SICILIA
SICILIA (gr. Σικελία, Τρινακρία; arabo Siqilliyya)
Regione dell’Italia meridionιale costituita dall’isola omonima, la più estesa del mar Mediterraneo, lambita a N dal mar Tirreno, a E dal mar Ionio e a S dal mare di S. (o mare Africano), che la separa dall’Africa attraverso il canale di S. o di Tunisi.
Secoli 6°-8°. - Per la posizione geografica al centro del mar Mediterraneo, nodo delle grandi vie di comunicazione tra l’Italia, l’Africa e il Vicino Oriente, e per le risorse naturali, la S. ebbe un ruolo importante nell’età tardoantica e bizantina. Determinante per le trasformazioni arrecate all’assetto politico e socioeconomico dell’isola fu il periodo che coincide con l’impero di Giustiniano I (527-565) e con il pontificato di s. Gregorio I Magno (590-604) e che investe ca. un secolo di storia siciliana. Dominio dei Goti fin dal 491 - eccetto la città di Lilibeo (od. Marsala), che era stata ceduta da Teodorico (474-526) ai Vandali - la S. nel 535 fu teatro della guerra greco-gotica. Belisario, con un esercito forte di settemilacinquecento soldati, mandato dall’imperatore contro Teodato e il popolo dei Goti (Procopio, De bello Gothico, IV, 14), espugnò prima Catania, poi Siracusa e quindi Palermo (ivi, V, 5) e da quel momento la S. tutta rientrò sotto la dominazione bizantina; durante le alterne vicende belliche fu il solo rifugio d’Occidente per gli imperiali e i nobili africani, fuggiti dalla loro regione, dove il potere imperiale era quasi inesistente. Vi riparò per ca. due anni (545-546) Vigilio, che era stato imposto come papa da Belisario nel 537, prima di recarsi a Costantinopoli per dirimere con Giustiniano I la controversia dei Tre Capitoli, e che qui morì nel 555.
La tradizione storiografica (Di Giovanni, 1890) vuole che Belisario, come voto per la vittoria, avesse fondato a Palermo la chiesa di S. Maria dell’Annunziata, detta della Pinta, nel punto più elevato della città, trasformando un vecchio tempio pagano. L’edificio - rappresentato nelle carte topografiche nell’area del Piano del Palazzo, tra le chiese di S. Barbara la Soprana e di S. Giovanni la Galca - venne abbattuto nel 1648-1649 per creare spazio ai baluardi del palazzo reale e di esso rimane soltanto la minuziosa descrizione lasciata da Agostino Inveges insieme con una pianta schematica (Di Giovanni, 1890), nella quale Pace (1949), rigettando l’ipotesi che la chiesa fosse nata dalla trasformazione di un tempio pagano, riconobbe un nuovo tipo architettonico, da lui stesso definito ‘basilica a portico’, perché al posto dei muri perimetrali pieni aveva archi sorretti da colonne.
Subito dopo la conquista bizantina, con una pragmatica - alla quale allude chiaramente il testo della novella 104 De praetore Siciliae (Cracco Ruggini, 1980; Falkenhausen, 1982) - venne istituita la praetura Siciliae, con ordinamento autonomo, che la rendeva amministrativamente indipendente dagli esarcati dell’Italia e dell’Africa. Il praetor Siciliae era un magistrato scelto fra i grandi ufficiali del palazzo imperiale, con la dignità di patríkios e il titolo di stratéghios, proprio dei governatori di province che erano alle dirette dipendenze dell’imperatore (Gregorio Magno, Registrum epistolarum, V, 41; X, 51); egli era affiancato da un dux, che aveva ai suoi ordini un exercitus insulae Siciliae e una flotta. Alla fine del sec. 7° la creazione del tema comprendente l’isola di S. e il ducato di Calabria sotto la guida di uno stratega portò all’effettivo decentramento della difesa e dell’amministrazione e rivalutò sostanzialmente la provincia.
L’uomo più potente nelle città siciliane era, fin dal tempo di Giustiniano I, il vescovo, che svolgeva una duplice funzione religiosa e amministrativa; era a capo di grandi proprietà fondiarie e aveva anche la facoltà di scegliere i funzionari e di amministrare la giustizia. Nel sec. 6° la S., ancora dipendente dal Patriarcato di Roma, aveva almeno undici sedi vescovili (Siracusa, Lentini, Catania, Taormina, Messina, Tindari, Palermo, Lilibeo, Triocala, Agrigento, Lipari), che diventarono sedici (con Alesa, Cefalù, Termini Imerese, Milazzo, Trapani) quando fu creata la provincia ecclesiastica sottoposta al metropolita di Siracusa, e da quel momento si può ritenere compiuto quel processo di grecizzazione della Chiesa siciliana al quale aveva tentato di opporsi s. Gregorio I Magno.
Quando, il 3 settembre 590, s. Gregorio I Magno salì al soglio pontificio, la S. bizantina divenne il centro di un’intensa mobilitazione monastica con cui il pontefice sperava di arginare quel processo di bizantinizzazione ormai in atto nelle città siciliane, che minacciava di scalzare l’intera gerarchia ecclesiastica di estrazione latino-romana. Numerosissime risultano, alla fine del sec. 6°, le fondazioni monastiche menzionate dallo stesso s. Gregorio I Magno nel Registrum epistolarum, che denotano anche in S. una crescente diffusione del cenobitismo, come stava avvenendo nel resto dell’Occidente. Il pontefice avrebbe fondato in S. ben sei cenobi, impiegando le ricchezze che la sua famiglia possedeva nell’isola (Diehl, 1978); altri monasteri sorsero per iniziativa di nobili amici o di dame devote al papa, come quello di Capitulina a Siracusa (Gregorio Magno, Registrum epistolarum, X, 1) e di Adeodata a Lilibeo (ivi, VIII, 34). Analogo è il caso di Rustica, illustris femina, che per testamento incaricò il marito Felice di fondare un monastero in un suo podere di S. (Gregorio Magno, Registrum epistolarum, IX, 164; Falkenhausen, 1982; 1986).
Sull’ubicazione dei monasteri gregoriani permangono ancora oggi molte incertezze, giacché non esiste rispondenza tra fonti scritte ed evidenza archeologica, tra tradizione storiografica e dati monumentali. Di tutti quelli ricordati nelle sue lettere, soltanto per S. Ermete, uno dei sei monasteri palermitani - designato dal pontefice come monasterium nostrum, prossimo a una chiesa dedicata a s. Giorgio (Gregorio Magno, Registrum epistolarum, V, 6; VI, 39) -, è stata dimostrata (Carini, 1873) la veridicità dell’antica tradizione che lo identificava col cenobio normanno di S. Giovanni degli Eremiti, che re Ruggero II (1130-1154) fece ricostruire nel piano di S. Mercurio, vicino alla chiesa di S. Giorgio, come specifica un diploma di Federico II d’Aragona (1296-1337) del 1307 (Pirro, 17333, p. 1068; Agnello, 1969b, pp. 24-25). La presenza di una moschea che sarebbe stata riconosciuta nell’aula rettangolare adiacente alla chiesa normanna, in seguito a restauri condotti alla fine del secolo scorso nel complesso di S. Giovanni degli Eremiti, testimonierebbe una continuità d’uso anche in età araba dell’antico cenobio bizantino.
Il sec. 6° fu per la S. un periodo non solo di guerre e di decadimento, ma anche di nuovo fervore culturale, riflesso della mutata situazione politico-amministrativa e socioeconomica dell’isola (Agnello, 1978-1979, pp. 117, 134-135).
A Siracusa (v.) e nel territorio della sua diocesi l’attività edilizia è documentata in questo secolo da alcuni pregevoli edifici di culto, dal caratteristico presbiterio a triconco, sormontato da una cupola, con una grande nicchia sporgente dall’abside centrale, come la chiesa di S. Pietro ad Baias o de Trimilio, annessa all’omonimo monastero, il S. Pancrati a Cava d’Ispica (prov. Ragusa) e la chiesa inedita di Commaldo, presso Rosolini (prov. Siracusa). I tre edifici sarebbero stati costruiti per iniziativa del vescovo siracusano Stefano, contemporaneo di Giustiniano I, come aule di culto di complessi monastici che sorgevano lungo la via interna che collegava Siracusa all’altopiano ibleo. Riprendono un modello icnografico inaugurato dalle chiese dei monasteri egiziani (Sühàg, Dandarà) e dalle chiese giordane e palestinesi di età giustinianea - come il santuario di Mosè al monte Nebo e la basilica della Natività a Betlemme - e sono prova dell’esistenza di stretti rapporti culturali tra la S. e Costantinopoli, il cui tramite andrebbe ricercato nel complesso fenomeno del monachesimo siciliano.
Ancora al sec. 6°, per lo stile dei capitelli a foglie d’ulivo rifiniti a stucco, è attribuita la chiesa siracusana di S. Martino in Ortigia, con transetto tripartito. Quanto alla chiesa di S. Giovanni Evangelista sorta sull’Acradina, nella regione delle catacombe, in un luogo dove, secondo la tradizione, fu sepolto dopo il martirio il protovescovo s. Marciano, è ormai certo che si tratta di una basilica cimiteriale costruita nel sec. 6° sopra la cripta che accoglieva le reliquie del santo (Agnello, 1978-1979, pp. 124-132).
