta inglese dell'ammiraglio Leake bombardò Cagliari. Fu allora firmata la resa. La Sardegna passò sotto il nuovo signore. Pressoché unico segno di quel dominio fu il trasferimento del supremo consiglio da Madrid a Vienna. Nelle alterne vicende della guerra di successione, Filippo V accarezzò l'idea della riconquista dell'isola. Ma una spedizione fu impedita dalla flotta inglese. Il trattato di Utrecht (1713) assegnava l'isola all'imperatore. È noto che nel vasto tentativo di riscossa spagnola, di cui fu artefice il cardinale G. Alberoni, la Sardegna doveva rappresentare la prima tappa. L'isola venne presto riconquistata con la presa di Cagliari, con le capitolazioni di Alghero, Castellaragonese, e con le insurrezioni di Sassari, della Gallura e del Logudoro per la violenta propaganda ispanofila dei marchesi di Montenegro e di Montallegro. Ma quel tentativo spagnolo fu subito stroncato dalla Quadruplice Alleanza, che col trattato di Londra (2 agosto 1718) assegnò la Sardegna a re Vittorio Amedeo II di Savoia permutandola, com'è noto, con la Sicilia.
Cambio forse non troppo gradito per allora a Casa Savoia, essendo la Sicilia meglio suscettibile di promettenti progressi economici. Tuttavia, preso appena possesso della Sardegna (2 settembre 1720), il sovrano sabaudo si accinse ad indagarne i più gravi problemi. Si trattava anzitutto di rimediare all'abbandono e al disordine prodotti nell'ultimo ventennio. Vittorio Amedeo II mirò a ristabilire incontrastata l'autorità sovrana al di sopra dei feudatarî e di ogni classe di cittadini, a mettere ordine nel caos giudiziario, amministrativo e finanziario; volle abbassata la riottosa nobiltà, rompendo i disegni di quelli che, a tutela di prerogative e privilegi antichi, tenevano gli occhi volti alla Spagna o all'Austria; intese fare opera amministrativa e politica imparziale e rigida verso tutti, pur rispettando leggi e costumanze indigene; volle andare verso il popolo. Anche il problema dei rapporti tra il potere civile e l'ecclesiastico venne affrontato con abilità mista a energia. Sostanzialmente con la vittoria del sovrano sabaudo venne decisa la controversia storico-giuridica circa l'alta potestà pontificia sull'isola. Infatti con l'accordo del 25 ottobre 1726 Benedetto XIII derogava al diritto d'investitura in favore di Vittorio Amedeo II, e gli confermava il patronato sulle chiese e il diritto di presentazione per tutte le sedi episcopali e benefici concistoriali con tutti i privilegi relativi. La soluzione giovò pure a smussare angolosità da parte del clero sardo e a temperare l'ardore battagliero di ordini privilegiati nella difesa di prerogative antiche minacciate dal nuovo regime. Nei riguardi del clero e della vita religiosa sarda, il sovrano si limitò a eliminare quei privilegi che apparivano come un ingombro all'opera di riordinamento civile, politico ed economico intrapresa in Sardegna. L'attività riformatrice si allargò anche ad altri campi: scuole in lingua italiana per riallacciare la cultura isolana a quella del continente, lotta contro il banditismo, ripopolamento di terre e ville deserte con Liguri, Piemontesi, Còrsi. Maddalena e Caprera e le altre isole intermedie fra Sardegna e Corsica furono più tardi occupate con rapida azione militare dalla flotta sarda per volere di Carlo Emanuele III e colonizzate da pastori e coltivatori di Gallura e organizzate a difesa. Il viceré Rivarolo e successori tentarono di rialzare antiche industrie ed introdurne delle nuove. Col conte Bogino, ministro per la Sardegna dal 12 settembre 1759 al 1773, se non si ebbero novità nell'indirizzo del governo, fu più celere il ritmo delle riforme: completamento della riforma giudiziaria, incoraggiamenti all'agricoltura, mercé leggi agrarie e organizzazione del credito agrario; miglioramento di saline; promozione dello studio della lingua italiana, della cultura e dell'insegnamento; abolizione del cumulo delle prebende ecclesiastiche; provvedimenti per elevare le condizioni economiche e morali del clero delle parrocchie; limitazione dei fedecommessi, riforma dei consigli cittadini (1771), dei tribunali di commercio; provvedimenti per incrementare i matrimonî e la popolazione (passata da 260.000 nel 1750 a 321.597 nel 1773). Col suo successore, furono rallentate o osteggiate alcune audaci riforme precedenti.
Quando il turbine rivoluzionario francese oltrepassò le Alpi e minacciò rovesciarsi sull'isola, fu una nobile gara di ogni ordine di cittadini nell'offrire mezzi e braccia per la difesa. Sul finire del dicembre 1792 un tentativo di sbarco sulle spiagge del Sulcis da parte dell'ammiraglio francese Truguet fu respinto dalle truppe locali. Reparti francesi sbarcati l'8 gennaio 1793 nell'Isola di San Pietro, instauratori del regime repubblicano, e il Truguet, già impadronitosi di un lembo della penisola sulcitana, furono ben presto ricacciati. Una flotta francese incrociò vanamente, sul finire del gennaio 1793, nelle acque di Cagliari, e dové tornare al largo, cannoneggiata dal fortino Sant'Elia. Così pure due fregate e un vascello francese, che bombardarono Cagliari e tentarono sbarcarvi, furono respinti dalle artiglierie dei forti (24-28 gennaio 1793) e da militi locali organizzati da membri degli Stamenti, costituiti in comitato di difesa nazionale. Circa mille volontarî marsigliesi che, sbarcati il 14 febbraio sul litorale di Quarto, tentarono investire Cagliari, furono respinti dai fucilieri sardi, finché furono costretti a ritirarsi (26 febbraio 1793). Non migliore successo ebbe, per la resistenza dell'intrepido D. Millelire e di Giacomo Manca di Thiesi, l'azione agli ordini del generale Colonna Cesari contro le coste settentrionali di Sardegna, contro Caprera e Maddalena, a espugnare la quale veniva destinato Napoleone Bonaparte, allora tenente colonnello dei volontarî nazionali di Corsica (20-26 febbraio). Fu una bella pagina di eroismo scritta dalla Sardegna. Ma essa esaltò lo spirito dei Sardi, anelanti ora, sicuri e padroni di sé, a riacquistare i privilegi costituzionali. Dopo una tensione col viceré, gli Stamenti, adunatisi, decisero di presentare direttamente al re un memoriale che tendeva a rivendicare l'autonomia, ad ottenere la convocazione del parlamento ogni decennio, la conferma di antichi privilegi del regno, l'ammissione a tutti gli impieghi, salvo alla carica di viceré, cattedre vescovili destinate esclusivamente ad isolani, la creazione a Torino d'un ministero speciale per gli affari di Sardegna, d'un Consiglio di stato a Cagliari. Per tutta risposta, il ministro ordinò lo scioglimento delle assemblee stamentarie, espressione più di alcune famiglie o dell'egoismo di classe, che della nazione sarda. Donde vivace animosità tra Sardi e Piemontesi, fino alla cacciata di questi ultimi, con alla testa il viceré, da Cagliari (30 aprile 1793), poi da Sassari e da Alghero, e subito dopo dall'isola intera. Il moto politico si fuse con l'altro tendente a rivendicazioni economiche, che trovava alimento nel disagio delle popolazioni, nella prepotenza feudale e nella propaganda di maldigeste massime giacobine e comuniste, predicate soprattutto da Gian Maria Angioj. Contro la tendenza rappresentata da quest'ultimo e sostenuta da elementi torbidi, si schierò il Pitzolo, intendente generale di finanza, e il generale delle armi, marchese Paliaccio della Planargia. Ma l'uno e l'altro e non pochi loro amici furono assassinati (luglio 1795). Queste uccisioni e la propaganda dell'Angioj esaltarono ancor più il fermento di tristi passioni popolari, acuirono gli antichi odî, fecero rinascere le gare municipali tra nord e sud, tra Sassari rimasta estranea e diffidente degli Stamenti, e Cagliari. Vi fu pure qualche invocazione al viceré inglese in Corsica, sir Gilbert Elliot, che da un anno governava la Corsica a nome dell'Inghilterra (v. corsica: Storia), alleata di Vittorio Amedeo III, o per ottenere un intervento delle armi francesi. Grave soprattutto l'agitazione antifeudale. Nel luglio 1795, all'avvicinarsi del pagamento dei diritti feudali, Tiesi, Bessude, Banari, Siligo si sollevavano contro i loro signori feudali. Il moto si allargò immediatamente a Bonorva, Pozzomaggiore, Ittiri, importanti centri granarî. Di fronte all'agitazione popolare i feudatarî residenti a Cagliari decisero sospendere la riscossione dei tributi legittimamente contrastati. Quella decisione venne intesa dai rurali come una vittoria e incitamento al generale riscatto. Affluirono allora a Cagliari ricorsi dalla Marmilla, dal Campidano di Oristano, dalla Planargia, dalla Baronia, dai paesi del Meilogu. L'insurrezione agraria avvampò in tutto il Logudoro. Contro Sassari fu decisa sul finire del dicembre 1795 una spedizione punitiva. Assediati da bande armate i grandi feudatarî sassaresi, capi delle dimostrazioni secessionista abbandonarono il terreno. Quando però furono fatti prigionieri il governatore e l'arcivescovo di Sassari, gli Stamenti spaventati della piega delle cose inviarono Gian Maria Angioj in qualità di "alternos" a rimettere l'ordine (13 febbraio 1796). Il suo viaggio fu un trionfo. Circa cinquanta villaggi si collegarono fra loro con pubblico atto giurato per il riscatto da oneri feudali, in nome del re. All'Angioj sembrò imprudente frenare quel moto, che poggiava su indefettibili motivi di giustizia e riponeva ogni fiducia nel sovrano. Ma la popolarità grande da cui era circondato, la sua fede inconcussa nel trionfo delle aspirazioni antifeudali e autonomiste, foss'anche con l'aiuto francese, lo perdettero. Il viceré e i maggiorenti di Cagliari temettero la sua influenza e vollero eliminarlo. Sorprese alcune lettere in cui egli dichiarava che avrebbe chiamata mediatrice la repubblica francese e voluta la separazione del Logudoro, il viceré mise una taglia sul suo capo. L'Angioj tentò vanamente la resistenza e poi fuggì in Francia. La sua scomparsa dal teatro della Sardegna segnò l'inizio della reazione feudale e aristocratica a Sassari e a Cagliari. E per gli eventi straordinarî di quegli anni, per difficoltà economiche generali, e per il timore continuo d'invasioni, l'isola non tornò tranquilla neppure durante il soggiorno di Carlo Emanuele IV e dei principi sabaudi in Sardegna iniziatosi il 3 marzo 1799, né durante il viceregno di Carlo Felice, ad onta di qualche buon provvedimento suo e di Vittorio Emanuele I, tornato, com'è noto, nell'isola il 17 febbraio 1806. Basti ricordare l'instaurazione della repubblica in Aggius del 1802, la depressione commerciale dovuta all'egoismo inglese, le imposte straordinariamente cresciute ma sempre impari a pareggiare le spese, i moti di Cagliari del 1812, di Osilo del 1816, quelli politici e economici di Alghero del 1821.
