Sicilia
(Cicilia). – Storia. Le vicende storiche della S. che ebbero profonda influenza e risonanza nell'animo della generazione alla quale appartenne D. furono prevalentemente quelle dalla dominazione normanna in poi, scarsissime essendo le notizie che un intellettuale fiorentino vissuto tra i secoli XIII e XIV poteva avere delle cause e dello svolgimento dei domini bizantino e musulmano sull'isola. Ripercorrere queste vicende, dunque, vuol dire offrire un quadro della situazione storica quale poteva risultare alla considerazione e soprattutto agl'ideali politici di D., così come appaiono soprattutto nella Commedia e nella Monarchia. (Per gli echi specifici v. oltre. V. anche le voci dedicate ai singoli sovrani e avvenimenti; le voci ANGIÒ; VESPRO; ecc.; quelle sulle più importanti città).
Padroni della Calabria, i Normanni si lanciarono alla conquista della S., ov'erano portati da ineluttabili esigenze strategiche, economiche, politiche e altresì religiose, poiché l'impresa rientrava nel quadro di quella riscossa dell'Europa cristiana contro l'Islam, che, iniziata nel Tirreno ai principi del sec. XI, culminò al fine di esso con le Crociate. Nel 1060, i Normanni, chiamati in aiuto dall'emiro di Siracusa in guerra con quello di Agrigento, si sentirono invogliati a passare lo stretto. Condottieri della spedizione i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero d'Altavilla; ma se il primo, duca di Puglia, tenne il comando supremo dell'impresa, esecutore insonne e animoso di essa fu invece il secondo. Caduta Messina nel maggio 1061, bisognò fiaccare i Musulmani in due battaglie campali, sul corso del Dittaino e presso Cerami, per raggiungere Enna (Castrogiovanni), ambito obiettivo nel cuore della Sicilia (1064). La guerra riarse sette anni dopo intorno a Palermo, che, famosa in tutto il mondo arabo, era stata già adocchiata dai Normanni come dai Pisani. Genialmente investita per terra dalle truppe di Ruggero e per mare dalla flotta che il Guiscardo aveva di proposito allestito a Otranto, la magnifica città capitolava nel gennaio 1072: ai vinti, che giurarono fedeltà ai vincitori, vennero da questi garantite libertà di culto, istituzioni, magistrature e consuetudini proprie. L'impresa proseguì negli anni seguenti con cauta lentezza, da parte normanna, e con alterne vicende, finché si compì nel 1091 con la caduta di Butera e di Noto, ultime piazze restate agli Arabi. L'anno dopo erano raggiunte e rese tributarie Malta e Gozo, sentinella avanzata della S. nel Mediterraneo. Ruggero, potente e temuto, consolidò con energia politica il suo potere, denominandosi ‛ Gran conte di S. e di Calabria '.
Dalla S. Ruggero II, figlio e successore di Ruggero I, trasse le forze militari e pecuniarie per far valere i propri diritti sul ducato di Puglia, quando nel 1127 si estinse col duca Guglielmo la discendenza del Guiscardo. E alla S. si saldò, dopo che Ruggero ebbe superato le resistenze nemiche, non solo il ducato di Puglia, ma anche il principato di Capua, poiché il principe, che discendeva dal ceppo normanno dei conti di Aversa, riconobbe la sovranità del Gran conte di Sicilia. Interprete della sua volontà, un'assemblea, da lui convocata a Salerno, deliberò di organizzare tutti codesti organismi politici in uno stato unitario, in un regno di cui Ruggero assunse, con fastoso rito, la corona nel duomo di Palermo, nel Natale 1130. E si denominò ‛ rex Siciliae ': era dalla S. che scaturiva l'energia unificatrice e animatrice del nuovo stato.
Vassallo della Santa Sede per la parte continentale del regno, Ruggero conservò, nonostante i conflitti col Papato, assoluta sovranità sulla S.; né, incline com'era alla costituzione di una Chiesa nazionale, come quella che avrebbe portato un accrescimento del suo potere, egli tollerò che le prerogative derivanti dall'Apostolica Legazia subissero sostanziali limitazioni. La S., la regione prediletta del suo cuore, fu il centro della nuova monarchia, e Palermo, memore degli splendori della corte araba, la capitale. Notevole il contributo che la S. gli fornì nell'organizzazione dell'amministrazione centrale del regno, in cui agirono influenze bizantine e arabe, quelle prevalentemente nel ramo politico-amministrativo, queste nel finanziario. Pieno di vigore, questo stato volle espandersi. Se le imprese di Ruggero II nella Balcania dovevano sventare le minacciate rivendicazioni bizantine sulle perdute provincie italiane, quelle in Africa culminate nel 1146-48 miravano a procurare alla S. il dominio del Mediterraneo e mercati su cui riversare i prodotti della rinata agricoltura isolana.
Morto Ruggero, la feudalità, da lui tenuta a freno, rivelò insofferenza, macchinando a Palermo, attorno alla corte, complotti tenebrosi e non disdegnando, a sostegno di essi, il ricorso allo straniero. Tristi giorni ebbe il regno di Guglielmo I (1154-1166) che corse pericolo di essere spodestato; le repressioni spietate ferirono ma non distrussero l'oltracotanza signorile, mentre ai vecchi altri contrasti si aggiunsero, fomentati da ambizioni e da rivalità d'indigeni e di stranieri intriganti a corte. La pace tornò sotto Gugliemo II (1172-89). Fervida allora non meno che fortunata la politica estera di questo re: in Africa, grazie a vantaggiosi trattati, l'influenza siciliana fu restaurata; i brillanti successi della flotta ridiedero libertà di movimento nel Mediterraneo; nella lotta tra comuni e Impero gran peso ebbe per le forze italiane la partecipazione al loro fianco del re di Sicilia.
Illuminata dalla luce dell'arte, della cultura e di un vivere giocondo; ricca, baldanzosa e forte, la monarchia siciliana attirò l'attenzione del Barbarossa; e un inestimabile successo politico fu il matrimonio che egli conchiuse tra suo figlio e Costanza, figlia di Ruggero II ed erede della corona di S. (1186), poiché Gugliemo II non aveva figli. Senonché la successione sveva determinò una grave crisi, dato che un partito ‛ nazionale ', geloso dell'indipendenza del regno, al tedesco Enrico oppose Tancredi conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero II e reduce glorioso dalle ultime campagne contro i Bizantini. Nuove guerre civili, che Tancredi domò, con abile azione diplomatica. Respinti due volte i Tedeschi, fatta prigioniera la stessa Costanza, benché improvvidamente poi liberata, Tancredi poteva ritenersi sicuro sul trono; ma venne a morte nel febbraio 1194. E allora la debole reggenza per il minorenne Gugliemo III e il tradimento dei baroni agevolarono la conquista di Enrico VI, mentre le flotte di Pisa e di Genova, entrambe, al par di Venezia, preoccupate della potenza politica e dell'esuberante attività marinara siciliana, violentemente gli aprivano le porte di Messina, di Catania e di Siracusa. A Palermo, nel Natale di quello stesso anno, alla germanica e all'imperiale Enrico aggiungeva la corona di Sicilia.
Il vincitore credette di rassodare la propria fortuna spietatamente colpendo quanti nel suo sentivano un dominio straniero, oltre che tirannico: onde un vuoto allarmante intorno alla nuova dinastia, vuoto che si accinse a colmare, con intelligente comprensione dell'anima della sua patria, l'imperatrice Costanza, quando, nel 1197, la morte prematura del marito la rese reggente per il figlio, il futuro Federico II.
Anteponendo gl'interessi del paese ereditario a quelli dell'Impero, ella non solo reclamò presso di sé, perché fosse da lei educato, il figlioletto, ma espulse dal regno tutti i Tedeschi, che, avidi e prepotenti, avevano reso inviso il governo di Enrico VI. Anzi, a vieppiù legarlo all'eredità normanna, Costanza fece incoronare Federico non appena giunto a Palermo, e, morendo, affidò la reggenza al papa Innocenzo III. Al quale, nonostante la riaffermata sovranità della Chiesa sul regno, spetta il merito di averglielo salvato dalle varie brame. La sconfitta tedesca alle porte di Palermo (1200) liberava finalmente l'isola dall'asservimento a un aborrito straniero.
Il destino, ponendo sulla testa di Federico tante corone, lo chiamava ad agire e a grandeggiare su ben più vasti teatri: in S., quindi, pur sempre centro della sua ‛ preziosa eredità ', brevi e fugaci periodi trascorse della sua agitata esistenza. Dall'isola egli cominciò la restaurazione dei poteri dello stato, resa necessaria dagli anteriori sconvolgimenti. Fra i primi colpiti, i Musulmani. Spesso ribelli, si erano trincerati in Val di Mazara, donde, sconfitti, vennero trasferiti, in tre riprese, a Lucera, in Puglia. Nelle rivendicazioni dei regi diritti, autonomie cittadine, privilegi ecclesiastici e feudali vennero inesorabilmente impugnati, suscitando malcontenti e talvolta ribellioni, come a Messina, la più prospera e operosa città isolana, nel 1233. Sotto l'Impero della legge generale furono altresì ridotti Genovesi e Pisani, forti di multiformi privilegi, anzi i primi, che ricalcitravano, addirittura espulsi da Siracusa. Insomma quei principi assolutistici, per cui Federico II, camminando nel solco dell'avo Ruggero e ispirandosi al diritto romano, delineava il primo abbozzo dello stato moderno, ebbero in S., sede dell'amministrazione centrale, la prima applicazione. La politica roggeriana richiamano ancora gli atti diretti a promuovere la ricchezza dell'isola, che le Crociate avevano reso stazione obbligata tra l'Europa occidentale e il mondo islamico: la ripresa espansione in Oriente, i trattati commerciali coi sultanati dell'Africa mediterranea, i tentativi d'introduzione di nuove culture, la costruzione di qualche centro abitato, quale Augusta, ecc. E come Ruggero II aveva onorato i cultori di ogni ramo del sapere e aveva voluto che la capitale e altre città dell'isola si abbellissero di monumenti tuttora mirabili, così il nipote, dotto egli stesso, dischiuse la sua corte alle varie culture del tempo e vi accolse filosofi e scienziati, artisti e trovatori. Per questo ambiente così propizio alla poesia e all'arte, v. SICILIANA, SCUOLA.
