Scienza e società
Il problema dei rapporti fra conoscenza scientifica, da un lato, e sistemi sociali, mutamento sociale e culturale, dall'altro, si pone fin dal XVII secolo quando, con l'ascesa della borghesia mercantile europea emerge l'istanza di un controllo diretto e integrale sulla natura.
Crolla, con Francis Bacon, ogni residua credenza nell'Unità del Sapere, in quanto garantita dall'Unità della Chiesa quale fonte di norme e prescrizioni conoscitive; si fa netta la convinzione che la tradizione culturale dominante influisca negativamente sullo sforzo dell'uomo di acquisire una piena intelligenza delle leggi naturali, e quindi un maggiore controllo sul mondo esterno. Sono quindi considerate idola, o pregiudizi socioculturali consolidati da una tradizione secolare, le credenze che ostacolano il processo cui tende la conoscenza scientifica e il conseguente sviluppo tecnologico di cui è portatrice l'ascendente borghesia mercantile.
Nel Settecento istanze del genere si rafforzano e, con l'illuminismo, si pongono al centro di ogni sforzo di demistificazione e svelamento dei vincoli che ostacolano lo sviluppo del pensiero scientifico; nell'Ottocento, poi, la forte rivendicazione positivista di un inscindibile nesso fra conoscenza scientifica ed evoluzione della società si orienta sul versante delle tecnologie sociali: non più solo controllo della natura, quindi, ma controllo dell'ordine sociale sia in ciò che va conservato sia in ciò che va cambiato. Accanto alle scienze fisico-naturali, considerate come centrali per lo sviluppo socioeconomico, si affaccia così anche l'esigenza di costruire scienze sociali potenzialmente in grado di dar luogo a tecnologie capaci di orientare e controllare l'ordine e il mutamento.
È evidente, dunque, che il problema del rapporto fra scienza e società si articola fin dalle origini in una duplice dimensione: da un lato si tratta di analizzare l'influenza esercitata da esigenze socioeconomiche e modelli culturali sulle direzioni e le modalità della ricerca scientifica; dall'altro di valutare l'impatto della scienza, e delle sue applicazioni tecnologiche, sul sistema sociale nelle sue diverse articolazioni. Beninteso, le due relazioni indicate non possono essere intese come unidirezionali; tuttavia se è corretto parlare di interrelazioni fra scienza e società, è indispensabile distinguere i due grandi aspetti della questione per cogliere gli orientamenti dominanti nella storia delle concezioni della scienza fino ai giorni nostri.
Schematicamente, si può allora individuare un filone di pensiero che attraversa tutto l'illuminismo, il positivismo e parte del marxismo, e muove dall'assunto che gli sviluppi della ricerca scientifica, anche nelle sue forme apparentemente più 'pure' - o di base -, siano conseguenza di ben definite istanze socioeconomiche; per altro verso, un vastissimo filone di studi, soprattutto a partire dalla fine del XVII secolo, assume che lo sviluppo scientifico-tecnologico incida profondamente sulle strutture sociali e sui modelli culturali; infine, un filone più recente, che si riallaccia al pensiero di Max Weber (v., 1904-1905) e dello storico della scienza George Sarton (v., 1927-1931), si concentra sulle condizioni sociali, politiche e culturali che rendono possibile l'istituzionalizzazione della scienza come sistema relativamente autonomo, e comunque dotato di peculiari caratteristiche.
I diversi approcci all'analisi del rapporto scienza-società, peraltro, sono inevitabilmente intrecciati fra loro. Non solo: le esigenze di carattere socioeconomico e tecnologico che premono in favore dello sviluppo della ricerca scientifica favoriscono la sua istituzionalizzazione, e quindi contribuiscono al suo ulteriore sviluppo. Peraltro, diverse dinamiche sociali influiscono a loro volta sulle direzioni della scienza, sui modelli di comportamento che si affermano all'interno delle comunità scientifiche, sul parziale trasferimento di questi ad altri settori della vita sociale. Ma l'influenza inversa resta presente e costituisce oggetto privilegiato dei più recenti studi di sociologia della scienza, che in taluni casi sono riusciti a determinare con sufficiente approssimazione il peso esercitato da specifici fattori sociali sugli sviluppi della ricerca scientifica.
Per fare ordine nei molteplici aspetti del rapporto fra scienza e società, è indispensabile trascurare almeno temporaneamente la complessa serie di intrecci fra i diversi termini del problema. Si tratteranno quindi separatamente i seguenti problemi: i contesti socioculturali che influiscono in vario modo sullo sviluppo della scienza e sulla sua conseguente istituzionalizzazione, le influenze sociali strutturali sulla scienza stessa, la scienza come sistema sociale - con le sue norme, le modalità di formazione del consenso e il conflitto -, l'innovazione scientifica, l'impatto degli sviluppi della scienza sui sistemi sociali.
Si può datare alla metà del XVII secolo il riconoscimento sociale pubblico della scienza, accompagnato da un crescente interesse collettivo e da una prima istituzionalizzazione, che si attua in Inghilterra con la fondazione della Royal Society. Aumentano, nella seconda metà del Seicento, gli studiosi attratti dalla ricerca sperimentale; si moltiplicano le occasioni di incontro e di dibattito fra élites colte interessate alle proprietà dei solidi e dei fluidi, alle caratteristiche di vegetali importati da paesi lontani, al moto dei corpi celesti; naturalisti e 'filosofi naturali' dilettanti si cimentano nel metodo sperimentale, discettano su di esso, rivendicano scoperte; infine, estendono senza limitazioni, a differenza che in altri paesi, il loro approccio a problemi di rilevanza pubblica, siano essi sociali, istituzionali, economici, amministrativi.
Ciononostante, l'istituzionalizzazione della scienza, che si tende ad attribuire alla tradizione culturale empirista inglese, non valse a conservare all'Inghilterra una duratura posizione di leadership scientifica. Nel Settecento il predominio in campo scientifico passa alla Francia e la Royal Society è rapidamente surclassata dalla Académie des Sciences, come è attestato da alcuni dati illuminanti: in dieci diversi anni del XVIII secolo non vi fu neppure uno scienziato fra i membri della Royal Society, cui aderivano invece archeologi, storici, archivisti, bibliotecari (v. Stimson, 1948). Alla Académie des Sciences, ben più rigorosa nelle ammissioni, aderivano invece solo scienziati di professione (v. Merz, 1965). Se in Inghilterra la scienza rispecchia un orientamento culturale dominante in consistenti élites intellettuali, in Francia essa si trasforma subito in istituzione tendenzialmente chiusa. Ciò non avvenne per caso. Storici e sociologi della scienza concordano nell'attribuire a caratteristiche specifiche della cultura l'humus originariamente favorevole all'accettazione pubblica, all'istituzionalizzazione e all'estensione in ogni ambito della vita sociale della scienza nell'Inghilterra del Seicento. I principî dell'etica protestante, ponendo l'accento sull'importanza delle 'opere' a maggiore 'gloria di Dio', sull'operosità, l'impegno e il successo come segno di salvezza, sull'utilità sociale delle scoperte della scienza sperimentale, offrono a questa e agli scienziati stessi piena legittimazione (v. Flynn, 1920; v. Tawney, 1926; v. Merton, 1936 e 1938). In Francia, nel XVIII secolo, quello che Ben-David chiama il "movimento scientista" è formato da uomini di cultura in generale, e da scienziati dilettanti o semi-dilettanti, cui si affianca un ristretto nucleo di scienziati sperimentali in senso stretto, i quali, appoggiati da un regime assolutistico, acquisiscono il diritto di pubblicare le loro scoperte senza passare il vaglio della censura. Come osserva Ben-David, "il fatto che la scienza avesse l'appoggio di un governo assoluto non ne ridimensionò il valore agli occhi del movimento scientista. Dopotutto, questo appoggio poteva essere interpretato come una ulteriore prova della inevitabilità del progresso" (v. Ben-David, 1971; tr. it., p. 139).