Il 2 maggio 1814 il sovrano fece ritorno negli stati continentali, lasciando reggente in Sardegna la consorte Maria Teresa. Carlo Felice, viceré fino al 1816, riordinò l'amministrazione provinciale, riformò le leggi sull'annona, l'agricoltura, la sanità pubblica, istituì nuovi tribunali e dettò riforme per il funzionamento della magistratura. La riforma legislativa di Carlo Felice segnò l'inizio di tempi nuovi. Ma più vasto quadro di riforme fu attuato da Carlo Alberto che volle rendersi direttamente conto dei bisogni dell'isola, percorrendola tre volte. Fondamentale tra quelle riforme è l'abolizione dei feudi (1835): rivoluzione politica ed economica che toglieva alla classe feudale il potere politico, e che importando la ripartizione di terreni signoriali tra privati e comuni, pose le basi dell'economia agraria e della trasformazione economica isolana. L'opera di Carlo Alberto fu larga e feconda, e si volse a ritoccare l'assetto amministrativo e finanziario dell'isola, a riformare l'esercito, a creare istituti di beneficenza, a riformare gli studî, ad aprire strade, a risanare gli abitati di alcuni centri cittadini, a diffondere la lingua e la cultura continentale, a migliorare le comunicazioni con Genova e con Torino. Con Carlo Alberto si strinsero più tenaci i nodi non solo col Piemonte ma anche con l'Italia; si compì quel processo d'italianizzazione, che s'era chiaramente delineato nei propositi di Casa Savoia, all'indomani del 1720. Ideale complemento di tale processo e inizio di più intima e piena partecipazione ai fecondi progressi cui si avviavano il Piemonte e l'Italia, fu l'aver sacrificati quegli antichi privilegi riguardati fino allora come l'arca santa e il palladio di ogni fierezza e autonomia isolana. Il 25 dicembre 1847, dietro supplica degli Stamenti, Carlo Alberto abolì l'autonomia amministrativa dell'isola unendola definitivamente alle altre provincie continentali. Lo statuto dell'anno dopo sanzionò quella fusione; e l'isola inviò i proprî figli a rappresentarla al parlamento subalpino, e molti volontarî versarono il loro sangue sui campi delle guerre dell'indipendenza.
Gli ultimi ottant'anni della storia sarda sono caratterizzati da una dura volontà di lotta contro forze avverse della natura, contro il portato di secoli d'isolamento e di abbandono. I Sardi, tornati nel gran seno della madre Italia, come sui campi di battaglia così nei varî settori della politica civile, economica, culturale sono dominati da una volontà tenace e ostinata di miglioramento e di progresso. Aiutata, negli ultimi anni soprattutto, dal governo nazionale con tanto maggiore premura e copia di mezzi e di aiuti, quanto più profondate e antiche erano le piaghe, l'isola silenziosa e fiera corre sulla via maestra della rinascita.
La Sardegna d'oggi, infatti, ricorda solo pallidamente quella di appena pochi decennî addietro. La costruzione delle ferrovie specialmente nella zona mineraria, l'industrializzazione del sud-ovest e del nord-est dell'isola sotto la spinta del capitalismo straniero e italiano, il miglioramento della sua economia agraria e pastorale conseguito soprattutto negli ultimi anni, la bilancia economica divenuta sempre più attiva, le grandi trasformazioni fondiarie raggiunte mediante le bonifiche nel Campidano e nell'Oristanese (si ricordi, per tutti, Mussolinia, nella zona pianeggiante, un tempo malaricissima, di Terralba), la costruzione dei bacini artificiali del Tirso, del Coghinas e del Flumendosa per la produzione di energia elettrica, la lotta antimalarica, antitubercolare, antitracomatosa, l'istituzione di scuole popolari e medie, di asili d'infanzia, di opere assistenziali di varia portata e finalità, sono i campi in cui, negli ultimi anni soprattutto, s'è manifestato più promettente il fervore della rinascita.
Bibl.: Per l'antichità: E. Pais, La Sardegna prima d. dominio rom., in Mem. Accad. Lincei, VII (1882), p. 259 segg.; id., St. d. Sardegna e d. Corsica durante il dominio romano, voll. 2, Roma 1923; E. S. Bouchier, Sardinia in ancient times, Oxford 1917; C. Bellieni, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico, voll. 2, Cagliari 1928; id., Enfiteusi, schiavitù e colonato in Sardegna all'epoca di Costantino, Cagliari s. a.; R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Piacenza 1912. Per le iscrizioni latine, cfr. in genere Corpus Inscr. Latinarum, X; per le greche, Inscriptiones Graecae, XIV; per le fenicie, Corpus Inscr. Semiticarum, I. Per queste ultime inoltre, a parte le indicazioni già date nel testo, anche Chabot, Punica, Parigi 1918, pp. 1 e 115 (estr. dalò Journal Asiatique). Le più importanti indicazioni di scavi, registrate annualmente nelle Notizie degli scavi, già date nel testo. Per la Sardegna durante le guerre puniche, v. anche le indicazioni in G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i-ii, Torino 1916-17. Cfr. anche A. Taramelli, La penetrazione militare e politica romana in Sardegna, in Atti II Congresso naz. studi romani, I (1931), p. 362 segg.; id., Osservazioni sulle sedi romane in Sardegna, in Atti III Congresso naz. studi romani, I (1934), p. 369 segg.; E. Pais, Ricerche storiche e geografiche sull'Italia antica, Torino 1908; B. R. Motzo, Norake e i Fenici, in Studi sardi, I (1934), pp. 116 segg.; id., Cesare e la Sardegna, ibid., p. 64 segg.
Medioevo ed età moderna: cfr. anzitutto la Biografia sarda di R. Ciasca, Roma 1931-34; nel volume V alla voce Sardegna (storia medievale e moderna) c'è il rinvio alle più significative opere storiche d'insieme e a lavori particolari sull'isola.
Opere orientative e per varî aspetti pregevoli sono le seguenti: G. Manno, Storia di Sardegna, Torino 1825-27, voll. 4 (fino al 1773); id., Storia moderna della Sardegna, Firenze 1858 (fino al 1799), V. Angius, Geografia, storia e statistica della Sardegna, in Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati del re di Sardegna, di G. Casalis, XVIII quater, Torino 1856; P. Amat di San Filipo, Indagini e studi sulla storia economica della Sardegna, in Miscellanea di storia italiana, s. 3ª, VIII, Torino 1903; D. Scano, Storia dell'arte in Sardegna dal sec. XI al XIV, Cagliari 1907; E. Besta, La Sardegna medievale. Le vicende politiche dal 450 al 1326. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche e sociali, Palermo 1908-1909, voll. 2; F. Loddo Canepa, Ricerche e osservazioni sul feudalismo sardo della dominazione aragonese, in Archivio storico sardo, VI, XI, XIII, 1910, 1915, 1921; D. Filia, La Sardegna cristiana. Storia della Chiesa, Sassari 1909, 1913, 1929, voll. 3; A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, Cagliari 1917; R. Di Tucci, Manuale di storia della Sardegna, Cagliari (1919); A. Bernardino, La finanza sabauda in Sardegna, Torino 1921-24, voll. 2; F. Loddo Canepa, Il feudalismo e le condizioni generali della Sardegna. Dati sull'abolizione dei feudi sardi, in Archivio storico sardo, XIV, XV, 1922, 1924; A. Pino Branca, La vita economica della Sardegna Sabauda (1720-73), Messina 1926; A. Saba, Montecassino e la Sardegna medievale, Badia di Montecassino 1927; R. Ciasca, Momenti della colonizzazione in Sardegna nel sec. XVIIII, in Annali della Facoltà di lettere della R. Università di Cagliari, I-II, 1928-29; e III-IV, 1932-33; B. R. Motzo, Studi di storia e filologia, Cagliari 1927; R. Ciasca, Corsi colonizzatori della Sardegna nel sec. XVIII, in Archivio storico di Corsica, IV (1928); M. L. Cao, La fine della costituzione autonoma sarda in rapporto col Risorgimento e coi precedenti storici, Cagliari 1928; F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1848 ad oggi, in Il Nuraghe, 1928, nn. 61, 62, 63-64, 65, 68; 1929, n. 71; id., Vincenzo Sulis nel suo processo e nella sua prigionia. Le congiure cagliaritane del 1799, ibid., nn. 7, 8, 11, 12 del 1929; E. Pilia, Lucifero di Cagliari e la filosofia sarda medievale, Cagliari 1929; A. Saba, Il pontificato romano e la Sardegna medievale, Roma 1929; C. Bellieni, Eleonora d'Arborea, Cagliari 1929; F. Loddo Canepa, Dizionario archivistico della Sardegna, in Archivio storico sardo, XVI segg., 1926 segg. (continua); R. Ciasca, Sardegna che risorge, in L'economia italiana, Roma, maggio 1930, n. 5; F. Loddo Canepa, Spopolamento della Sardegna durante la dominazione aragonese e spagnuola, in Atti del Congresso internazionale per gli studi della popolazione, Roma 1932; A. Mari, Le riforme di Carlo Alberto in Sardegna, Lodi 1934; D. Scano, Sigismondo Arquer, Notizie storiche e documenti, Cagliari 1934; F. Loddo Canepa, Dispacci di Corte, ministeriali e viceregi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del regno di Sardegna, I (1720-21), Roma 1934; G. Bardanzellu, "Descrizione della Sardegna" di Francesco d'Austria-Este (1812), ivi 1934; F. Salata, I diarî di re Carlo Alberto sui due viaggi in Sardegna, in Rassegna storica del Risorgimento, ivi, settembre-ottobre 1934, fasc. 5, pp. 1017-1044; A. Colombo, Le condizioni della Sardegna negli anni 1841-42 secondo alcuni rapporti di Carlo di Villahermosa a Carlo Alberto, ibid., pp. 1045-68; R. Carta Raspi, Mariano IV d'Arborea, Cagliari 1934; id., La Sardegna nell'alto Medioevo, ivi 1935; id., Ugone III d'Arborea e le due ambasciate di Luigi I d'Anjou, ivi 1936.
Folklore.
Il paesaggio della Sardegna, la lingua, la vita e il costume delle sue genti offrono sempre qualcosa di caratteristico, che impressiona vivamente il visitatore. Per questo è copiosissima la letteratura che si occupa dell'isola, e molti ne scrivono sentenziando sulle cause e sui rimedî dei mali che l'affliggono e sull'intimo carattere dei Sardi, anche a sproposito e con dispetto dei Sardi stessi che si sentono misconosciuti e incompresi. Ma anche questa è una prova dell'interesse suscitato dalla vita sarda, che nei suoi varî aspetti (anche se su di essi influiscano ora le esigenze della vita moderna) mostra sempre una pura, nativa e ingenua freschezza, così come le cerimonie che solennizzano i momenti principali della vita, non sono soltanto caratteristiche, ma rivelano spesso la profondità del sentimento che le ispira.