Senonché stridenti in S., non meno che nel regno, furono i contrasti provocati dall'indirizzo politico che Federico seguiva, ovvero in conseguenza delle immani lotte che egli, imperatore, re d'Italia e di Germania, combatté col Papato, coi comuni, nell'infida Germania. Fra l'altro, tali lotte importarono per i Siciliani un onere tributario superiore alle loro forze, per cui nel suo testamento Federico ordinò che essi tornassero a godere le prerogative e le esenzioni dei tempi di Guglielmo II.
Gli eventi posteriori alla morte di Federico II (13 dicembre 1250) mostrano quali radici avesse nel cuore siciliano la tradizione dinastica normanno-sveva. Fallito, per il cozzo dei fattori da cui doveva attinger forza, il tentativo di Pietro Ruffo di trasformare in personale signoria il vicariato che deteneva in nome dei legittimi Hohenstaufen; sfumata ancora quella federazione di liberi comuni, che la Chiesa, rivendicante la sua sovranità sull'isola, aveva posto sotto la sua protezione; superata la resistenza delle truppe pontificie, Manfredi cingeva la corona del regno a Palermo nel 1258. Non nel regno soltanto poteva però egli trovare il sostegno capace di sorreggerlo nella guerra mossagli dalla curia romana e, in seguito alla sua usurpazione dei diritti di Corradino, dal legittimismo svevo - e di ciò qualche episodio significativo anche in S. -, sibbene nell'Italia settentrionale, ove più ardente era il moto ghibellino. La disfatta e la morte di Manfredi a Benevento (1266) segnarono un grave scacco per il ghibellinismo, ma nel tempo stesso persuasero ancor più Carlo d'Angiò, già incoronato dal papa re di S., a porre in più immediato contatto il centro della monarchia con le forze politiche prevalenti nella penisola, col guelfismo, di cui aveva testé preso le redini. Di qui lo spostamento, già iniziato da Federico II, del centro politico-amministrativo del regno dall'isola sul continente, la capitale da Palermo a Napoli.
Questa minorazione non poté non influite sui sentimenti isolani, anche se il nuovo dinasta fu presto riconosciuto. Che se scarso di risonanza era stato il moto a favore di Federico d'Antiochia, bastardo di Federico II, impressionanti proporzioni assunse invece l'incendio suscitato dalla fatale impresa di Corradino, incendio che il vincitore intese ciecamente spegnere col sangue e col fuoco. Il ferreo regime con cui, dopo questi fatti, poco accortamente si pensò di sradicare nell'isola le accentuate tendenze sveve; la cupidigia della nuova feudalità; l'oppressione fiscale, imposta dai grandiosi disegni di espansione attraverso cui Carlo voleva connettere la sua alla migliore politica normannosveva; i soprusi e le malversazioni burocratiche, non sempre note al re, che pure aveva vivo il senso della giustizia e della rettitudine amministrativa; tutto ciò, mentre coloriva di rosee tinte il passato, alienava i Siciliani dalla mala signoria angioina, come D. la chiama.
La rivoluzione scoppiò improvvisamente, il 31 marzo 1282, a Palermo, presso la chiesa di Santo Spirito, ove molta gente era convenuta per celebrare la seconda festa di Pasqua, donde ‛ Vespro siciliano ': causa occasionale, il gesto, impudente e imprudente, dei soldati francesi che, dopo gli uomini, si posero a frugare le donne, temendo portassero armi nascoste. La rivolta, rossa di sangue, si propagò subito per le città dell'isola, che, trucidati o espulsi i Francesi, si ordinarono a comune e, ponendosi sotto la tutela della Chiesa e stringendosi in lega fra loro, elessero propri rappresentanti presso un'assemblea federale, che si sarebbe riunita a Palermo.
Già da un pezzo la S. esercitava una forte attrattiva su Pietro III d'Aragona. I diritti ereditari che vi vantava sua moglie Costanza, superstite figlia di Manfredi; la pressione dei fuorusciti siciliani, intriganti alla sua corte, d'intesa coi loro connazionali, ai danni dell'Angioino; i medesimi interessi dell'Aragona, che chiedeva di espandersi nel Mediterraneo e di dare sfogo alla turbolenta feudalità: tutto ciò spiega l'intensa attività diplomatica dell'Aragonese coi nemici del regno angioino, con Bisanzio, con Genova, con i ghibellini d'Italia, negli anni che precedettero l'esplosione del Vespro. Tutto preso quindi dai preparativi di uno sbarco nell'isola, trovò in Africa l'ambasceria che il parlamento siciliano gli aveva inviato per offrirgli la corona del regno. Il suo arrivo in S. persuase l'Angioino ad abbandonare l'isola per mettersi sulla difensiva in Calabria. In essa, ribelle agli Angioini, i Siciliani portarono la guerra: forti motivi imponevano l'annessione di questa regione al nuovo stato siciliano. E la guerra, oltre che in Calabria, divampò sul mare, su cui Ruggero di Lauria teneva alta la bandiera siculo-aragonese, e impegnò, a fianco dell'Angioino, il Papato e la Francia. Prevalse però sempre la ferrea volontà d'indipendenza da cui erano animati i Siciliani. A Giacomo d'Aragona, successo a suo padre nel 1285, essi anteposero suo fratello Federico dal momento che Giacomo, morto senza eredi l'altro fratello Alfonso (1291), non solo preferì l'Aragona alla S., ma questa cedette a Bonifacio VIII in cambio della Sardegna e della Corsica. E, incuranti della scomunica, sostennero Federico, proclamato loro re dal parlamento adunato a Catania nel gennaio 1296, contro la coalizione pontificio-angioina, battendosi sul mare e nell'isola, dove la guerra venne riportata da Roberto d'Angiò e da Carlo di Valois. Nel 1302 le ostilità cessarono col trattato di Caltabellotta: si lasciava a Federico, finché fosse rimasto in vita, la S. col titolo di re di Trinacria. La monarchia normanno-sveva si spezzava in due tronconi separati.
Né pace né concordia seguì però tra i due regni: gli Angioini non sapevano rinunciare alla S.; questa rifuggiva dal mantenere i patti di Caltabellotta, che portavano al sacrificio dell'indipendenza. La discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia riaccese le ostilità poiché Federico II (detto anche III) d'Aragona si appoggiò al ridesto ghibellinismo per fiaccare il re di Napoli, Roberto d'Angiò, capo dei guelfi. E ben sei spedizioni, una delle quali comandata dallo stesso suo figlio, Carlo di Calabria, egli fece, durante il suo lungo regno, contro la S., senza risultati tangibili e duraturi, malgrado gl'imponenti preparativi, gli aiuti della curia romana, la propizia situazione interna dell'isola. Né esito diverso ebbero le posteriori spedizioni di Giovanna I.
L'ambizione degli Aragonesi, di fare della S., secondo il disegno normanno-svevo, la base di un loro predominio nel Mediterraneo, fu un fallimento: troppo inferiori a tale programma furono gli eredi di Federico. Il quale, schierandosi, durante il suo lungo regno (1296-1337), tra gli ultimi paladini dell'Impero in Italia, apportando qualche riforma nell'amministrazione, interessandosi della cultura e della scuola, nella quale intendeva attuare certi suoi ideali di vita evangelica, e soprattutto comportandosi onorevolmente in faccia al nemico, riuscì a conservare alla corona decoro e autorità. Poi, coi successori, crescente avvilimento di essa, mentre la pestilenza, le devastazioni e le stragi della guerra esterna e interna, seminavano dappertutto lo squallore e la morte. E fu il vero Medioevo nella storia della Sicilia. Ma siamo ormai da tempo fuori dall'ambito cronologico dantesco.
Bibl. - Oltre alle più importanti storie della S., si vedano: E. Pontieri, Tra i Normanni nell'Italia Meridionale, Napoli 1964²; M. Schipa, S. e Italia sotto Federico Il, ibid. 1928; W. Cohn, L'età degli Hohenstaufen in S., Catania 1932; M. Caravale, Il regno normanno di S., Milano 1966. Per il periodo angioino e aragonese: E. Jordan, Les origines de la domination angévine en Italie, Parigi 1909; H. Rohde, Der Kampf um Siziliem in den Jahren 1291-1302, Berlino 1913; E. G. Léonard, Gli Angioini di Napoli, traduz. ital. Milano 1967; F. Giunta, Aragonesi e Catalani nel Mediterraneo, Palermo 1959; S. Runciman, I Vespri Siciliani, traduz. ital. Bari 1971. Si vedano inoltre le bibliografie in calce alle voci: ANGIÒ; Aragona; Federico II; Palermo.
Dante e la Sicilia. – La nota affermazione del Pascoli che " alla Sicilia tendeva il cuor di Dante ", non va valutata quale esito di un impulso psicologico-sentimentale e culturale (nel 1900 il Pascoli insegnava nell'università di Messina) o, se si vuole, di un'appassionata intuizione poetica, ma come perspicua visione critica di un rapporto ideale, quale fu quello di D. con la S., che è uno degli elementi essenziali nella formazione della cultura dantesca: la non superficiale considerazione di esso, infatti, è illuminante non pure sul piano della poesia, ma su quello, bensì, della poetica e della nozione di letteratura, dell'ideologia e del pensiero politico dell'autore della Commedia.
È pertanto un problema che investe la più vasta problematicità delle relazioni, nell'opera dantesca, fra tradizione e poesia, fra storia e poesia, fra politica e letteratura. Codesto ultimo rapporto, soprattutto, costituiva nel pensiero di D. un centro di gravitazione nel quale convergevano il suo ideale di uomo politico e quello di letterato militante, tutto proteso all'instaurazione della nuova lingua e della nuova letteratura volgare.