La Francia prende nettamente il sopravvento sul finire del Settecento, allorché si compie la separazione fra il cosiddetto movimento scientista, ricco di appassionati dilettanti, e una ristretta comunità scientifico-sperimentale, sempre meno interessata a grandi riflessioni filosofico-scientifiche e sempre più dedita alla sperimentazione nelle forme più limitate e parziali. Proprio la ristrettezza e la parzialità cominciano allora a delinearsi come tratti peculiari della scienza empirica, in quanto contrapposta alla filosofia scientifica.
Può apparire contraddittorio che l'originario sviluppo della scienza intesa in senso lato nell'Inghilterra del Seicento sia nettamente sopravanzato, nella seconda metà del secolo successivo, dalla ricerca sperimentale francese, favorita non già da un clima di tolleranza, di ricerca aperta e di dialogo, ma piuttosto da una rigida separazione fra movimento scientista e scienza istituzionalizzata in senso stretto, dalle generose elargizioni di un regime assoluto e da ben definite esigenze tecnologiche. Ciò contraddice, in particolare, la diffusa concezione storico-sociologica che connette lo sviluppo della scienza all'ordine sociale liberaldemocratico (v. Merton, 1942; v. Needham, 1946; v. Parsons, 1951; v. Barber, 1952), ritenendo sostanzialmente incompatibile l'autoritarismo e il totalitarismo con lo sviluppo della scienza. Ma in realtà, nella Francia assolutista del Settecento fu perseguito con successo un disegno volto ad isolare la scienza dalle altre istituzioni sociali; solo nell'istituzione scienza veniva riconosciuta ai membri accreditati una posizione di elevato privilegio che assicurava, tra l'altro, la possibilità di svolgere una attività intellettuale in piena libertà e sicurezza. Il prezzo di tali privilegi era l'isolamento, la separazione dal movimento scientista, e, beninteso, la piena dipendenza dai fini della monarchia assoluta in campo economico e militare.
Una situazione per certi aspetti analoga si presenterà due secoli più tardi nell'Unione Sovietica dove lo sviluppo spettacolare della ricerca scientifica, se da un lato è il risultato della posizione di privilegio concessa all'élite degli scienziati, dall'altro lato avviene sotto il rigido controllo del regime totalitario.
Va peraltro segnalato che anche studiosi di orientamento marxista come Joseph Needham riconoscono la stretta connessione fra sviluppo della scienza e ordine sociale liberaldemocratico. Tale nesso sarebbe di natura strutturale - quindi storicamente collegato al capitalismo - ma anche di natura psicologica. "Vi è un rapporto stretto di parentela - scrive Needham - fra la mentalità scientifica e quella democratica. In entrambi i casi vi è uno scetticismo di fondo: quello dello sperimentatore, che si rispecchia nello scetticismo dell'elettore [...]. Esaminare attentamente i dati disponibili, decidere da soli l'obiettivo che si intende perseguire, valutare i fatti da diversi punti di vista, sono caratteristiche tanto dello scienziato che si applica all'indagine della natura, quanto del cittadino democratico che partecipa alla gestione dello Stato [...]. La prassi democratica potrebbe essere definita, in un certo senso, quella di cui la scienza è teoria" (v. Needham, 1946; tr. it. in Statera, 1978, pp. 97-98).
Per altro verso, secondo Needham, la scienza, fondata sulla razionalità, è incompatibile con i richiami irrazionali dell'autoritarismo. E poiché, a suo avviso, il capitalismo ha in sé i germi dell'autoritarismo, esiste una contraddizione strutturale fra lo sviluppo della scienza nei sistemi capitalistici e il contesto sociopolitico nel quale essa si sviluppa.
Le analisi in chiave marxista dello sviluppo della scienza si imbattono spesso nella contraddizione segnalata da Joseph Needham. Senonché, la storia delle relazioni fra scienza e società, cui gli studiosi marxisti sono particolarmente attenti, non vede svilupparsi insormontabili controversie fra questi e gli storici della scienza di diverso orientamento. Che infatti l'ordine sociale ed economico capitalistico sia precondizione per la formazione della scienza, per lo sviluppo della ricerca, per il fiorire della creatività scientifica è riconosciuto come dato incontrovertibile. Ciò comporta ovviamente che la scienza sia vista come un prodotto dell'Occidente, della spinta della emergente borghesia a controllare il mondo della natura con strumenti derivanti dall'analisi razionale delle connessioni fra gli eventi naturali, piegandone altresì la dinamica ad esigenze essenzialmente economiche.
Sul versante culturale non marxista prevale spesso l'idea del primato della 'scienza pura' sulla scienza applicata. E tuttavia si fa presto evidente, ad esempio, che la scoperta dei principî della termodinamica ha immediati e dirompenti effetti di natura tecnologica e che, più in generale, ogni scoperta fisica e chimica comporta con straordinaria rapidità lo sviluppo di prodotti economicamente remunerativi - che si tratti di macchine o di composti chimici.
In altre parole, l'idea della scienza come pura istanza conoscitiva - del naturale prima, del sociale poi - si configura prevalentemente come una rivendicazione di autonomia degli scienziati, di peculiari interessi conoscitivi, di libera scelta di oggetti e procedure d'indagine, estranee a condizionamenti diretti e immediati, piuttosto che come una adeguata descrizione del rapporto che storicamente lega scienza e società.
La lettura di ispirazione marxista di tale rapporto appare quindi nel complesso più fondata; e ciò benché, come si è visto con Needham, essa finisca per involgersi in una insuperabile contraddizione: quella che associa lo sviluppo della scienza al sistema capitalistico, alla libertà e alla democrazia, da un lato, e che al capitalismo del secondo dopoguerra ascrive tuttavia caratteri autoritari, illiberali ed antidemocratici, strutturalmente contraddittori con la logica della ricerca scientifica. Come molti altri studiosi di formazione marxista, Needham ritiene di poter uscire da tale contraddizione con la previsione del crollo del sistema e con il vagheggiamento di uno straordinario ulteriore progresso della scienza, resa più libera e dedita esclusivamente al bene dell'umanità. Ma è fin troppo evidente la debolezza di una via d'uscita di questo genere, che riflette essenzialmente una visione romantico-rivoluzionaria dell'umanesimo scientifico, cioè di quell'orientamento culturale postscientistico che fiorisce in Inghilterra a partire dal primo dopoguerra e che vede fra i suoi maggiori esponenti scienziati-intellettuali come Lancelot Hogben, Hyman Levy, J.D. Bernal, lo stesso Needham.
Elemento di punta di tale umanesimo scientifico è il Movimento per le relazioni sociali della scienza, il quale - attraverso un attento meccanismo di cooptazione di fisici, chimici, biologi, neurologi, tutti riconosciuti nelle rispettive comunità - gioca un ruolo importante nella presa di coscienza dei rischi potenzialmente derivanti dalla scienza. Nato e sviluppatosi anche come reazione al neoscientismo degli anni venti, il Movimento per le relazioni sociali della scienza, in cui militano socialisti fabiani e marxisti, liberali illuminati e radicali, dedica una sistematica attenzione alle conseguenze sociali delle scoperte scientifiche e si pone l'obiettivo di mettere in guardia l'opinione pubblica contro avventure e abusi scientifici. A questa tradizione si ricollegano le grandi manifestazioni di protesta antinucleari alla testa delle quali si pone, negli anni cinquanta, il logico Bertrand Russell.