Un altro interessante aspetto dell’architettura bizantina in S. è la trasformazione dei templi pagani in chiese, in ottemperanza all’editto di Teodosio II (408-450) del 435. Due gli esempi più illustri: l’Athenaion di Siracusa, divenuto chiesa consacrata alla Madre di Dio (od. duomo) al tempo del vescovo Giovanni (595-596), sotto il pontificato di s. Gregorio I Magno (Agnello, 1978-1979; 1990), e il tempio della Concordia ad Agrigento, che, per iniziativa del vescovo Gregorio, tra il 596 e il 597 fu trasformato nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, poi S. Gregorio. In entrambi i casi, la chiusura degli intercolumni della peristasi e l’apertura di arcate nei muri della cella consentirono la realizzazione di una chiesa a tre navate con ingresso da O, ripetendo in S. operazioni analoghe a quelle effettuate, pure nel sec. 6°, sul Partenone e sul Theseion ad Atene.
Anche S. Lorenzo Lo Vecchio, presso Pachino (prov. Siracusa), si ritiene che fosse una chiesa bizantina a tre navate, il cui presbiterio sfruttava le strutture di un monumento funerario a pianta quadrata, coperto da una cupola leggermente depressa e sorretta da pennacchi, e la navata centrale le strutture della cella di un tempio greco.
Per quanto riguarda gli aspetti della cultura figurativa, le testimonianze superstiti riguardano soprattutto i mosaici e l’arredo liturgico delle chiese di fondazione bizantina o recuperate al culto nel 6° e 7° secolo. Oltre al pavimento della terza fase della basilica di S. Miceli a Salemi (prov. Trapani; Bilotta, 1977) e al piccolo lacerto musivo recuperato nei saggi effettuati al duomo di Cefalù (Tullio, 1985), che richiama nello stile il mosaico della chiesa della Pirrera, presso San Pier Niceto (prov. Messina; Gentili, 1969; Vitale, 1997), va ricordato lo splendido mosaico figurato della basilica bizantina di S. Maria della Rotonda a Catania (v.), con quattro riquadri racchiusi entro una cornice di cerchi e quadrati secanti campiti da volatili. Ciascun riquadro comprendeva rispettivamente: una scena di vita nei campi con mietitura, una scena marina e scene di caccia e di vita pastorale (Rizza, 1955). Si tratta di un esempio pregevole di quella koinè artistica che caratterizzò l’intera produzione musiva del periodo giustinaneo, dall’inconfondibile aspetto cosmopolita, che ben si confaceva agli ideali di restaurazione imposti dalla politica dell’imperatore nelle aree riconquistate del mar Mediterraneo (Bonacasa Carra, 1992).
Una conferma indiretta a questi presupposti viene anche dalla scultura architettonica e decorativa della prima età bizantina, conservata nei musei siciliani, specialmente a Siracusa (Gall. Reg. di Palazzo Bellomo; Mus. Archeologico Regionale), nella quale sono presenti tipologie standardizzate, diffuse un po’ dovunque nel mondo bizantino dalle fiorenti officine imperiali del Proconneso (Agnello, 1962; Farioli Campanati, 1982). Il relitto di Marzamemi (prov. Siracusa; Kapitän, 1980), col suo ricco carico di marmi, più che un’eccezione, rappresenta la prova decisiva delle regole cui era sottoposto, al tempo di Giustiniano I, nell’area del bacino del mar Mediterraneo, il commercio del marmo lavorato. La continuità dei rapporti culturali tra Costantinopoli e la S. è attestata anche in età mediobizantina sia dagli stipiti del duomo di Cefalù sia dall’interessante rilievo con albero della vita (Agrigento, Mus. Archeologico Regionale), che trovano puntuali riscontri con la produzione scultorea di ambiente campano e sardo (Bonacasa Carra, 1985; 1989).
Si è parlato per la S. bizantina di una società composita, formata da greci, latini e orientali, equamente distribuiti nella parte orientale dell’isola, stando alle testimonianze epigrafiche. Cospicua fu anche la presenza giudaica, sia nelle grandi città litoranee sia in seno alle comunità di coloni nelle campagne (Calderone, 1955; 1987; Gebbia, 1979; 1996; Messina, 1981; Bucaria, 1996). La storiografia appare divisa, comunque, nel valutare la coesione etnica, tra i sostenitori di una grecità mai sopita (Giunta, 1962) e quanti si sono impegnati a sostegno di un processo di latinizzazione che avrebbe interessato la S. fino al sec. 6° (Pace, 1949, p. 203ss.). Di recente (Cracco Ruggini, 1987; Rizzo, 1988) si sono ormai superate queste contrapposizioni e ci si è orientati verso l’analisi di quei contrasti sociali ed etnico-religiosi che è possibile cogliere nel Registrum epistolarum di s. Gregorio I Magno e nelle leggende agiografiche e che vedono contrapposte le tradizioni latina e greca nell’evolversi del cristianesimo siciliano.
Questa popolazione, così composita, appare distribuita nelle città sedi vescovili e soprattutto nel territorio, dove continuavano a vivere quegli insediamenti di tipo rurale, connessi con lo sfruttamento del latifondo oppure sorti in prossimità di ancoraggi e scali portuali, la cui esistenza, tra i secc. 4° e 6° e in alcuni casi anche parte del 7°, è testimoniata dall’uso continuato delle necropoli e degli edifici di culto (Bonacasa Carra, 1992), come l’insediamento di S. Miceli a Salemi, la cui basilica paleocristiana ebbe anche una fase bizantina, attestata dal terzo livello del pavimento a mosaico, recante un’iscrizione latina dal formulario solenne, che è stata attribuita al periodo di s. Gregorio I Magno (Bilotta 1977, p. 36). Così è anche il complesso di Sofiana (Bonomi, 1964), dove la continuità di vita dal Tardo Antico all’Alto Medioevo è comprovata sia dalle trasformazioni della basilica-martìrion del sec. 4° sia dai corredi della necropoli, specialmente oggetti di ornamento, come gli orecchini d’oro con pendente semilunato lavorato a traforo o la serie di fibbie di bronzo per cintura (Gela, Mus. Archeologico Naz.), assegnabili al sec. 6°-7°, che trovano confronti in analoghi esemplari (Cagliari, Mus. Archeologico Naz.; Palermo, Mus. Archeologico Regionale; Siracusa, Mus. Archeologico Regionale). Si tratta di oggetti raccolti da Orsi (1942) e frutto per lo più di scoperte casuali o rinvenuti in aree cimiteriali sub divo, come quelle di San Leone presso Agrigento, di San Mauro presso Caltagirone (prov. Catania), di Chiaramonte Gulfi (prov. Ragusa), di Piana degli Albanesi (prov. Palermo) e altre sparse nel territorio siciliano (Dannheimer, 1989; Bonacasa Carra, 1992).
Emporia erano sia il citato insediamento di San Leone sia soprattutto quello di Kaukana, la base da cui partì la flotta di Belisario per l’Africa durante la guerra greco-gotica (Procopio, De bello Gothico, III, 14), del quale si conoscono tutte le componenti: abitazioni, magazzini, edificio di culto, necropoli, approdo marittimo (Di Stefano, 1985).
Dalla metà del sec. 5° l’insicurezza fu una condizione permanente delle campagne siciliane, prima per le incursioni vandaliche e poi per le razzie arabe. La creazione sul versante africano degli Iblei di fattorie fortificate, costruite in tecnica megalitica rozza, rappresenta la risposta a questo stato di perenne insicurezza. Allo stesso modo, intorno alla seconda metà del sec. 7°, cominciarono a sorgere per iniziativa del governo bizantino i centri urbani fortificati e anche gli insediamenti per iuga montium, che diedero l’avvio a uno dei fenomeni più complessi della storia siciliana, quello dell’habitat rupestre, secondo un uso che si diffuse nell’Alto Medioevo in tutto il bacino del mar Mediterraneo e perdurò per diversi secoli (Messina, 1979, p. 10ss.). Sull’altopiano ibleo questi agglomerati di piccoli casali sfruttarono le cave, nelle cui pareti venivano ricavate le abitazioni, le chiese, le cisterne, i ripari per gli animali e i depositi per le derrate, lo stesso siste ma viario, come nel caso dell’insediamento rupestre della Valle di Dieri nel territorio di Scicli (prov. Ragusa) o del borgo sviluppatosi tra il sec. 5° e l’8° sulla terrazza di Rosolini. Il centro di culto di quest’ultimo era una chiesetta rupestre a tre navate divise da archi a tutto sesto, sorretti da pilastri di roccia ricavata dall’adattamento di almeno quattro preesistenti ipogei funerari (Messina, 1979, p. 149ss.). Emblematico rimane pure l’esempio dell’insediamento rupestre del Balatuzzo, toponimo di derivazione araba, con cui viene indicato il lembo nord-ovest della collina di Agrigento. Qui, agli inizi del Novecento fu segnalata la presenza di abitazioni in grotta, disposte a gruppi distanti tra di loro da m 13 a 15. La casa-tipo comprendeva un grande atrio o camerone (m 11 ´ 4,50), due vani intermedi con cisterna (ca. m 2,50 ´ 3) e un cortile (m 8,30 ´ 4,20), con un cubicolo o grotta nella parete di fondo (Bonfiglio, 1900).
La fase dell’incastellamento può ritenersi conclusa alla fine del sec. 7° con la militarizzazione delle campagne e l’istituzione del tema di Sicilia. Nel sec. 8° la popolazione era arroccata nei kástra e le fattorie della campagna circostante erano munite di difesa (kastéllia). La trasformazione dei kástra bizantini in città trogloditiche e il trasferimento dell’insediamento rurale all’interno delle cave costituirono un processo spontaneo e di lunga durata che si diffuse nei secoli della dominazione araba in S. (Maurici, 1992; 1994). La trasformazione degli ipogei cristiani in abitazioni è una costante del trogloditismo siciliano, così come le profanazioni sistematiche dei monogrammi e delle croci nelle iscrizioni funerarie e nelle pareti degli ipogei sono sintomi di un popolamento ormai islamizzato.