Non è chi non veda, perciò, a quale vasta significazione assurgano in D. gli eventi storici del " Regnum Siciliae ", che si configurano come uno dei nuclei poetici tra i più vitali di tutta la Commedia. L'atteggiamento assunto da D. di fronte al regno di S. e ai suoi più rappresentativi sovrani, da Federico II di Svevia ai re aragonesi, è questione che interessa più di quanto possa sembrare a prima vista, ché, a ben guardare, essa trascende i limiti di un particolare contenuto e rapporto per porsi al centro di un assai più vasto interesse storico ed etico-politico, di validità universale, che investe il giudizio di D. su avvenimenti storici tra i più fondamentali del suo tempo, e il cui giusto intendimento chiarisce la struttura che tali avvenimenti assunsero nell'intimo sentimento del poeta e, per conseguenza, il loro porsi come momento condizionatore dell'attività poetica. Il periodo storico che va dagli Svevi agli Aragonesi, attraverso gli Angioini, implica, in realtà, la storia di tutta la penisola: è, perciò, al centro della meditazione politica di D.: di qui, la viva e poetica presenza del regno di S. nella Commedia.
Ma, prima che agl'interessi del politico militante, la S. emergeva, dinanzi agli occhi del poeta e del letterato, dalle plaghe suggestive del mito e della leggenda, dalla memoria, cioè, dell'appassionato lettore dei classici - tra i quali Ovidio - ma in particolar modo del suo Virgilio, nel cui poema l'isola teneva un ruolo di ordine non secondario.
Le evocazioni paesistiche - che, per la loro potenza realistica, hanno fatto ingenuamente affermare a qualche studioso che D. ebbe a conoscere de visu la Sicilia - non sono, infatti, che una rielaborazione di fonti letterarie con cui D. trascrive, in sintesi fantastica, gli elementi geografici dei molteplici suggerimenti letterari e scientifici. I celebri versi E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo / che riceve da Euro maggior briga, / non per Tifeo ma per nascente solfo (Pd VIII 67-70) richiamano un diretto riscontro con quelli ovidiani delle Metamorfosi (V 346 ss.), in cui la S. viene chiamata " insula... Trinacris " e dove ricorrono i nomi di Tifeo, Pachino e Peloro; ma altra fonte è Plinio e, per quanto riguarda la nozione del nascente solfo, sono presenti Isidoro e Ristoro d'Arezzo. Né va dimenticato Virgilio, che aveva rappresentato l'Etna com'esso si presentava, in una terrificante visione, ai marinai troiani veleggianti lungo le coste dello stretto: " Portus ab accessu ventorum immotus et ingens / ipse; sed horrificis iuxta tonat Aetna ruinis / interdumque atram prorumpit ad aethera nubem " (Aen. III 570 ss.): verso, quest'ultimo, che avrà presumibilmente suggerito a D. quel termine ‛ caligare ' così suggestivamente evocatore. L'Etna si pone come un riferimento geografico emblematico della S.: nella mitica evocazione, nel canto di Capaneo, dei ciclopi che stanno in Mongibello a la focina negra (If XIV 56) - dove la fonte letteraria virgiliana si arricchisce delle confluenze ovidiane e staziane - e nel richiamo a Federico III d'Aragona, cioè a colui che guarda l'isola del foco, / ove Anchise finì la lunga etate (Pd XIX 131-132). Ma, con riferimento al padre di Enea, la S. è anche ricordata in Cv IV XXVI 14-15: sì come dice lo predetto poeta [Virgilio], nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia ne l'anniversario del padre; e ancora con riferimento ad Aceste e Ascanio: E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando (§ 11). E ai compagni di Enea, che, temendo i rischi del viaggio, restarono in S., si allude in Pg XVIII 136-138 E quella che l'affanno non sofferse / fino a la fine col figlio d'Anchise, / sé stessa a vita sanza gloria offerse.
Le fonti letterarie soccorrono D., pur nelle altre evocazioni paesistiche e mitiche dell'isola, come nella rappresentazione delle forze opposte di Scilla e Cariddi: Come fa l'onda là sopra Cariddi, / che si frange con quella in cui s'intoppa (If VII 22-23): fenomeno già descritto da Virgilio, Ovidio, Lucano. A Virgilio e a Lucano rimanda la stupenda perifrasi con cui D. indica la catena dell'Appennino, l'alpestro monte ond'è tronco Peloro (Pg XIV 32); e Ovidio è citato da D. stesso nella rievocazione del mito aretuseo (Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, If XXV 97); ma D., quasi per sottolineare i contrasti profondi della S., sa evocare, accanto al paesaggio dell'Etna e alla dimora dei ciclopi, lo scorcio di un paesaggio edenico, nella cui rappresentazione la reminiscenza ovidiana attinge una nuova dimensione mitica: è la bellezza dell'isola paragonata a quella del luogo paradisiaco dove sta Matelda: Tu mi fai rimembrar dove e qual era / Proserpina nel tempo che perdette / la madre lei, ed ella primavera (Pg XXVIII 49-51); o, in contrasto con la plaga sconvolta, nelle sue viscere, dall'inarrestabile dinamismo dello zolfo e del fuoco, i " teneri prati " e le verdi e ombrose foreste del Peloro: Tityrus hoc propter confugit et Alphesibœus / ad silvam, pecudumque suique misertus uterque, / fraxineam silvam tiliis platanisque frequentem. / Et dum silvestri pecudes mixtaeque capellae / insidunt herbae, dum naribus aera captant / ... litoris Aethnei commendat pascua nobis, / nescius in tenera quod nos duo degimus herba / Trinacridae montis, quo non fecundius alter / montibus in Siculis pecudes armentaque pavit (Eg IV 7-11, 69-72).
Storia e mito della S. remota si mescolano nella rievocazione dantesca, da cui affiorano - tutti nell'Inferno - i nomi di due città isolane tra le più grandi del mondo ellenico, Siracusa e Agrigento. La prima, per il ricordo della tirannide di Dionisio (e Dïonisio fero / che fé Cicilia aver dolorosi anni, XII 107-108; ma a Siracusa andava il suo pensiero - com'è stato recentemente osservato - anche per il ricordo della martire cristiana Lucia, protettrice della vista e una delle protagoniste della sua salvezza). La seconda, per l'accenno a Empedocle, collocato nel nobile castello del Limbo (IV 138), e alla sua filosofia (sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso, XII 42-43); nonché, attraverso la mediazione di Ovidio e di Orazio, per la leggenda del toro di bronzo proposto dall'artefice ateniese Perillo a Falaride, tiranno della città, il quale accettò il dono ma cominciò a sperimentarlo proprio con l'inventore, cosicché il bue cicilian ... mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l'avea temperato con sua lima (XXVII 7-9).
Paesaggio, miti e storia della S. antica visti e rielaborati nell'ambito di fonti letterarie - prima fra tutte quella esemplare del cantore delle " Sicelides Musae " - costituiscono la prospettiva di una vasta tela dalla quale si stagliano, in primo piano, eventi e personaggi della storia contemporanea di S.: una storia sofferta, di cui il poeta è appassionatamente partecipe implicando essa tutto il suo impegno etico-politico e culturale. Ma questa si ricollegava idealmente, nell'esperienza culturale e poetica di D., alla storia antica di S.: quella S. dove due volte era approdato Enea e dalla quale, egli sapeva da Virgilio, avevano preso gli auspici e l'avvio la storia di Roma e di qui la nuova storia d'Italia.
La storia del regno di S. è già storia d'Italia; nel giudizio su di essa, perciò, D. rifletteva le sue aspirazioni di uomo politico e di letterato, le sue ansie speranzose e pur le sue amare delusioni. Se egli fu - come fu - eroico propugnatore dell'idea della Monarchia universale e dell'ideale della imperiale maiestade, non poteva non proiettare il suo pensiero e il suo cuore verso i sovrani del regno di S., allorché questo, massimo tra i regni d'Europa, toccava il vertice della potenza e dello splendore, in una suprema simbiosi di politica e cultura, con Federico II e Manfredi. Certo la storia del regno di S., vissuta da D. con generosa passione sotto l'incalzante urgenza degli avvenimenti, è un tema ora appassionatamente celebrativo ora severamente polemico, che trascorre, come tra i più significativi, non pure nella Commedia ma nelle altre opere dantesche, dal De vulg. Eloq, al Convivio e alla Monarchia.
La bellezza e la magnificenza del regale solium celebrato poi in Federico e in Manfredi (VE I XII 3-4) balenavano dinanzi alla fantasia del giovane poeta attraverso la lettura dei poeti provenzali e francesi, ed egli già nella Vita Nuova correva col pensiero ai primi rimatori in volgare che furono siciliani: E non è molto numero d'anni passati, che appariro prima questi poete volgari... [i quali] quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì (XXV 4-5). Qui le origini della nuova poesia s'intrecciano con la nascita della nuova lingua letteraria d'Italia in una storia che sarà indissolubilmente legata alle vicende politiche dell'isola, onde la Magna Curia federiciana, centro di cultura, non solo letteraria, e di unità politica, assumerà nel pensiero etico-politico di D. e nella sua teoria linguistico-letteraria la forza ideale di un simbolo.
Fra tutti i volgari italici il siciliano è il più degno di esser considerato ‛ illustre ': una constatazione che rispecchiava non pure un giudizio linguistico-letterario, ma il risultato di una valutazione d'ordine storico (v. oltre: Lingua).
Il Notaro, di cui è ricordata per la nobiltà della lingua la canzone Madonna dir vi voglio (VE I XII 8), è comunque considerato capo di quella ‛ scuola ' poetica siciliana che è menzionata, insieme con quella guittoniana, come antecedente storico e poetico della scuola del dolce stil novo. Nella considerazione dantesca la S. federiciana non solo è centro di un'unità linguistico-poetica, per cui tutto ciò che di poetico veniva allora creato in Italia era detto ‛ siciliano ', ma centro altresì di unità politica, in virtù dei due principi, Federico e Manfredi, che avevano saputo far convergere, in armoniosa sintesi, politica e cultura, intelligenza e magnanimità.
