MARTINI, Simone
Pittore senese, documentato a partire dal 1315 e morto nel 1344 ad Avignone.M. nacque presumibilmente a Siena intorno al 1284, data che Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 200) sostiene di avere letto sull'epitaffio funebre del pittore, figlio, secondo la tradizione, di un Martino abitante del popolo di S. Egidio; Carli (in Cecchini, Carli, 1962) ha invece avanzato l'ipotesi di collocare a San Gimignano i natali del pittore e di riconoscerne il padre in un maestro Martino ivi documentato nel 1274 come artigiano specializzato nel preparare l'arriccio.Numerose sono le testimonianze delle fonti d'archivio - raccolte e rese note da Della Valle (1785) e soprattutto da Milanesi (1854) e Bacci (1944) - ma nessuna è anteriore al 1315, quando M. portò a termine l'affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena e ricevette, in data 20 ottobre e 12 dicembre, due prestiti dal Comune senese. Gli Annali e la Cronaca antica del convento di S. Caterina a Pisa ricordano il 1320 come anno della collocazione sopra l'altare del polittico firmato dall'artista (Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo); a partire da Paccagnini (1955) la data di questo polittico è stata interpretata come 1319, in virtù del fatto che lo stile pisano era in anticipo di nove mesi e sette giorni su quello comune, anche se Cannon (1982), seguita poi da Hueck (1988), ha riproposto il 1320, riscontrando che gli annali pisani spesso riportavano le date secondo lo stile comune. La data 1320 si legge anche sul polittico eseguito per la chiesa dei Domenicani a Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo) e nella tavoletta con S. Giovanni Evangelista di Birmingham (Barber Inst. of Fine Arts); nel primo caso la scritta è generalmente ritenuta mutila, mentre nel secondo l'iscrizione appare con molta probabilità apocrifa.Il 30 dicembre 1321 M. riceveva dal Comune di Siena ventisette lire "per racconciatura la Maestà la quale è dipenta ne la Sala del Palazzo de Nove", mentre il giorno successivo gli veniva pagato venti fiorini d'oro il lavoro per il crocifisso - oggi considerato perduto, ma da De Nicola (1916), Volpe (in Il Gotico a Siena, 1982, p. 182 nr. 63) e Martindale (1988b) identificato con quello di S. Maria del Prato di San Casciano in Val di Pesa (prov. Firenze) - da collocarsi sopra l'altare della cappella del Palazzo Pubblico di Siena e che fu poi portato a termine da Mino di Cino Ughi. Il 17 giugno 1322 è registrato un pagamento di otto lire per un lavoro di M. sempre nel Palazzo Pubblico; l'anno successivo il pittore risultava ancora attivo all'interno del palazzo e riceveva un pagamento il 28 aprile per alcune pitture eseguite nella loggia e un altro il 30 giugno per un S. Cristoforo e l'arme del podestà Mulazzo de' Mulazzi da Macerata nella sala della Biccherna. Tra il 2 gennaio e l'8 febbraio 1324 M. acquistava una casa dal pittore Memmo di Filippuccio per venti fiorini e contemporaneamente ne sposava la figlia Giovanna, alla quale donò la generosa somma di duecentoventi fiorini propter nuptias. Una serie di pagamenti della Biccherna, dal 28 febbraio all'8 agosto 1326, si riferisce a una tavola - oggi perduta - per il palazzo del Capitano del popolo, della quale fanno lodevole menzione sia Ghiberti (Commentari, II, 13) sia Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 193); il 24 maggio dello stesso anno il pittore compariva come testimone a proposito dell'affitto di alcune terre appartenute allo Spedale di S. Maria della Scala. Del 31 dicembre 1327 è il pagamento da parte del Comune di Siena per due stendardi donati al duca di Calabria, mentre l'11 agosto 1329 M. riceveva venticinque soldi per due angioletti destinati all'altare dei Nove e nell'ottobre