Bibl.:
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R.M. Bonacasa Carra
Epoca islamica. - A partire dal 652, la S. era stata meta delle scorrerie provenienti dall’Africa settentrionale, ma solo con gli Aghlabidi maturò il disegno della conquista. Nell’827 gli arabi sbarcarono a Mazara del Vallo (prov. Trapani) e nell’831 assediarono Palermo; quindi nell’877-878 presero Siracusa, dopo un assedio durato sette mesi; un venticinquennio più tardi la S. era interamente conquistata. Dopo l’estinzione politica degli Aghlabidi la S. passò sotto il controllo dei Fatimidi e, nel 947, dei Kalbiti, una stirpe a loro fedele. I novanta anni di questa dinastia coincisero con il periodo più fiorente della dominazione islamica. Tra il 1040 e il 1050 le rivalità tra le signorie locali determinarono l’arrivo dei Normanni, chiamati come mercenari dal signore di Catania e Siracusa Ibn al-Thumna. La conquista fu condotta da Roberto I il Guiscardo (m. nel 1085) e dal fratello Ruggero (m. nel 1101): nel 1072 cadeva Palermo e nel 1091, con la resa di Noto (prov. Siracusa), tutta la S. era in mano normanna.
La conquista normanna non coincise con l’eliminazione dell’elemento musulmano, che rimase numericamente ancora consistente. I Normanni sul piano politico, economico e giuridico conservarono molti elementi dell’organizzazione precedente e la cultura islamica continuò a caratterizzare le vicende sociali e politiche almeno fino alla prima metà del 13° secolo.
Nulla resta della Palermo islamica. Anche quegli edifici tradizionalmente attribuiti al periodo islamico di recente sono stati datati a età normanna. Non è escluso che il palazzo di Maredolce fosse all’origine un monumento kalbita, ma le strutture oggi visibili sono opera di Ruggero II (Scerrato, 1994); a tutt’oggi sussistono dubbi sull’identificazione di due moschee nell’aula a due navate nel cortile di S. Giovanni degli Eremiti e nella c.d. sala ipostila sotto la chiesa dell’Incoronata presso la cattedrale di Palermo (Bellafiore, 1975; Daidone, 1987). Nel suo aspetto attuale il bagno di Cefalà Diana (prov. Palermo) è di età guglielmina, come dimostrano i caratteri dell’epigrafe d’attico e le basi delle colonnine del diaframma interno (Ventrone Vassallo, 1993); le evidenze monumentali della fortezza-recinto di Mazzallacar sarebbero di età moderna (Maurici, 1992), e deboli sono le argomentazioni circa l’identificazione dei resti di una moschea nell’Apollonion di Siracusa (Messina, 1995).
Certamente al periodo musulmano sono databili poche iscrizioni lapidee impiegate in alcuni edifici, redatte nello stile fatimide imposto dai califfi (Amari, 1875-1885; Gabrieli, Scerrato, 1979, pp. 281-305): quella di Termini Imerese (Mus. Civ.) del 953-960, che ricorda la costruzione di un ignoto edificio; un frammento proveniente da Palermo, pertinente forse alle mura della Khàliõa, costruita nel sec. 10° (Lagumina, 1899a); un’epigrafe, sempre da Palermo, nota solo da disegni, che ornava un edificio sito presso la Porta a Mare, nella quale Amari (1875-1885) lesse l’anno 360 a.E./970. A Trapani (Mus. Regionale Pepoli) si conserva una colonna con una citazione coranica entro cartiglio (sec. 11°), di provenienza sconosciuta. Ancora meno si è conservato delle epigrafi funerarie: una da Siracusa, senza la data, ma attribuita al sec. 9°-10°, e una stele scolpita nel 465 a.E./1072 da Palermo (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia).
Secondo Ibn Éawqal a Palermo, ed è da ritenere in tutta la S., esistevano numerose moschee, cui forse sono pertinenti alcune colonne con iscrizioni coraniche in caratteri cufici datate al sec. 11°, tra cui una entro cartiglio a forma di miéràb, reimpiegata nel portico della cattedrale.
La conquista islamica portava con sé i germi di una rinascita urbana per le città della S. occidentale e, in particolare, per Palermo. Con la fondazione nel 937 della Khàliõa, cittadella murata sede dell’emiro, degli uffici amministrativi e del presidio militare, distinta dalla città vera e propria, con i grandi quartieri fuori dalle mura e le vaste aree a giardino nel quadro urbano, la capitale si caratterizzava più come una metropoli islamica che come una città occidentale. Se nulla resta della cittadella fatimide, recentemente le indagini archeologiche hanno messo in luce brandelli della Palermo ‘araba’, in particolare del quartiere dello Haràt al-Õaqàliba, che forniscono dati interessanti sulla rete viaria e sulle abitazioni (Ardizzone, Arcifa, 1995). Sono stati messi in luce, infatti, due assi stradali su cui davano case dai muri in pietrame grossolanamente sbozzato, spianato in faccia a vista e legato con malta di terra, rivestiti da intonaco finissimo, dotate di battuti pavimentali di arenaria sfarinata: si è dunque ben lontani da una madêna costruita con materiali precari (Scerrato, 1994). I dati confermano una grande espansione edilizia nelle aree oltre il Papireto tra la fine del sec. 10° e gli inizi dell’11°, seguita da vasti episodi di distruzione forse in relazione con la conquista normanna. I tracciati viari con andamento rettilineo attestano l’esistenza, già in età islamica, di un preciso piano urbanistico per quest’area fino ad allora rimasta fuori dell’abitato. Una conferma proviene dagli scavi del rione Castello San Pietro, nello stesso quartiere, dove strutture murarie del sec. 11° si sovrappongono a un lembo di necropoli islamica (Pesez, 1995). In età federiciana l’intera zona risulta disabitata, come documentano i tentativi operati da Federico II di ripopolare il quartiere, ordinando ai Saraceni di stabilirvi la propria dimora e, in seguito, con la redistribuzione delle case da essi abbandonate. Un’ulteriore prova della continuità della tradizione culturale e religiosa dell’Islam nelle città, dopo la conquista normanna, è fornita da un altro gruppo di iscrizioni funerarie islamiche (Amari, 1875-1885; Lagumina, 1899b), nonché dai numerosi diplomi arabi di età normanna.
Riguardo agli insediamenti rurali databili all’età islamica, occorre precisare che non si può elaborare per la S. un modello insediativo unico, dal momento che esistono notevoli differenze tra la parte occidentale e la parte orientale dell’isola, dove, almeno fino al sec. 14°, restò preponderante l’elemento bizantino. Le recenti indagini archeologiche, limitate alla sola S. occidentale, confermano quanto già noto sul paesaggio rurale in età musulmana. Inizialmente le popolazioni arabe, infatti, si adattarono alla realtà insediativa bizantina privilegiando le pianure e la fascia costiera. Inoltre l’Islam, insegnato solo nelle città, aveva avuto una scarsa penetrazione nelle campagne. Solo nel corso del sec. 10° sembra che siano stati rioccupati alcuni siti di altura almeno nel territorio di Segesta (prov. Trapani), come attestano le recenti ricognizioni di superficie (Aprosio, Cambi, Molinari, 1997). Un incentivo all’incastellamento e alla diffusione dell’Islam, infatti, sembra venire dal rescritto del califfo fatimide al-Mu^izz, che nel 965, dopo l’offensiva bizantina di Rometta (prov. Messina) del 962, comandò all’emiro di raggruppare gli abitanti di ciascun distretto in una struttura fortificata con all’interno una moschea, obbligando la popolazione a soggiornarvi (Amari, 1880-1881, II, p. 135). L’islamizzazione dell’entroterra divenne completa al punto che, ancora in età normanna, erano numerose le popolazioni della S. occidentale dedite all’Islam, come dimostrano le recenti scoperte di aree cimiteriali di rito musulmano a Entella (od. Rocca d’Entella), Caliata di Montevago, Caltanissetta, al monte Maranfusa, al monte Iato, e il rinvenimento di tre placchette plumbee con una sùra coranica in caratteri cufici nel casale di Milocca (od. Milena, prov. Caltanissetta; De Luca, 1997) e l’eccezionale scoperta a Segesta di una piccola moschea datata all’inizio del sec. 12° (Aprosio, Cambi, Molinari, 1997), l’unico edificio di culto islamico finora riconosciuto nell’isola. A questi dati vanno aggiunti due frammenti di stele funerarie prismatiche anepigrafi riferibili a sepolture islamiche da Monte della Giudecca, sito identificato con la fortezza musulmana di Platano, nota dalle fonti fin dal sec. 9°, e distrutta da Federico II (Maurici, 1996). Infine, va segnalata a Entella la presenza di un edificio residenziale con uno éammàm, confrontabile in S. solo con il contemporaneo palazzo della Zisa (Corretti, 1995).