Per l'umanesimo scientifico inglese non sempre e non necessariamente il progresso scientifico è un bene in sé. La lettura marxista ortodossa, in particolare quella sovietica, è invece tutta proiettata ad esaltare l'inarrestabile progresso economico e sociale che dalle applicazioni delle scoperte scientifiche deriverà, pur con contraddizioni e difficoltà, peraltro agevolmente superabili, entro la cornice del socialismo. Si fa decisa fautrice di questa linea la folta delegazione sovietica, guidata da Bucharin in persona, che prende parte, nel 1931 a Londra, al secondo congresso internazionale di storia della scienza. In quella circostanza, i sovietici gettano lo scompiglio tra gli storici della scienza non solo riproponendo ed enfatizzando l'idea dell'inarrestabile progresso sociale come conseguenza dello sviluppo della scienza in contesti ad essa congeniali, ma anche mostrando, attraverso una memorabile comunicazione di Boris Hessen, come persino l'opera tradizionalmente assunta quale paradigmatica della 'scienza pura' - i Principia mathematica di Isaac Newton (1687) - sia in realtà frutto di pressioni sociali ed economiche, di bisogni di carattere tecnologico immediatamente funzionali alle esigenze della borghesia mercantile della seconda metà del Seicento."
I Principia di Newton - sostiene Hessen - sono svolti in linguaggio matematico astratto, e invano cercheremmo in essi un'illustrazione dello stesso Newton del legame tra i problemi che egli si pone e risolve, e le esigenze tecniche da cui essi ebbero origine [...]. Nonostante il carattere matematico astratto di esposizione adottato nei Principia, Newton non solo non era uno scolastico separato dalla vita, ma era invece, nel vero senso della parola, al centro dei problemi ed interessi fisici del suo tempo" (v. Hessen, 1931; tr. it. in Statera, 1978, p. 313).
In realtà, dopo un primo libro centrato sulle leggi generali del moto sotto l'influenza di forze centrali, Newton si occupa via via del movimento dei corpi in un mezzo resistente, affrontando e risolvendo problemi fondamentali per la balistica; dei principî essenziali dell'idrostatica e dei corpi galleggianti, precondizione per risolvere problemi connessi alla costruzione di vascelli, canali, pompe e apparecchiature di ventilazione; del movimento dei liquidi e della resistenza di un corpo lanciato, risolvendo problemi idrodinamici fondamentali per il flusso di liquidi attraverso tubi; delle leggi che governano la caduta dei corpi in un mezzo resistente (acqua ed aria), offrendo con ciò ulteriori strumenti alla balistica; del movimento della luna e delle sue anomalie, la cui conoscenza è fondamentale per determinare i tempi e la durata delle maree e, inoltre, per stabilire, fino all'invenzione del cronometro, la longitudine.
Ebbene, non sembra un caso che, nel corso della sua carriera, Newton si sia occupato esattamente di tutti i problemi squisitamente tecnici suggeritigli da Lord Aston nel 1669, come il meccanismo di guida delle navi e i metodi di navigazione, il miglioramento della precisione nel lancio di proiettili e, per converso, quello delle fortificazioni nella difesa, la messa a punto di un calendario più preciso, la trasformazione dei metalli. Insomma, le esigenze della borghesia inglese del XVII secolo, interessata a rendere più rapida e sicura la navigazione, a disporre di strumenti tecnici che facilitassero i commerci e l'espansione dei mercati, sono problemi ben presenti a Newton, che anzi, per Hessen, è in qualche modo una sorta di straordinario artefice di scoperte al servizio della classe sociale emergente dell'Inghilterra del XVII secolo.
La scienza, in questa prospettiva, è un potente strumento di affermazione del sistema capitalistico, dei cui crescenti bisogni tende rapidamente a farsi diretto strumento. Essa è una variabile dipendente dal sistema delle relazioni e delle istanze delle classi dominanti. Il suo peso si fa assai consistente nella misura in cui le scoperte scientifiche generano ricadute tecnologiche funzionali a questa o a quella esigenza socialmente determinata. Il rischio, insito in questa interpretazione, di slittare verso un determinismo estremo e, in ultima analisi, irrealistico è fin troppo evidente. Da un lato l'intimo nesso fra capitalismo e scienza è ampiamente mediato da stili di vita, visioni del mondo, modelli di comportamento emergenti nel Seicento, che trovano nell'adesione a taluni precetti del puritanesimo e del pietismo espressione coerente con le istanze di definiti segmenti sociali; dall'altro, come osserva il sociologo Robert K. Merton, "il fatto che la scienza venga applicata non prova necessariamente che il bisogno abbia significativamente determinato il raggiungimento del risultato. Le funzioni iperboliche furono scoperte due secoli prima che esse avessero alcun significato pratico, e lo studio delle sezioni coniche ebbe una irregolare storia di due millenni prima che esse fossero applicate nella scienza e nella tecnologia" (v. Merton, 1949; tr. it., p. 864). Respingere il determinismo, il quale condurrebbe alla tesi assurda che determinati 'bisogni sociali' possano avere avuto una influenza retroattiva di secoli, conduce inevitabilmente, secondo Merton, ad una sociologia della scienza in cui venga riconosciuto il ruolo svolto in diverse circostanze da fattori culturali e sociali, da bisogni tecnologici, da orientamenti diffusi, e che, nel contempo, sia in grado di dare il giusto peso all'influenza esercitata dalle scoperte scientifiche, e dall'affermarsi della logica dell'indagine scientifica, su sistemi e comportamenti sociali.
"Nei suoi lineamenti più generali - scrive Merton nella prima edizione del suo classico studio, Teoria e struttura sociale - l'oggetto della sociologia della scienza è l'interdipendenza dinamica fra la scienza, intesa come un'attività sociale in progresso che dà origine a prodotti culturali e di civiltà, e la circostante struttura sociale" (v. Merton, 1949; tr. it., p. 939). In altre parole, sono le reciproche interazioni fra scienza e società a delineare i confini della disciplina; confini, in realtà, talmente estesi da contenere ambiti più specificamente pertinenti ad altri settori dell'indagine sociologica, dalla sociologia industriale alla sociologia delle professioni. È immediatamente evidente, infatti, che l'analisi dell'impatto della scienza sulle società, nella misura in cui si riferisce anche alle applicazioni tecnologiche, investe aree d'indagine di straordinaria ampiezza sia sul piano sociologico che, ovviamente, sul piano storico.
Non a caso a questa enfatica enunciazione programmatica, Merton e la sua scuola fanno poi seguire un filone di studi e ricerche ben più ristretto. Tale filone si incentra inizialmente sullo sforzo di definire le specificità della scienza come sistema sociale. In altre parole Merton, che accompagna alla prospettiva teorica da cui muove un consistente lavoro di ricerca empirica, individua nella scienza un corpo di norme, valori, modelli di comportamento tali da configurare un peculiare ethos, sostanzialmente eteronomo da quello di ogni sistema sociale contemporaneo. L'ethos della scienza, come lo vede Merton, si fonderebbe su quattro "imperativi istituzionali", che sarebbero nel contempo "prescrizioni tecniche e morali" (v. Merton, 1949; tr. it., p. 973), e che si definiscono come universalismo, comunismo (communality), disinteresse, dubbio sistematico (organized skepticism). La ragione della connotazione etica e tecnica insieme di tali imperativi risiede, secondo Merton, nel fatto che ciascuno di essi scaturisce da fondamentali principî metodologici che, peraltro, sono ritenuti 'giusti e buoni' dalla comunità degli scienziati in quanto impiegati in vista dell'accrescimento della conoscenza verificata.
Il primo e fondamentale imperativo che dà corpo all'ethos scientifico, l'universalismo, indica che "ogni verità che pretenda di essere tale deve essere, qualunque ne sia la fonte, soggetta a criteri impersonali prestabiliti, in accordo con l'osservazione e con la conoscenza precedentemente confermata. Il rifiuto o l'ammissione di qualunque proposizione nel corpo della conoscenza scientifica non deve dipendere dalle caratteristiche personali o sociali di colui che questa proposizione ha avanzato [...]. L'obiettività - conclude Merton - esclude il particolarismo" (ibid., pp. 973-974). Già questa definizione pone non pochi problemi, anzitutto di carattere epistemologico. È immediatamente evidente da questa citazione di Merton infatti come il suo ethos sottintenda una particolare epistemologia (di tipo realista) e, più in generale, una concezione della scienza di carattere fondamentalmente neoilluminista. Di qui l'accusa, più volte indirizzata alla sociologia della scienza mertoniana, di essere "ideologica" e "astorica" (v. Barnes e Dolby, 1970).