dello stesso anno si fa menzione della casa che egli possedeva in Camporegio con il fratello Donato Martini; un viaggio ad Ansedonia per conto del Comune senese, documentato sempre nell'ottobre, si riferisce invece a un omonimo falegname (Seidel, 1982). Nel 1330 M. dipingeva la figura del ribelle Marco Regoli, oggi perduta, nella sala del Concistoro del Palazzo Pubblico senese e veniva pagato il 2 maggio per aver dipinto, nello stesso palazzo, i castelli di Montemassi e Sassoforte; quest'ultima notizia è solitamente riferita al celebre affresco di Guidoriccio da Fogliano, la cui data 1328 dipinta sulla cornice allude probabilmente alla conquista militare. Nel settembre 1331 M. visitava il castello di Arcidosso e Castel del Piano, poi dipinti a dicembre nella sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico; nell'autunno di quell'anno i libri della Biccherna riportano una serie di prestiti e restituzioni fra il pittore e il Comune di Siena. I documenti ricordano M. nel 1332 solo in relazione ad alcuni piccoli lavori, dei quali non resta più traccia, per la cappella dei Nove, mentre il 1333 è l'anno della grande pala dell'Annunciazione datata e firmata assieme a Lippo Memmi per l'altare di S. Ansano nel duomo di Siena, oggi a Firenze (Uffizi).La partenza di M. per la corte pontificia di Avignone si colloca presumibilmente tra il 1335 - anno che Della Valle (1785) lesse sotto un perduto tabernacolo rappresentante la Madonna con il Bambino affrescato sulla facciata del palazzo del Magnifico a Siena, ma che Chigi nel 1625-1626 (Bacci, 1939) volle del 1330 e Romagnoli (Biografia) del 1336 - e il novembre 1336, data apposta da Francesco Petrarca su alcuni sonetti (LXXVII-LXXVIII) del Canzoniere, posteriori ai due nei quali viene ricordato M. come autore di un ritratto "in carte", cioè una miniatura, di Laura. Il rettore della chiesa senese di S. Angelo a Montone l'8 febbraio 1340 nominava Donato e Simone M. suoi procuratori per una causa in discussione presso la Curia avignonese; del medesimo anno sono alcuni documenti senesi che fanno menzione di un "maestro Simone Martini", ma è assai probabile (Bacci, 1944) che si tratti di un omonimo del pittore. La tavoletta con il Rientro di Gesù in famiglia (Liverpool, Walker Art Gall.) reca la data 1342 e la firma del pittore. A questi venivano restituiti da parte dello Spedale di S. Maria della Scala venti fiorini che aveva anticipato per quattro privilegi papali, come si legge in data 5 maggio 1344 nei conti dell'ospedale; il 28 giugno e di nuovo il 9 luglio si riporta sugli stessi libri che a M. erano stati versati tre fiorini di più. Da un documento redatto dal notaio fiorentino Geppo di Bonaiuto Galgani, il 30 giugno 1344, si apprendono le disposizioni testamentarie di M., che, privo di figli, ripartiva i suoi consistenti averi fra la moglie e i nipoti. Il 4 agosto il necrologio del convento di S. Domenico riporta la notizia della morte del pittore ad Avignone; tre giorni più tardi una veglia funebre in sua memoria è ricordata nelle carte dello Spedale di S. Maria della Scala. Il 1347 vedeva la morte del fratello Donato e il ritorno a Siena della moglie Giovanna, che faceva dono di un calice e di un messale in memoria del marito al convento di S. Domenico.A pochi mesi dalla collocazione della Maestà di Duccio sull'altare maggiore del duomo di Siena, avvenuta nel 1311, il Comune decise di affidare l'esecuzione dell'affresco di analogo soggetto per il Palazzo Pubblico a M., che lo portò a termine, firmandolo e datandolo nel 1315, dopo ca. tre anni di lavoro. Racchiusa da una cornice dipinta con eleganti motivi vegetali, sulla quale si dispongono venti tondi con evangelisti, Dottori della Chiesa, profeti, Cristo benedicente e una figura