Alla giovane sposa che concepisce la sua prima creatura, le amiche apprestano il corredino del nascituro, che vedrà la luce davanti al focolare della casa e, pochi giorni dopo, prenderà il battesimo. Alla cerimonia segue la festa, col pranzo sontuoso, con i canti e le danze destinati ad alleviare le sofferenze della puerpera, che dopo un tempo non breve (a sa femina partorza istat sa sepoltura baranta dies abberta), può alzarsi dal letto e, recatasi anzitutto alla chiesa per ricevere la benedizione, comincia una nuova vita intenta alle faccende domestiche e all'allevamento della sua creatura. Dolcissime le ninnenanne, e in genere le cure di cui la donna sarda circonda i figli, anche se ispirate dalla superstizione: per difendere il piccino da una quantità d'insidie e di malanni, si ricorre agli amuleti e agli scongiuri, mentre con le benedizioni e con le pratiche religiose gli si propizia la sorte e si affretta il suo sviluppo. Il bambino segue presto il padre nella campagna o fra il gregge, la fanciulla rimane sotto la cura della madre finché non si sposa. Il che generalmente avviene più presto che in continente: una giovinetta di sedici anni chiede già al cuculo il numero d'anni che ancora dovrà restare zitella e, la vigilia di S. Giovanni, o a capodanno, interroga il destino con una serie di pratiche le quali dovranno rivelarle il nome, l'occupazione, le qualità dello sposo. Questi le vorrà molto bene se, la mattina di S. Giovanni, due chicchi di grano messi e agitati in un bicchiere d'acqua, s'incontreranno spesso, si chiamerà come il primo uomo incontrato in quel giorno, farà un dato mestiere secondo l'animale che si troverà vicino alla pianta contrassegnata con un filo o con un nastro la vigilia della festa, ecc. Anche il giovanotto pensa assai per tempo ad accasarsi: s'intende con la fanciulla che più gli piace; le promette la sua fede (su fueddu) e fa la domanda inviando ai genitori dell'amata il paraninfu o appaiadore o mandadalzu, un parente o un amico il quale, entrando in casa, si metterà a sedere vicino al focolare, dimostrando così subito lo scopo della sua visita. Al padre che gli domanda: ite cheres? egli risponde: un anzone perdiu e, additando la fanciulla: custa est s'anzonedda mea. Ottenuto il consenso dei parenti, i giovani possono vedersi e parlarsi con una certa libertà, sempre però sotto la sorveglianza dei maggiori. Segue il fidanzamento ufficiale (assicuronzu de ssu coiubiu o abbrazzu) che si fa con una certa solennità e ha, in alcuni paesi, pressappoco la stessa importanza del matrimonio. Venir meno alla fede data con su fueddu o con s'abbrazzu è per i Sardi altrettanto grave quanto abbandonare la sposa e i figli, e molte delle sanguinose tragedie che hanno funestato la Sardegna ebbero origine dalla rottura di un fidanzamento. Le nozze (sa cóia, su coiubiu, sas nuntas, ecc.) si svolgono sempre con grande solennità e, specie nei paesi dell'interno, con le usanze più caratteristiche, come il trasporto delle masserizie e della dote della fidanzata alla casa dello sposo, il gettito del grano sul corteo nuziale, la cavalcata preceduta dalla sposa biancovestita che impugna una conocchia adorna di nastri, il pranzo, i canti, le danze, ecc. Il lume arderà nel talamo nuziale fino a consumarsi, perché lo spegnerlo sarebbe di cattivo augurio, provocherebbe la morte prematura di uno dei coniugi: il pensiero della morte incombe su tutta la vita e adombra di tristezza anche la gioia festosa. Gli usi sardi che solennizzano la morte sono tra i più caratteristici. Al moribondo che non lascia nessuna speranza di salvezza si deve abbreviare l'agonia, privandolo degli scapolari e degli amuleti che potrebbero trattenerlo sulla soglia della morte e, appena egli è spirato, la parente più prossima ne dà l'annuncio, facendo il segno della croce con una candela accesa, accostandola alla bocca e alle narici del defunto; quindi si prepara su téiu, cioè il lamento funebre. Il morto accuratamente lavato e vestito vien composto su di un tavolo, con i piedi rivolti verso l'uscio, mentre ai funebri rintocchi delle campane sopraggiungono amici e parenti, gli uomini con su gabbanu chiuso fino al collo e col cappuccio sulla testa, le donne vestite di nero, col fazzoletto del capo calato sugli occhi, e ciascuno prende, intorno al morto, il posto che gli spetta secondo il grado di parentela. Mentre gli uomini conservano un austero silenzio, le donne piangono e si disperano, quando una voce più alta intona s'attítidu, il lamento funebre, una specie di nenia accompagnata, con un certo ritmo, dai lamenti delle altre donne. L'attittadora, la lamentatrice, può essere una stretta parente del morto, ma anche un'estranea alla famiglia, compensata, come le antiche prefiche. Intanto gli amici preparano s'accunórtu, cioè il pranzo, perché i parenti più intimi debbono, senz'altra distrazione, assistere il defunto per tutto il giorno e vegliarlo nella notte. Ma la veglia (su bizadorzu) deve essere fatta dai soli uomini che generalmente mangiano pane e miele, avendo cura di lasciare intatta una porzione per l'anima del defunto. Il giorno dopo avviene il trasporto al cimitero, dove gli amici o i fratelli della confraternita hanno già scavato la fossa che accoglierà le spoglie mortali; dopo sette o nove giorni, i parenti distribuiscono agli amici sas paneddas, dei piccoli pani, e i maccheroni conditi col solo formaggio e si riuniscono per s'imbórvida, una specie di cena funebre in cui si piange ancora il morto, ricordando le sue virtù, e con la quale si chiude il funebre cerimoniale.
Al doloroso rimpianto dei superstiti per il caro defunto, si associa il terrore del ritorno della sua anima nel mondo dei vivi; questo terrore sollecita la fantasia del popolo che crea una quantità di leggende intorno agli spiriti dei morti che si aggirano irrequieti sulla terra. Di notte, nei luoghi più solitarî, s'incontrano le anime dei trapassati incarnate in qualche animale, specialmente il cane (gall. li vugliétti), ma anche con l'aspetto di fantasmi biancovestiti riuniti a schiere (gall. la réula), oppure affollati su di un carro (su garr' e sos mortos, su garru gócciu) trascinato da un mostro mezzo bue e mezzo cavallo (su traigorzu); sulle rive dei fiumi, a mezzanotte, si sente lo sciacquio delle panas, le donne morte di parto, condannate a lavare il corredino dei loro nati; persino nelle case si aggirano le anime dei bambini morti senza battesimo (sass. ànimi bulattigghj), le quali si manifestano con strani paurosi rumori. Anche il demonio (su éstiu, s'eremigu, sa puzza, su bruttu, su forasdenosu o forasdómine, lu bèccu, lu sbè, ecc.) compare spesso sulla terra nelle forme più svariate, con le quali tenta gli uomini o si diverte semplicemente a molestarli, facendo fuggire la selvaggina quando sono a caccia (su straivèra), opprimendoli durante il sonno (gall. lu pundácciu, log. s'ammuttadore), oppure spaventandoli in varie guise (su maschinganna, su moscazzu), senza far loro del male. Questo tipo di diavolo burlone dimostra che in generale i Sardi hanno meno timore del re delle tenebre che degli spiriti dei morti, delle streghe che dànno il malocchio e succhiano il sangue ai bambini (campid. cogas, log. súrviles, log. strie), e delle terribili mosche (musca mucèdda) che vigilano, insieme col demonio, sui tesori nascosti: quando il pastore sardo fruga la terra nelle vicinanze di un nuraghe per ricercare il prezioso deposito (su siddatu, su scusórgiu, su pósidu), può trovarlo chiuso in una botte, identica a un'altra piena degl'insetti micidiali e che, aperta, provocherebbe la strage.
Per difendersi da tutti questi nemici immaginarî, i Sardi adoperano diversi mezzi: col segno della croce e con l'invocazione di un santo allontanano gli spiriti e il demonio; mettendo sulla finestra una falce dentata o una scopa o dei chicchi di grano s'impedisce l'entrata della súrvile che s'indugerà a contare i denti della falce o i fili della scopa o i chicchi non riuscendo a procedere oltre il numero sette; il malefizio, la iettatura, si evitano con gli amuleti o tenendo in tasca un pezzo di lana gialla, oppure un corno di muflone o di daino; in Gallura per combattere il malocchio si ricorre a l'ea di l'occhj, cioè si brucia un pezzo di carta su cui è stato scritto il nome di colui che è stato post'occhju, si mette la cenere in un bicchiere d'acqua che gli si dà a bere o gli si getta in faccia, ecc. Queste pratiche sono accompagnate da scongiuri e da formule magiche (sos berbos, sas paràulas) che si adoperano anche per sanare una quantità di malattie, e per scongiurare i cattivi pronostici, come l'ululato notturno del cane, che preannunzia la morte di un famigliare, il canto del passero, il verso della civetta, lo starnazzare delle galline, la vista di un cavallo zoppo e tutti gli altri numerosi segni di malaugurio.
Molti di questi scongiuri si adoperano per ottenere condizioni favorevoli al lavoro dei campi o alla prosperità del gregge, invocando la benedizione di Dio, della Vergine e dei Santi che assistono l'uomo contro i malefizî degli spiriti, del diavolo, ecc.
L'agricoltura e la pastorizia sono le principali occupazioni del popolo sardo. In ottobre (su mesi de ledàmini) si concima il campo che per Sant'Andrea sarà seminato; sulle messi s'invoca il favore di Sant'Isidoro, o di San Giorgio, o dell'arcangelo Michele, secondo i paesi. Per ottenere l'acqua durante la siccità, si pronunziano varî berbos; a Ghilarza i ragazzi vanno in giro per il paese con una barella coperta di erba e cantano: Maimone, Maimone - abba chere su laore - abba chere su siccau - Maimone llau llau. Contro le cavallette (sos tilibricches) e contro la grandine (sa ranzola) s'invoca una forte bufera di vento che può esser provocata tagliando un fiore di asfodelo o facendo a pezzi uno scarabeo stercorario e gridando: o pesas bentu, o incue moris. Alla mietitura e alla trebbiatura del grano si procede con grande allegria, cantando al suono delle launeddas e ballando, la sera e nei momenti di riposo, su ballu tundu. Ai poveri nessuno nega una piccola porzione di grano; chi lo facesse, sarebbe maledetto come Giorgia o Lucia rabbiosa, la quale, mentre trebbiava il suo grano, rifiutò l'elemosina a un povero frate ed ebbe trasformato in pietra tutto quel che possedeva. Spesso nelle aie, si aggira lo stesso Gesù Cristo in veste di mendico, accompagnato da San Pietro, e prova il cuore degli uomini chiedendo la carità; intorno a questo motivo si aggira tutto un ciclo di leggende. Proverbiale è l'ospitalità e l'assistenza che i Sardi concedono sia all'amico, sia allo sconosciuto; ce ne offre un esempio anche l'uso della ponitura o paratura per cui i pastori regalano ciascuno un animale giovane al disgraziato che, per un accidente qualsiasi, ha perduto il gregge. La pastorizia ha un grande sviluppo in Sardegna, ma, nonostante molti miglioramenti, la vita del pastore sardo è ancora disagiata e i mezzi di cui egli si vale restano molto rudimentali. Nella cussória, o nella tanca lontana dal paese, il pastore conduce una vita serena, anche se spesso è costretto a dormire sulla nuda terra, all'aria aperta avvolto nel suo gabbanu o riparato nella pinneta, una rozza capanna di sassi e di frasche. Ma nei giorni di festa egli ritorna al paese dove si rinfranca nella più schietta allegria.