D. chiama ‛ aulico ' il volgare illustre della poesia e reputa che di esso saranno degne solo quella ‛ reggia ' e quella ‛ curia ' che potranno dirsi nazionali. E certamente egli pensava alla Magna Curia di Federico II, nella cui politica italiana e imperiale vedeva rispecchiato il suo ideale politico di un forte potere laico, che, in nome dell'imperatore, re dei Romani, facesse l'Italia centro della monarchia universale. In Federico (v.) e in Manfredi (v.) vedeva realizzate le sue teorie esposte nella Monarchia.
Federico è celebrato come l'ultima possanza degli Svevi, ma la sua figura viene assorbita nella luce della gran Costanza, che - com'è stato acutamente osservato - è qui simbolo dell'idea imperiale, come colei che per essa aveva sacrificato la sua vocazione monacale al matrimonio di stato. Sulle fondazioni delle leggende, guelfe e ghibelline, nasceva il mito dantesco della figlia di re Ruggero, madre di Federico: dalla S. normanna a quella sveva. D. non ignorava le gesta dei Normanni d'Italia, né ignorava le doti dei due Ruggero e dei Guglielmo e di Tancredi: ma dei conquistatori normanni ricorda solo il Guiscardo per le sue gesta nella conquista dell'Italia meridionale: con quella che sentio di colpi doglie / per contestare a Ruberto Guiscardo (If XXVIII 13-14); esaltato poi nella gloria del cielo di Marte accanto a Carlo Magno, a Orlando e a Goffredo di Buglione (Pd XVIII 43-48). Gli è che il regno di S., fondato dal gran conte Ruggero, contrastava con la teoria politica dantesca dell'autonomia delle due supreme autorità, il papa e l'imperatore. Di qui quella perplessità di D. dinanzi alla struttura del nuovo stato normanno che è stata sottolineata da V.E. Orlando.
Dei re e principi normanni viene ricordato soltanto Guglielmo II, detto per la sua magnanimità e giustizia il Buono: ottimo sovrano, celebrato dai contemporanei e dai posteri, durante il cui regno i sudditi erano in tanta pace e letizia " ch'elli - come scrive un cronista contemporaneo - non actendevano se none a sonare e ad cantare e dançare ". D. raccoglieva una tradizione che circolava ai suoi tempi, ma la sua esaltazione del re normanno nel cielo di Giove, tra gli spiriti giusti (E quel che vedi ne l'arco declivo, / Guiglielmo fu, Pd XX 61-62) si fondava anche - come ha osservato F. Giunta - sul ruolo che D. assegnava a Guglielmo II nella storia del regno: favorendo il matrimonio della nipote Costanza con Enrico VI, Guglielmo creava le premesse del " ritorno del regno meridionale nell'ambito della sfera politica dell'impero d'occidente ".
Il consenso appassionato di D. alla dinastia sveva, succeduta a quella normanna, era dovuto, dunque, a ragioni ideologiche in cui confluivano l'ideale politico e quello culturale. Accanto a Federico II egli esalta, perciò, il di lui bene genitus figlio, Manfredi, mecenate dei dotti e dei poeti d'Italia, ma anche estremo eroe che, morendo sul campo di battaglia, aveva difeso gli ultimi bagliori dell'idea imperiale.
La condizione ultraterrena del re di S., con il richiamo alla bella e buona Costanza, figlia di Manfredi, dà la possibilità di segnare il passaggio, nella storia del regno di S., dalla tragica fine del regno svevo - che per diversi decenni aveva alimentato le speranze dei ghibellini d'Italia - all'auspicio di una restaurazione imperiale con l'avvento degli Aragonesi. Ma erano intercorsi gli anni del dominio angioino, la cui storia D. conosceva assai bene, fin nei particolari avvenimenti.
Il suo giudizio è decisamente negativo su Carlo I d'Angiò (v.) e sui suoi discendenti: già in If XXVIII 16-18, il poeta menziona polemicamente il tradimento dei baroni pugliesi, che non combatterono - secondo quanto si diceva - contro le milizie dell'Angioino; nel XIX si fa allusione alla leggenda della congiura di Giovanni da Procida che avrebbe determinato la sommossa dei Vespri (vv. 98-99); e in Pg XI all'intransigenza di Carlo con i suoi prigionieri (vv. 136-137); mentre in Pg VII 113 e 124-129 - dove il nasuto Carlo è rappresentato pentito e salvo - vengono riconosciute la saggezza e la superiorità del padre rispetto al figlio degenere; ma è energicamente stigmatizzato nel XX canto, dove, per bocca di Ugo Capeto, viene accusato dell'uccisione di Corradino e pur della morte, per veleno, di s. Tommaso d'Aquino (vv. 67-69).
Il figlio Carlo II, il Ciotto, re di Gerusalemme, ricordato come re di Puglia (Pg V 69), è biasimato, non nominato, come figlio degenere: Tant'è del seme suo minor la pianta (VII 127) e, con disprezzo, quale cattivo principe che aveva fatto mercimonio della figlia (XX 79-81). Sdegnoso giudizio morale che richiama il noto passo di VE I XII 5 nel quale Carlo è accomunato a Federico d'Aragona; richiama anche la condanna di avidità di cui è accusato in Cv IV VI 20; e i versi di Pd XIX 127-129, che suonano ancora condanna della malvagità del re: Vedrassi al Ciotto di lerusalemme / segnata con un i la sua bontate, / quando 'l contrario segnerà un emme, e di XX 63 Guglielmo... / che piagne Carlo e Federigo vivo. Ma sono condannate da D. soprattutto l'ingerenza di Carlo II nella vita dei comuni e la sua politica contro il pubblico segno (Pd VI 106-108).
All'ammirazione dantesca, d'ispirazione etico-civile oltre che politica, per gli Svevi, corrisponde la condanna morale, civile e politica degli Angioini: D. avversa Carlo I e condanna Carlo II perché costoro, vessilliferi degl'interessi guelfi, ostacolavano la restaurazione dell'Impero, mentre si erano resi responsabili altresì della rovina di Firenze. Qui la genesi dell'inesorabile e concitata condanna, scandita in versi di corale e drammatica potenza (l'Amari li definiva " singolare epigrafe di D. sul Vespro ") da Carlo Martello, cui D. fu legato da sentimenti di stima e di amicizia, contro il rapinoso dominio degli Angioini in Sicilia (Pg VIII 67-75). D. esalta qui l'insurrezione del popolo siciliano che, a parte le speranze di una possibile restaurazione sveva, il poeta assume a simbolo della reazione dei popoli ai soprusi della violenza e della tirannide: un simbolo che poteva trovare la sua autenticazione storica nelle secolari vicende della S., dal feroce Dionisio, che fé Cicilia aver dolorosi anni, agli Angioini, da cui l'isola era stata straziata.
L'esaltazione, pertanto, della S. in nome della ribellione dei Vespri è un momento fondamentale non pure della Commedia ma di tutto il mondo etico-politico di D., se si pensa, a ben guardare, che l'insurrezione dei Siciliani contro la tirannide è anelito di libertà politica, senza la quale non può darsi, secondo D., libertà morale e religiosa,.
La cacciata degli Angioini aveva rinfocolato le speranze di D. in una restaurazione sveva. Nella celebrazione di Manfredi assume, perciò, un particolare rilievo la di lui figlia Costanza che, andata sposa a Pietro III d'Aragona, rinverdiva la possibilità di una nuova potenza politica - con l'unione anche dei regni di S. e d'Aragona - cui si sarebbero potute appoggiare le mai sopite aspirazioni dei ghibellini d'Italia.
Manfredi accomuna il richiamo della figlia Costanza con quello dell'ava, la gran Costanza (Pg III 112-117). L'espressione onor di Cicilia e d'Aragona (v. 116) ha tormentato i commentatori antichi e moderni, in quanto l'esaltazione dei due figli di Costanza, Federico e Giacomo, che essa esprimerebbe (onor) è in contraddizione con la recisa condanna che D. pronunzia in diversi luoghi della Commedia e delle altre sue opere. Così il novissimo Federico è severamente biasimato come avaro e vile - insieme con Carlo II - nei già citati passi di VE I XII 5 e di Cv IV VI 20; ma è nella Commedia che il giudizio morale - che è anche giudizio politico - su Federico II d'Aragona (v.) tocca i vertici della condanna sdegnosa e inappellabile.
Federico, rinunziando al proseguimento dell'impresa di Enrico VII, aveva deluso il grande sogno dei ghibellini e quello di D., che, ancora una volta, aveva riposto le sue speranze di una restaurazione imperiale nella virtù di un re di Sicilia.
Fortuna di Dante in Sicilia. - La conoscenza di D. in S. è documentata fin dalla seconda metà del Trecento: si ha notizia, infatti, che " librum unum dictum lu Danti, quod dicitur De Inferno " faceva parte di un inventario di beni redatto a Messina nel 1367, appartenenti alla casa reale di Federico III il Semplice. E notava già il Natoli - che studiò per primo la fortuna di D. in S. - che l'uso di quella metonimia era sintomatico della popolarità che l'autore della Commedia godeva sin da quegli anni nell'isola, più degli altri scrittori toscani. Quella diffusione era in parte dovuta ai sentimenti politici di D., che aveva esaltato il ‛ Regnum Siciliae ' e la rivoluzione dei Vespri, e in parte al trasferimento in S. di numerose famiglie fiorentine, dopo la reazione dei guelfi, seguita alla caduta degli Svevi. Le colonie presero stanza fin nella S. occidentale, dove recentemente è stato scoperto un frammento di codice trecentesco della Commedia, e un codice dantesco era posseduto nella seconda metà del '300 dal mercante messinese Pino Campolo.