bicipite a simboleggiare la vecchia e la nuova Legge, la raffigurazione della Madonna in Maestà sulla parete della sala del Mappamondo acquista un'intonazione affatto nuova rispetto a quella di Duccio. Si avverte nella Maestà un consapevole inoltrarsi di M. all'interno di quella cultura gotica diffusasi attraverso la circolazione di miniature, oreficerie, piccoli dipinti e sculture d'Oltralpe, ma anche grazie alla testimonianza del 'pittore oltremontano' ad Assisi (Bellosi, 1988); cultura figurativa che già era stata fatta propria dai grandi orafi senesi e che M. dichiara nel trono dorato e traforato, nell'impiego dei punzoni - si deve probabilmente a M. l'invenzione della punzonatura -, nell'utilizzo di materiali diversi, come la carta di cui è composto il cartiglio tenuto in mano dal Bambino e il vetro del fermaglio del manto della Vergine.A questa influenza si aggiunge e si compenetra la meditazione sulle novità giottesche in tema di rappresentazione dello spazio, immediatamente percepibile nel baldacchino così bene articolato prospetticamente e nella dislocazione delle figure attorno al trono, che fingono di occupare uno spazio in profondità e hanno infranto l'ordine specularmente simmetrico che tenevano nella Maestà di Duccio. Il taglio cortese e profano della figurazione martiniana rispecchia gli intenti politici del governo committente, quello dei Nove, come è scritto nei versi che corrono sui gradini del trono, dove si lodano le virtù civiche necessarie per il buon governo della città ed esemplificate più tardi da Ambrogio Lorenzetti negli affreschi dell'adiacente sala della Pace. Al 1321 risale il rifacimento di alcune parti della Maestà - in particolare le teste della Madonna, del Bambino, di alcuni santi e degli angeli inginocchiati -, motivato, più che da un deperimento precoce dell'affresco, dall'esigenza di un suo ammodernamento stilistico e iconografico.La maturità artistica così evidente e l'importanza della commissione testimoniano della salda reputazione di M. come pittore già all'inizio del secondo decennio del sec. 14° e di un cammino di formazione - con ogni probabilità nella bottega di Duccio o sicuramente nella sua orbita - ormai completato, anche se oggi di difficoltosa ricostruzione. La derivazione duccesca, evidente peraltro anche in alcune figure della Maestà e soprattutto nei busti dei clipei della fascia superiore della cornice, è attestata dalla tavola della Madonna con il Bambino (Siena, Pinacoteca Naz.), tradizionalmente attribuita a Duccio o alla sua bottega, ma di recente riconosciuta di sua mano (Chelazzi Dini, 1983-1984), e dalla testa della Vergine affrescata nell'oratorio della chiesa di S. Lorenzo in Ponte a San Gimignano (Cecchini, Carli, 1962; Carli, 1963), unico frammento superstite di un affresco totalmente rifatto da Cenni di Francesco di ser Cenni nel 1413. Partecipa di questa cultura anche la Madonna della Misericordia, già in S. Bartolomeo a Vertine presso Gaiole in Chianti (Siena, Pinacoteca Naz.), accostata con cautela alla giovanile attività di M. da Bagnoli (in Simone Martini e 'chompagni', 1985, pp. 43-46 nr. 3), ma da altri (Leone de Castris, 1989; Torriti, 1990) considerata della bottega di Memmo di Filippuccio.Gli affreschi della cappella di S. Martino nella basilica inferiore di Assisi furono riconosciuti opera di M. sullo scorcio del sec. 18° dall'antiquario Sebastiano Ranghiasci (Fea, 1820); se da allora l'autografia non è più stata messa in discussione, la datazione del ciclo ha conosciuto vistose oscillazioni fra l'attività giovanile di M. (Crowe, Cavalcaselle, 1885) e quella immediatamente precedente alla partenza per Avignone (Weigelt, 1930), attestandosi comunemente intorno alla metà degli anni venti (Paccagnini, 