Il perdurare della tradizione islamica nelle officine isolane, arricchita di nuovi apporti culturali e stilistici dalla Spagna andalusa e dal Maghreb, si ravvisa in numerosi oggetti di lusso voluti da una committenza legata alla corte normanna o, comunque, di alto livello. Gli esempi più noti sono: i pannelli lignei della chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio (1140 ca.), quelli appartenenti alle porte di casa Martorana (metà del sec. 12°) e il soffitto di porta proveniente dal palazzo reale (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia); i prodotti dell’arte della metallurgia, conosciuta in S. fin dai tempi più remoti; un gruppo, dalle caratteristiche ben definite, di cofanetti in avorio, attribuibili a botteghe siciliane operanti nel sec. 12°, che presentano iconografie tratte dal repertorio palatino islamico, quali le scene di caccia, ma anche dall’iconografia cristiana (Ventrone Vassallo, 1993); i pannelli di stucco, impiegati in zone particolari delle costruzioni quali le nicchie, i raccordi e le finestre, secondo un uso attestato nell’architettura musulmana, per i quali è stata ipotizzata una produzione locale fin dal tempo dell’emirato. Per il periodo normanno sono documentati parecchi esempi, quali i frammenti di transenne di finestre provenienti dalla Martorana, da S. Giovanni degli Eremiti (1142) e dalla Cappella Palatina (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia; Salinas, 1910), le muqarnas in stucco scolpito della Cuba, avvicinate già da Marçais (1926) al miéràb della grande moschea di Tlemcen, tipico monumento d’arte d’ispirazione andalusa, nonché i notevoli frammenti di decorazione parietale provenienti dalla chiesa di S. Giuliano a Caltagirone (Caltagirone, Mus. Regionale della Ceramica), datati alla prima metà del sec. 12°, il cui partito decorativo e l’ornato deriverebbero dai tessuti mesopotamici ed egiziani dei secc. 10°-11° (Ragona, 1968; Gabrieli, Scerrato, 1979). Un pannello del pavimento a tarsie marmoree di S. Cataldo è stato avvicinato, per stile e composizione, a manufatti del Marocco e, quindi, della Spagna andalusa piuttosto che alle coeve elaborazioni cosmatesche (Di Liberto, 1996). Pavimenti di simile fattura sono noti nella Cappella Palatina, in S. Maria dell’Ammiraglio e nel duomo di Monreale (Tronzo, 1997).
Un posto di rilievo spetta alle stoffe, tra le quali l’esempio più illustre è il manto di Ruggero II, datato dall’iscrizione al 1133-1134 (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer). Dalle lettere dei commercianti ebrei della Geniza del Cairo, datate tra la prima metà del sec. 11° e l’età normanna, è noto che le sete, i cotoni e il lino prodotti in Sicilia, ritenuti molto pregiati, venivano esportati in Africa settentrionale (Goitein, 1967-1993). Risulta dunque più verosimile la tesi di Amari (1933-19392, III, 3, p. 822) circa le influenze ‘saracene’ sull’industria tessile normanna. Infine, recentemente (Ciolino, Guastella, 1995) è stata avanzata l’ipotesi che accanto all’intaglio di pietre dure in età normanno-sveva si sia sviluppata nell’isola una produzione locale di cristalli di rocca, sulla scia dell’esperienza fatimide.
Poco si conosce della produzione ceramica durante la dominazione araba, pur fiorente nell’isola. È recente la scoperta di una fornace di ceramica invetriata della fine del sec. 10° a Mazara del Vallo (Molinari, 1994), mentre una rilettura del materiale ceramico della fornace di Piazza Armerina (prov. Enna) ha permesso di datarla al periodo islamico. Infatti, sulla base dei contesti stratigrafici libici e della datazione dei bacini inseriti nelle chiese medievali, è stato proposto di rialzare la cronologia di alcune forme della ceramica invetriata, tra cui il bacino carenato prodotto nella S. occidentale, entro la fine del sec. 11° (Molinari, 1995).
Per l’età normanna la continuità con il passato risulta evidente, sia per il repertorio morfologico sia per i motivi decorativi. Scarti di produzione o fornaci messe in luce da scavi più o meno recenti dimostrano che le città di Palermo (Arcifa, 1996) e di Agrigento (Ragona, 1966) furono sicuramente centri di produzione sia di ceramica invetriata sia di ceramica comune (D’Angelo, 1976; Bonacasa Carra, Ardizzone, Macaluso, 1992).
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F. Ardizzone
Epoca normanna. - L’attività architettonica dei Normanni in S. ebbe già inizio quando era ancora in corso la conquista dell’isola, intrapresa nel 1061 da Ruggero I (m. nel 1101) insieme al fratello maggiore Roberto I il Guiscardo e, dopo la morte di quest’ultimo (1085), portata a compimento dallo stesso Ruggero nel 1091, con la definitiva acquisizione del Val di Noto dopo quella già stabilmente consolidata del Val Demone e del Val di Mazara.
Non si trattò tuttavia solo di fortificazioni e castelli eretti per esigenze strategiche, come per primi, nel 1072, quelli di Paternò e di Mazara del Vallo (ampiamente rimaneggiato il primo nel Trecento, ridotto a un rudere artificiale nell’Ottocento l’altro), ma insieme a essi, come testimonia alla fine del sec. 11° il benedettino normanno Goffredo Malaterra nel De rebus gestis Rogerii, anche di nuove cattedrali, a iniziare da quella che, dopo la determinante conquista di Taormina (1078), venne costruita da Ruggero a Troina (prov. Enna) nel 1081 in segno di gratitudine per l’aiuto divino dato alla sua impresa. E nel narrare in versi (come fa anche per altri episodi particolarmente rilevanti) le fasi di questa costruzione, con la quale grazie a tanto principi è stata riportata la sacra legge ove la lunga dominazione islamica l’aveva fatta scomparire, il biografo si sofferma a elogiare l’abbondanza dei ricchi paramenti e della preziosa suppellettile di cui Ruggero aveva dotato la chiesa, subito innalzata a vescovado (Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii, III, 19, vv. 1-28).
Ma uno dei dati più interessanti di questa cronaca sta nell’affermazione che Ruggero, per portare rapidamente a termine, attendendovi personalmente senza risparmio di mezzi, la sua prima cattedrale siciliana, di cui restano solo poche delle antiche strutture (Canale, 1951), fece venire coementarii da ogni parte della terra (Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii, III, 19, vv. 4-6), come pure, «undecumque terrarum artificiosis coementariis conductis», pose subito dopo le fondamenta di alcune fortificazioni presso Messina e della sua seconda cattedrale nella stessa città (III, 39). Questo sembra indicare la quasi totale esclusione, lungo l’intero trentennio della conquista, dell’impiego di maestranze locali, sia islamiche sia appartenenti alla popolazione siculo-bizantina, che lo stesso Goffredo Malaterra definisce semper genus perfidissimum (II, 29). E come per queste prime due cattedrali, anche per le altre, fondate tra il 1086 e il 1088 nel quadro della riorganizzazione delle diocesi, quand’era ormai vicina la completa conquista dell’isola (IV, 7) - delle quali solo quelle di Catania e Mazara del Vallo conservano notevoli elementi dell’originaria costruzione, di chiara impronta ‘latino-nordica’ (Di Stefano, 19792, pp. XXII, 6-13) -, dovette dunque ripetersi l’utilizzazione di capomastri e muratori provenienti in prevalenza, com’è stato verosimilmente supposto, dalle regioni meridionali della penisola, dove da quasi mezzo secolo i Normanni avevano promosso una notevole attività architettonica, e quindi di cultura chiaramente occidentale ispirata soprattutto a modelli benedettini e cluniacensi (Di Stefano, 19792, p. XXII).
La fondazione di nuovi edifici di culto in piena fase di conquista va evidentemente messa in rapporto al valore di vera e propria guerra santa, sottolineato anche dagli altri cronisti, dell’impresa dei due Altavilla, per cui ogni evento vittorioso veniva immediatamente seguito dalla restaurazione religiosa. Così il benedettino Amato di Montecassino, nell’Historia Normannorum, scritta tra il 1072 e 1080 e pervenuta in una posteriore versione francese, narra (VI, 19-23) che, subito dopo la conquista di Palermo (1072), Roberto I il Guiscardo si recò con il suo seguito nell’antica cattedrale bizantina di S. Maria, da tempo trasformata in una grande moschea (ammirata e descritta nel 973 dal viaggiatore mesopotamico Ibn Éawqal), per eliminare toute l’ordesce et ordure musulmane, provvedendo quindi alla sua ricostruzione. E anche Guglielmo di Puglia nel suo poema in esametri classici, Gesta Roberti Wiscardi, composto tra il sec. 11° e il 12°, dà notizia (vv. 332-336) di questo tempestivo e radicale intervento del maggiore degli Altavilla nella cattedrale palermitana. Alla luce di queste testimonianze, che sostanzialmente concordano con quella di Goffredo Malaterra (De rebus gestis Rogerii, II, 45), si può ritenere che fino alla totale ricostruzione del 1184 la cattedrale palermitana - a parte l’aggiunta, al tempo di Ruggero II, di due cappelle laterali (Di Stefano, 19792, pp. 36-37) e di nuove figurazioni sacre efficacemente integrate da fantasiose decorazioni di gusto islamico, entusiasticamente elogiate nel celebre trattato arabo del geografo di corte al-Idrêsê (Nuzhat al-mushtàq fê khtiràq al-àfàq, noto come Il libro di Ruggero, del 1145) - dovette avere in gran parte conservato lo stesso aspetto determinatosi con la ricostruzione di Roberto I il Guiscardo dopo la conquista della città (Patera, 1980).
Conclusa l’impresa e riunita la S. alla Calabria, Ruggero I, che aveva già assunto il titolo di Gran Conte di S., resse accortamente per un decennio il nuovo Stato dal suo prediletto castello calabrese di Mileto (prov. Catanzaro), iniziando una proficua politica di adattamento e integrazione dei conquistatori con la preesistente popolazione islamica e bizantina, lasciando alla sua morte (1101) alla moglie Adelasia del Vasto il governo della contea, quale reggente per il figlio Simone, deceduto quattro anni dopo, e quindi per l’altro figlio Ruggero. A prosecuzione e consolidamento dell’opera del marito, Adelasia trasferì la corte prima a Messina e poi definitivamente a Palermo, dove fissò la sua dimora in quel grande edificio nel quartiere meridionale della città, non lungi dalla cattedrale, che sarebbe poi divenuto il palazzo reale, dal quale andò via nel 1113 per sposare Baldovino I, re di Gerusalemme (1100-1118), su una sfolgorante trireme rivestita d’oro e argento seguita da sette navi ricolme di preziose vesti e suppellettili, gemme e gioielli d’ogni genere e perfino «arma, loricas, gladios, galeas et clypeos auro fulgidissimos» (Alberto di Aix, Liber christianae expeditionis, XII, 13).