Ma in questi ultimi decenni gli studi e le ricerche si sono orientati, oltre che in direzione archivistica e documentaristica, verso indagini tendenti ad accertare la presenza e l'influsso di D. nelle opere di autori che operavano nell'isola tra Trecento e Quattrocento.
Negli anni a cavallo dei due secoli gl'interessi culturali isolani riflettono lo stato di decadenza e le tristi condizioni politico-sociali tanto sconvolte, durante il periodo angioino e aragonese, da guerre esterne e lotte intestine. L'isola tuttavia non restò estranea agli scambi culturali con le altre regioni italiane, anche per merito di quegli studiosi che si recavano a studiare nei centri più noti d'Italia: l'esempio di Tommaso Caloria, studente a Bologna e grande amico del Petrarca, non è unico nelle vicende culturali della S. trecentesca. Studiosi, costoro, che costituirono un sicuro canale di codici danteschi, di cui, purtroppo, non restano allo stato attuale delle ricerche che pochi frammenti, eccetto il codice XIII G I della bibl. Nazionale di Palermo, ivi pervenuto dal monastero dei padri Filippini dell'Olivella (un codice particolarmente apprezzato dal Witte e dal Mai).
La presenza di D., tuttavia, è oggi documentabile in alcune delle opere più significative della cultura isolana della seconda metà del sec. XIV. A parte le pagine degli storici del Vespro, quali Nicolò Speciale e Michele da Piazza - nelle quali numerosi sono gli echi danteschi - vanno più proficuamente segnalati un volgarizzamento, la Sposizione del Vangelo della Passione secondo Matteo (di non facile attribuzione), uno dei più importanti documenti della cultura isolana trecentesca, in cui è chiaramente operante la lezione della Commedia non pure sul piano dei contenuti ma su quello dell'espressione linguistica e letteraria; e un'opera originale, il Quaresimale, in cui - come ha precisato il Resta - è evidente la conoscenza da parte dell'autore, il francescano Ruggero da Piazza, della Commedia, essendo numerosi nell'opera i versi e gli emistichi desunti dal poema sacro. E per dare un altro esempio, va segnalato il Sonicium de libero arbitrio, in dialetto siciliano, un sonetto caudato in cui si vuol mettere d'accordo il libero arbitrio con la prescienza divina: l'autore è persona colta e vi tesaurizza evidenti suggestioni e richiami del canto XVII del Paradiso.
Una più larga diffusione, insieme con la cultura toscana, ebbe D. nel rinnovato clima umanistico.
È noto l'eccezionale contributo che la S. diede all'Umanesimo italiano ed europeo: gli scambi fra gli studiosi isolani e quelli del continente favorirono la penetrazione nell'isola, in più notevole dimensione, anche della Commedia.
Si è potuto, infatti, accertare finora che ben dodici codici del poema sono presenti nel sec. XV in inventari di beni e di librerie, da Petralia Soprana a Palermo, da Messina a Catania, a Trapani, codici cartacei e membranacei (" item liber Dantis pulcher in carta membrana "; " item librum Dantis vetus in carta bombicis "; " item librum Dantis cum comento et tabula ", ecc.): datazione dal 1421 al 1487 (un elenco di tutti codesti codici presenti nei suddetti inventari può vedersi in H. Bresc, Livre et société en Sicile (1299-1499), Palermo 1971). Ma dei suddetti manoscritti l'unico che contiene integralmente la Commedia è quello della bibl. Naz. di Palermo, Fondo Monreale 2, proveniente dalla biblioteca dei benedettini di Monreale. Ad esso va aggiunto il codice 4 Qq A 8 della bibl. Comunale di Palermo, contenente i vv. 1-9 di Pd XXXIII. È forse da escludersi che qualcuno dei codici di cui si ha notizia fosse stato esemplato da amanuensi siciliani; né si conoscono commenti o chiose al poema da parte di studiosi o letterati isolani; innegabile è, comunque, che nell'ambito della cultura umanistica isolana D. ebbe diffusione accanto all'opera del Petrarca, anche se la penetrazione del Canzoniere petrarchesco va in profondo più di quanto non possa dirsi per il poema dantesco: ma questo - è noto - è nel Quattrocento un fenomeno non pure isolano ma italiano (del diffondersi degl'interessi culturali anche in S. il merito principale va attribuito al ruolo giocato dai centri religiosi, primo fra tutti il convento benedettino di San Martino delle Scale di Palermo). La Commedia, tuttavia, già nello scorcio del secolo usciva fuori dell'ambito della cultura dei dotti e dei letterati per operare in testi di più larga diffusione, quali, ad esempio, la cronaca dell'umanista isolano Nicolò Speciale jr. e la Vita Christi Salvatoris eiusque Matris Sanctissimae, di padre Matteo Caldo, nella quale passi della Commedia sono riecheggiati o addirittura tradotti.
Agl'inizi del nuovo secolo cominciarono a circolare, con le opere minori, le prime edizioni a stampa della Commedia, soprattutto quella col commento del Landino, della quale numerose copie sono registrate nell'isola tra Quattrocento e Cinquecento (le edizioni di Brescia, Venezia e Firenze); né bisognerà attendere la seconda metà del secolo - come pur è stato affermato - per accertare l'influsso di D. sugli scrittori e poeti isolani, ché già nel 1543 Claudio Mario Arezzo pubblicava a Messina le Osservantii di la lingua siciliana, et canzoni in lo proprio idioma, in cui sono documentate la fortuna del De vulg. Eloq. presso i dotti letterati siciliani e la difesa strenua di quella tesi linguistica secondo la quale, contro la teoria del Bembo, la lingua italiana sarebbe nata nella Magna Curia federiciana, donde poi si sarebbe trasferita in Toscana. Ma nei primi decenni era presente nell'isola uno studio di Nicolò Liburnio, che è una raccolta di excerpta dal poema dantesco con rimari della Commedia e del Petrarca (cod. VII e 16 della bibl. Nazionale di Palermo); e si ha notizia di un codice appartenente alla biblioteca di D. Antonino Astuto, barone di Forgione (cod. membranaceo a due colonne di caratteri rotondi con capilettere miniate, descritto dal La Ciura); mentre il Maurolico, scienziato e umanista messinese, coltivava con particolare ardore - come illustrarono le ricerche del Perroni Grande - gli studi danteschi. Alla metà del secolo e nei decenni seguenti l'influsso di D. è operante e ininterrotto. Uno dei massimi prosatori siciliani di quel secolo, Paolo Caggio, autore della Iconomica e dei Ragionamenti (Venezia 1551 e 1552) fu appassionato cultore di D., oltre che del Petrarca, del Boccaccio, del Bembo e dell'Aretino: di notevole importanza è una sua lettera dal titolo Delle macchie della luna, onde si cagioni e di che figura sia, che è un'esposizione e interpretazione del canto II del Paradiso sulla scorta delle teorie scientifiche e filosofiche del tempo. Né va taciuta l'opera di Argisto Giuffredi (il postillatore del Decameron e della Gerusalemme Liberata) che testimonia della cultura dantesca dell'autore; né può trascurarsi l'opera poetica del più grande petrarchista siciliano del secolo, Antonio Veneziano, soprattutto le Canzuni sacri e le Canzuni di sdegnu, nelle quali è evidente la conoscenza che il poeta ha di Dante.
Questi scrittori, intanto, propongono un'osservazione che sposta la nostra attenzione su un aspetto nuovo del culto - ché di vero culto si può ormai parlare - di D. in S.: se, cioè, nel periodo precedente gli scrittori erano risaliti a D. per sollecitazioni di carattere morale-religioso ed edificante, ora prevale sugli altri l'aspetto letterario e linguistico dell'opera dantesca; la quale, in definitiva, comincia a circolare nella cultura letteraria isolana come fonte d'ispirazione non pure letteraria ma artistica. D., con il Petrarca, è quasi il nume tutelare degli accademici degli Accesi, di cui basterà ricordare il Giuffredi, l'Agliati, l'Alfano, il Balli: trattasi non solo di echi e reminiscenze - talora di traduzioni addirittura, come nei versi della Gelosia del Paruta: " Undi è cui l'una e l'autra chiavi teni / di lu miu cori e ligami parlandu " - ma di rielaborazione della fonte.
E non solo sono frequenti i riflessi della poesia dantesca nell'ambito della lirica, ma della letteratura drammatica, come nella Tragedia di S. Caterina di Bartolomeo Sirillo, in cui D. è citato nel IV e nel V Intermedio (" Lucifero con tre facce, nella guisa che Dante il dipinge "); nella Santa Cristina Vergine di Gaspare Licco, e ne La Maddalena di Marco Filippo; o, nell'ambito di un altro genere letterario, ne La Surcigiurania di Luigi d'Eredia, o nei poemi d'ispirazione storica, che fiorirono numerosi negli ultimi anni del secolo.
Di questi e altri scrittori dà notizia nel Teatro degli Huomini letterati l'erudito e letterato palermitano Vincenzo Auria (codice qq d 19 della bibl. Comunale di Palermo), che è anche autore di una raccolta di Osservationi di diverse parole variamente usate da diversi autori, dove assai frequenti sono le citazioni di versi e passi della Commedia. Con l'Auria abbiamo toccato del culto di D. nel sec. XVII: un secolo nel quale anche in S. fu profonda l'incidenza della letteratura barocca e, in particolare, dell'opera del Marino, diffusissima nell'isola. Lo studio di D., tuttavia, opera in larga misura, e non solo nell'opera del notaro palermitano Antonio Tantillo, accademico dei Riaccesi, che aveva assunto D. come " suo maestro e suo autore " (la sua Tragedia di S. Rosalia è tutta esemplata, negli spiriti e nelle forme, sulla Commedia), ma in quella dei più notevoli scrittori del secolo. È possibile cogliere reminiscenze e imitazioni dantesche nei lirici dell'Accademia dei Riaccesi e in quelli dell'Accademia della Fucina. Ma una menzione a sé merita il più grande scrittore e critico siciliano del Seicento, il messinese Scipione Errico, che nella sua commedia Rivolte di Parnaso pone D. come uno dei personaggi.