I Sardi sopportano dure privazioni, sanno soffrire con fermezza, ma anche divertirsi col più vivo entusiasmo nelle numerose feste che si fanno sia durante la mietitura, la vendemmia, e nell'occasione dei fidanzamenti, delle nozze e dei battesimi, sia nelle varie ricorrenze periodiche. Vi sono delle feste che hanno un'origine storica come quella della zucca, celebrata a Bono il 31 agosto, giorno di S. Raimondo, in cui si traina su di un carro imbandierato una grossa zucca che alla fine della giornata viene scagliata a terra, per ricordare la vittoria che il paese nel 1796 ottenne sui feudatarî. In molti paesi, il 12 maggio, si celebra il ritorno della primavera con canti e danze; quasi dovunque si usa bruciare il fantoccio di carnevale detto Giorgio, dopo una baldoria che dura sino a tutta la vigilia delle Ceneri; per le ricorrenze di S. Antonio abate e di S. Giovanni si fanno le caratteristiche fiammate sul piazzale della chiesa, intorno alle quali danzano giovanotti e ragazze che, tenendosi per mano, diventano compari e comari e stringono fra loro i primi legami di amicizia. Ma le feste più frequentate e più allegre son quelle che celebrano il patrono dei varî paesi o di alcuni santuarî venerati in tutta l'isola come quello di S. Marco, di S. Antioco, di S. Giorgio, di S. Paolo di Monti al quale una volta accorrevano anche i banditi, godendo di una certa immunità. Con una pompa tutta particolare, si celebra, il 14 agosto, la festa dei Candelieri a Sassari, istituita in onore dell'Assunta nel 1580, al cessare di una terribile pestilenza, per cui si votò alla Vergine un cero di cento libbre oggi rappresentato da sette enormi candelieri di legno apprestati da ciascuna delle sette corporazioni (gremi) nelle quali si considera distinta la cittadinanza, e portati in processione fino alla chiesa. Con pompa non minore, a Cagliari, si celebra il 1° maggio la festa di S. Efisio, patrono della città, da lui liberata dalla peste nel 1656: il simulacro viene trasportato alla chiesetta di Pula, dove il santo subì il martirio.
Specialmente nell'occasione di queste due grandi ricorrenze, si ammirano gli splendidi e originali costumi paesani i quali sono diversi di colore e di foggia, secondo le varie località, pur avendo in comune qualche elemento fondamentale. Così l'abito maschile è caratterizzato da una specie di giustacuore (su corittu) aderente al petto, molto aperto davanti e con maniche strette, sul quale s'indossa un corto giubbetto senza maniche che può essere anche di cuoio finemente ricamato; dalle bragas, un corto gonnellino di orbace, increspato, tenuto dalla cintura (sa chintorza) e cadente sui calzoni di tela bianca, chiusi al polpaccio nelle uose nere (burzighinos o cambittas); e dalla berritta d'orbace, una specie di berretto frigio infilzato sulla testa e ripiegato in varie guise. Nella stagione più fredda, s'indossa anche sa mastrucca, una tunica di pelle di pecora senza maniche, lunga fino al ginocchio, oppure sa bestebeddi più corta della precedente, oppure su gabbanu, lungo fino ai piedi e munito di cappuccio. Le scarpe non hanno oggi quasi più nulla di caratteristico; solo nella Barbagia, e nel Nuorese, qualche vecchio porta ancora sos cosingios, delle scarpe formate da strisce di pelle di verro unite insieme. Gli elementi del costume femminile sono: il busto (imbustu) adorno di variopinti ricami e allacciato sulla camicia (camisa, linza), visibile in gran parte sotto a un corto giubboncino (su gipponi), aderente alla vita in modo che hanno maggior risalto sui fianchi le pieghettature (tabellas, incrispas, ispunzas) dell'ampia gonna (gunnedda o bunnedda) che finisce in una balza di altro colore (poia, chirriu, balzana, ghirone) e arriva fin sopra ai piedi, lasciando vedere appena le scarpe (iscarpas, crapittas) e raramente le calze (calzas, mizas). Sopra alla gonna si porta un grembiule assai più corto (fascadrosgia, pannu de innantis, falda) e in testa una cuffietta (sa curcudda) o un fazzoletto (velu, tiazola) variamente annodato; in Gallura è invece caratteristica la faldetta, una corta gonnella legata in cintura e rovesciata sulle spalle e sul capo. Ma, per una quantità di particolari, il costume sardo varia da paese a paese. I costumi femminili di Cagliari, di Quartu S. Elena, di Osilo, di Nuoro si distinguono specialmente per l'armonia dei colori e per la ricchezza delle stoffe e dei ricami che hanno maggior risalto quando vi si aggiungono ornamenti in filigrana d'oro o d'argento, bottoni, braccialetti, anelli, orecchini (reccadas), collane (cannacas) e catenelle (cadenazzos) che pendono dalla cintura. Soltanto in una delle feste più frequentate come, p. es., quella di S. Efisio a Cagliari si può vedere talvolta su ballu tundu danzato in cerchio chiuso, al suono delle fisarmoniche e delle launeddas, da paesani che indossano le loro vesti migliori e più caratteristiche.
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Parlari.
Da G. I. Ascoli in poi, tutti i linguisti sono concordi nell'assegnare al sardo un posto particolare fra gl'idiomi neolatini per i varî caratteri che lo distinguono non solo dai dialetti italiani, ma anche dalle altre lingue della famiglia romanza, e che appaiono tanto nella fonetica, quanto nella morfologia e nel lessico. Tutte le parlate della Sardegna, a eccezione del sassarese, conservano distinte le vocali toniche latine ĭ, ē e ŭ, ŏ (pilu, tela e gula, sole) che nelle altre lingue romanze si fondono rispettivamente in un unico suono (it. pelo, tela e gola, sole); il centro dell'isola continua intatta davanti a vocale palatale (e, i) la velare latina (c) che nel resto del territorio romanzo (fatta eccezione, per alcuni casi, del vegliotto) subisce invece l'intacco palatino (s. kentu ⟨ centu, kirka ⟨ circat di contro a it. cento, cerca, fr. cent, cherche; sp. ciento, cerca, ecc.); i nessi latini -nj-, -rj-, -lj- si dovettero conservare in Sardegna più a lungo che altrove, poiché nelle risoluzioni posteriori la consonante e la semivocale che le segue si continuano separatamente, laddove nella Romania appaiono per lo più fuse in un unico suono (gall. tinghja ⟨ tinea, arghja ⟨ area, fiÿÿolu- ⟨ fillu- ⟨ filiu-, log. tinÂa, arÂóla, fiÂÂu ⟨ *filÂu, camp. tinǵa, arǵola, fillu, di contro a it. tigna, àia, figlio; fr. teigne, aire, fille ⟨ filia; sp. tigna, era, hijo, ecc.); caratteristica del sardo è la labializzazione dei nessi quvoc e guvoc, che tuttavia appare anche nel romeno (s. abba ⟨ aqua, limba ⟨ lingua, rum. apă, limbă di contro a it. acqua, lingua, prov. aigua, llengua, sp. agua, lengua, ecc.); mentre l'articolo romanzo muove dal pron. ille, -a, il sardo, insieme col catalano delle Baleari continua il pron. ipse, -a > su, sa, sos, sas; negli antichi documenti e nel logudorese, troviamo ancora intatto l'imperfetto congiuntivo latino nel tipo timēre, timeres, -ret, -remus, -retis, -rent; una serie di voci dell'antico latino, non documentate in nessun'altra parte del territorio romanzo, restano vitali nel sardo (acĭna > s. àchina "uva", secus > s. sékus "dietro", callum > s. caddu "pelle di cinghiale", inibi > s. inie; fornu ⟨ s. forru allato a furru ⟨ furnu); ecc.
L'insieme di questi e di altri caratteri, che qui è opportuno trascurare, dànno al sardo un sapore di arcaicità tutto particolare, mentre per altri fenomeni esso costituisce come una zona grigia fra i due gruppi nei quali possono ridursi le lingue neolatine, l'orientale (italiano, romeno) e l'occidentale (ladino, francese, provenzale, spagnolo, portoghese). Il carattere eminentemente conservativo del sardo, nei riguardi non solo del latino, ma anche dei numerosi elementi prelatini che affiorano qua e là in tutta l'isola, si comprende facilmente ove si pensi che la Sardegna, conquistata da Roma attraverso un lungo periodo di lotte che si svolgono dal 238 a. C. fino oltre il 19 d. C., restò per molto tempo appartata, partecipando solo in minima parte alle vicende politiche, civili e culturali del resto della Romania; né i popoli che successero a Roma nel dominio dell'isola (Vandali, Goti, Bizantini) poterono esercitarvi influssi notevoli, tali da alterare i caratteri più peculiari delle genti e delle favelle, caratteri che si rinsaldarono nel glorioso periodo dei giudicati e giunsero fino a noi, resistendo alla penetrazione pisana, genovese e aragonese-spagnola. Tuttavia il predominio delle repubbliche marinare d'Italia incise profondamente nella vita sarda e lasciò tracce profonde nella lingua che, dal secolo XVIII in poi, ricongiunta politicamente l'isola alla penisola, ne subì sempre più efficacemente l'influsso. D'altra parte non bisogna dimenticare che, se in base a certi criterî linguistici e geografici noi possiamo attribuire al sardo un posto a sé nella classificazione delle lingue romanze, seguendone altri, p. es., il criterio storico-cronologico della conquista romana e soprattutto quello etnologico, la Sardegna ci apparirebbe linguisticamente legata al resto dell'Italia insulare (Corsica e Sicilia) e peninsulare (mezzogiorno della penisola), perché ha in comune con essa alcuni peculiarissimi fenomeni linguistici derivati dalla reazione che alla lingua di Roma oppose l'idioma delle genti prelatine che popolavano tutti questi territorî e che dovevano costituire un'unità etnica (v. corsica: Dialetti).
Il canonico Giovanni Spano, nella sua Ortografia sarda nazionale (parte 1ª, Cagliari 1840, pp. xii-xiii), individuò nel sardo tre dialetti fondamentali vale a dire "Logudorese, ossia centrale, Campidanese, ossia meridionale, Gallurese, ossia settentrionale" e lo seguì l'Ascoli (in Arch., glott. it., VIII, p. 107 segg.) che fu il primo a delineare scientificamente i caratteri distintivi delle tre varietà. Ma questa partizione tradizionale fu alquanto modificata dagli ulteriori studî di Giovanni Campus che, escludendo dai dialetti sardi veri e proprî il gallurese, annoverò nel logudorese tre sottovarietà, e di P. E. Guarnerio il quale, riconducend0 il gallurese nella famiglia sarda, distinse da questo il sassarese. La questione che riguarda il posto da assegnare al sassarese e gallurese fu discussa a lungo e si discute tuttavia: vi è chi, avendo riguardo a quei numerosi elementi linguistici che dalla penisola sono penetrati nel nord dell'isola, disgiunge i dialetti in questione dal sardo per annoverarli con quelli còrsi e italiani (Bartoli, Campus, Wagner) e chi, senza disconoscere il largo e profondo influsso che le parlate continentali hanno esercitato su quelle sarde settentrionali, dà il maggior peso a certi caratteri fonetici fondamentali: trattamento di ĭ e ŭ, incolumità delle sorde intervocaliche, risoluzione dei nessi n (r, l) + j, ecc., che esse hanno a comune coi dialetti del centro e del sud dell'isola (Guarnerio, Bottiglioni). Tutto sommato, la miglior soluzione del problema sembra anche oggi quella che fu data dal Guarnerio (in Revue dial. Rom., III, 1911, p. 200) col seguente giudizio: "Il sardo costituisce, di mezzo alle due zone orientale e occidentale delle lingue romanze, un gruppo linguistico indipendente, di cui il logudorese è il tipo fondamentale, donde si degrada a mezzogiorno nel campidanese, che va a toccarsi coi dialetti siculi, e a settentrione nel sassarese e gallurese, che traverso al còrso oltramontano finiscono nel còrso cismontano, spettante alla famiglia dei dialetti italiani e più propriamente toscani".