Una delle principali direttive della politica del Gran Conte e di Adelasia, seguita anche dal futuro re Ruggero II, fu, accanto all’ulteriore importazione del monachesimo latino - le cui costruzioni continuarono a diffondersi lungo tutto il periodo del regno (White, 1938) -, la protezione accordata al monachesimo siculo-bizantino (Scaduto, 1947), che si tradusse in un notevole incremento di cenobi basiliani con relative chiese, inizialmente nel Val Demone - dove lasciano meglio intravedere gli impianti originari quelle dell’abbazia di S. Filippo di Fragalà presso Frazzanò, di S. Maria a Mili San Pietro, dei Ss. Pietro e Paolo d’Itala e dei Ss. Pietro e Paolo di Casalvecchio Siculo nella vallata d’Agrò (prov. Messina) -, e quindi in tutta l’isola, dando luogo a una particolare cultura architettonica che, se anche discendeva da modelli orientali, non prescindeva da influenze latine né disdegnava taluni apporti islamici (Ciotta, 1992).
Il giorno di Natale del 1130 Ruggero II venne solennemente incoronato nella cattedrale di Palermo con una fastosa cerimonia il cui vivo ricordo è tramandato da Alessandro di Telese nella Ystoria Rogerii regis Sicilie, (II, 5-6), scritta quindici anni dopo per incarico della contessa Matilde, sorella del sovrano. Ed è interessante notare che, in un’epoca in cui la semplice descrizione o anche la sola citazione di un’opera d’arte equivale spesso a una vera e propria valutazione critica (Patera, 1980), la stessa attenzione di Goffredo Malaterra e di Alberto di Aix per i prodotti di arte suntuaria appare ancor più accentuata nella colorita narrazione che questo abate benedettino fa dell’intera cerimonia, dallo sfavillante corteo al lussuoso pranzo offerto dal sovrano. Oltre a esaltare la variopinta scenografia degli splendidi addobbi del palazzo reale e l’eleganza dei costumi di seta di tutti i servitori, egli non manca infatti di mostrare la sua ammirazione per i vari oggetti di arte applicata, dalle decorazioni d’oro e d’argento delle selle e delle briglie degli innumerevoli cavalieri del seguito ai piatti e bicchieri, anch’essi d’oro e argento, usati dai commensali di questa storica giornata da cui prese ufficialmente le mosse il regno normanno.
Con Ruggero II ebbe inizio per Palermo (v.) e per la S. una nuova grandiosa stagione artistica, destinata a proseguire senza soluzione di continuità sotto i suoi successori, Guglielmo I detto il Malo (1154-1166) e Guglielmo II detto il Buono (1166-1189), e che fu particolarmente caratterizzata da un singolare sincretismo, avviato già negli anni della contea, tra la cultura occidentale dei Normanni e le istanze culturali bizantine e islamiche già radicate nel territorio, saggiamente rispettate e valorizzate dai nuovi dominatori dell’isola. Di questo fenomeno, che trova la sua più significativa esemplificazione nella complessità artistica della Cappella Palatina a Palermo, a poco più di un decennio dall’inizio del regno appare quasi un manifesto ufficiale l’iscrizione, oggi inserita in un muro adiacente la stessa cappella, nella quale in tre lingue diverse (latina, greca e araba) e con tre diversi sistemi di datazione (quello latino dalla nascita di Cristo, quello bizantino ab origine mundi e quello musulmano dall’anno dell’Egira) viene ricordato l’orologio fatto costruire da Ruggero II nel 1142. E ancora sul finire del regno, nel Carmen de rebus Siculis, noto anche come Liber ad honorem Augusti, di Pietro da Eboli, che nella lamentatio per la morte di Guglielmo II chiama Palermo «urbs felix, populo dotata trilingui» (I, v. 56), una significativa miniatura raffigurante notarii Greci, Saraceni e Latini (Berna, Burgerbibl., 120 II, c. 101r) contemporaneamente al lavoro offre un’altra precisa testimonianza della persistenza di questa eccezionale congiuntura ideologica e culturale. Ma bisogna anche ricordare come nella composita situazione etnica siciliana dell’età normanna vi fosse anche una minoranza ebraica, la cui presenza viene con compiacimento sottolineata nel resoconto che l’ebreo spagnolo Beniamino di Tudela, nel suo Itinerarium, ha lasciato del proprio soggiorno a Palermo nel 1171 e trova anche riscontro, tra l’altro, in un’iscrizione funeraria quadrilingue (latina, greca, araba ed ebraica) della Gall. Regionale della Sicilia, attualmente esposta nel palazzo della Zisa.
Non appena salito al trono, Ruggero II diede l’avvio a una serie di imprese artistiche destinate a lasciare un inconfondibile segno dell’eccezionale temperie culturale del suo regno, a partire dalla costruzione della Cappella Palatina, elevata a parrocchia nel 1132, nella quale la data 1143 dell’iscrizione greca alla base del tamburo della cupola fornisce probabilmemte il terminus ante quem per il compimento dell’intera decorazione musiva dello spazio a pianta centrale del santuario (Demus, 1949, pp. 59-60), e dalla quasi contemporanea fondazione della cattedrale di Cefalù, ultimata nel 1148 stando all’iscrizione latina che corre sotto i mosaici absidali (Demus, 1949, p. 6), alla quale, con l’intento di farne il mausoleo di famiglia, nel 1145 lo stesso sovrano donò due grandi sarcofagi di porfido, poi non utilizzati e trasferiti nel 1217 nella cattedrale palermitana da Federico II per la propria sepoltura e per quella del padre Enrico VI (m. nel 1197; Deér, 1959; Gandolfo, 1993).
Un entusiastico elogio della Cappella Palatina, all’inizio dell’omelia del predicatore basiliano Filagato da Cerami, pronunciata per la festa dei Ss. Apostoli del 1140, offre, nel tipico stile dell’ékphrasis bizantina, una singolare pagina di critica descrittiva di tale monumento come appariva al tempo di Ruggero II, quando cioè era ancora limitata al presbiterio la decorazione musiva dovuta a esperti maestri bizantini, con il Pantocratore circondato da angeli e arcangeli al sommo della cupola, il ciclo delle Feste liturgiche nel transetto destro e i Padri della Chiesa occidentale in quello sinistro, dato che i mosaici che rivestono lo spazio longitudinale delle navate (per quell’occasione addobbate con serici drappi fenici multicolori) vennero poi realizzati, come risulta dal Chronicon di Romualdo Salernitano, al tempo di Guglielmo I. Dopo aver magnificato le virtù di Ruggero II, a cui si deve la costruzione di questo «tempio degli apostoli [...] grandissimo e bellissimo», Filagato illustra alla folla che segue con lo sguardo le sue parole i vari aspetti dello splendido edificio, dalle «colonne che in modo perfetto sostengono gli archi» al celebre soffitto ligneo islamico «adornato di finissimi intagli variamente lavorati», che conserva tuttora gran parte dell’originaria decorazione pittorica (Monneret de Villard, 1950), dal pavimento di variopinti marmi intarsiati che «somiglia a un prato primaverile» alle «tessere d’oro» e alle «venerande immagini» che ricoprono le pareti. Il fatto che non vi sia alcun cenno del classicheggiante candelabro marmoreo per il cero pasquale che s’innalza proprio accanto al pulpito dal quale predicava Filagato induce ad abbassare di qualche anno la data di questo capolavoro.
Alla stessa cultura greco-bizantina dei più antichi mosaici di questa Cappella appartengono il Pantocratore del catino e le figure che ritmicamente decorano i sottostanti registri dell’abside della cattedrale di Cefalù (v.), nel cui soffitto ligneo restano varie tracce di figurazioni islamiche vicine a quelle del tetto della Cappella Palatina (Beck, 1975), nonché la complessa decorazione musiva della chiesa ultimata nel 1143 dall’ammiraglio Giorgio di Antiochia con il dichiarato orgoglio di aver creato un’opera degna di rivaleggiare con quelle del sovrano, che dal suo fondatore assunse il nome di S. Maria dell’Ammiraglio, più tardi detta anche la Martorana. E non si può non ricordare che questa costruzione, nella quale il Pantocratore in trono della cupola si erge a culmine di un impianto rigorosamente centrico, fu indicata come «il monumento più bello del mondo» dallo scrittore andaluso Ibn Jubayr, il più celebre dei letterati-viaggiatori di lingua araba, che la visitò il giorno di Natale del 1184 e che, oltre a restare affascinato dallo splendore dell’interno, definì l’adiacente «campanile delle colonne [...] una delle costruzioni le più meravigliose che veder si possa».
Ma se le grandi decorazioni musive costituiscono l’aspetto più vistoso della pittura bizantina della S. normanna, non mancò, specie da parte di quelle comunità monastiche che non potevano concedersi il costoso lusso del mosaico l’uso di pitture a fresco, delle quali, anche perché più facilmente deperibili, sono pervenuti solo rari esempi, come, tra gli altri, le figure dei Padri della Chiesa orientale, sicuramente di epoca ruggeriana, riscoperte un quarantennio addietro sotto l’intonaco di due nicchie absidali della chiesetta basiliana di S. Maria delle Giummare a Mazara del Vallo (Patera, 1975).
