semantica
Dal fr. sémantique, der. del greco σημαντικός «significativo», der. di σημαίνω «segnalare, significare». Termine coniato da M. Bréal nel 1883 come sostituto di semasiologia per riferirsi a quel ramo della linguistica che si occupa dei fenomeni del linguaggio non dal punto di vista fonetico e morfologico, ma guardando al loro significato.
I primi studi di s. di Bréal (Essai de sémantique, 1897; trad. it. Saggio di semantica) riguardarono il mutamento del significato delle parole. Con lo strutturalismo linguistico di F. de Saussure, accanto a una s. diacronica, rivolta a individuare le leggi dell’evoluzione dei sensi delle parole, nacque una s. sincronica, concentrata piuttosto sulle relazioni reciproche tra i vari significati. Gli studiosi di s. hanno proposto diverse teorie sulle unità minime di significato; sulla base della prospettiva di L. Hjelmslev, esse sono state individuate in tratti semantici distintivi chiamati di volta in volta sema o semema. J.L. Prieto ha presentato (1964) una teoria che cerca di determinare i noemi, ovvero un insieme di tratti minimi di significato che sono in rapporto d’interdipendenza. L. Bloomfield, pur mettendo in luce i limiti di un’analisi scientifica del significato, ha proposto (1933) una teoria per cui il significato dell’enunciato viene identificato con la situazione in cui agiscono il parlante e l’ascoltatore. P. Ziff ha elaborato (1960) una teoria semantica che presenta il significato di una parola come funzione di tutti gli enunciati accettabili in cui la parola può occorrere e di tutte quelle parole che possono rimpiazzare la parola in tutti questi enunciati senza renderli devianti. Uno studio della s. particolarmente attento ai contributi della grammatica è stato proposto da S. Ullmann (1966) e A.J. Greimas (1967). Lo sviluppo della grammatica generativo-trasformazionale ha aperto nuove prospettive negli studi semantici. Una prima importante sistemazione dell’elemento semantico all’interno della teoria generativo-trasformazionale standard (pienamente accolta da Chomsky in Aspects of the theory of syntax, 1965) si è avuta con l’articolo di J.J. Katz e J.A. Fodor The structure of a semantic theory (1963) e con il volume dello stesso Katz, con P.M. Postal, An integrated theory of linguistic description (1964). La grammatica risulta così distinta in tre parti: un componente sintattico di base, un componente fonologico e uno semantico che determina l’interpretazione semantica di una frase, cioè mette in relazione una struttura generata dal componente sintattico con una certa rappresentazione semantica. Nella teoria standard la struttura profonda risulta equivalente alla rappresentazione sintattica più astratta di una frase data, con in più tutti gli elementi necessari per l’interpretazione semantica. Dalla critica sempre più serrata a tale concetto, portata avanti da linguisti come G. Lakoff, J.R. Ross, Fillmore (The case for case, 1968), J.D. McCawley (The role of semantics in a grammar, 1968), E. Bach, ha avuto origine verso la fine degli anni Sessanta la corrente post-chomskyana che ha assunto il nome di s. generativa. Anche se le posizioni dei singoli non sempre convergono, comune a tutta la corrente è appunto l’assunto che il dato astratto più «profondo» sia quello semantico, dal quale procedono poi gli altri, e che alla base del fatto linguistico sia quindi un’interrelazione di rapporti semantici generalissimi.
Alla fine degli anni Settanta del Novecento si è sviluppato un nuovo indirizzo di studi, la s. cognitiva, in cui si muovono, in antitesi con la teoria generativa, ex semanticisti generativi come Lakoff e R. Langaker. Per la s. cognitiva il linguaggio non è un’entità autonoma, indipendente da altre facoltà e conoscenze cosiddette extralinguistiche, al contrario assolve il suo scopo proprio perché si sviluppa e funziona in stretta relazione con quelle. La s. cognitiva ha avuto un forte impulso dalla teoria dei prototipi avanzata dalla psicologa E. Rosch riguardo alla natura delle categorie: queste non sono definite da liste di proprietà tutte di pari importanza, perché alcune proprietà percettivamente più salienti sono più importanti di altre per definire la categoria; perciò le categorie sono strutture graduali che hanno al centro casi prototipici che meglio ne rappresentano le proprietà salienti, e sfumano via via verso casi meno tipici o per cui può essere persino dubbia l’appartenenza categoriale. Applicata alla s. delle lingue, la teoria dei prototipi sostiene che i concetti lessicali non sono strutture discrete ben definite, ma insiemi polisemici sfumati che inglobano sensi prototipici (nell’esempio di madre, il prototipo è la donna che partorisce un figlio generato dal suo ovulo) e sensi meno prototipici (la madre adottiva) o addirittura conflittuali con quello prototipico (la donna che partorisce un figlio generato da un ovulo di un’altra), per cui non possono essere descritti da liste di tratti/proprietà tra loro equivalenti, con le quali si pensi di determinare rigidamente i confini del significato e decidere algoritmicamente quali sensi vi rientrano e quali no.