Però oggi, quando si parla di logudorese, non s'intende quella specie di lingua letteraria che lo Spano costruì artificialmente, uniformando i caratteri dei varî dialetti, né d'altra parte si può seguire il Campus che classifica tre sottovarietà logudoresi in base a criterî inesatti. Uno studio più minuto delle parlate del Logudoro ci permette d'individuare una zona compatta attorno a Nuoro in cui si manifesta meglio che altrove il carattere conservativo della lingua sarda, mentre nei dialetti vicini della stessa regione logudorese si notano più o meno spiccati gl'influssi continentali.
Dobbiamo dunque ammettere nella nostra classificazione anche un dialetto nuorese, per cui il sardo appare oggi distinto nelle cinque seguenti varietà:
Dialetto sassarese. - È parlato a Sassari, Sorso, Porto Torres, Istintino, e conserva più profonde le tracce dell'influenza toscana; infatti, tra l'altro, è l'unico dialetto sardo che non conserva i suoni vocalici latini ĭ, ŭ, riducendoli rispettivamente ad ę e ǫ (pęlu ⟨ pĭlu, gǫla ⟨ gŭla), mentre fonde i nessi n (r, l) + j (tińńa ⟨ tinea, -ag???g???u ⟨ -arju, famil'a ⟨ familia) e mostra nel lessico numerosissime e addirittura soverchianti le infiltrazioni di origine continentale. Coloro che vogliono staccare dalla famiglia sarda i dialetti del nord considerano più che altro il sassarese, quantunque alcuni suoi caratteri, come la risoluzione di l (r, s) + cons. (aţţu ⟨ altu, baḥḥa ⟨ barca, ibbal'u "sbaglio") lo tengano ancora avvinto alle parlate del Logudoro.
Dialetto gallurese. - Lo schietto sassarese si ode fino al fiume Silis, oltre il quale si distende l'Anglona coi centri di Sedini e Castel Sardo in cui i caratteri del sassarese si confondono con quelli del gallurese. Si tratta di una zona grigia che arriva sino al fiume Coghinas che segna il limite occidentale dei dialetti della Gallura compresi tra il mare a nord e a est e la catena del Limbara a sud. Si parla gallurese a Tempio, Bortigiadas, Aggius, Luogosanto, S. Teresa di Gallura, S. Maria d'Arzaghena, Nuchis, Calangianus, Telti, Berchidda e S. Teodoro. Quantunque l'influenza continentale appaia anche nel gallurese larga e profonda (specie nel lessico e nella morfologia), tuttavia alcuni caratteri fonetici spiccatamente sardi (incolumità delle vocali ĭ e ŭ e delle consonanti sorde intervocaliche, risoluzione dei nessi n (l, r) + j e l (r, s) + cons.) non consentono di staccare le parlate della Gallura dalle altre dell'isola.
Sono pure in territorio gallurese i due paesi di Luras e di Terranova Pausania nei quali si parla un dialetto a fondo logudorese, ma con elementi galluresi e anche sassaresi.
Dialetto logudorese. - Comincia al sud di Sassari, di Sedini e del Limbara e comprende una vasta zona, di cui si potrebbe considerare come centro maggiore Ozieri, limitata a mezzogiorno da una linea immaginaria che da Bosa passa per Sindia, per la catena del Marghine e arriva ai paesi occidentali di Bultei, Nule, Lodè sino alla foce del fiume Posada. Tra i varî caratteri che distinguono il logudorese dalle precedenti varietà noteremo nel vocalismo il fenomeno della presonanza per cui le vocali e, o hanno pronunzia chiusa o aperta secondo che la sillaba seguente contiene una vocale di suono oscuro o chiaro (bọnu, kẹlu di contro a bǫna, sęda), il digradamento delle cons. sorde intervocaliche a dei suoni sonori affievoliti (fàjere ⟨ facěre, amaßu ⟨ amatu, a???be ⟨ ape) e il dileguo delle cons. sonore (niẹÿÿu ⟨ nigellu, krere ⟨ crědere, laore ⟨ labore).
Dialetto nuorese. - È parlato nel territorio che confina a nord con quello logudorese sopra descritto e raggiunge al sud una linea immaginaria che passando per Macomer, Silanus, Nuoro, Galtellì, giunge a Orosei sulla costa orientale. Il centro più importante di questa zona è Nuoro che da poco tempo è capoluogo di provincia; ma il puro nuorese si ode anche a Bitti, Benetutti, Orune, Lula ecc., mentre verso occidente, nei paesi del Goceano e del Marghine, esso digrada nel logudorese e a nord verso Torpè, Posada e Solità, nel gallurese.
I caratteri per cui il nuorese si distingue nettamente dal logudorese si possono riassumere come segue:
1. l (r; s) + cons. > log. l + cons. (s + cons. sorda) con varie, ulteriori risoluzioni: balka, bal'ka; ọltu ⟨ oú'tu ⟨ hortu; muska, ma dilgustu, ecc.; 2 nuor. r + cons. (s + cons. sorda): barka, karkanÂu: ọrtu, artu ⟨ altu; busku, ma dirgustu, ecc.
2. fl, pl, bl, cl > og. fë, pë, bë, g???: fëama, pëanu, g???ae ⟨ clave, ecc.; nuor. fr, pr, br, kr: framma, pranu, krae, ecc.
3. Le cons. sorde intervocaliche digradano nel log., restano generalmente intatte nel nuorese.
Dialetto campidanese. - Dal logudorese e dal nuorese, si passa al campidanese attraverso una vasta zona dove i varî caratteri linguistici s'intrecciano e si fondono e nella quale s'individuano, con peculiarità proprie, le parlate del Gennargentu, di Fonni e di Urzulei. Dalla linea Oristano, Laconi, Lanusei, Tortolì, cominciano le vere e proprie varietà campidanesi dell'Ogliastra, del Sarcidano, del Campidano, della Trexenta, del Sarrabus e del Sulcis.
Estranei al sardo, sono: a) il dialetto catalano di Alghero introdottovi nel sec. XIV quando don Pietro d'Aragona vi stabilì una colonia aragonese, cacciandone i sardi; b) il dialetto genovese parlato a Carloforte nell'Isola di S. Pietro e a Calasetta nella Penisola di S. Antioco, due operose cittadine fondate nella prima metà del sec. XVIII, dai genovesi di Pegli già stanziati, fin dal sec. XVI, nell'isolotto di Tabarca, che dovettero abbandonare per le incursioni barbaresche e per le angherie del bey di Tunisi. Tanto il catalano d'Alghero, quanto il genovese di S. Pietro e Calasetta conservano intatti i caratteri dialettali del tempo in cui si staccarono dalla madre patria e sono quindi preziosi per la ricostruzione storica di fasi ormai scomparse dalle attuali parlate della Catalogna e della Riviera Ligure.
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Letteratura dialettale.
La letteratura sarda, che nasce circa a metà del Cinquecento, ha veste dialettale, più propriamente logudorese: e non per caso o per altra circostanza accidentale, ma di deliberato proposito; si tratta di vera e propria affermazione d'indipendenza spirituale dal popolo dei dominatori, gli Spagnoli, promotore un manipolo di giovani di mente vivace e d'ingegno, già addestrati agli esercizî delle lettere, educatisi negli studî così d'Italia che di Spagna: colti quindi anche nella letteratura dei governanti. Quasi tutte queste ambizioni ebbero vita breve e per il poco che se ne sa, non diedero frutto di qualche valore; uno solo di essi giovani riuscì a lasciare testimonianza e del loro programma nazionalista e delle proprie forze, Gerolamo Araolla (circa 1645). Uomo d'alto intelletto, prelato ricco di dottrina e di virtù cristiane, carattere nobile per ardore di sentimenti patrî, egli si meritò la stima del suo tempo e le lodi dei posteri che celebrarono la sua poesia: il rifacimento d'un poemetto agiografico su tre martiri isolani, che si vuole del Quattrocento e di un vescovo sardo, monsignor Antonio Cano, intitolato: Sa vitta et sa morte et passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu (s. l., 1557; ripubbl. da M. L. Wagner, in Arch. stor. sardo, VIII [1912], pp. 145 segg.; ma cfr. Boll. bibl. sardo, V [1913], p. 184), alcune Rime spirituali (1597), in lingua toscana, spagnola e sarda; poesia non originale, a dir vero, né animata di lirismo, come si poteva desiderare: ma sincera, pervasa di umanità buona e cordiale, bene ispirata. Nessun dubbio che coteste qualità furono le più aspre nemiche del suo sogno sardista: poiché la Spagna non mostrò di darsene pensiero; e infatti dopo di lui l'ostilità bandita contro la lingua spagnola non ebbe altri sostenitori; anzi accadde il contrario, specie nel Seicento. Tutta la produzione letteraria di questo secolo s'impernia, si può dire, sui cardini della religione e della morale per opera del clero e di poche persone qualificate che si erano fatte sull'esempio della cultura spagnola. D'altra parte i sentori d'indipendenza colti dagl'"intellettuali" isolani furono più un'aspirazione che una realtà; il fatto stesso che i dominatori in tempo relativamente breve poterono consolidare il proprio dominio, prova che il nazionalismo sardo non aveva quel tanto di vigore che poteva renderlo pericoloso. Quindi il torpore dell'accademia gravò nel cielo della genialità nativa.