Accanto alle grandi costruzioni religiose riferibili al tempo di Ruggero II, delle quali si può datare tra il 1142 e il 1148 quella di S. Giovanni degli Eremiti, dal movimentato accorpamento di netti volumi geometrici sovrastati dal pittoresco gioco delle cinque cupolette di ascendenza islamica, questa prima fase del regno segnò anche il trionfo dell’architettura civile, a incominciare dal grandioso e ben munito palazzo reale, nel quale lo splendore delle sale di rappresentanza, l’agiatezza degli ambienti destinati agli ozi del sovrano e la funzionalità dei locali adibiti a sede amministrativa (come la superstite torre Pisana, sede del tesoro) vengono concordemente esaltati nelle descrizioni dei contemporanei, da al-Idrêsê a Ibn Jubayr a Ugo Falcando, nella sua Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie thesaurarium, scritta poco dopo la scomparsa di Guglielmo II con il malinconico presentimento della fine del regno normanno. In questa lunga lettera, che costituisce una preziosa e insostituibile fonte per la topografia palermitana del tempo e che si conclude con una sorta di inno alla lussureggiante vegetazione della Conca d’Oro, l’autore fornisce una minuziosa descrizione del raffinato lavoro dei tessitori e ricamatori del fiorente laboratorio della reggia, in cui dovevano probabilmente assommarsi sistemi ed esperienze del öêràz arabo e dell’ergastérion bizantino (Lipinsky, 1964) e dal quale nel 528 a.E./1133-1134 era uscito il celebre manto di Ruggero II (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer).
Dell’attività costruttiva di Ruggero II nell’architettura civile l’aspetto più rilevante fu la creazione di due «luoghi di delizie», come li chiama al-Idrêsê, che vengono particolarmente descritti da Romualdo Salernitano, il quale loda la saggezza del sovrano per l’uso che sapeva farne secondo le stagioni, dimorando d’inverno nel ricostruito palazzo arabo della Favara, al quale aveva aggiunto una grande e fornitissima peschiera da cui derivò l’altro nome di Maredolce, e sottraendosi alla calura estiva nell’ampia riserva di caccia allestita nella collina di Parco (od. Altofonte), che aveva fatto popolare di una svariatissima quantità di selvaggina.
La prosperità e il benessere del regno di Ruggero II, anche se trovarono la loro più alta espressione nella vita e nelle opere della capitale, si estesero a tutta l’isola, come chiaramente denota la descrizione che al-Idrêsê fa di numerose città, da Milazzo a Catania e a Siracusa e da Noto a Butera e ad Agrigento, particolarmente pregevoli per l’imponente struttura degli edifici, l’eleganza dell’impianto urbanistico e la ricchezza dei mercati, tra le quali uno dei giudizi più lusinghieri è riservato a Mazara, la capitale dell’omonimo Vallo, «città splendida, superba e veramente insuperabile».
Dopo la scomparsa di Ruggero II (1154), Palermo e la S. continuarono ad arricchirsi - grazie alla volontà dei suoi due successori di non apparire inferiori per le committenze artistiche al primo sovrano del regno - di notevoli monumenti sia religiosi sia civili, che continuarono a suscitare l’attenzione dei cronisti del tempo e l’ammirazione dei sempre numerosi viaggiatori attratti dalla fama del regno normanno, e perfino a stimolare la fantasia dei poeti, specie di lingua araba, come il trapanese Abd al-Raémàn, autore di alcuni suggestivi versi sulla «Favara dal duplice lago [...] vista soave e spettacol mirabile» (Gabrieli, 1948, pp. 16-17).
Nell’ambito dell’architettura civile Guglielmo I iniziò a costruire, poco prima della sua scomparsa, il ‘sollazzo’ extraurbano della Zisa (nome che in arabo equivale a ‘splendido’, ‘glorioso’), la cui compatta struttura, inserita in una sistemazione ambientale di straordinaria bellezza che si riallaccia all’esperienza dell’architettura islamica, sarebbe stata poi completata dal figlio Guglielmo II, il quale a sua volta costruì nel 1180 l’altro regale ‘soggiorno’ della Cuba, per molti versi simile sia nella fabbrica sia nella suggestiva ambientazione a quello paterno. E sono indubbiamente questi i due monumenti che, dopo gli ultimi complessi e talvolta poco convincenti restauri, restano, insieme al ‘castello’ della Favara e a quello di Caronia (prov. Messina), ricordato da al-Idrêsê e da poco riscoperto (Krönig, 1977), gli edifici civili meglio conservati rispetto ad altri assai degradati, come, per es., il più tardo castello dello Scibene ad Altarello di Baida presso Palermo.
Nell’architettura religiosa, dopo costruzioni come la ben conservata chiesa di S. Cataldo a Palermo (patrocinata da Guglielmo I), quella di S. Giovanni dei Lebbrosi, ancora a Palermo, ricordata da Ibn Jubayr, nella quale anni fa è stato discutibilmente ricostruito il campanile sulla facciata, o ancora la stereometrica Trinità di Delia (prov. Caltanissetta), alquanto irrigidita dal restauro ottocentesco, le ultime due grandi imprese furono la ricostruzione della cattedrale palermitana e l’edificazione a Monreale del duomo di S. Maria la Nuova.
Sulla cattedrale, voluta dall’arcivescovo Gualterio (1169-1190) e in seguito totalmente trasformata, ma nella quale recenti lavori hanno reso leggibili all’interno alcuni aspetti dell’originario complesso absidale, si sono avute varie contrastanti ipotesi sia sulla data della demolizione della vecchia costruzione guiscardiana sia su quella del completamento, per il quale però un preciso terminus ante quem, non sempre adeguatamente considerato, è quello della visita a Palermo di Ibn Jubayr dal 22 al 28 dicembre 1184. Il fatto che in quei giorni la cattedrale gli si mostri in tutta la sua immensa mole e sia abitualmente frequentata dal sovrano, che vi si reca, come gli riferiscono, attraverso un lungo portico che la unisce alla reggia, non dovrebbe lasciare alcun dubbio che la sua costruzione fosse allora ormai ultimata consentendo il pieno svolgimento delle sue funzioni.
Iniziato nel 1172 insieme all’attiguo monastero e riccamente dotato di beni dallo stesso Guglielmo II nel 1176, il duomo di Monreale (v.) venne innalzato al rango di arcivescovado con una bolla di papa Lucio III (1181-1185) del 5 febbraio 1183, che elogia il sovrano per avere in poco tempo creato un tempio «multa dignum admiratione [...] ut simile opus per aliquem regem factum non fuerit a diebus antiquis» (Garufi, 1902, nr. 42, p. 24). Sicuramente terminato prima della morte del sovrano (1189), il duomo, insieme a costituire la più munifica impresa dell’ultimo sovrano normanno, con la sua grandiosa mole basilicale dominata dall’enorme e severo Pantocratore del catino absidale e con l’infinita distesa di mosaici che ammanta tutto il giro delle pareti, opera di una ‘terza ondata’ di maestri bizantini che, più di quelli utilizzati dai due precedenti sovrani, riuscirono a operare in sintonia con la tradizione iconografica latina, con i numerosi pregevoli capitelli del chiostro del monastero, che portarono ai più alti raggiungimenti l’esperienza della scultura romanica in S. già iniziata nel chiostro di Cefalù, e con le splendide porte bronzee del toscano Bonanno Pisano prima (1185) e del pugliese Barisano da Trani dopo, resta la summa maggiore dell’irraggiungibile civiltà artistica della S. normanna.
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B. Patera
Secoli 13°-14°. - Un lungo periodo di instabilità politica e di grave crisi economica si aprì con la conquista sveva della S. (1194) e si protrasse fino al ritorno dalla Germania (1220) di Federico II (v.), che lasciò la sua impronta anche in campo artistico. Dopo la morte dell’imperatore (1250), la S. visse una breve stagione tardosveva, cui successe la dominazione angioina (1266-1282), conclusa dalla guerra del Vespro.
L’incoronazione a re di S. di Pietro III d’Aragona (1282-1285) preluse al raggiungimento dell’autonomia politica dell’isola sotto Federico II d’Aragona (1296-1337). L’indipendenza dalla Corona di Aragona si protrasse per quasi tutto il sec. 14°, ma dal quarto decennio la casa regnante cedette di fatto il controllo del territorio alle maggiori famiglie baronali raggruppate in due fazioni etnicamente contrapposte (quella indipendentista e di ascendenza normanna, capeggiata dai Chiaramonte, e quella catalana dagli Alagona), fino al ricongiungimento dell’isola al regno d’Aragona nel 1412.
Architettura. - Il periodo di crisi del primo ventennio del Duecento contribuì in modo sostanziale al rallentamento dell’attività edilizia. Esauritasi la grande committenza normanna, pochissime sono le iniziative ascrivibili a quest’epoca, per la quale è documentata soltanto l’istituzione del monastero cistercense di S. Nicola ad Agrigento (v.), avvenuta peraltro nel 1219.