Se a questo primo 'imperativo', si aggiungono quello del 'comunismo' (inteso come proprietà comune delle scoperte), del disinteresse e del 'dubbio sistematico', o 'scetticismo organizzato', si ricava nell'insieme il quadro ideale di un mitizzato campus della Nuova Inghilterra, in cui gruppi di intellettuali-scienziati dediti alla conoscenza pura e disinteressata espongono le proprie ipotesi al proprio e all'altrui 'dubbio sistematico', socializzando pressoché quotidianamente ogni loro esperimento, osservazione, ipotesi, abbozzo di teoria. Fra i seguaci di Merton, peraltro, c'è chi si spinge ancora oltre e integra i cosiddetti 'imperativi istituzionali' con norme quali la razionalità, l'utilitarismo - beninteso, in senso pragmatico -, l'individualismo, inteso come enfasi sulla individualità degli scienziati, il "progresso migliorativo" (ameliorative progress) (v. Barber, 1952). Con ciò la confusione fra livelli d'analisi (metodologico, epistemologico, psicologico e propriamente sociologico) diventa talmente evidente che lo stesso Merton, consapevole della difficoltà di conciliare il proprio modello teorico con la banale osservazione quotidiana del comportamento degli scienziati, tenta di uscire dalla impasse concedendo che "l'istituzione della scienza, come ogni altra istituzione, comprende potenzialmente dei valori incompatibili" (v. Merton, 1973). La storia della scienza, infatti, così come la vita quotidiana in un laboratorio di ricerca, è frequentemente segnata da controversie, rivalità, propensioni a non abbandonare le proprie ipotesi teoriche pur di fronte a ripetuti scacchi sperimentali. Così Darwin scriveva amareggiato all'amico Lyell, che lo aveva messo in guardia dal pericolo di essere battuto sul tempo da Wallace nel sistematizzare per iscritto la teoria dell'evoluzione; e poi, avendolo effettivamente Wallace anticipato, un giorno scriveva all'amico riconoscendo l'acutezza delle intuizioni del rivale, il giorno dopo ne lamentava l'incompletezza e l'approssimazione. Planck, da parte sua, ebbe un lungo ed aspro conflitto con Ostwald e Mach prima di veder trionfare la propria teoria atomica, cui i rivali si piegarono alla fine di malagrazia. Tutto ciò è ovviamente in contrasto con i principî ideali dell'ethos della scienza definiti da Merton nei tardi anni quaranta.
Fra il 1950 e la fine degli anni settanta, la sociologia della scienza di derivazione mertoniana si dedica, fra l'altro, al difficile compito di dar conto delle smagliature presenti nel modello dell'ethos della scienza, circoscrivendo comunque il proprio lavoro in un ambito rigidamente intraistituzionale. Sul piano teorico la visione di Merton è completata da Bernard Barber che, nel suo Science and the social order (1952), finisce con l'individuare nella democrazia americana il contesto sociopolitico ideale per lo sviluppo della scienza, da Warren Hagstrom (v., 1965), che per primo descrive le strutture normativo-motivazionali delle comunità scientifiche, da Norman Storer (v., 1966), che amplia l'analisi ai diversi livelli che caratterizzerebbero la scienza come vero e proprio sistema sociale.
A differenza di Michael Polanyi, che nel suo Science, faith and society (1946), aveva riproposto, esaltandone i tratti, l'ideale della scienza pura e disinteressata, orientata esclusivamente al conoscere, Storer scegliendo intenzionalmente un linguaggio di derivazione economica, sostiene che la scienza può essere considerata come un sistema sociale fra gli altri per via della "relazione fra le norme della scienza e la circolazione della sua merce, o ricompensa originaria" (v. Storer, 1966). Tale relazione implica infatti uno scambio tale per cui la conformità all'ethos comporta ricompense, mentre la violazione di norme del sistema fa scattare sanzioni; il conflitto è così circoscritto e, nel sistema sociale della scienza, è possibile l'esercizio di un forte controllo sociale; peraltro, a differenza di quanto accade nel più ampio sistema sociale, le forme del controllo non privilegerebbero il conformismo, ma eviterebbero la sanzione di forme anche estreme di originalità e creatività; tutto ciò a condizione, beninteso, che alla fase della scoperta segua una fase di razionalizzazione coerente con la logica autogiustificantesi della scienza occidentale. In altre parole, la devianza è ammessa, ed anzi incoraggiata, purché dia risultati accettabili nel contesto della giustificazione, che può seguire anche di anni quello della pura e semplice scoperta.
Il sistema-scienza disegnato da Storer e da Hagstrom ha una sua plausibilità. Non c'è dubbio, infatti, che l'attesa del riconoscimento sia vissuta dai membri di una determinata comunità scientifica come primaria rispetto al proprio impegno di ricerca; è altresì assai forte il timore di essere messi ai margini, o addirittura di essere esclusi, ad opera di quei 'collegi invisibili', come li definisce Diana Crane (v., 1972), che comminano sanzioni e promettono cooptazioni. E tuttavia il rischio di fare della comunità scientifica una sorta di 'repubblica degli scienziati', in cui vigono norme tali da annullare l'impatto di diverse influenze esterne, è troppo alto perché la sociologia della scienza di derivazione mertoniana possa continuare a tenere il campo. Essa è infatti oggetto di aspri attacchi negli anni settanta e ottanta da parte di quella che si definisce 'nuova' sociologia della scienza, che variamente si ispira a La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn (v., 1962), opera che ha avuto un rilevante impatto sull'epistemologia, sulla metodologia della scienza e sullo stesso approccio sociologico alla scienza.La scuola mertoniana di sociologia della scienza è accusata di idealismo, di astrattezza modellistica, di delimitazione dell'istituzione scienza entro confini ristretti ed immobili, scarsamente permeabili dall'esterno, di incapacità di cogliere le discontinuità nella scienza stessa che, seguendo Kuhn, sono dovute essenzialmente a fattori sociali.
Lo sviluppo e la specializzazione disciplinare creano da un lato esigenze di codici comunicativi fra diverse comunità scientifiche e, dall'altro, rafforzano i vincoli che legano i membri di tali comunità. Per Merton e i mertoniani la comunità scientifica è sostanzialmente unitaria. Per Thomas Kuhn, che pure pubblica la prima edizione del suo classico studio nella serie di volumetti fondata negli anni quaranta da Otto Neurath, Rudolf Carnap e Charles Morris come International Encyclopedia of Unified Science, lo storico, il sociologo della scienza e l'epistemologo si trovano in realtà di fronte a un crescente numero di comunità scientifiche. Ciascuna di esse si definisce perché riconosce un comune paradigma, cioè un quadro di riferimento teorico ad elevato livello d'astrazione, con i propri assiomi, le proprie peculiarità metodologiche, il proprio modo di vedere il segmento di realtà di cui si occupa. In fisica al classico paradigma meccanicistico newtoniano si è storicamente venuto sostituendo, con riguardo all'infinitamente piccolo, quel paradigma che si definisce come meccanica quantistica; nelle scienze naturali l'evoluzionismo ha dovuto sostenere durissimi scontri prima di affermarsi come paradigma, peraltro ancora occasionalmente sfidato da ritorni di fiamma di paradigmi variamente 'creazionisti'; ed è ben noto che in astronomia, prima che venisse meno l'ostracismo sociale al paradigma eliocentrico, furono necessari tempi lunghissimi, segnati da aspri conflitti e da pesanti interventi del potere ecclesiastico che si attribuiva l'ultima parola in tema di conoscenza.
Ci sono dunque paradigmi declinanti e paradigmi emergenti nella scienza: ma il passaggio dai primi ai secondi è spesso conflittuale, dando luogo a quelle che si definiscono 'rivoluzioni scientifiche', fasi storiche, cioè, in cui le comunità si dividono al proprio interno, i diversi gruppi sono in lotta tra loro e cercano sostegno all'esterno dell'istituzione scientifica. Il più delle volte uno dei due paradigmi confliggenti cede, dopo una più o meno lunga resistenza, per la comprovata maggiore capacità del vincitore di dar conto di problemi scientifici insoddisfacentemente risolti entro la cornice teorico-paradigmatica opposta e, quindi, per la convinzione crescente della comunità scientifica circa la sua preferibilità.