Il termine s. entra nel dibattito filosofico negli anni Trenta, in partic. con l’opera di Tarski e Morris. Quest’ultimo (Foundations of the theory of signs, 1938; trad. it. Lineamenti di una teoria dei segni), aveva distinto le tre discipline, sintattica, s. e pragmatica, in cui si articola la semiotica (➔). Sulla base dell’assunto che la s. è la disciplina che studia il rapporto tra le espressioni linguistiche e ciò a cui queste si riferiscono, Tarski, in Der Wahrheitsbegriff in der formalisierten Sprachen (1933-36), faceva della verità il concetto paradigmatico di tale disciplina, proponendo una «definizione semantica della verità» in grado di esprimere in forma logicamente rigorosa l’intuizione contenuta nella formula: «un enunciato vero è un enunciato che dice che le cose stanno così e le cose stanno appunto così». A essere definito è solo il predicato metalinguistico «vero-in-L» per gli enunciati di un dato linguaggio oggetto L. È essenziale che L sia un linguaggio formalizzato, perché solo così i limiti del concetto di enunciato-di-L sono determinati precisamente. Tarski mostrava come sia possibile costruire per qualsiasi linguaggio formalizzato L una «teoria della verità per L» dai cui assiomi è deducibile per ciascun enunciato di L un’equivalenza metalinguistica «E è vero-in-L se, e solo se, T», dove al posto di «E» compare un nome metalinguistico di quell’enunciato e al posto di «T» la sua traduzione nel metalinguaggio. Tarski introduce la nozione di soddisfacimento di una funzione proposizionale, che rappresenta una rigorosa sistematizzazione matematica della teoria fregeana della funzione (o concetto). Su tale nozione si basa la definizione di verità per i linguaggi contenenti enunciati quantificati universalmente (∀xFx) o esistenzialmente (∃xFx, cioè «esiste almeno un x tale che x ha la proprietà F»). Un predicato «Fx» si dice soddisfatto da un oggetto (o da una successione di oggetti) quando l’oggetto (o la successione di oggetti) ha la proprietà designata dal predicato (per es., il predicato «x è la più grande città del Mezzogiorno d’Italia» è soddisfatto da Napoli; mentre «x è una città bagnata dal mare» è soddisfatto da Genova, Marsiglia, New York, ecc.). La s. logica è una teoria matematica del modo in cui certe forme d’inferenza preservano la verità, e quindi del modo in cui la verità di premesse e conclusioni è determinata dalla loro struttura. La s. logica che discende più direttamente da quella tarskiana è la s. classica a due valori (vero, falso). Un modello classico M per un linguaggio formale L è una coppia <I, D> costituita da una funzione d’interpretazione I e da un insieme non vuoto (finito o infinito) detto dominio di discorso D. La funzione I deve assegnare alle espressioni semplici di ciascuna categoria sintattica un opportuno valore semantico, in modo che risultino composizionalmente determinati i valori semantici di tutte le espressioni composte e ogni enunciato risulti vero oppure falso nel modello. Un enunciato E è una conseguenza logica classica di un insieme di enunciati Γ se, e solo se, per ogni modello classico M, se tutti gli enunciati in Γ sono veri in M, allora anche E è vero in M (➔ anche logica matematica). Sono state elaborate anche altre s. basate su diverse concezioni filosofiche, sia per la logica classica sia per altre logiche. Basti menzionare le s. dei mondi possibili per le logiche modali (dovute soprattutto a Kripke), le s. per la logica intuizionistica, in cui i modelli possono essere intesi come rappresentazioni matematiche dei diversi stadi conoscitivi di un soggetto idealizzato (elaborate da Beth a metà degli anni Cinquanta e da Kripke negli anni Sessanta), e le s. «a supervalutazioni» (Van Fraassen) per le cosiddette logiche libere.