Per il Settecento invece si può parlare d'un risveglio della letteratura sarda dialettale; s'intende che lo si deve all'Arcadia, ospite fortunata in Sardegna. Fatto curioso e notevole è che la maggior parte della produzione dialettale ora e nel tempo seguente fu, come in origine, in logudorese; quale ne sia stata la ragione s'ignora anche oggi, dato che il sardo-campidanese ebbe non meno forte vitalità dell'altro dialetto e che il popolo che lo parla ha eguali attitudini liriche; nel Campidano più calmo e pacato l'afflato poetico e più malinconico il tono, ma fervida quanto l'altra l'attività fantastica e di pari facilità l'estro. Si aggiunga che a nord e a sud sono gli stessi atteggiamenti: predilezione per gli argomenti etico-religiosi; molte e accese simpatie per la poesia amorosa; passione per la satira. In altri luoghi quell'umile Parnaso non riesce; la poesia epica non è per il sardo; quando nel 1793 la Sardegna, con bella prova di patriottismo, fece giustizia delle ambizioni conquistatrici della Francia, ci fu un poeta, Raimondo Congiu, cui piacque esporre "in ottava rima sarda" Il trionfo della Sardegna; ma fu cosa assai meschina. Tale anche un poema su Eleonora d'Arborea. Né Giovanni Delogu Ibba (1664-1738) seppe fare di meglio nel suo Index libri vitae cui titulus est Iesus Nazarenus rex Iudeorum (1736), un cibreo dov'è anche un dramma e sono molti inni sacri (goccius o gosos) in lode d'un santo o d'una festa religiosa: poesia fatta per il popolo e da questo accettata con indiscutibile fervore (molti di quei goccius si cantano anche oggi, testualmente). Dopo di lui un gesuita, Matteo Madau (1723-1829), ebbe velleità di linguista e sognò di dar vita a una poesia sardo-latina; non occorre dire che con quest'illusione si fece nemiche le Muse e che oggi si ricorda solo dagli eruditi. Più sciolta, agile, piena di spiriti arguti l'ispirazione piuttosto spregiudicata d'uno scolopio, Giampietro Cubeddu (1749-1829): buon conoscitore dei poeti latini, dei quali risentirono la sua ispirazione venata di paganesimo più che non convenisse al suo abito, e l'arte delle sue rime troppo indulgenti verso la mitologia, epperò non molto castigate. Facile pensare che le sue composizioni abbiano trionfato del tempo presso l'indotto volgo dell'isola. La sorte stessa toccò all'abate Gavino Pes, gallurese (1724-1795), dal verso scorrevole e armonioso, il quale ha componimenti veramente degni di nota, che si cantano in tutta l'isola e che rivelano una singolare natura poetica. In complesso, la poesia settecentesca è languida e frivola; fa eccezione, piace notarlo, il canto della rivoluzione che sulla fine del secolo i vassalli sardi bandirono contro il feudalesimo che li abbrutiva: ne fu autore Francesco Ignazio Mannu, animo pugnace nei cui accenti senti spesso il ribelle e sdegnoso e violento ritmo della satira pariniana; affinità artistica che esclude quasi la possibilità di potenti impeti lirici e riconosce gl'innegabili effetti d'un'intonazione retoricamente didascalica, cioè di veemente oratoria. Al confronto sono più poetici gli apologhi d'un sacerdote, Pietro Pisurzi (1724-1799), dei quali il maggior torto è la satira troppo scoperta. Merita ricordo anche un sardo-campidanese, Efisio Luigi Pintor (1765-1814), poeta d'arguzia fine e saporosa.
Uomini dell'Ottocento questi ultimi, d'un periodo storico che ebbe particolarmente cara l'erudizione: non tacque certo la letteratura dialettale, ma non poté vantarsi di grandi nomi; ebbe anzi molti indotti, di gusto grossolano e di breve respiro. Sulla fine dell'Ottocento soltanto trovi pregevoli scrittori in lingua sarda: l'uno di Sassari, Pompeo Calvia (1857-1921), di Barbagia l'altro, Antioco Casula (n. 1878), più noto col pseudonimo di Montanaru; nature diverse secondo il popolo da cui nacquero: in quello un gusto particolare per la satira, più appassionato questo, quasi elegiaco; ambedue spontanei e di gran lunga superiori al volgo dei rimatori. Se la critica deve lamentare evidenti manchevolezze nell'arte loro la schiettezza delle impressioni e il calore della loro commozione hanno diritto a particolare considerazione. Chi legga il libro di versi del Calvia, Sassari mannu, e i Càntigos di Ennargentu di Montanaru, ha dinnanzi a sé l'anima sarda nella sua migliore espressione, fortemente ricca di virtù sentimentali, veramente romantica nell'intimo suo, d'una fiera gagliardia che piace e che appaga gli studiosi della letteratura dialettale.
Cfr. l'Antol. dial. dei classici poeti sardi, di P. Nurra (Cagliari 1898).
Bibl.: R. Garzia, Gerolamo Araolla, I, Bologna 1914; G. Spano, Ortografia sarda, Cagliari 1840; E. Scano, Saggio critico-storico sulla poesia dialettale sarda, ivi 1911.
Musica.
Il carattere essenziale della musica sarda è l'armonia intesa nel senso moderno di consonanza simultanea di tre o più note diverse: ed è carattere presumibilmente autoctono, come dimostra il suonatore di launeddas (triplice tibia) rappresentato nella bronzea statuetta itifallica detta provvisoriamente di "Ittiri" e attribuita da Antonio Taramelli al sec. VII-VIII a. C. Le invasioni di altri popoli, semitici (Cartaginesi) e indo-europei (Greci) anteriori alla occupazione romana, risultano, rispetto alla documentazione monumentale, musicalmente negative: mentre il carattere melismatico del canto isolano può dimostrare la pertinenza etnica dei protosardi "a una razza stanziata lungo le coste settentrionali dell'Africa" (Pettazzoni).
Quello che oggidì vive in Sardegna del patrimonio musicale si presenta a chiari e leggibili strati come la successione delle epoche geologiche in una profonda sezione della crosta terrestre.
Dalla melopea mugolata del pastore (che ripete la formula primitiva della nenia materna)
melopea che non impegna, in tensione, l'organo fonetico e nemmeno il sentimento, si arriva sino all'estatico partimento pentodico dell'"ottava" di Aggius, attraversandole melodie libere (tipo recitativo della παρακαταλογή) in uso nel contrasto amebeico, le monodie obbligate allo strumentale nelle serenate, e i concordi ritmici a tre e a quattro voci nelle danze.
Questo singolare patrimonio di forme preistoriche e di sviluppi modernissimi conviventi in unanime armonia, offre anche al cantore popolare, incolto e inesperto di qualunque tirocinio scolastico, la possibilità di crearsi uno stile, o meglio una "sigla" personale, che lo rende riconoscibile e differenziato dal comune; non solo: ma anche d'inventare, nel vero senso trovadorico, modulazioni e trapassi armonici intesi a "musicare" poemetti e bozzetti poetici dai quali la nuova "moda" prenderà nome.
Basta consultare i cataloghi di alcune case fonografiche (Canti sardi in "Grammofono", Columbia, Fonotecnica, Fonotipia, ecc.) per rendersi conto delle "invenzioni" che ogni cantore o suonatore ha potuto combinare sul ceppo delle armonie originali.
Ritmi. - Coesistono in Sardegna i tre rapporti euritmici che rappresentano tutta la ritmopea greca (Reinach):
I. Eguale (ἴσον). Carattere: calmo, stabile. Esempio: una Nenia trastullo.
II. Doppio (σιπλάσιον). Carattere: vivo, leggiero, mordente. Esempio Danza "lu baddu zoppu" (a fisarmonica).
III. Quinario (ἡμιόλιον). Carattere: febbrile, entusiastico. Esempio Danza "tre in cincu" (a fisarmonica).
Questi ritmi consentono infinite combinazioni di sincopati, di rubati, di finte anacrusi, spesso inafferrabili perché irrepetibili e perciò di dubbia classificazione.
Scala modale. - Derivandola dalla nenia materna citata, essa è la scala pentatonica di natura gaelica, priva di sensibile:
(l'esame della formula melopeica ci rivela il tritono caratteristico, ove, però, né il do né il fa diesis equivalgono le note corrispondenti della scala temperata, ma oscillano enarmonicamente sui quarti di tono fra il do e il do diesis e tra il fa diesis e il sol bemolle).
Derivandola dalle launeddas del tipo "a organu" abbiamo, fra la canna mediana (sa mancosa) e la canna acuta (sa destrina), la seguente scala:
La canna grave (su basciu; su tumbu) dà il pedale
che fa supporre la tonalità dello strumento sia quella di sol: però né maggiore né minore, perché mancano il fa diesis, il si bemolle e il mi bemolle (ottenibili, sotto forma di sfumatura enarmonica, con virtuosismo di digitazione).
Senza il pedale del "tumbu" avremmo la scala frigia.
Derivandola dalla "taza" si ottiene il σύστημα τέλειον, la scala perfetta di due ottave incardinate sull'accordo
disposto nel seguente partimento
Armonia vocale. - Si compone di tre, quattro o cinque voci, sempre a parti reali.
In Sardegna è ignoto il canto popolare all'unisono: esistono solo o monodie o polifonie. I canti rituali, come le litanie, che domandano l'unisono col celebrante, non fanno parte del patrimonio propriamente popolare, di uso istintivo, ma sono, con rigore intransigente, riserbati alle cerimonie religiose.
Nei concordi ("taza", "goru", "concoldu") le parti sono intonate e guidate dalla voce ("boci" o "tinori", "bozi" "boghe", "boche") sostenuta dall'ottava bassa del basso ("grossu", "basciu") sulla quale s'impernia la quinta ("contra"): vi si aggiungono poi (rispetto al basso) la decima ("trippi", "tippiri", "mesu oghe") e, solo in Gallura, la quindicesima (falsittu).
Ecco la stilizzazione di una formula corale di taza propriamente detta (per comodità di lettura scriviamo le tre voci di tenore in chiave di violino):
Armonia strumentale. - È basata sulle launeddas, la preistorica triplice tibia ad ancia capovolta. Questo prezioso strumento è caratteristico dei Campidani, ov'è ancora in auge.
Consta di tre canne di differente, ma proporzionata lunghezza. Il Fara Dessy ci dà queste misure delle "launeddas a pippia": tumbu, calamo cm. 77, bocchino cm. 7; mancosa, calamo cm. 46½, bocchino cm. 6; mancosedda (o destrina), calamo cm. 41, bocchino cm. 5½.
Ogni suonatore si costruisce quattro tonalità, equivalenti a quattro complessi di tre canne ciascuno: e tutte queste canne custodisce in un portatile turcasso di corame (su straccasciu). Tutte e tre le canne hanno per registro (s'arrefinu) un foro rettangolare all'estremità inferiore: la mediana, oltre l'arrefinu, ha quattro fori e la canna acuta ne ha cinque (nella tonalità a pippia, o infantile) uno dei quali, ora l'estremo superiore ora quello inferiore, resta otturato con un poco di cera vergine.
L'accordatura delle tre canne si raffina con lo spostamento in su o in giù di una lacrimetta di cera vergine appiccicata all'estremità inferiore dell'ancia (sa linguetta), spostamento che aumenta o diminuisce il numero delle vibrazioni dell'ancia, innalzando o abbassando, così, la tonalità della canna.
Ecco la partitura delle "launeddas a organu":
Caratteristico è ancora l'uso della chitarra, d'importazione spagnola. Anche il sistema o metodo di accompagnamento, in prevalenza per le serenate, è quello del bolero.
La tonalità comune è quella di re maggiore:
Per la derivazione basti ricordare il bolero di D. José León. "Es el amor un bicho" (in Mitjan).
Mode. - Ogni regione o località particolare della Sardegna ha un suo costume e un suo canto: il tema è comune, ma gli adattamenti, derivati dalla natura geografica dell'ambiente, sono diversissimi e a volte in contrasto fra di loro.
I più importanti "giacimenti" polifonici sono in Gallura, nel Logudoro e nella Baronia.
Notevoli di ritmo, di colorazioni e di trapassi tonali, le diverse forme di polifonia prendono il nome di "moda" o "sistema", richiamando anche nei nomi la nomenclatura greca.
Derivano indubbiamente (se non ne sono addirittura l'unica sopravvivenza) dal canto piano a temperamento mozarabico, e conservano la struttura armonica giustificata dal tetracordo greco e la modulazione melismatica indicata, grosso modo, dalle notazioni neumatiche.