Se non fu interrotto lo studio di D. lungo tutto l'arco del secolo, non può dirsi in realtà che esso fosse stato operante e stimolante: un momento di ristagno che ha un riscontro, anche questa volta, in un fenomeno di dimensione nazionale. Pur in S. le scuole dei gesuiti non erano tenere con il testo dantesco e ciò spiega, in parte, la minore diffusione dello studio del poeta della Commedia.
Con l'affermarsi tuttavia della presenza dei teatini nell'isola accanto ai gesuiti, rinverdisce lo studio di D., anche per un fatto nuovo, di estrema importanza, qual è quello dell'introduzione dello studio del poeta nelle scuole. Per le scuole, infatti, nacque quell'opera di G.B. Bisso, Voci e locuzoni poetiche di D., Petrarca, ecc. che larghissima diffusione ebbe - insieme con la Introduzione alla volgar poesia - nelle scuole isolane. L'operazione culturale del Bisso è contemporanea a quella letterario-poetica di Tommaso Campailla, il filosofo lodato dal Fontenelle e dal Berckley, i cui poemi filosofico-religiosi, L'Adamo (Messina 1728) e L'Apocalisse di S. Paolo (Roma 1739), s'ispirano largamente alla Commedia. Di non minore portata fu, nella seconda metà del secolo, l'opera del pedagogista G.A. De Cosmi, i cui giudizi su D., sul piano della possente ispirazione etico-politico-civile e su quello stilistico, sono stati giustamente rivalutati in questi ultimi anni e considerati degni di occupare un posto notevole nella critica dantesca tra Settecento e Ottocento. Il De Cosmi, per il valore civile della poesia dantesca, propugnava la sua introduzione nelle scuole dell'isola: egli precorreva, così, il culto risorgimentale di D. che sarà proprio dell'imminente età romantica.
Nel secondo Settecento, dunque, D. cominciava già a penetrare in larghi strati della coscienza dell'isola: a una spinta così importante per il rinnovamento della cultura siciliana aveva contribuito il vasto e complesso movimento di studi, e non solo letterari, di quei decenni, nei quali, anche in S., accanto alla prima Arcadia veniva maturando una seconda Arcadia, quella della scienza, che troverà pur essa il suo massimo interprete nel Meli, che conobbe profondamente l'opera dantesca. Nel suo poemetto bernesco, La Fata galanti, D. e il suo poema sono protagonisti di alcuni tra gli episodi più significativi. Ma basterà scorrere il poderoso Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, dello Scinà, per rendersi conto della presenza di D. nella cultura isolana del secolo.
Nel sec. XIX esplode in S. la ‛ fortuna ' di D.: di essa sono un riflesso, nei primi decenni, due poemi, nei quali non solo le reminiscenze, ma le imitazioni della Commedia sono accertabili in misura macroscopica: il Timoleonte in Sicilia del canonico G. Alessi (pubblicato nel 1820) e la Cartagine distrutta di D. Castorina (pubblicato a varie riprese dal 1835 al 1840). Ma sarà legittimo parlare anche di ‛ critica ' dantesca se si pensa all'opera di Francesco Perez, La Beatrice svelata, cui va degnamente assegnato - in virtù dell'effettivo contributo da essa apportato alla problematica critica e all'esegesi per un'interpretazione generale della Commedia - un suo significativo posto nella storia della critica dantesca.
D. nella S. dell'Ottocento è simbolo di una nuova mentalità, che va sorgendo dall'esaurirsi di vecchi ideali, dalla liberazione dai ceppi del municipalismo e dalle ricorrenti chimere del separatismo. Non è certo da attribuire a fortuita coincidenza il fatto che il più autorevole dantista siciliano dell'Ottocento, il Perez, fosse un appassionato fautore, assai prima del 1860, di una S. italiana contro l'ormai esausta ideologia vagheggiatrice di una nazione indipendente dal resto d'Italia; ed è significativo che il primo numero de " La Ruota ", il battagliero giornale siciliano apparso il 10 gennaio 1840 a Palermo, portasse per epigrafe, sotto una quadriga guidata dalla Vittoria, il verso dantesco: Andiam, ché la via lunga ne sospigne (If IV 22) e che il giornale " La Favilla " (che vide la luce nel 1856) si fregiasse anch'esso di un verso dantesco: poca favilla gran fiamma seconda (Pd I 34). È doveroso sottolineare, dunque, l'autentica portata di questi studi danteschi e l'alto valore etico, politico-sociale e culturale che essi assunsero nella strutturazione ed evoluzione dell'Ottocento siciliano. Anche in S. furono indubbiamente operanti le remore dell'ambiente gesuitico-clericale e quelle frapposte dal governo borbonico alle manifestazioni del libero pensiero, ma codesti ostacoli non valsero ad affievolire gli empiti di una nuova spiritualità che, in quegli anni " di convulsioni politiche ondeggianti fra la repubblica, la monarchia, la federazione ", aprivasi, nel nome di D., alle speranze di un'Italia unita. Il 29 marzo 1848 veniva alla luce un giornale politico dalla testata in questo senso particolarmente significativa: " Dante. Giornale che mostrerà la Sicilia in Italia ".
Lo stretto legame che è dato accertare degli studi danteschi in S. con quelli della penisola, c'induce ad assumere, pur in questa nostra particolare prospettiva, il 1865 come punto divisorio delle ricerche dantesche del secolo, che, anche nell'isola, attinsero in quell'occasione un significativo impulso sul piano, almeno, di un'appassionata ripresa del culto di D., poeta dello spirito italico e del rinnovamento morale e civile della nazione: tutto quell'anno centenario " fremette Dante ed echeggiò dei fieri canti della Commedia ". Ci limitiamo a ricordare, per dare qualche esempio, l'ode di Giuseppe De Spuches Ricorrendo il VI centenario di D.A., e il carme di Felice Bisazza D. a Ravenna. Quale suggello di tanto entusiasmo può assumersi la proposta di un tal Giovanni Rapisardi, indirizzata al parlamento nazionale, D. nel secolo decimonono, ovvero necessità di una scuola classico-nazionale in Italia, nella quale si propugnava la fondazione di una cattedra dantesca nell'università, con un corso triennale regolato " secondo un programma legislativo e conformato agli interessi ed alle aspirazioni della patria e del secolo XIX ".
Gli scritti dell'anno centenario costituiscono l'esito di una ricca messe di studi attecchita nei decenni precedenti, la cui varia maturazione e fioritura è dato verificare esaminando le numerose riviste letterarie, venute alla luce in quel torno di tempo a Palermo, a Catania e a Messina - per non dire dei centri minori dell'isola -, le quali si moltiplicarono, a mano a mano, ricollegandosi l'una all'altra e vivendo spesso vita gloriosa, anche se talvolta assai breve, nonostante il freno della censura.
Non mancarono, tuttavia, dantisti di rilievo, quali G. Ardizzone (che pubblicò anche la prima versione italiana dell'opera del Fauriel, D. et les origines de la langue et de la littérature italiennes, Palermo 1856), contraddittore della tesi dell'Aroux; B. Castiglia, autore de La clef de la " Divine Comédie " (Parigi 1865); G. Costantini, G. Balsamo, P. Emiliani Giudici e, primo fra tutti, Francesco Perez, la cui opera Beatrice svelata (Firenze 1865) è stata in questi ultimi anni segnalata per la sua modernità, ponendo essa, già a metà dell'Ottocento, quel rapporto tra allegoria e poesia come essenziale all'interpretazione del mondo della Commedia, che costituirà uno dei più interessanti e dibattuti temi della critica dantesca del Novecento.
Una schiera di studiosi, il cui lavoro di ricerca e di esegesi venne continuato da altri numerosi, benemeriti dantisti, quali L. Vigo e V. Di Giovanni, G. Borghi e G. Bozzo, S. Salomone Marino e G. Buscaino Campo.
Ma se costoro mossero le loro ricerche nell'ambito, soprattutto, dell'erudizione e della filologia, non mancò un filone d'indagine che continuava la critica problematica, di cui il massimo esempio era stato quello del Perez. Si può parlare, anche per la S., di ‛ allegoristi ' e di ‛ antiallegoristi ': tra questi ultimi basti ricordare Matteo Ardizzone, che sostiene l'effettiva esistenza, nella realtà, di Beatrice (l'Ardizzone fu anche poeta di nobile ispirazione dantesca nella cantica epico-lirica in terzine Il pianto di Rachele e nel Trionfo di Costantino, Palermo 1852); e il Cesareo, indagatore spesso fine e penetrante dei motivi umani e poetici della Commedia e della Vita Nuova. Del culto di D. in questo secolo sono altresì probanti testimonianze le numerose edizioni siciliane della Commedia (dieci edizioni nella seconda metà del secolo), di cui può considerarsi autorevole capostipite quella palermitana del 1830 con il commento del gesuita Pompeo Venturi (riproduceva l'edizione di Bassano del 1815): un testo che venne adottato nelle scuole palermitane. Ebbero diffusione anche raccolte di rime dantesche. Le celebrazioni del 1865 diedero la stura a un profluvio di odi, canzoni, inni ispirati alla grandezza non pure di D. poeta, ma fondatore della lingua e della letteratura italiana, nonché profeta dell'Italia risorgimentale. Una fioritura che continua tra la fine dell'Ottocento e i primi del nuovo secolo: basti ricordare, fra i numerosi autori, in lingua e in dialetto, i 300 sonetti che compongono il Dante di G.A. Costanzo e un sonetto del Martoglio, Amuri anticu e amuri prisenti, o la traduzione in siciliano del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pari di N. Pappalardo (in Siciliana, Catania 1890).