Il caso della teoria corpuscolare e di quella ondulatoria della luce è tuttavia un esempio in cui la prevalenza dell'una sull'altra non è conseguenza della scoperta di decisivi elementi a sostegno di una superiorità - per così dire - 'oggettiva' di una struttura paradigmatica. Ciò rinvia al fenomeno della sottodeterminazione delle teorie, vale a dire della loro parziale e indiretta possibilità di conferma empirica. Quanto più cresce il livello di astrazione, poi, cioè quanto più una teoria assume connotazioni di paradigma, tanto minori sono le possibilità che si diano incontrovertibili elementi a sostegno della sua validità. Lo stesso concetto di validità, entro la prospettiva kuhniana, non si applica correttamente all'idea di paradigma. Questo può essere infatti utile, funzionale, più adeguato di un altro, più ricco di capacità esplicative e in grado di configurare un sistema complesso, teoricamente tale da porre ordine, senza lasciare troppe lacune, in un settore disciplinare.
La classica dicotomia introdotta da Kuhn fra periodi di "scienza normale" e "rivoluzioni scientifiche", che tanta fortuna ha avuto tra quanti si sono recentemente occupati delle relazioni fra scienza e società, rinvia solo in parte alla maggiore efficienza del paradigma ascendente rispetto a quello declinante. Nelle fasi cosiddette 'rivoluzionarie' ciò che conta, infatti, è non solo e non tanto una astratta ponderazione dei vantaggi comparativi, quanto piuttosto il delinearsi di un clima d'opinione all'interno delle comunità scientifiche, con tutte le influenze che su di esse variamente esercita il più ampio sistema sociale. Così, la rivoluzione copernicana, che è il massimo esempio di aspra conflittualità fra paradigmi incommensurabili, uno dei quali sempre più manifestamente inadeguato a dar conto dei fenomeni celesti, poté compiersi appieno solo in concomitanza con l'indebolimento delle pretese della Chiesa di Roma di esercitare un monopolio in campo conoscitivo, con il delinearsi di embrioni di borghesia commerciale interessati alla soluzione di problemi tecnici che non potevano neppure essere posti entro il paradigma geocentrico, con il rafforzamento del ruolo degli scienziati, con la conseguente determinazione di una comunità scientifica orientata all'autonomia da prescrizioni, postulati e richiami all'ipse dixit. In una parola, è il consenso della comunità scientifica a determinare l'accettazione di un paradigma, segnando così il passaggio dall'incertezza della fase rivoluzionaria a un periodo di 'scienza normale'.
Più di recente, il postulato dell'inscindibilità dell'atomo, riferito ad un paradigma meccanicistico, mostrò una resistenza incomparabilmente minore allorché si affacciarono le prime, seppur confuse e contraddittorie, ipotesi di scindibilità dell'atomo stesso. Che il nuovo abbozzo di paradigma fosse strettamente connesso a una serie di precise istanze di carattere economico e militare fu altresì assai rilevante. Ma nel XX secolo le comunità scientifiche sono ormai forti, coese e sufficientemente autonome da poteri esterni, almeno con riguardo ai canoni di accettazione di un nuovo paradigma, per poter sviluppare senza vistosi conflitti le proprie rivoluzioni.
Beninteso, il peso di un potere totalitario può spingere a sviluppare elementi di paradigma scientifico funzionali all'ideologia del regime, come nel caso della cosiddetta 'scienza delle razze' incentivata dal nazismo. Ma non è certo un caso che solo scienziati di non prima grandezza si prestassero, negli anni trenta, a fornire un qualche sostegno alla mitologia razzista del nazionalsocialismo. E ciò mentre la scienza tedesca degli anni trenta e quaranta faceva straordinari progressi nel campo della microfisica, pur nella piena consapevolezza che essi avrebbero potuto avere una immediata ricaduta bellica. Della genetica tedesca del tempo non è rimasta traccia; dalla fisica atomica tedesca degli anni quaranta ha preso le mosse la fisica nucleare contemporanea. Il consenso delle comunità scientifiche non è dunque una mera conseguenza di mode, condizionamenti, pressioni dall'alto e/o dall'esterno; è anche questo, certo. Ma la crescente internazionalizzazione, la comunicazione in tempo reale, la logica del controllo, della pubblicità e ripetibilità di ogni procedura sperimentale escludono la possibilità che nella scienza occidentale si possano trovare nicchie per paradigmi localistici, eccentrici, del tutto minoritari in quanto privi dei requisiti minimi che consentano di considerarli come interessante variabile di confronto, potenziale fonte di integrazione del paradigma dominante o addirittura potenziale paradigma alternativo.
Per altro verso, l'analisi di Kuhn sconvolge la tradizionale concezione cumulativa della scienza, sostenendo che i paradigmi confliggenti sono fra loro incommensurabili. In altre parole, l'idea che la scienza sia un processo di accumulazione di conoscenze in cui ogni scoperta cresce sul corpo della conoscenza complessiva verificata, viene messa da parte a favore di una immagine assai più complessa e articolata, ossia quella di un processo ricco di discontinuità, talvolta dalle dimensioni imprevedibili, tali da rovesciare o sconvolgere il paradigma preesistente. La discontinuità, nella concezione kuhniana, è tale che il paradigma emergente è il più delle volte puramente e semplicemente eteronomo rispetto a quello declinante. Fra i due non sono possibili confronti, perché ciascuno reca con sé una visione del mondo, dei postulati, degli strumenti concettuali non confrontabili. Tycho Brahe e Simplicio osservavano il sorgere del sole come Keplero e Galileo; eppure lo 'vedevano' in modo completamente diverso. Le diverse osservazioni, "cariche di teoria" (v. Hanson, 1958), finiscono col 'costruire' un fatto non commensurabile con quello costruito dalle osservazioni, parimenti cariche di teoria, del paradigma confliggente. Gli scienziati, insomma, possono vivere in mondi differenti. "I sostenitori di paradigmi opposti - scrive Kuhn - praticano i loro affari in mondi differenti. L'uno contiene corpi vincolati che cadono lentamente, l'altro pendoli che ripetono il loro movimento più e più volte. In uno, le soluzioni sono composti, nell'altro sono mescolanze. L'uno è incorporato in una matrice spaziale piatta, l'altro in una curva. Svolgendo la loro attività in mondi differenti, i due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione. Ciò non significa che essi possono vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in differenti relazioni tra loro. Questa è la ragione per cui - precisa Kuhn - può accadere che una legge, che neanche se fosse dimostrata riuscirebbe a convincere un gruppo di scienziati, può sembrare intuitivamente ovvia ad un altro gruppo. Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un'esperienza neutrale" (v. Kuhn, 1962; tr. it., pp. 181-182).
Questo passo di Kuhn è di importanza centrale per cogliere gran parte dei seri problemi che l'innovativo lavoro dello storico della scienza americano suscita sul piano epistemologico, su quello storico e su quello sociologico. Criticato per l'ambiguità del concetto stesso di paradigma, di cui Margaret Masterman (v., 1970) individua ben 21 diversi significati, per aver dissolto la razionalità scientifica nell'irrazionalità del sociale (v. Popper, 1970; v. Rorty, 1979; v. Leonardi, 1991), per aver gettato le basi di una pericolosa fuoriuscita dalla logica dell'indagine scientifica quale si è venuta delineando come struttura autogiustificantesi nella cultura occidentale, Kuhn precisa la sua posizione in un lungo poscritto alla seconda edizione de La struttura delle rivoluzioni scientifiche affermando con chiarezza di essere convinto della razionalità della scienza, ma, nel contempo, esaltando il ruolo delle influenze sociali sulla prevalenza di questo o quel paradigma, inteso come fattore basilare della scienza stessa.