In un quadro povero di monumenti significativi, si deve a questa abbaziale e a quella di S. Maria della Valle detta la Badiazza a Messina (v.) il compito di illustrare la fase di transizione dell’architettura siciliana verso la stagione federiciana. Se per il cenobio agrigentino è noto l’anno di fondazione, a ricondurre la costruzione della Badiazza al principio del secolo concorrono, invece, motivazioni di carattere progettuale e due donazioni compiute a suo favore da Federico II nel 1210 e nel 1221 (Agnello, 1935; Di Stefano, 1938-1939). L’edificio messinese mantiene la scatola architettonica della chiesa di Santo Spirito a Palermo (1178 ca.), anch’essa appartenuta ai Cistercensi, ma ne differisce quanto a organizzazione degli spazi interni: il tradizionale schema normanno del blocco presbiteriale con cupola centrale attorniata da un giro di ambienti convive con il corpo longitudinale concepito secondo i modelli dell’Ordine, corpo che la sequenza uniformata di pilastri sviluppa in campate a rettangolo allungato nella navata centrale e quadrate nelle laterali, tutte voltate a crociera. La coesistenza dei due sistemi costruttivi ha attirato l’interesse della critica, che ha eletto S. Maria della Valle a punto di svolta tra le architetture del sec. 12° e quelle d’età federiciana (Gandolfo, 1994), oscurando il ruolo del S. Nicola ad Agrigento quale prima tangibile testimonianza - sebbene in forme attardate - dell’allontanamento dell’edilizia religiosa siciliana dalle fino ad allora imperanti tipologie normanne. L’anomala struttura ‘a braccio di transetto’ dell’abbaziale, verosimilmente dettata dalla necessità di sfruttare appieno il podio di un tempio sopra cui la chiesa si sarebbe insediata, si dimostra una riedizione duecentesca della parlata cistercense delle origini. Le peculiari e massicce membrature a parete costituiscono lo scheletro che organizza la navata centrale, chiusa da una botte acuta cinghiata e fiancheggiata su un lato da una serie di quattro cappelle dotate di coperture archiacute trasversali e tra loro comunicanti (Agnello, 1961b).
Le vicende della fabbrica agrigentina si svolsero nel terzo decennio del secolo, in concomitanza con il ritorno di Federico II nel regno, l’apertura di nuovi cantieri e la ripresa dei lavori nelle cattedrali normanne di Cefalù e Palermo, in un quadro geopolitico che tuttavia vide privilegiati gli interventi nelle province orientali dell’isola.
Tra il 1220 e il 1230 furono fondate S. Maria degli Alemanni a Messina e la c.d. basilica cistercense del Murgo presso Lentini (prov. Siracusa). Entrambe le chiese, erette contestualmente all’avvio della grande stagione dell’architettura federiciana (Cadei, 1992; 1995), contribuirono a gettare le basi di un rinnovamento in senso gotico del linguaggio architettonico e plastico che dal 1230 è attestato in altri centri del regno. La piccola fabbrica messinese, a servizio dell’insediamento teutonico della più vitale tra le città siciliane, documenta in particolare il diretto aggiornamento su modelli oltremontani che la isolano nel panorama locale e ne confortano la datazione a dopo il 1220 (Agnello, 1935; Di Stefano, 1938-1939) piuttosto che all’ultimo decennio del secolo precedente (Gandolfo, 1994), momento a cui è comunque riferibile il portale di fiancata reimpiegato nel complesso. Nella soluzione degli alzati S. Maria degli Alemanni accoglie alcune novità del Gotico francese inserendole in un impianto basilicale triabsidato e privo di transetto, già sperimentato nel mondo crociato nella seconda metà del sec. 12° (Di Stefano, 1938-1939; Cadei, 1995). Di questa apertura culturale si conservano, oltre a buona parte dei muri d’ambito, anche le tre coppie di pilastri polistili su cui in origine si doveva impostare il sistema di copertura delle quattro campate della navata centrale, voltate da crociere ogivali come quelle, disposte a una quota inferiore, nelle gallerie laterali.
Un ruolo di cantiere-laboratorio dell’architettura federiciana fu sostenuto sul finire del terzo decennio dalla basilica del Murgo (Agnello, 1935; Alberti, 1995), filiata dalla vicina abbazia di Roccadia (distrutta nel 1693) forse successivamente al 1224 (Huillard-Bréholles, 1855, p. 454). L’aperta ostilità dimostrata da Federico II verso l’Ordine di Cîteaux nel corso degli anni trenta del secolo riconduce necessariamente l’attività del cantiere ai primi anni di regno e collega al mutato orientamento politico anche l’interruzione dei lavori. Le sopravvivenze monumentali offrono un quadro abbastanza esaustivo della compagine monastica, organizzata secondo gli schemi in uso nelle abbazie consorelle. Le semicolonne addossate lungo gli incompiuti muri perimetrali della basilica informano della perfetta impostazione modulare dell’impianto, non riscontrabile nelle precedenti chiese dell’Ordine in S.; la loro articolazione lascia supporre che volte a crociera costolonata fossero previste sopra le campate quadrate delle navatelle. Risulta invece atipica la soluzione adottata per il coro, dove le tre cappelle rettilinee occupano parte dello spazio offerto dalla lunghezza del transetto. Le rispondenze con il linguaggio architettonico dei cantieri di committenza imperiale nella S. orientale (Cadei, 1995) si fanno ancora più circostanziate nei caratteri stilistici degli elementi costituenti le membrature murarie, nonché nella forma e nell’articolazione dell’incompiuto portale del Murgo, probabile prototipo di quello (ante 1239) per castel Maniace a Siracusa (Agnello, 1935).
La penetrazione del linguaggio architettonico maturato nei cantieri imperiali trova nella zona orientale dell’isola significative sacche di resistenza nelle fabbriche religiose edificate in centri etnei di colonizzazione lombarda. Ne sono esempio l’impostazione schiettamente romanica di S. Maria a Randazzo, in costruzione nel 1239, e il portale dell’abbaziale di S. Maria di Maniace (prov. Catania), ancora legato ai modi plastici monrealesi.
Quasi del tutto assente è l’influenza dei sistemi costruttivi federiciani a Palermo e nella Sicilia ultra Salsum, dove peraltro non sono attestati presidî e residenze sicuramente riferibili alla committenza sveva. Ultimato intorno al 1240 l’assetto decorativo delle parti alte della cattedrale di Cefalù mediante archetti intrecciati su colonnine di ascendenza tardonormanna, l’interessamento del sovrano alle sorti del duomo palermitano (1220 ca.-ante 1260) si deve con ogni probabilità alla precoce trasformazione in pantheon dinastico (1215). L’intervento riguardò l’addizione della cripta allo chevet gualteriano e l’innalzamento dei primi due ordini del prospetto in corrispondenza dei portali laterali.
Dopo la morte di Federico II declinò quella rigorosa coerenza stilistica che aveva caratterizzato le fabbriche imperiali. La carenza di riscontri documentari impedisce di offrire un quadro esauriente delle imprese tardosveve, talvolta confondibili sia con le opere di età angioina sia con le fabbriche protoaragonesi (castello di Salemi; Caruso, 1995). In questo periodo si riscontra nei maggiori centri dell’isola il radicarsi degli insediamenti mendicanti in precedenza osteggiati dal potere centrale. La diffusione degli ordini conventuali fu favorita soprattutto dalla breve dominazione francese, allorché furono conclusi i cantieri francescani di Messina e Palermo, iniziati rispettivamente nel 1254 e nel 1255, e venne fondato quello eremitano della ex capitale (1275 ca.).
Soltanto il S. Francesco d’Assisi a Messina conservava fino al terremoto del 1908 la veste architettonica primitiva: la navata fiancheggiata da una serie di cappelle e conclusa da un transetto sporgente dotato di tre absidi poligonali consolidate all’esterno da contrafforti angolari collegati da arcate. Lo schema icnografico, il tetto a capriate sopra i vani principali e la povertà del corredo plastico costituiscono elementi ricorrenti nelle chiese minorite del secondo Duecento, quantunque l’infilata di cappelle lungo le fiancate dell’aula precisi l’adozione di un sistema di chiara origine linguadocana e provenzale, consentendo così di attribuire la conduzione dei lavori della navata a un architetto angioino. I pesanti restauri ottocenteschi riducono, invece, la lettura della chiesa palermitana di S. Francesco d’Assisi (consacrata nel 1277) alle sole forme basilicali della pianta con transetto aggettante e coro rettilineo. Nel caso del S. Agostino a Palermo, il cantiere interessò dapprima l’ala conventuale orientale, cui venne addossata nel tardo Duecento la fabbrica religiosa ad aula monoabsidata (Spatrisano, 1972). Gli apporti dell’architettura angioina sono individuabili nelle membrature su plinti poligonali collocate agli angoli della sala capitolare, nell’impiego di piccoli capitelli a crochets negli strombi delle aperture verso il chiostro e nella profilatura degli archivolti.
I sovrani aragonesi - e in particolare Federico II d’Aragona -, prima dell’affermazione del baronaggio, accompagnarono e sostennero l’attività di governo con un consistente programma edificatorio, patrocinando fabbriche castrali e fondazioni religiose in diversi centri dell’isola (chiesa dell’Assunta a Giuliana, prov. Palermo; chiesa matrice di Erice; convento di S. Agostino a Trapani; duomo di Enna, 1307; rifacimento dell’abside e portale principale di S. Maria della Valle a Messina, inizi sec. 14°; facciata del duomo di Messina, 1330 ca.), ancora oggi non tutte inserite in un quadro cronologico ben definito. In continuità con la politica sveva, si procedette alla militarizzazione del territorio e in particolare alla fortificazione della parte occidentale, dove, sul finire del Duecento, si era affermata la baronia chiaramontana. Furono consolidati antichi presidî (castelli di Giuliana e di Salemi e castello di Lombardia a Enna) e ne vennero innalzati di nuovi, come il palatium della Targia a Siracusa, i masti residenziali di Vindicari, di Naro (prov. Agrigento) e della Roccella presso Cefalù e la rocca di Mussomeli (prov. Caltanissetta; Spatrisano, 1972). Il linguaggio di queste fabbriche mutua il più delle volte le tipologie e il repertorio decorativo dall’edilizia militare di Federico II (castelli di Salemi e Mussomeli), del quale la nuova dinastia si era proclamata legittima erede, e ignora programmaticamente gli apporti della contemporanea architettura angioina. Le anacronistiche pretese politico-culturali della committenza aragonese si esprimono, tuttavia, in manufatti qualitativamente più scadenti rispetto ai modelli svevi e i limiti artistici delle maestranze sono denunciati dalle forme semplificate e pressoché serializzate degli elementi ornamentali.