Ma il culto di D. e l'istanza di diffonderne la voce tra il popolo sono testimoniati dalle traduzioni integrali della Commedia in dialetto siciliano: da quella di T. Cannizzaro (1904) a quella di F. Guastella (1923) e di G. Girgenti (1954) e a quelle tuttora inedite di V. Mirabella Corrao (ms. XIV F 17 della bibl. Nazionale di Palermo), di A. La Maestra, e del padre D. Cannalella (manoscritto presso l'Istituto di Filologia Romanza, Facoltà di Lettere dell'università di Palermo).
Sul piano della ricerca critica illustri dantisti siciliani del Novecento hanno dato contributi di fondamentale importanza: ci limitiamo a ricordare il Gentile, S. Santangelo e il Pagliaro; il Battaglia e il Pernicone; il Giuffré e l'Orestano; il Migliore e il Biondolillo: ma con questi studiosi la presenza critica dei ‛ siciliani ' entra nel più vasto dominio della critica dantesca italiana.
Va per ultimo ricordata, come testimonianza della fortuna di D. nell'isola, la Lectura Dantis Siciliana edita dall'Accademia "Cielo d'Alcamo " (Trapani 1954-1959) a c. di G. Cottone, P. Calandra e A. Vallone. Anche la fortuna iconografica di D. in S. è notevole, riflettendo gli atteggiamenti dell'ambiente storico nei riguardi dell'opera dantesca: dalle incisioni settecentesche (assai noto è un ritratto che arricchisce un manoscritto del marchese di Villabianca) alle numerose tele ottocentesche, quelle, ad es., del pittore Andrea D'Antoni, illustratore di alcuni degli episodi più significativi della Commedia (Il giudizio di Minosse, Incontro con Sordello, Pia dei Tolomei, D. e Virgilio, Virgilio e i Demoni); e, nel nostro secolo, all'interpretazione pittorica della Commedia di Renato Guttuso (Milano 1970).
Bibl. - M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, Parigi 1843 (rist. a c. di F. Giunta, Palermo 1969); M. Musumeci, Ragionamento intorno alle sfavorevoli impressioni di D. per Federico Il re di Sicilia, Catania 1864; L. Vigo, D. e la Sicilia. Ricordi, in " Rivista Sicula di Scienze Letteratura ed Arti " I (1869), rist. in Opere, IV, Acireale 1900; G. Todeschini, Scritti su D., III, Vicenza 1872; S. Salomone Marino, Di alcuni luoghi difficili e controversi della D.C. interpretati col volgare siciliano. Lettera al prof. F. Corazzini, Palermo 1873²; V. Di Giovanni, Di alcuni luoghi di D. sopra Federico aragonese re di Sicilia, in Scuola, scienza e critica, Palermo 1874; G. Bozzo, Voci e maniere del siciliano che si trovano nella D.C., in " Propugnatore " XII 2 (1879); XIII 2 (1880); S.V. Bozzo, Note storiche siciliane del secolo XIV, Palermo 1882; P. Castorina, Catania e D., in Studi, Catania 1883, A. Mazzoleni, La S. nella D.C., in " Rassegna della Letteratura Siciliana " I (1893) nn. 1-3; E. Moore, D. and Sicily, in Studies in Dante. Second Series. Miscellaneous essays, Oxford 1899; A. Tobler, Der provenzalische Sirventes " Senher n'enfantz, s'il vos platz ", in " Sitzungsberichte der Königlich Preussichen Akademie der Wissenschaften " XVII (1900); G. Pitré, Le tradizioni popolari nella D.C. Appunti, Palermo 1901 (rist. in " Nuovi Quaderni del Meridione " III [1965], numero speciale su D. e la S.); M. Mandalari, Ricordi di S., Randazzo-Città di Castello 1902; F. Torraca, Il Regno di S. nelle opere di D., in Nel VI Centenario della visione dantesca le scuole secondarie di Palermo. Maggio 1900, Milano-Palermo 1900 (rist. in Studi danteschi, Napoli 1912); ID., recens. a H. Finke, Acta Aragonensia, in " Bull. " XVII (1910); M. Fresta, Il Regno di S. nelle opere di D.A., Acireale 1920; G. Pascoli, La S. in D., in Conferenze e studi danteschi, Bologna 1921 (rist. in Prose, a c. di A. Vicinelli, II, Milano 1952); C. Lupo, L'elogio di D. a Federico d'Aragona re di S. e la data di composizione del III canto del " Purgatorio ", in " Archivio Stor. per la Sicilia Orientale " s. 2, III-IV (1928), recens. di S. Frascino, in " Giorn. stor. " XCVI (1930), e di G. Vandelli, in " Studi d. " XV (1931); F. Ercole, Il pensiero politico di D., Milano 1928; G.A. Cesareo, D. e la S., in " Il Giornale di Sicilia " 15 novembre 1934; V.E. Orlando, D. e la S., in Scritti e discorsi per la Dante, Roma 1953; D. Ferraro, La S. nella " Commedia " di D., in " La Giara " IV 4 (1955); A. De Stefano, Federico III d'Aragona re di Sicilia (1296-1337), Bologna 1956²; ID., Correnti politiche al tramonto del Medioevo, II: La polemica intorno a Ludovico il Bavaro, Palermo 1949; Sposizione del vangelo della Passione secondo Matteo, a c. d. P. Palumbo, I, ibid. 1954; F. Corsaro, D. e la S., in " Politica e Cultura " I 2 (1957); S. Correnti, D. e la S., in Studi e ricerche di storia di S., Padova 1963; ID., D. a Catania, in Contributi alla storia di Catania, Padova 1964; ID., D. e la S., in " Nuovi Quaderni del Meridione " III 9 (1965); L. Sciascia, D. e la S., in " L'Ora " 15-16 maggio 1965; F. Giunta, D. e i sovrani di S., in " Boll. Centro Studi Filologici Linguistici Siciliani " X (1966); P. Palumbo, Il novissimo Federico nel giudizio dantesco, in D. e la Magna Curia, Palermo 1966, 226 ss.; I. Peri, " La luce della gran Costanza ", in D. e la Magna Curia, cit., 264 ss.; S. Caramella, Il soggiorno ideale di D. in Sicilia, ibid., 367 ss.; O. Baldacci, La S. dantesca tra geografia e allegoria, ibid., 335 ss.; P. Mazzamuto, L'epistolario di Pier della Vigna e l'opera di D., ibid., 201 ss.; D. Di Sacco, Storia e miti della S. nella Commedia di D., in " Nuovi Quaderni del Meridione " III 9 (1965); N. Vivona, D. e la S., in Annuario del Liceo Classico Statale Francesco Vivona, Roma 1968; E. Ragni, Federico II, in Dizionario critico della Letter. italiana, a c. di V. Branca, II, Torino 1973.
Per la fortuna si vedano: G.B. Bisso, Introduzione alla volgar poesia, Lucca 1755 e Messina 1757; ID., Voci e locuzioni poetiche di D., Petrarca, Ariosto, Tasso e da altri autori del Cinquecento, Palermo 1756; L.F. La Ciura, Nuova raccolta di opuscoli di autori siciliani, ibid. 1795; G.A. De Cosmi, Elementi di filologia italiana e latina, ibid. 1796-1805; G. De Spuches, Ricorrendo il VI centenario di D. - Ode, in Nuove poesie, ibid. 1865 (rist. in Opere, I, Firenze 1892); R. Mitchell, Pel VI centenario di D.A.-Canto, Messina 1865; A. Morvillo, A D.A. in occasione del VI centenario. Ode di offerta, Palermo 1865; V. Pappalardo, Nella ricorrenza del sesto centenario di D.-Terzine, Trapani 1865; A. Scorsonelli, Per la festa del sesto centenario di D.-Ode, Messina 1865: F. Bisazza, D. a Ravenna. Carme, ibid. 1865; C. Pardi, Pel VI centenario di D. - Ode, in Scritti vari, I, Palermo 1873; S. Salomone Marino, Di un codice membranaceo inedito della D.C., in " Nuove Effemeridi Siciliane " s. 3, III (1887); L. Natoli, Gli studi danteschi in Sicilia. Saggio storico bibliografico, in " Arch. Stor. Siciliano " n.s., XVIII (1893); V. Labate, La prima conoscenza della D.C. in S., in " Giorn. stor. " XXXV (1900); L. Perroni Grande, Della varia fortuna di D. a Messina, Messina 1900; ID., L'anno santo di D.A. e la R. Accademia Peloritana, Catania 1900; ID., Per la varia fortuna di D. e per la storia della cultura a Messina nel secolo XV, Messina 1904; ID., Bibliografia dantesca messinese, Reggio Calabria 1935; ID., Pagine dantesche del patriota messinese Giuseppe La Farina. Spigolature bibliografiche, Messina 1939; ID., La fortuna di D. a Messina nel '400, in " Giornale d'Italia " 29 marzo 1941; C. Tommaso Aragona, Per la varia fortuna di D. in Sicilia. Due catanesi della prima metà del secolo XIX imitatori di D., in " Giorn. d. " XII (1904); N. 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Correnti, Un manoscritto di D. sarebbe nascosto in S., in " La Sicilia " 15 aprile 1955; E Li Gotti, La D.C. in dialetto, in " Il Giornale di Sicilia " 11 giugno 1955; R. De Mattei, D. in S., ibid. 30 ottobre 1962 (su T. Cannizzaro, traduttore in dialetto siciliano della Commedia); G. Aliprandi, Le tappe siciliane del Congresso della Dante, in " Gazzetta del Veneto " 19 ottobre 1960; R. Giuffrida, Frammento di un codice trecentesco della D.C. scoperto nell'Archivio di Stato di Trapani, in " Trapani. Rassegna mensile della Provincia " X (1965); V. Spitaleri, Frammenti di un codice trecentesco della D.C., in " Il Giornale d'Italia " 27 ottobre 1965; M. De Mauro, Preziosi frammenti di un codice dantesco scoperti nell'Archivio di Stato di Trapani, in " L'Ora " 5-6 nov. 1965; G. D'Anna, Le edizioni siciliane delle opere di D., in D. e laMagna Curia, cit., 356 ss.; M. De Riquer, Il Poeta Andrea Febrer, castellano di Catania, primo traduttore della Commedia in catalano, ibid., 425 ss.; A. Leone De Castris, Pirandello e la poesia di D., ibid., 356 ss.; G. Piccitto, Il capitolo XII del libro del " De vulgari eloquentia " nell'interpretazione di C.M. Arezzo, ibid., 381 ss.; G. Resta, La conoscenza di D. in S. nel Tre e Quattrocento, ibid., 413 ss.; A. Dotto, Quattro volte tradotto D. in siciliano, in " L'Ora " 5 nov. 1965; D. Cicciò, Il quinto " D. siciliano " è opera di un messinese, in " La Gazzetta del Sud " 11 nov. 1965; N. Tedesco, Presenza di D. nelle scuole siciliane nel secondo Settecento. L'opera del Bisso e del De Cosmi, in D. e la Magna Curia, cit., 464 ss.; G. Santangelo, La critica dantesca in Sicilia nell'Ottocento, ibid., 436 ss.; ID., Lineamenti di storia della letteratura in Sicilia dal sec. XIII ai nostri giorni, Palermo 1952; G. Salvo Barcellona, Iconografia dantesca in Sicilia, in " Nuovi Quaderni del Meridione " III 9, cit.; F. Brancato, Un uomo politico interprete di D.: Vittorio Emanuele Orlando, ibid.; F.L. Oddo, Gli studi danteschi di Alberto Buscaino Campo, ibid.; U. Maida, Le origini della questione della lingua e la dottrina del volgare illustre in D., ibid.; F. Cilluffo, Le traduzioni siciliane della D.C., ibid.; G. D'Anna, La S. nella D.C. (saggio bibliografico con appendice), ibid.; H. Bresc, Livre et société en Sicile (1299-1499), in " Boll. Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani " suppl. 3, Palermo 1971.