In Gallura troviamo: "lu tuldiò", "la timpiesa", "l'andira", "l'ottava", "la taza", "lu passu", "li salti", "lu saldu fuggitu".
Nel Logudoro sassarese: "la firugnana", "la brunedda" la ltudiantina", "lu gazzadori", "l'ottava", e una recitazione di distici "li gobbuli", cfr. lat. copulae, sp. coplas), con imitazione corale: "li Dre Re".
Nella Baronia e nella Barbagia troviamo i cori ritmici per danza, con l'introduzione di un basso speciale ("grossu zuccatu" o "basso schioccato", a scoppio, come si dice in Gallura) corrispondente a "la olda", la "corda" pisana.
Trascriviamo, stilizzata, la moda gallurese di "lu saldu fuggitu":
Monodie.- Queste si sono sviluppate arditissime negli ultimi decennî di competizioni pubbliche nelle gare venali: ma l'originalità e la ricchezza delle forme originali rimangono pure e intatte nelle campagne eccentriche e nei villaggi ove il buon senso dei vecchi riporta alla tradizione, con l'esempio efficace, i giovani già smaniosi di "contaminare" o di rinnovare il patrimonio avito innestandovi ora manierismi operistici, ora le singolarità del jazz divulgate dal fonografo e dalla radio.
La chitarra ha consentito ad alcuni cantori, dotati di particolare sensibilità armonica o di timbro vocale fastosamente melismatico ("lu donu" il dono) di crearsi uno stile, imitato e ripetuto sotto il loro nome.
Un esempio. Tra le forme più singolari dei canti monodici di Gallura abbiamo quella del mirabile poeta e dolcissimo "cantadori" Franciscu Multineddu. Il suo modo di canto non solo si allontana da quello tipico gallurese, ma si consente, licenza inaudita, di riprender fiato durante il canto; non solo: ma di spezzar nella cesura una parola. Però l'effetto è sorprendente:
Alcuni esempî di forme regionali riveleranno anche attraverso l'inadeguata grafia musicale il vario temperamento armonico.
Un canto dell'Anglona:
Un canto, a "manzanile" (mattinata) della Planargia:
Un canto della Barbagia:
Un canto del Campidano Maggiore:
Completiamo le citazioni con una monodia che forma di per sé componimento chiuso, ed è privilegio non di regioni ma di singoli cantori che l'adattano al proprio temperamento conservando soltanto lo schema delle successioni armoniche.
Il componimento è sintesi di tutti i tipi di monodia.
In Gallura lo si chiama "disispirata" e nel Logudoro "desperada", derivando il nome dallo spagnolo "despertar", destare: canto che nella notte sveglia la donna perché ascolti l'elogio della sua bellezza. Si conchiude con la formula della nenia materna, come per restituire la donna ai suoi sogni.
La seguente è una "disispirata" gallurese, modulata sopra una celebre canzone di don Gavino Pes (1724-1795), che a buon diritto è stato chiamato il Metastasio della Gallura:
La Sardegna, musicalmente, è ancora inesplorata, pur avendo un materiale doppiamente prezioso: sia per la sua ricchezza originale, sia per la persistenza vitale, in esso, di tutti i fenomeni melopeici e ritmopeici dell'antichità classica, faticosamente e dubbiosamente ricostruiti da filologi e musicologi su testimonianze letterarie e monumentali.
E oggi ancora la Sardegna è la depositaria più fedele di quella civiltà musicale greco-romana che raccolse e riplasmò con caratteri suoi, senza alterarne la sostanza, tutta l'espressione religiosa, e cioè in questo caso estetica, delle genti mediterranee.
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Album fonografico: Canti di Sardegna diretti da Gavino Gabriel (Roma, Fono Roma, 1934).
Arte.
Ai monumenti preistorici e protostorici, fra i quali primeggiano i nuraghi (v.), seguono cronologicamente quelli lasciati dai coloni fenici, i quali peraltro si limitano alle necropoli, già altrove menzionate, alle stele figurate e alle suppellettili in esse rinvenute (terrecotte, vetri, avorî, scarabei, oreficerie, ecc.), che formano oggi una delle raccolte più cospicue del museo di Cagliari. I Romani lasciarono la loro impronta soprattutto nella rete stradale, con la quale si ricollega il bel ponte di Portotorres (v. ponte, XXVII, tav. CCI); quivi stesso sono avanzi di altri edifici della città, come della Caralis romana sussistono tuttora l'anfiteatro, in parte scavato nel masso, resti di una casa, tombe, ecc.
Le vicende artistiche della Sardegna medievale e moderna, quasi del tutto ignorate sin verso i primi anni del sec. XX, oggi il più spesso risultano chiarissime nelle linee essenziali.
Restano non lievi incertezze per quanto concerne le vicende anteriori al sec. XI. Si avvertono con maggiore o minore evidenza alcuni fatti di ordine generale; con maggiore evidenza gl'influssi bizantini. Ma allo stato delle conoscenze non s'intende quale estensione, quale importanza siano da attribuire a ciascun fatto. E qualche monumento notevole è sfuggito sinora a ogni precisa determinazione.
Nessun dubbio sul profondo decadimento dell'arte nel non breve periodo dell'indipendenza politica, pur dato che non si sia spento in alcun momento del detto periodo ogni ricordo delle civiltà romana e bizantina.
Fra le più antiche manifestazioni d'arte cristiana sono da ricordare gli affreschi cemeteriali di Bonaria, già illustrati da G. B. De Rossi e da altri. D'importanza eccezionale tra i monumenti architettonici il S. Saturnino di Cagliari, anch'esso illustrato più volte con scarso accordo nelle conclusioni. Fatta astrazione dalle aggiunte romaniche, nella chiesa primitiva di età incertissima si vedono riuniti elementi d'arte bizantina a elementi di un'arte ancora classica. Non è peraltro da escludere l'antica ipotesi che un tempio pagano sia stato trasformato in basilica cristiana. Nel museo di Cagliari si conservano sculture frammentarie d'arte romano-cristiana e d'arte bizantina, ceramiche musulmane e altri prodotti interessanti di arti minori.
Cessa il decadimento dell'arte quando s'inizia il decadimento dell'indipendenza politica. Non segni frequenti di vita nuova nelle arti figurative per molto tempo ancora, ma vivissimo il fiorire dell'architettura nella seconda metà del sec. XI e nei due secoli successivi. E la chiesa romanica resta ancor oggi il monumento tipico della Sardegna cristiana. Le chiese romaniche, e non esse soltanto, ma le chiese medievali in genere, vengono dette pisane dal popolo sardo. Un tal modo di dire già notato nel 1853 da Vittorio Angius ha una sua profonda significazione.
Gl'influssi pisani hanno dato continuo alimento al fiorire dell'architettura romanica. Non hanno avuto tuttavia in alcun momento un dominio esclusivo. La rivalità tra Pisa e Genova ha avuto manifestazioni in ogni campo. Alcuni giudici, alcuni ordini religiosi hanno esplicato nel campo dell'arte un'azione loro propria. Nessun dubbio infine, dati i possibili nessi con le vicende politiche e religiose, che sia giunta in Sardegna, come ovunque, l'arte romanico-lombarda.
La Sardegna ha dato i suoi calcari, i suoi basalti, le sue trachiti, i suoi graniti, le sue arenarie. Questa l'unica nota veramente sarda. Nota tutt'altro che trascurabile. Ma quale il contributo dei Sardi? Restano i nomi di alcuni architetti. Non un nome sicuramente sardo, non un nome sicuramente pisano. Ciò che ha poca importanza. Dato l'intenso fiorire dell'architettura nei secoli XI XII, XIII è cosa ovvia che siano stati numerosi i maestri locali, o indigeni o immigrati o discendenti di immigrati. E se l'arte di costoro si è il più spesso ispirata a modelli pisani essa ha tuttavia assunto, quasi di necessità, un carattere provinciale rispetto all'arte della città madre. A che hanno concorso gli altri fatti sopra accennati. Non vi è stata un'arte romanico-sarda, ma vi è stato uno sviluppo dell'arte romanico-pisana proprio della Sardegna.
Le chiese romaniche della Sardegna sono in genere semplici. Alcune sono molto semplici; soltanto i fattori più essenziali dell'architettura romanica si aggiungono ai saldi paramenti in pietra da taglio. Altre chiese, semplici internamente, sono ornate con certa ricchezza nelle parti esteriori e la nota differenziale più caratteristica è costituita dalle false gallerie ad archetti sagomati. Altre ancora sono caratterizzate dall'associazione di elementi gotici agli elementi romanici. Ai tre diversi gruppi corrispondono, pur molto relativamente, tre diversi periodi di tempo. Conviene al primo gruppo la qualifica di arcaico in quanto sono certamente arcaici, dei secoli XI e XII, i prototipi. Le chiese del secondo gruppo si possono ritenere del sec. XII (seconda metà) o del sec. XIII. Quanto alle chiese del terzo gruppo esse rientrano in un periodo di transizione che non ha certamente inizio se non oltre la metà del sec. XIII.
Le chiese del primo gruppo sono in grandissimo numero. Fra le più importanti, S. Maria di Ardara, S. Giusta presso Oristano, s. Gavino di Portotorres, S. Maria di Uta, S. Maria di Tratalias. Tutte nobilmente semplici. In queste chiese e in altre del gruppo i caratteri pisani non hanno una decisa prevalenza e appare probabile la collaborazione di maestri lombardi o lombardeggianti. Fra le chiese del secondo gruppo, S. Nicolò di Ottana, SS. Trinità di Saccargia, S. Pietro di Sorres, S. Antioco di Bisarcio, S. Maria di Tergu, S. Pietro di Bulzi. Queste, e in genere le chiese che appartengono al gruppo, sono le più intimamente pisane. Da notare gli stretti nessi con alcune chiese pisane di Pisa stessa (S. Pierino, S. Frediano) e di Lucca (S. Giusto, S. Maria del Giudice). Gl'influssi pisani sono meno sensibili nelle chiese del terzo gruppo. Fra queste la cattedrale d'Iglesias, dove due iscrizioni ricordano il conte Ugolino. La preponderanza politica di Pisa e con essa la preponderanza artistica sono in decadenza.
Ben poche in genere le chiese romaniche cui sia assolutamente estraneo ogni influsso pisano. Fra le poche una chiesa sassarese, S. Maria di Betlemme, sorta probabilmente quando Sassari era sotto la protezione di Genova, e il S. Pietro di Zuri, opera esclusiva di un comacino.
Accanto all'architettura religiosa ha avuto grande importanza, nei secoli XI, XII e XIII, l'architettura militare. Ma della massima parte delle opere non sono giunti sino a noi che ricordi o ruderi informi. Restano alcune muraglie pittoresche e alcune torri imponenti a Cagliari, a Sassari, a Oristano, a Bosa. Scarsissimi i ricordi e scomparsa ogni traccia di costruzioni civili.
Scarse anche le tracce di manifestazioni delle arti figurative, ed è da ritenere che queste arti, nel periodo romanico, abbiano sempre avuto un'importanza molto limitata. Il pulpito della cattedrale di Cagliari è bensì tra le opere più insigni della scultura romanico-toscana ma, come lo Scano ha dimostrato, esso è da identificare con l'antico pulpito della cattedrale di Pisa. Non è da escludere che possa essere stata esercitata con pur relativa larghezza l'arte dell'affresco.