Almeno una fra le numerose critiche rivoltegli viene però accettata da Kuhn. Dà infatti manifestamente luogo ad un ragionamento circolare asserire che un paradigma è ciò che viene condiviso dai membri di una comunità scientifica, e nello stesso tempo, che una comunità scientifica è composta di individui che condividono un paradigma. "Non tutti i circoli sono viziosi - ammette Kuhn - ma questa è una fonte di reale difficoltà" (v. Kuhn, 1962; tr. it., p. 176). Come superarla? Kuhn, nel poscritto, imbocca decisamente la via sociologica. "Le comunità scientifiche - scrive - possono e dovrebbero essere individuate prima dei paradigmi, analizzando il comportamento dei membri di una data comunità" (ibid.). Sviluppando questa linea d'analisi con riguardo al rapporto fra scienza e società, non solo le direzioni della ricerca, ma anche il modo di vedere il mondo, l'opzione fra paradigmi confliggenti, l'intero processo del conoscere scientificamente risultano fortemente condizionati da quei microsistemi sociali che sono le comunità scientifiche, con le loro idiosincrasie e i loro codici, le quali sono inevitabilmente soggette all'influenza del più ampio sistema sociale.
Le prospettive indicate nel poscritto de La struttura delle rivoluzioni scientifiche aprono il campo, negli anni settanta e ottanta, a una serie di sociologi comprensibilmente attratti dall'idea che l'assunto della razionalità formale delle scienze cosiddette 'dure' possa essere di fatto messo in discussione, rendendo le stesse variabili dipendenti da fattori socioeconomici e culturali, per ciò stesso non necessariamente razionali. Combinata con il cosiddetto 'anarchismo metodologico' di Paul Feyerabend, la lettura irrazionalistica dell'opera di Kuhn riconduce alle 'forme di vita' o ai 'giochi linguistici' descritti dal tardo Wittgenstein, ovvero a forme estreme di determinismo sociale. Da un lato si sviluppa così un filone d'analisi che muove dall'assunto secondo cui le comunità scientifiche non sono altro che espressioni di una 'forma di vita' che riposa sull'idea di una realtà esterna e oggettiva e su un peculiare 'gioco linguistico' reso possibile esclusivamente dal consenso; dall'altro riprende vigore la lettura marxiana della scienza intesa come 'razionalità tecnologica', piuttosto che scientifica in senso proprio, dipendente dalle istanze e dalla divisione capitalistica del lavoro. Infine, rifacendosi variamente al primo e/o al secondo orientamento, fiorisce un filone di ricerche di 'etnografia scientifica', centrate sullo studio dell'organizzazione del lavoro negli istituti e nei laboratori di ricerca, sulle interrelazioni fra i componenti delle équipes nelle loro vesti formali e nell'informalità del rapporto quotidiano, sul ruolo dei managers della ricerca come guide occulte per le stesse direzioni cognitive assunte da gruppi di scienziati, sui condizionamenti socioeconomici esterni operanti sull'attività dei laboratori.
Del primo filone sono significativi esponenti i sociologi Derek Phillips (v., 1976) e David Bloor (v., 1976). Per Phillips la scienza è una forma di vita che esige consenso; ed è solo il consenso della comunità scientifica a determinare l'accettazione di teorie e paradigmi, al punto che ciò che si dice epistemologia finisce col risolversi nella nuova sociologia della conoscenza scientifica. Per Bloor, è indispensabile accettare il cosiddetto 'programma forte' della sociologia della conoscenza scientifica, che, insieme, ingloba l'epistemologia, proclama un assoluto laissez faire metodologico e, soprattutto, dichiara la propria neutralità riguardo alla dicotomia vero-falso. Quelle scientifiche, infatti, sono a suo avviso 'credenze' come tante altre - magiche, religiose, di senso comune -, tutte componenti di diverse forme di vita.
Estremismi di questo genere portano puramente e semplicemente fuori dalla scienza, pur ammettendo con un altro seguace del tardo Wittgenstein, il sociologo inglese Anthony Giddens, che la scienza occidentale sia sostanzialmente autofondante. Altro però è affermare, come fa Giddens, che non c'è alcun modo plausibile "di giustificare un rinvio alla razionalità scientifica anziché, per esempio, alla stregoneria Azande, se non partendo da premesse e valori presupposti dalla scienza stessa" (v. Giddens, 1976; tr. it., p. 198), e altro è suggerire che da tali "premesse e valori" si possa in ultima analisi prescindere in termini logico-metodologici, stante l'irrazionalità indotta frequentemente dal contesto sociale.
In realtà, Bloor, sottoposto a numerose critiche, rettifica parzialmente il tiro nel Poscritto all'ultima edizione (1991²) del suo Knowledge and social imagery, concedendo che non sempre e non necessariamente le vicende della storia della scienza possono essere concepite come dipendenti da particolari fattori sociali. Resta tuttavia il fatto che il cosiddetto 'programma forte' è intrinsecamente debole per la sua reiterata opzione tardowittgensteiniana e per la sostanziale negazione delle peculiarità (in termini di pubblicità, ripetibilità, controllabilità delle procedure) della scienza.
Meno debole, ma parimenti astratto nelle sue assunzioni, è il filone neomarxista, di cui sono significativi esponenti, fra gli altri, il fisico italiano Marcello Cini e i suoi allievi, e che ha avuto particolare fortuna nell'Inghilterra degli anni settanta. La scuola di Cini, ad esempio, tenta di dimostrare come il meccanicismo di Boltzmann fosse sconfitto dal 'possibilismo' di Max Planck perché ciò che la società tedesca del tempo chiedeva alla scienza era non già una 'concezione del mondo', quale quella suggerita da Boltzmann, ma la "formazione di aree di ricerca abbastanza autonome da poter essere dimostrate da costrutti anche parziali, purché fecondi di sviluppo" (v. Ciccotti e Donini, 1976). Analizzando situazioni più recenti di relazioni fra strutture sociali e scienza, poi, Hilary e Steven Rose (v., 1969) hanno cercato di mostrare come l'establishment britannico abbia operato determinate scelte, ad esempio, a danno della ricerca sulla medicina preventiva e a favore di settori dalla prevedibile ricaduta tecnologica nel breve periodo e con scopi di profitto, con ciò sterilizzando per un lungo periodo la biologia più avanzata. Tutto ciò è sicuramente plausibile; per un verso però è piuttosto scontato, per l'altro non comporta, come sarebbe auspicabile, concreti lavori di ricerca sociologica sul campo che confermino e approfondiscano i modi e le forme in cui definite istanze socioeconomiche influenzano le direzioni e le strutture cognitive della ricerca scientifica; assunti, questi, della 'nuova' sociologia della conoscenza scientifica.
Quanto al terzo filone, quello della cosiddetta 'etnografia scientifica', che si dedica allo studio delle interazioni fra singoli scienziati nei laboratori e agli 'artifici retorici' che producono consenso sociale nei gruppi di ricerca, non sembra che il settore sia molto promettente per affrontare i grandi temi posti fin dall'origine dalla sociologia della conoscenza scientifica. Esso si pone piuttosto come la versione micro del filone ormai predominante nella sociologia della scienza classica, sempre più orientato all'analisi organizzativa delle istituzioni scientifiche, che poco o nulla ha a che vedere con l'originario programma di Merton e, in definitiva, dello stesso Kuhn (v. Kornhauser, 1962; v. Schwartz, 1971). Produttività della ricerca, funzionalità organizzativa delle istituzioni, tecniche di incentivazione degli scienziati, modalità di traduzione in termini scientifici di bisogni sociali, influenze sulle politiche della ricerca: sono questi gli oggetti principali d'indagine della sociologia della scienza contemporanea. Messo tra parentesi il modello mertoniano di una ideale comunità scientifica accomunata da un peculiare ethos costituito da norme morali che sono anche prescrizioni metodologiche, l'analisi del complesso rapporto fra scienza e società si laicizza, accoglie talune indicazioni di Kuhn, ma in definitiva si riduce ad un capitolo, pur importante, delle discipline organizzativistiche rinunciando pressoché completamente a studiare l'impatto della scienza sulla società e soprattutto lasciando ai paraepistemologi della 'nuova' sociologia della scienza la problematica delle relazioni fra variabili sociali e strutture cognitive.