1955; Contini, Gozzoli, 1970) fino alla proposta di Bologna (1965) - oggi per lo più giustamente accolta - di considerare conclusi i lavori della cappella nel 1317, sulla base di persuasivi raffronti stilistici con la Maestà senese e con la predella della tavola proveniente dalla chiesa napoletana di S. Lorenzo Maggiore con S. Ludovico d'Angiò vescovo di Tolosa (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), databile appunto in quell'anno, firmate "Symon de Senis me pinxit". La decorazione della cappella fu voluta nel 1312 dal cardinale Gentile Partino da Montefiore, ritratto genuflesso al cospetto di s. Martino sulla parete d'ingresso.La prima fase dei lavori fu certamente quella relativa all'esecuzione delle sei vetrate, il cui disegno è stato attribuito allo stesso M. in un momento stilisticamente e cronologicamente prossimo alle parti più antiche della Maestà senese (Bologna, 1965; 1969a; 1969b). Nelle dieci storie della Vita di s. Martino, a cui M. attese probabilmente a partire dal 1315, si fanno più evidenti i richiami al plasticismo e alla visione spaziale di Giotto, in particolare nell'impostazione delle architetture, ma le singole scene, inquadrate all'interno di un mondo cortese, cavalleresco e profano, sono animate da un gusto per il racconto e da un'attenzione alla verosimiglianza dello svolgersi degli eventi che non conoscono alcun precedente nella pittura contemporanea. Minuziosa, come già nella Maestà, è la resa dei materiali (stoffe, metalli) e puntuale la descrizione degli oggetti, come gli arredi d'altare della Messa miracolosa o gli strumenti musicali dell'Investitura a cavaliere; la superficie pittorica, che accoglie un colore dalla ricca gamma e dalla preziosa qualità, è ancora una volta modulata da punzonature, incisioni, rilievi, applicazioni d'oro.Un intervento non secondario della bottega si scorge nei diciotto mezzi busti di santi negli sguanci delle finestre della stessa cappella di S. Martino. L'antico riferimento agli Angiò per questi affreschi (Gosche, 1899; Francastel, 1969) non deve forse del tutto escludersi, nonostante l'accertata dipendenza del ciclo dalle volontà del cardinale Partino, se alcuni dei santi dipinti da M. nel sottarco d'ingresso sono della famiglia angioina o a essa assai vicini. La presenza fra questi di S. Ludovico d'Angiò, canonizzato nel 1317, induce a collocare questa fase ultima degli affreschi nel medesimo anno o poco più tardi, non distante comunque dalla grande pala napoletana con S. Ludovico, anch'essa riferibile al 1317.Stretta è la connessione, evidenziata da Bologna (1966; 1969a; 1969b), fra questa tavola e gli affreschi di Assisi - particolarmente evidente nella chiara e solida spazialità degli ambienti delle cinque storie nella predella -, ma vi si percepisce anche un'ulteriore evoluzione in direzione di un goticismo sempre più raffinato e cortese, prezioso nei punzoni, nei rilievi in pastiglia, nella straordinaria resa mimetica delle stoffe, nel vetro eglomisé che chiude il piviale del santo. In rapporto con le committenze angioine di M. si è spesso letto il perduto documento del 1317 reso noto da Schulz (1860, IV, p. 136), dove si nomina un "Symone Martini milite" come beneficiario di un'ingente somma assegnatagli da Roberto d'Angiò; Aceto (1992) ha però definitivamente accertato trattarsi solo di un omonimo del pittore senese, come già alcuni avevano sospettato, meravigliandosi che M. non venisse mai ricordato altrove con il titolo nobiliare di cavaliere (Crowe, Cavalcaselle, 1885; Gardner, 1976; Martindale, 1988b).A ridosso degli affreschi di Assisi si colloca il polittico eseguito per la chiesa di S. Agostino a San Gimignano, il cui pannello centrale con la Madonna con il Bambino è oggi a Colonia (Wallraf-Richartz-Mus.), mentre