Restano affreschi duecenteschi ancora ben conservati nella chiesa di Saccargia. Tenui i nessi con la pittura pisana, evidenti i ricordi bizantini. Nell'episcopio di Oristano un pentittico della fine del Duecento, opera probabile di Deodato Orlandi.
Le relazioni artistiche fra la Sardegna e la Toscana non cessano col cessare della preponderanza politica di Pisa. Forse si ravvivano per un certo tempo. L'arte gotica della Sardegna è soprattutto arte spagnola. Ma, come per la conquista del dominio politico, così è occorso molto tempo alla Spagna per la conquista del dominio artistico. Nelle arti figurative gl'influssi gotico-spagnoli non cominciano a manifestarsi chiaramente se non verso la fine del sec. XIV. Per ciò che concerne l'architettura non è facile stabilire un momento iniziale, mentre è fuori di ogni dubbio che quegl'influssi sono ancora dominanti negli ultimi anni del sec. XVI e continuano a manifestarsi nei primi anni del sec. XVII. Non si hanno che manifestazioni sporadiche d'influssi del Rinascimento italiano.
L'architettura gotica della Sardegna non ha ancora avuto un suo storico. Pregevolissimi i contributi di Dionigi Scano e di Carlo Aru, ma le conoscenze particolari restano molto manchevoli. Può sicuramente escludersi che lo sviluppo sardo dell'architettura gotico-spagnola sia paragonabile per l'importanza allo sviluppo sardo dell'architettura romanico-pisana. Di tratto in tratto qualche opera insigne. A Cagliari la chiesa e il patio di S. Domenico, ad Alghero la cattedrale, a Oristano, nella cattedrale, una cappella sormontata da una cupola arditissima. Ma è mancato il continuo alimento da parte della nazione dominante.
Si verifica abbastanza spesso che alle forme dell'architettura goticospagnola siano unite forme dell'architettura romanico-pisana, anche in monumenti probabilmente posteriori al sec. XIV. In alcune chiese non certamente anteriori e forse posteriori al sec. XIV (S. Maria di Tiesi, S. Pantaleone di Martis, S. Mauro di Sorgono) si notano caratteri spagnoli non gotici ma romanici. Restano alcuni monumenti gotico-spagnoli di architettura civile (Sassari, Laconi, Sanluri, Villasor). Fra le manifestazioni sporadiche di architettura del Rinascimento italiano, sono da rammentare a Cagliari l'antica sede del municipio e il santuario della cattedrale, a Sassari la chiesa di S. Caterina e la fontana del Rosello. Notevole è infine in S. D0menico a Cagliari una cappella della fine del sec. XVI, parzialmente inspirata al S. Saturnino.
I pochi prodotti trecenteschi delle arti figurative che sono giunti sino a noi hanno tutti carattere toscano; verso la fine del secolo qualche prodotto toscano-catalano. Gl'influssi gotico-spagnoli si affermano poi nelle arti figurative con esclusività di dominio per quasi tutto il sec. XV e rimangono preponderanti per la massima parte del sec. XVI senza cessare del tutto, così come si è notato per l'architettura, nemmeno nei primi anni del sec. XVII. Nessun dubbio tuttavia che gl'influssi del Rinascimento italiano, per quanto concerne le arti figurative del sec. XVI, non siano affatto da considerare sporadici.
Le vicende della pittura sarda dagli ultimi anni del sec. XV sino ai primi anni del sec. XVII sono ben cognite anche nei particolari grazie a C. Aru. E riescono interessantissime per molti aspetti e soprattutto forse in quanto ci appaiono finalmente alcune personalità ben delineate. Tali quelle di Giovanni Barcelo, del "maestro di Castelsardo", di Giovanni Muru, di Pietro Cavaro, del maestro di Ozieri". Molto interessanti anche, nello stesso periodo di tempo, la scultura in legno e l'oreficeria.
Pitture notevoli del sec. XIV restano a Cagliari, a Sassari, a Ploaghe. A Oristano, in S. Francesco, una statuetta di Nino Pisano. A Cagliari, nella cattedrale, una Madonna in legno che rammenta del pari Nino. Fuori della Sardegna, nella chiesa madre di Salemi, una croce datata 1386 e firmata da Giovanni Cioni, orafo cagliaritano d'origine pisana.
Fra le pitture quattrocentesche a Oristano, nel municipio, un prezioso trittico con ricordi sanseverinati e fabrianesi, ed evidentemente catalano, a Cagliari, nel museo, un vasto polittico (1455) dei pittori barcellonesi Giovanni Figuera e Raffaele Thomas. Fra le pitture numerosissime del periodo fine sec. XV-principio sec. XVII sono da rammentare anzitutto l'ancona del Barcelo nel museo di Cagliari e altre due ancone affini nel museo stesso e nella chiesa di Saccargia. Quest'ultima con la data 1496. Opere del "maestro di Castelsardo" a Castelsardo, a Tuili, a Saccargia, a Cagliari, oltre che a Torino e a Birmingham: in tali opere si notano i primi segni di penetrazione della Rinascenza italiana. Nella parrocchiale di Ardara una predella di Giovanni Muru (1515), dove la figura di S. Nicola di Bari è di evidente derivazione da Antonello. Nella parrocchiale di Villamar un'ancona di Pietro Cavaro (1517); tra le formule arcaiche appare veramente un'aura cinquecentesca. Opere del "maestro di Ozieri" nella cattedrale di Ozieri, nel museo di Sassari e nella parrocchiale di Benetutti.
Nel "maestro di Ozieri" e in altri anonimi sono visibilissimi gl'influssi raffaelleschi. Ricordi chiari di Leonardo e di fra Bartolomeo in una tavola della parrocchiale di Ploaghe. Due ancone nella cattedrale e nel municipio di Cagliari sembrano quasi sfuggire a ogni influsso spagnolo. Ma per constatare un deciso mutamento in senso italiano bisogna giungere al tardo Cinquecento quando opera a Sassari (cattedrale, S. Caterina, ecc.) e nei paesi vicini (Codrongianus, Nulvi, Sagama, ecc.) il fiorentino Baccio Gorinio, quando si affermano a Cagliari influssi napoletani. E la tendenza gotico-spagnola resiste tuttavia tenacemente, come appare dalle caratteristiche opere di Andrea Lusso (Sassari, Martis, ecc.) e da altre di anonimi.
Fra le sculture in legno dei secoli XV e XVI sono particolarmente notevoli alcuni crocifissi venerati a Cagliari, a Sassari, a Ozieri, a Oristano. Mirabile spesso, nelle ancone gotico-spagnole, l'opera degl'intagliatori. Rare le sculture marmoree; una Madonna nel coro della cattedrale di Cagliari è una squisita opera di carattere gaginesco.
L'oreficeria ha avuto sempre una grande importanza nella Sardegna, terra classica dell'argento. Le vicende di essa non sono dissimili da quelle delle altre arti, ma le differenziazioni stilistiche rispetto ai modelli spagnoli appariscono talvolta molto notevoli. È documentata la presenza di parecchi orafi sardi a Roma nel sec. XVI. E alcuni oggetti di oreficeria cinquecentesca, nel tesoro della cattedrale di Cagliari, hanno carattere schiettamente italiano.
Quando, trascorsi i primi anni del sec. XVII, viene meno ogni influsso gotico-spagnolo, viene meno insieme nella Sardegna ogni continuità d'arte. Le chiese sarde contengono molte pitture e sculture pregevoli del sec. XVII e del XVIII, ma il più spesso importate. Pochi i monumenti architettonici di qualche interesse. Nessun pittore o scultore o architetto locale che meriti un ricordo, salvo qualche immigrato (Pantaleone Calvi genovese, Giacomo Altomonte, romano, ecc.) e salvo Giov. Antonio Lonis, scultore in legno di formazione napoletana. Ma nessun dubbio che vi siano stati sempre fra i sardi degli esperti nella lavorazione del legno, del ferro, dell'argento.
Fra i monumenti architettonici, a Cagliari il S. Michele, il S. Antonio, il cappellone del S. Sepolcro. Pittoresca a Sassari la facciata della cattedrale. Imponente nella cattedrale di Cagliari il mausoleo del re Martino II, opera genovese. A Cagliari, in S. Croce, un bellissimo quadro del Seicento spagnolo. A Cagliari, a Sassari, a Oristano, a Nuoro quadri del Seicento e del Settecento italiano (Sassoferrato, Maratta, Tiarini, Conca, molti genovesi e napoletani). Il Calvi può essere bene apprezzato a Sassari (Cappuccini, Servi di Maria) e a Sagama (parrocchiale). A Cagliari (S. Michele, ospedale civile, ecc.) le opere migliori dell'Altomonte. L'arte del Lonis è molto diffusa nelle città e nei villaggi della Sardegna meridionale, ma vi è da distinguere fra ciò che spetta al maestro veramente aggraziato e ciò che spetta ai seguaci pur non sempre trascurabili. Prodotti notevoli in varie chiese di Cagliari (S. Sepolcro, S. Michele, ecc.) e in quasi tutte le chiese cattedrali.
Tra gli artisti sardi del sec. XIX un sapiente architetto, Gaetano Cima (1803-1878), e un nobile pittore, Giovanni Marghinotti (1798-1865): entrambi educati a Roma nell'accademia pontificia di S. Luca, entrambi fondamentalmente neoclassici benché il Marghinotti ci apparisca a volte in altri aspetti. E dei movimenti ottocenteschi solo il neoclassicismo ha avuto in Sardegna una certa fortuna.
Morto il Marghinotti, cessata l'attività del Cima, segue un periodo di torpore. Non che in questo periodo manchino del tutto le opere ragguardevoli; ma gli autori (Sciuti, Isola, Bilancioni, Bruschi, Pandiani, ecc.) non sono sardi. E anche nel campo delle arti decorative, via via che il secolo procede, pare che venga meno ogni attività locale, pare che si spenga ogni tradizione. Negli ultimi anni del sec. XIX vi è qualche lieve segno di risveglio. Nel secolo XX si notano gl'inizî di una partecipazione veramente attiva dei Sardi alla vita artistica della nazione.
V. tavv. CLXI-CLXX.
Bibl.: D. Scano, Storia dell'arte in Sardegna, Cagliari 1907; id., Chiese medioevali di Sardegna, Cagliari 1929. Fra le molte pubblicazioni dell'Aru, tutte preziose: Storia della pittura in Sardegna nel sec. XV, in Anuari de l'Institut d'estudis catalans, 1912; Il "maestro di Castelsardo", Bologna 1928; R. Carta Raspi, Castelli medioevali di Sardegna, Cagliari 1933; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, III e VII, iv, Milano 1904 e 1918; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I: Il Medioevo, Torino 1927; W. Biehl, Kunstgeschichtliche Streifzüge durch Sardinien, in Zeitsch. f. bild. Kunst, n. s., XXIV (1912), pp. 17-24, 26-32; G. Goddard King, Sardinian paintings, in Bryn Mawr notes and monographs, V, Londra 1923; A. Taramelli e C. Aru, Guida del Museo Nazionale di Cagliari, Cagliari 1915; R. Branca, Artisti sardi, Genova 1931; id., Arte in Sardegna, Milano 1933; G. Delogu, Contributi alla storia degli argentari sardi, in Mediterranea, VII (1933); G. A. Arata e G. Biasi, Arte sarda, Milano 1935.