L'impatto della scienza sulla società è un tema che può essere affrontato in termini generici, come frequentemente accade, ovvero in termini di indagine specifica e ben delimitata con specifico riferimento alle ricadute tecnologiche della ricerca scientifica.
Fra quanti si interrogano sul piano astratto circa l'impatto della scienza sulla società non mancano gli 'apocalittici': quei teorici, cioè, che rifacendosi variamente al Marx rousseauiano e a Freud, e subendo suggestioni tardoromantiche, individuano nel perverso intreccio di sviluppo scientifico-tecnologico, industrializzazione avanzata e capitalismo trionfante un esplosivo prodotto del XX secolo. La Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), a partire dagli anni trenta, sviluppa un pauroso affresco delle società contemporanee, denunciandone l'ineluttabile massificazione come conseguenza del crescente controllo sociale esercitato tramite la razionalità formale, i mass media, la divisione del lavoro. L'ultimo epigono della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, descrive poi con distacco i tratti di una fredda ratio tecnologica cui le società avanzate sono costitutivamente informate in ogni aspetto della loro vita (v. Habermas, 1973).
La cosiddetta 'teoria critica della società' di origine francofortese trova una straordinaria eco di massa fra il 1968 e la prima metà degli anni settanta, in coincidenza con l'esplosione della protesta studentesca soprattutto in Europa. Vengono allora messi sotto accusa 'la scienza borghese' nel suo complesso, in quanto tenderebbe a imporre forme di presunta razionalità; la tirannia di una tecnologia che si farebbe sempre più fine, e non strumento; la dilagante pressione consumistica, esaltata dalla manipolazione determinata dalla televisione; la crescente 'unidimensionalità' dell'individuo massificato.
L'impatto della scienza e della tecnologia sulla società, in questa visione teorico-ideologica, è semplicemente devastante. Hanno pertanto buon gioco i teorici cosiddetti 'integrati' della società tecnologica di massa nel mostrare come mai prima d'ora, nella storia dell'umanità, si sia data una così ampia ed estesa partecipazione dei cittadini; come la società preindustriale fosse società di ristrette élites rispetto alle quali masse sterminate di popolazione nascevano, vivevano e morivano, spesso di epidemie, permanentemente situate alla estrema periferia, in realtà tagliate fuori dal sistema; come i ritrovati medico-biologici abbiano vinto molte malattie che da secoli mietevano centinaia di migliaia di vittime all'anno e le ricadute tecnologiche della ricerca scientifica abbiano umanizzato progressivamente il lavoro favorendo, a partire dagli anni sessanta, il diffondersi della cultura del loisir; come, infine, la stessa televisione produca la riduzione delle distanze, una crescente informazione e una potenziale partecipazione socioculturale (v. Shils, 1960; v. Bell, 1962; v. McLuhan, 1964; v. Alberoni, 1967; v. Statera, 1973).
Dalle teorie cosiddette 'integrate', secondo la fortunata definizione di Umberto Eco (v., 1964) della società di massa, fondata sulla scienza e la tecnologia, derivano, a partire dalla fine degli anni sessanta, le teorie della società postindustriale (v. Touraine, 1969; v. Dahrendorf, 1953) e poi, a partire dai tardi anni ottanta, quelle cosiddette della società postmoderna. Nel primo caso si pone l'accento sul declino dell'industria come luogo principe di emissione di idee, valori, norme e come area privilegiata del conflitto sociale, a fronte della crescita di un terziario avanzato ipertecnologico che informa in modo crescente la cultura dominante nelle società avanzate; nel secondo caso si sottolinea l'irrompere sulla scena delle società avanzate di bisogni postmaterialistici, a seguito dell'emancipazione dalla dannazione dei lavori più pesanti, favorita dai più recenti ritrovati della tecnologia.
Beninteso, l'impatto della scienza e della tecnologia sui paesi del Terzo e del Quarto Mondo resta assai modesto. Se si esclude infatti la drastica riduzione della mortalità infantile, resa possibile dal progredire della scienza medica e dal diffondersi di pratiche da essa conseguenti, il Terzo e il Quarto Mondo restano lande desolate dove i progressi sociali dovuti alla tecnologia non penetrano se non in misura minima. Per altro verso, il calo della mortalità infantile e l'accrescersi della speranza di vita fanno aumentare a dismisura la popolazione di paesi come l'India, l'Indonesia, la totalità dei paesi islamici, con gravi conseguenze in termini di sovrappopolazione, carenza di risorse alimentari, di lavoro, di sviluppo socioeconomico. Peraltro, la Cina e l'India, che sono fra i paesi con il più basso reddito pro capite, dispongono di armi nucleari; in questi paesi, come in Pakistan, si trovano fisici nucleari di primissimo piano; ma la ricerca funzionale all'accrescimento delle risorse alimentari resta arretrata, disponendo di investimenti relativamente modesti e comunque insufficienti a fronteggiare l'emergenza. In altre parole, le direzioni della ricerca scientifica possono non essere - e spesso non sono - quelle più utili al benessere della collettività, sicché è improprio affermare che comunque la scienza ha un impatto positivo su tutti i sistemi sociali, inclusi quelli marginali. Ma questo non è altro che il tradizionale problema degli usi della scienza, delle scelte per gli investimenti, delle direzioni della ricerca: un problema, cioè, squisitamente socioeconomico e politico.
Il secondo filone, essenzialmente empirico, di studi sugli effetti sociali della tecnologia, è quello che rientra sotto la generale etichetta della valutazione dell'impatto. Si va, in questo ambito, dagli studi di carattere socioantropologico relativi alle conseguenze dell'attuazione di un programma tecnologicamente avanzato in aree rurali del Terzo Mondo fino alle analisi sui potenziali effetti socioculturali della localizzazione di installazioni militari, grandi raffinerie, stabilimenti industriali. Sottostante a questo filone di ricerche applicate per le decisioni socioeconomiche è un orientamento prevalente a concepire la tecnologia, oltre che la scienza, non semplicemente come insieme di strategie razionali di controllo sulla natura ma, più articolatamente, come fattore influente sui, e condizionato dai, contesti sociali. In termini teorici ciò si sintetizza nell'affermazione che la tecnologia includerebbe una consistente dimensione sociale, accompagnata da una dimensione simbolica e, ovviamente, da una dimensione materiale (v. MacKenzie e Wajcman, 1985; v. Pfaffenberger, 1988).
In realtà, la gran parte delle indagini sull'impatto sociale della tecnologia rivela anzitutto che le caratteristiche proprie di un determinato sistema sociale tendono ad influenzare la scelta di questo o quell'apparato tecnologico, in relazione ai modelli culturali prevalenti, alla stratificazione sociale, ai modi di produzione del reddito e al loro peso relativo; per altro verso, gli stessi studi mostrano come l'adozione di identiche tecnologie può avere effetti diversi in sistemi sociali diversi. Le ricerche sul campo vertono soprattutto sulle conseguenze socioculturali dell'attuazione di programmi tecnologicamente avanzati in aree rurali del Terzo e del Quarto Mondo. La costruzione di una installazione tecnologicamente avanzata, oppure il trasferimento di una tecnologia, può porre certamente dei problemi tecnici e logistici, ma il successo dell'operazione dipende nella maggioranza dei casi dalla costruzione di una rete di alleanze sociali ed economiche tali da favorire l'accettazione del manufatto e da renderne socialmente accettabili gli eventuali costi. Peraltro, anche il semplice 'trasferimento' di una tecnologia mette in moto dei meccanismi che coinvolgono le capacità di un gruppo, o di una società, di acquisire 'nuove tecnologie'. Tale capacità è tuttavia connessa alla 'natura' delle tecniche trasferite. In questo senso, si può individuare una tipologia di oggetti tecnologici che distingue quelli in grado di produrre rapporti sociali - oppure di lacerare vecchie relazioni - da quelli che riflettono i rapporti sociali; nel primo caso, come è facile intuire, sono collocabili quegli oggetti tecnologici connessi ai cicli produttivi e/o di acquisizione, mentre nel secondo caso sono da inserire gli oggetti in qualche modo implicati nei processi di consumo.