tre scomparti laterali (S. Michele Arcangelo, S. Geminiano, S. Agostino) si trovano a Cambridge (Fitzwilliam Mus.) e l'ultimo - il polittico si componeva di cinque (Previtali, 1988; Gordon, 1991) e non di sette scomparti (Klesse, 1973; De Benedictis, 1988) - con S. Caterina d'Alessandria a Firenze (coll. privata). La ricostruzione del polittico e l'identificazione con quello di San Gimignano, già citato da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 198) come opera di Lippo Memmi, da Borghini (De Nicola, 1919), che ne lesse la firma "Simon Senensis pinxit", e da Della Valle (1785), sono operazioni abbastanza recenti e hanno trovato un elemento di conferma quando un restauro ha fatto riemergere la scritta con il nome sotto il S. Geminiano, identificato fino a quel momento con s. Ambrogio (Goodison, Robertson, 1967).In questa fase dell'attività giovanile si inserisce il recente suggerimento di Bellosi (1992) di individuare M. come l'autore dei cartoni per i mosaici, più volte ampiamente restaurati, con l'Annunciazione e l'Assunzione nel transetto del duomo di Pisa, proposta sulla quale Carli (1994) si è pronunciato negativamente. Due altre opere di incerta autografia sono state considerate come prodotte dal pittore nella seconda metà del secondo decennio: l'assai guasta Crocifissione (Firenze, Mus. Horne) accostata con cautela a M. da Bellosi (1977b; Il Gotico a Siena, 1982, p. 180, nr. 62) e la Madonna con il Bambino (coll. privata) assegnatagli forse meno convincentemente da Chelazzi Dini (1985).Il polittico per il convento di S. Caterina a Pisa, eseguito fra il 1319 e il 1320, rappresenta la pala più integra e più grande di M. conservatasi. Fortemente ispirata dalle ultime analoghe creazioni di Duccio, l'ancona rivela raffinatissime qualità cromatiche e compositive che si esaltano nella varietà delle fisionomie e degli atteggiamenti dei numerosi personaggi rappresentati. Intorno al 1320 paiono situarsi anche il crocifisso di San Casciano in Val di Pesa e il polittico di Boston (Isabella Stewart Gardner Mus.), originariamente in S. Maria dei Servi a Orvieto, come dimostrano i documenti pubblicati da Fredericksen (1986). È questo, con molta probabilità, il primo lavoro eseguito dalla bottega di M. per la cittadina umbra, cui fece immediato seguito un polittico smembrato e frammentario, già in S. Francesco e poi nella chiesa dei Gesuiti, il cui scomparto centrale con la Madonna con il Bambino - figure che paiono immerse in una sorta di malinconica compostezza e gravità - si trova ancora a Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo). Altri frammenti di questo polittico sono stati individuati nella fragile e preziosa S. Caterina d'Alessandria (Ottawa, Nat. Gall. of Canada) e nei quattro piccoli tondi di profeti di Avignone (Mus. du Petit Palais; Volpe, in Il Gotico e Siena, 1982, p. 182, nr. 63; Lonjon, 1983). Il terzo complesso orvietano, di cui si conservano la tavola centrale e quattro scomparti laterali (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo), proviene dalla chiesa dei Domenicani e reca la mutila firma del pittore e la discussa data "MCCCXX", secondo alcuni da integrarsi fino a leggere un 1322 (Previtali, 1988), secondo altri un 1324 o 1325 (Hueck, 1988; Leone de Castris, 1989), mentre Cannon (1982) - e sembra l'ipotesi meno probabile - è tornata a riproporre l'integrità della data. Gli apparenti scarti stilistici, ma non qualitativi, percepibili nei polittici orvietani - più mosso, fluido, elegantemente gotico il polittico di Boston, più monumentale e giottesco quello firmato -, trovano la loro giustificazione nel rapporto di collaborazione sempre più stretto fra M. e Lippo Memmi.Appartengono a questi anni i due apostoli di Birmingham (Mus. and Art Gall.) e di Boston (Mus. of Fine Arts), forse parti di predella di un polittico, per Caleca (1976-1977) e Martindale (1988b) da identificarsi con quello dipinto per la chiesa dei Domenicani. Intorno al 1322 M. tornò a lavorare nella basilica inferiore di Assisi affrescando nel transetto destro i Ss. Francesco, Ludovico d'Angiò, Elisabetta d'Ungheria, Margherita ed Enrico d'Ungheria e la Madonna con il Bambino tra i ss. Ladislao e Stefano d'Ungheria. Evidentissima appare, in seguito alla corretta identificazione dei santi (Bellosi, 1985), la committenza angioina del ciclo - segnatamente di Maria d'Ungheria, moglie di Carlo II -, nel quale sono rappresentati soltanto santi facenti parte della dinastia dei reali ungheresi o particolarmente venerati in quel contesto. Già ricordati come di mano di M. da Vasari (Le Vite, II, 1967, p.199), i santi, più ancora della Madonna, non sempre ritenuta autografa, rivelano l'elegante grafia gotica tipica della maturità dell'artista. Parimenti in sintonia con il momento orvietano dell'attività di M. è la bellissima Madonna con il Bambino individuata da Carli (1958; 1960), sotto una grossolana ridipintura del sec. 16° (per fare aderire la quale furono rimossi l'oro e il blu del manto della Madonna), nella parrocchiale di S. Giovanni Battista a Lucignano d'Arbia (Siena, Pinacoteca Naz.). La tavola, oltre alle rarità iconografiche del Bambino ancora in fasce e della Vergine che reclina la testa sulla spalla destra, mette in luce la qualità del disegno purissimo e di una pittura capace di straordinarie sottigliezze e trasparenze. Il Redentore benedicente di Roma (Mus. Vaticani, Pinacoteca), cronologicamente prossimo alla Madonna di Lucignano, è stato supposto, con deboli argomentazioni, come cuspide di quest'ultima (Lonjon, 1983; Martindale, 1988b). Sembrano invece, sulla scorta delle indicazioni di Previtali (1988), da ricondurre all'ambito della bottega la Madonna con il Bambino di Castiglione d'Orcia (prov. Siena), ritenuta autografa da Padovani (1979) e De Benedictis (1979), e la S. Maria Maddalena e il S. Agostino (Mosca, Gosudarstvennyj Muz. izobrazitel'nych iskusstv im. A.S. Puškina) che a essa sono stati avvicinati.La pala con il beato Agostino Novello e quattro miracoli (Siena, Pinacoteca Naz.), un tempo in S. Agostino a Siena sulla parte alta della tomba del beato - e questa ubicazione è il motivo della particolare centinatura -, è fra le opere più significative di M. sulla metà del terzo decennio. Il beato, in piedi con un libro in mano, si trova, con chiara allusione al suo romitaggio, in un boschetto dagli alberi pieni di uccellini in ascolto delle parole che un piccolo angelo gli sussurra all'orecchio. I miracoli, popolareschi e quotidiani, sono rappresentati, nello stesso spazio, nei due momenti diversi dell'intervento provvidenziale del beato dall'alto - sono tutti miracoli post mortem - e della preghiera di ringraziamento a miracolo avvenuto. I luoghi dei miracoli (la strada di Siena, l'interno della casa, il paesaggio naturale) sono riprodotti con nuovi e spiccati accenti di verità, così come i personaggi, fino ad allora mai colti nella pittura del tempo in espressioni e atteggiamenti tanto credibili e spontanei. Il S. Ladislao d'Ungheria (Altomonte, Mus. Civ. di S. Maria della Consolazione), riconosciuto come autografo per primo da Paccagnini (1948), sebbene interpretato anche come l'ultimo dipinto di M. (Polzer, 1980), è opera eseguita intorno al 1326, come suggeriscono i raffronti stilistici e la ricostruzione del contesto storico dal quale ebbe origine la commissione (Bologna, 1966; 1969a). Non distante da questa data si deve immaginare l'esecuzione del piccolo polittico 'mobile' la cui Madonna con il Bambino si trova con i