Lingua. - Come la Sardegna, anche la S. per D. non fa propriamente parte dell'Italia, ma va ‛ associata ' all'Italia, e precisamente all'Italia di ‛ destra ' i (VE I X 7, VIII 8), parere che doveva essere comune, se Brunetto Latini (Tresor I CXXIII 9) attesta: " Li plusor dient que Sesille n'est mie en Ytalie, ains est un pais par soi "; e molto più avanti la S. sarà considerata a sé stante anche dal Machiavelli (Dialogo della lingua, in Opere, a c. di F. Flora e C. Cordiè, II 807): " Alcuni altri tengono che questa particula sì non sia quella che regoli la lingua, perché se la regolasse, e i Siciliani e li Spagnuoli sarebbero ancor loro, quanto al parlare, Italiani ".
Nel successivo paragrafo, dove D. elenca, sulla base della contiguità geografica, le principali varietà dialettali d'Italia, il siciliano è accostato e distinto dalla lingua degli ‛ Apuli ', cioè dei meridionali continentali stanziati nel Regno, e tale accostamento torna nell'esame linguistico di VE I XII, certo non solo per la vicinanza geografica, ma anche per l'appartenenza a uno stesso stato.
Al siciliano D. riconosce un ruolo preminente, iniziando da esso la trattazione dei volgari italiani dopo il capitolo I XI dedicato all'eliminazione dei dialetti più turpi. Le ragioni di questa preminenza sono chiaramente spiegate da lui stesso (VE I XII 2-4): il siciliano si è conquistato fama superiore a quella degli altri volgari italiani perché (§ 2) quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur (giudizio cui fa riscontro la classificazione del quasi contemporaneo Jofre de Foxa, che nelle Regles de trobar [ediz. Li Gotti, p. 78], nomina fra i volgari d'arte, assieme a provenzale, francese, gallego e catalano, il " ciciliano "), e perché perplures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse (a riprova vengono citate due canzoni di Guido delle Colonne). Le ragioni , dell'egemonia siciliana sono individuate da D. nella politica illuminata di Federico II e Manfredi, in virtù della quale attorno a loro convenivano i personaggi più eccellenti d'Italia, e quanto di meglio si produceva nella penisola vedeva la luce nella loro reggia: et quia regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri praedecessores vulgariter protulerunt, sicilianum voc[ar]etur; quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt (§ 4).
Giudizio storiografico mirabilmente esatto, che coglie i caratteri fondamentali di quella esperienza: il suo valore istituzionale, eponimo, per la creazione di una tradizione letteraria italiana, il suo rapporto necessario con l'azione statuale e culturale dei sovrani svevi, il carattere interregionale dei rappresentanti della " Magna Curia ". Ed è in questa pagina che prende implicitamente forma per la prima volta quella nozione politica e nazionale di volgare illustre che poi D. espliciterà nel capitolo I XVIII definendo i concetti di volgare ‛ aulico ' e ‛ curiale '. Ciò che invece sfugge completamente a D. è l'originaria sicilianità (e sia pure una sicilianità decantata) dei poeti della Magna Curia: il cui linguaggio è proclamato identico al volgare illustre: nichil differt ab illo quod laudabilissimum est (VE I XII 6).
Alla base dell'errore di prospettiva dantesca sta, com'è ben noto, una ragione molto semplice e precisa: e cioè che egli leggeva i testi dei ‛ Siciliani ' più o meno come li leggiamo noi oggi, in manoscritti fortemente toscanizzati (per l'esattezza, il codice da lui utilizzato doveva essere affine al Vaticano 3793, il cosiddetto Libro de varie romanze volgare, fiorentino dello scorcio del Duecento). D'altronde è proprio attraverso quel travestimento toscaneggiante che la lirica dei ‛ Siciliani ' esercitò la sua influenza decisiva sulla vita letteraria italiana, non solo in Toscana ma anche nell'Italia del nord, per cui la valutazione di D., geneticamente inesatta, è però esattissima per quanto riguarda l'azione diacronica dei ‛ Siciliani ': la cui lingua poté imporsi come modello letterario sovraregionale proprio in virtù della perdita dei tratti idiomatici avvenuta nelle copie manoscritte toscane.
La lingua di Guido delle Colonne e compagni non rispecchia dunque per D. il siciliano. Questo, come tale, non ha diritto ad alcuna preferenza, se lo considera appunto secundum quod prodit a terrigenis mediocribus (dove l'aggettivo, pur non immemore della connotazione retorica connessa alla tradizionale categoria di stile mediocre, avrà tuttavia carattere concretamente sociologico: " i nativi dell'isola di media condizione ", " di media levatura "), nel qual caso non sine quodam tempore profertur, cioè viene pronunciato strascicando le parole: appunto, come notò già il D'Ovidio, analogo a quello che ancor oggi i Toscani sogliono muovere ai meridionali. Come esempio di siciliano ‛ mediocre ' D. cita il verso Tragemi d'este focora, se t'este a boluntate, che è il terzo del Contrasto di Cielo d'Alcamo (i primi due infatti, come osservato dal Monteverdi, non presentano nella trascrizione del codice Vaticano particolari coloriture idiomatiche). Dunque D. interpreta come documento dialettale ciò che nel Contrasto è utilizzazione riflessa di un registro basso di lingua a fini di contrappunto stilistico e sociologico; pertanto la citazione ha qui valore diverso da quelle di testi letterariamente affini nel capitolo precedente (Canzone del Castra, improperium contro Milanesi e Bergamaschi), dei quali egli sottolinea apertamente il carattere parodistico (v. GIULLARESCA, POESIA).
Così l'impressione di ‛ strascicatura ' deriva in realtà da una caratteristica metrica del testo citato, cioè dal fatto che ogni primo emistichio di verso alessandrino del Contrasto termina con una parola sdrucciola; d'altronde proprio con tragemi si apre la canzone perduta di D. citata in VE II XI 5, Tragemi de la mente Amor la stiva. Quanto agli altri caratteri idiomatici del verso: i plurali ‛ regolari ' o analogici che fossero in -ora (" corpora ", " pratora ", " locora ", ecc.), benché presenti anche in toscano popolare e attestati nella lingua letteraria toscana fino al Boccaccio e oltre, dovevano essere sentiti da D. come spiccatamente dialettali per il fatto che i doctores siciliani li evitano scrupolosamente nelle loro poesie; " este ", forma meridionale e siciliana (" esti "), ma anche toscana occidentale, è invece attestato pure nei lirici curiali, ma certo doveva parere a D. ‛ strascicato ' di fronte al suo è (e tuttavia este è, in rima, in Pd XXIV 141), mentre sgradevole gli sarà sembrata anche l'equivocazione con l'adiacente dimostrativo " este " (" queste "); infine " boluntate " risponde alla diffusa isoglossa meridionale dv > bb (ad voluntate(m) > " a bbolontate "), la stessa notata da Salimbene da Parma (ediz. Scalia, p. 522) per Apuli e Siculi che " quando volunt dicere ‛ Quid vis? ' dicunt: ‛ Ke boli? ' ".
Bibl. - F. D'ovidio, Il trattato De Vulg. Eloq. di D.A., in Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, II, Napoli 1932 (= Opere di F. D'O., IX Il), 293-301, 308-309; Marigo, 96 ss.; G. Vidossi, L'Italia dialettale fino a D., in Le Origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani..., Milano-Napoli 1956, XLIX; A. Schiaffini, Interpretazione del De Vulg. Eloq. di D., Roma 1963, 87 ss. Per i fenomeni dialettali del verso del Contrasto: P. Aebischer, in " Archivum Latinitatis Medii Aevi " I (1933) 5-76; F. Ugolini, in " Giorn. stor. " CXV (1940) 161-187; A. Monteverdi, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, 103-121; G. Bonfante, in " Rass. Lett. Ital. " LIX (1955) 41 ss.; C. Merlo, Saggi linguistici, Pisa 1959, 8 ss.; Rohlfs, Grammatica §§ 240, 370, 540. Per il problema letterario: Contini, Poeti I 173 ss.; M. Marti, Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 7-28; B. Panvini, L'esperienza dei siciliani e il volgare illustre di D., in Atti del convegno di studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 236-249.