Sul finire del regno di Federico II d’Aragona le maggiori imprese furono gestite dalle famiglie baronali insediatesi a Palermo tra la fine del Duecento e gli inizi del secolo seguente (Chiaramonte, Sclafani, Calvello). L’incremento del quadro urbano ed edilizio palermitano - dopo più di un secolo di emarginazione - si aprì con committenze di carattere religioso, nelle quali si avverte la ripresa di tecniche decorative e motivi normanno-svevi, che assolve anche la funzione di collegamento al passato e di conseguente riconoscimento del ruolo di potere rivendicato dalla fazione indipendentista. A cavallo del secolo i Chiaramonte fecero innalzare la chiesa di S. Nicolò la Calsa (demolita nel 1823) e con la partecipazione degli Sclafani finanziarono il completamento del convento eremitano, mentre sempre gli Sclafani con i Calvello costruirono modeste cappelle familiari annesse alla chiesa di S. Francesco d’Assisi (Spatrisano, 1972).
Se i cantieri palermitani costituirono il primo segno di affermazione dell’aristocrazia feudale, nel caso dei Chiaramonte il grande fervore costruttivo affondava le radici nelle fabbriche patrocinate nell’Agrigentino, loro terra d’origine, dopo la guerra del Vespro. La badia cistercense di Santo Spirito ad Agrigento è verosimilmente la più antica fondazione religiosa a essi riconducibile, dal momento che fu istituita nel 1299; dell’attuale monumento solo la chiesa a navata unica con abside rettilinea e l’ala orientale del monastero appartengono al cantiere aperto allo scadere del sec. 13° e prolungatosi per tutto il Trecento. La prima generazione dei Chiaramonte non mancò, inoltre, di costruire imponenti palazzi patrizi. Purtroppo sopravvivono pochi ambienti al piano terreno dello Steri di Agrigento (oggi inglobato nel seminario arcivescovile), voluto da Manfredi I (m. nel 1321 ca.). Assai interessante è la residenza di Favara (prov. Agrigento) - fondazione fatta risalire anche al periodo svevo perché identificata con la domus imperiale apud Cunianum (Spatrisano, 1972; Sciara, 1997) - che anticipa alcune delle soluzioni progettuali in seguito adottate nello Steri palermitano. La struttura quadrangola ad ali su due livelli d’alzato ripropone in forma ridotta la tipologia del castrum quadrato federiciano, privato delle torri d’angolo e intermedie, con l’addossamento di un’ampia corte rettilinea, non perfettamente allineata al perimetro della residenza. L’adozione di volte a botte negli ambienti al piano terreno e di coperture a crociera su campata quadrata nei vani superstiti del piano nobile si attiene ai dettami neofedericiani dell’architettura castellana protoaragonese. L’insieme suggerisce una datazione al principio del Trecento, quando il casale era certamente infeudato ai Chiaramonte (Sciara, 1997), con l’eccezione della cappella al primo piano e del voltone sopra l’androne d’entrata, che vanno a inserirsi in una compagine edilizia già costituita intorno alla metà del secolo (Sciara, 1997).
Nel corso del quarto decennio del sec. 14°, il ribaltamento dei rapporti di forza con il potere regio a favore delle maggiori casate baronali si manifestò, sul piano dell’edilizia civile, nella committenza delle sontuose residenze palermitane dei Chiaramonte e degli Sclafani, delle quali non si conosce con esattezza la data di fondazione, successiva comunque a quella della domus di caccia eretta prima del 1328 dai Chiaramonte alla Guadagna presso Palermo (ora scomparsa; Spatrisano, 1972). Le due dimore si configurano come l’estrema evoluzione del castello baronale in precedenza maturato nella S. occidentale ed entrambe si insediano in punti strategici della capitale, scegliendo il più completo isolamento dal contesto urbano (Franchetti Pardo, 1982). Lo Steri fu innalzato da Giovanni Chiaramonte (m. nel 1339) al centro del Piano di Marina, dove proprietà di famiglia sono documentate fin dal 1306 (Gabrici, Levi, 1932; Spatrisano, 1972). Inizialmente il palazzo a base quadrata (m 40 di lato) conteneva una corte porticata al piano terreno e sviluppava un alzato su due livelli, di identica altezza e solarati, collegati tra loro da uno scalone interno situato nell’ala occidentale, mentre il portone si colloca su un angolo della fronte meridionale. Il registro a grandi bifore e trifore posseduto dal piano nobile, dove trovano alloggio la c.d. sala magna su due navate e la cappella, impone a tutte le facciate sottili effetti chiaroscurali attraverso il gioco delle modanature e dei rincassi delle aperture archiacute destinati a ricevere intarsi in pietra lavica che eclettizzano motivi del repertorio normanno. La parziale sopraelevazione del monumento e il loggiato interno a uso del piano nobile furono realizzati in un secondo momento nel rispetto del progetto iniziale, ma con mezzi e maestranze di gran lunga inferiori, sicché i finestroni, pur ripetendo il disegno delle polifore sottostanti, risultano privi delle eleganti ornamentazioni lungo le ghiere. I lavori, rimasti interrotti a causa della confisca regia del 1392, dovettero iniziare necessariamente prima della decorazione pittorica del soffitto cassettonato della sala magna (1377-1380), messo in opera in concomitanza con l’allestimento dell’ultimo piano. Anche l’ampio giardino recintato, le scuderie e la chiesa di S. Antonio Abate in esso ricomprese furono innalzati dopo il palazzo. Tuttavia l’alta qualità costruttiva della cappella, dove la salda struttura stereometrica contiene inaspettatamente uno spazio cultuale configurato secondo i canoni dell’architettura gotica angioina (Toesca, 1951), precede la più trasandata opera di sopraelevazione della residenza e rientra pertanto nel novero delle fabbriche promosse da Manfredi II (m. nel 1354) o, al più tardi, da Manfredi III (m. nel 1391) entro il sesto decennio del secolo.
Della dimora fatta erigere intorno al 1330 da Matteo Sclafani di fronte al palazzo reale si conserva il restaurato prospetto meridionale (Spatrisano, 1972). Il complesso trecentesco si conformava al tipo dello Steri senza possederne la rigorosa distribuzione dei vani intorno alla corte centrale, chiusa da quattro ali, ciascuna elevata su due piani serviti verso il cortile da un portico con sovrastante loggiato. Una maggiore autonomia progettuale volta alla ripresa di modelli compositivi propri dell’architettura normanna è documentata dalla partitura della fronte superstite, che, ritmata da lesene e ampi archi intrecciati bicromi, si integra nel contesto urbano dominato dal palazzo reale. Alla metà del secolo questa tipologia di residenza patrizia compare sporadicamente e con sensibili varianti anche in altri centri isolani, come attesta l’incompiuto palazzo Bellomo a Siracusa, fino a oggi ritenuto invece di età sveva (Agnello, 1935).
L’attivismo costruttivo della nobiltà locale si fece ancora più imponente nella seconda metà del Trecento, quando la baronia raggiunse l’apogeo con la spartizione del governo dell’isola tra i suoi maggiori rappresentanti a spese della Corona (1377). Le numerose fabbriche di carattere civile e religioso di cui si fecero promotori i Chiaramonte hanno fatto parlare dell’esistenza di una corrente omonima con un proprio vocabolario architettonico e decorativo (Toesca, 1951), tesi comunque non accolta concordemente dalla critica (Spatrisano, 1972). Le iniziative della più potente casata siciliana si rivolsero, dopo la realizzazione dello Steri di Palermo, anche agli aviti feudi agrigentini. Intorno alla metà del secolo vennero ristrutturate le roccaforti familiari di Agrigento, Siculiana, Racalmuto e Favara, si proseguirono i lavori del Santo Spirito ad Agrigento e furono sovvenzionate fondazioni religiose a Naro (chiesa matrice e convento francescano, 1362-1364), Bivona (chiesa matrice, 1374) e Caltabellotta (S. Salvatore, terzo quarto del sec.14); per iniziativa di Federico III Chiaramonte (m. nel 1363) si innalzò la residenza di Palma di Montechiaro (1350 ca.) e furono acquisiti nel 1366 e nel 1374 i castelli demaniali di Naro e Mussomeli, adeguando gli spazi residenziali e di rappresentanza alle esigenze dei nuovi proprietari (sala dei Baroni nel castello di Mussomeli).
Palermo continuava comunque a essere il luogo deputato per le maggiori imprese architettoniche, sebbene si avverta dopo il 1360 un continuo declino del livello costruttivo, riflesso della profonda crisi economica che aveva investito la Sicilia. Chiusa la stagione delle fabbriche conventuali con la realizzazione del chiostro dei Domenicani (1350-1360), tra il 1370 e il 1380 si avviarono il risanamento e lo sviluppo urbanistico del Piano di Marina (Franchetti Pardo, 1982). L’intervento fu patrocinato da Manfredi III e dovette interessare anche lo Steri, sopraelevato prima del 1377; lo stesso Manfredi istituì nel 1388, presso Palermo, il monastero benedettino di S. Maria degli Angeli, che alla caduta della famiglia nel 1392 era incompiuto (Guttilla, 1986).
Gli avvenimenti del 1392, culminati con l’annientamento dei Chiaramonte, crearono le premesse del ricongiungimento dell’isola al regno d’Aragona, sancito nel 1412. La nuova classe dominante di origine ispanica aprì la S. agli apporti culturali catalano-aragonesi e decretò la fine di quella corrente artistica indigena nel cui solco si era mossa gran parte dell’architettura civile siciliana, che ebbe come ultima espressione il palazzo Montalto a Siracusa, del 1397 (Agnello, 1969, p. 37).
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P.F. Pistilli