Studi e analisi del genere, sempre più diffusi e ormai obbligatori per legge anche in Italia, sono spesso condotti da équipes integrate di economisti, sociologi, urbanisti, antropologi. Pur nella loro ancora limitata specificità tecnico-metodologica, essi sono di grande utilità per formulare previsioni e per consentire una valutazione dei costi e dei benefici sociali dell'innovazione tecnologica. Sotto questo aspetto, si tratta certamente del settore d'indagine, relativo, sia pure indirettamente, al rapporto fra scienza e società, che presenta le maggiori potenzialità di sviluppo, la maggiore concretezza e operatività.
Accanto al nodo cruciale dell'impatto sociale della tecnologia, una grande attenzione ricevono, in questi ultimi anni, le questioni propriamente etiche connesse ai più recenti sviluppi di taluni settori scientifici, in particolare la biogenetica con le conseguenti applicazioni di cosiddetta 'ingegneria genetica'. Ora, che il rapporto fra scienza e società abbia storicamente implicato una dimensione etica è evidente, se solo si considera come per secoli le direzioni della ricerca siano state sottoposte al vaglio di autorità morali esterne. Fino al tardo Medioevo, la violazione del principio dell'ipse dixit nelle controversie filosofico-scientifiche sollevava non di rado problemi che non è eccessivo definire di carattere morale tra i 'filosofi della natura'; qualsivoglia teoria non pienamente congruente con le 'verità' dichiarate tali dalla Chiesa, la violazione di principî di conoscenza sanciti come veri in funzione della difesa di un potere che si qualificava come assoluto con riguardo ai costumi, alla conoscenza, ai canoni della ricerca del bello assumevano connotazioni eticamente negative, e non è affatto da escludersi che anche i primi scienziati che entrarono in collisione con le verità asseverate dal potere ecclesiastico potessero essere oggetto di crisi di coscienza entro un contesto sociale dominato dall'identificazione tra potere religioso, etica e conoscenza.
Il superamento della connessione fra scienza e fede religiosa, che si acquisisce in Occidente nell'età contemporanea, sembrerebbe dover rendere obsoleto il problema della relazione fra scienza ed etica quale si è storicamente posto nelle società culturalmente influenzate dal cristianesimo. Ma per un verso in queste società è cresciuta, particolarmente nelle comunità scientifiche, una sensibilità etica essenzialmente laica che impone all'attenzione degli scienziati e, più in generale, dell'opinione pubblica, grandi questioni morali direttamente derivanti dalla vertiginosa accelerazione delle scoperte scientifiche e dalla ancor più rapida traduzione di esse in ritrovati tecnologici; per altro verso, anche a prescindere dalla mediazione dell'autorità religiosa, le aree centrali dei sistemi sociali non possono, soprattutto nel XX secolo, non interrogarsi sulle possibili conseguenze di determinate tecnologie con riguardo al futuro dei sistemi e della civiltà stessa. Ciò configura una dimensione di etica sociale che porta, fra l'altro, alla formalizzazione della condanna dei gas tossici per uso bellico, a tormentate discussioni sulla liceità, per il futuro stesso dell'umanità, delle applicazioni della fisica nucleare (inizialmente per usi bellici, poi anche per usi civili), infine alla diffusa preoccupazione per le conseguenze della genetica contemporanea.
Di fatto, i nodi della cosiddetta bioetica riguardano insieme la persona individuale e i sistemi sociali nella loro globalità. Inseminare artificialmente una ultrasessantenne desiderosa di avere un figlio può soddisfare un egoistico bisogno individuale, ma può dar luogo, ove la prassi si diffondesse, a ovvi problemi sociali di consistente portata connessi ad ipotetiche schiere di orfani ventenni. Analogamente, clonare individui - a prescindere dalle incognite biologiche che pratiche del genere potrebbero riservare - è intuitivamente una potenziale fonte di sconvolgimento sociale. Poiché di fatto sono già disponibili o a portata di mano tecnologie di intervento sul DNA, sulla fecondazione variamente assistita a prescindere dalle capacità riproduttive naturali della donna, nonché tecnologie di clonazione su ogni tipo di animale e tecniche di ibernazione, è comprensibile la preoccupazione non solo per l'incontrollata violazione di elementari principî etici relativi alla persona umana, ma anche e soprattutto il timore che gli sviluppi scientifico-tecnici in questo settore possano sottrarsi al controllo sociale per la stessa rapidità ed imprevedibilità delle loro conseguenze razionalmente determinabili. Di qui il rischio che il Moloch scientifico-tecnologico possa compiere, magari inconsapevolmente, inarrestabili fughe in avanti tali da sconvolgere norme culturali accettate e consolidate, modelli di relazioni sociali, assetti complessivi dei sistemi sociali avanzati.
Insomma, le teorie formulate in termini astratti da studiosi come Jürgen Habermas circa la crescente indipendenza del tecnologico dal sociale rischiano di farsi paurosamente concrete, complice anche il ritardo di quasi tutti gli Stati nel legiferare in modo sufficientemente chiaro al riguardo. Peraltro, il rischio, pur da non sottovalutare, è ridimensionato dalla tendenza storico-sociale che vede nelle istanze sociali la variabile usualmente influente sulle direzioni della ricerca e soprattutto sulle conseguenti tecnologie. E mentre è possibile che si determinino parametri economici di convenienza per la clonazione delle mucche da latte, piuttosto che in favore della riproduzione naturale, è difficile ipotizzare che si crei una forte pressione sociale in favore della clonazione degli esseri umani, che è evidentemente la prospettiva eticamente più sconvolgente.
In ogni caso, ad una regolamentazione degli stessi esperimenti genetici che l'attuale coscienza morale dell'opinione pubblica è in condizione di accettare, lavorano attivamente teams specializzati in tutti i paesi avanzati. Restano molti interrogativi: ad esempio se sia opportuno porre limiti invalicabili alla sperimentazione prima di sapere se essa, ad esempio, possa dar luogo a tecniche di manipolazione genetica in grado di prevenire gravi malattie ereditarie, oppure se effettivamente la scienza sia arrivata ad un punto in cui le possibilità di controllo, almeno preventivo, si fanno sempre più labili. In realtà, è discutibile che, salvo casi di estrema devianza, sugli esperimenti scientifici sia logicamente, moralmente e socialmente legittimo esercitare forme di controllo preventivo. Ma che l'accettazione o il rifiuto di una direzione sperimentale piuttosto che di un'altra siano materia di controllo sociale, da parte delle comunità scientifiche in primo luogo, del comune sentire poi, è una tendenza che la storia della scienza recente - sia pure con aberranti eccezioni durante il periodo nazista - conferma in misura sufficientemente consistente.
Ciò non basta a rassicurare del tutto, perché possono sempre esistere dei Mengele esclusi dal circuito delle comunità scientifiche. Ma è sufficiente quantomeno a contenere l'angoscioso timore che taluni settori della scienza contemporanea siano in condizione di ergere mura tali da renderle potenziali istituzioni chiuse, incontrollabili, esenti da quei complessi condizionamenti sociali che in qualche caso possono favorire sviluppi eticamente discutibili ma che, in generale, contribuiscono - per la responsabilità delle comunità scientifiche e per la crescente sensibilità dell'opinione pubblica - ad evitare che si imbocchino vie eticamente non congruenti con il sentire diffuso.
(V. anche Epistemologia delle scienze sociali; Etica; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Sapere; Tecnica e tecnologia).
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