Ss. Ansano e Andrea a New York (Metropolitan Mus. of Art); a New York (coll. privata) è custodito anche il S. Pietro, mentre il S. Luca è conservato a Malibu (J. Paul Getty Mus.). Boskovits (1974), al quale si deve la restituzione dell'insieme a M., ha proposto di identificarlo con il polittico pagato al pittore dal Comune di Siena per la cappella dei Nove nel 1326, ma l'ipotesi, respinta da Eisenberg (1981), non ha avuto poi alcun seguito.L'affresco con Guidoriccio da Fogliano, nella sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena, dipinto di rimpetto alla Maestà a ca. quindici anni di distanza, rappresenta il condottiero dell'esercito senese a cavallo sullo sfondo del castello di Montemassi, da lui appena conquistato, del battifolle e dell'accampamento eretti per l'assedio. Nonostante si sia tentato (Moran, 1977) di negare a questo affresco la paternità di M., e con argomentazioni, soprattutto di ordine storico, non sempre peregrine, esso manifesta inequivocabilmente il suo autore, come dimostrano palesi raffronti stilistici - in particolare l'accampamento è pressoché identico a quello della Rinuncia di s. Martino alle armi del ciclo assisiate, così come il ritratto fortemente caratterizzato di Guidoriccio trova un riscontro puntuale nel volto del cardinale Gentile Partino da Montefiore, sempre ad Assisi, e nel profilo di Roberto d'Angiò nella pala napoletana - ed elementi desunti dall'analisi della tecnica esecutiva (punzoni, foglie metalliche applicate). Si coglie in questo affresco - la cui parte sinistra con il castello è un rifacimento fedele dei primi del sec. 15°, attribuibile a Taddeo di Bartolo (Bellosi, 1982b; 1987) - la capacità di M. nel disporre, calcolare e semplificare ogni elemento della figurazione in virtù della visione dal basso e della funzione dell'opera, che "nasce come un grande cartellone che doveva far pubblicità alle imprese della Repubblica di Siena" (Bellosi, 1982b).La grande pala con l'Annunciazione e i Ss. Ansano e Margherita (Firenze, Uffizi), certamente una delle più celebri tavole del Trecento italiano, è l'unica opera conservata che rechi la firma di M. e quella di Lippo Memmi. Commissionata per l'altare di S. Ansano del duomo di Siena, fu poi trasportata nel corso del sec. 17° nella chiesa di S. Ansano e da qui prelevata nel 1799 per entrare a far parte delle gallerie fiorentine. Estremamente controversa, e in ultima analisi sterile, è la questione dell'individuazione delle singole mani, che oggi, riprendendo un'idea che fu già di Venturi (1907), viene risolta per lo più in favore dell'impossibilità di discernerle in una tavola stilisticamente così omogenea e dalla tenuta qualitativa così alta. L'Annunciazione segna una svolta decisa nell'evoluzione dello stile di M. in direzione di un'estrema astrazione formale, di un'elegante e sinuosa linearità, di un ripensamento del concetto di spazio, non più apparecchiato secondo principi di derivazione giottesca, ma come compresso sulla superficie e solo appena suggerito dalle posture delle esili, immateriali figure dell'angelo e della Vergine e dalla collocazione degli oggetti: il trono e il bellissimo vaso di gigli. Il fulgore dell'oro - punzonato, inciso, percorso dalla scritta rilevata in pastiglia - non si limita a caratterizzare il fondo, ma si esalta nella veste e nelle ali dell'angelo appena atterrato, come suggerisce lo svolazzo del mantello foderato con il prediletto tessuto 'scozzese'. La Vergine, con invenzione nuova, si ritrae e fa come per nascondersi, per lo spavento e il pudore, alla subitanea apparizione celeste.Attualmente smembrato e disperso in tre diversi musei - l'Angelo annunciante, l'Annunciata, la Crocifissione e la Deposizione si trovano ad Anversa (Koninklijk Mus. voor Schone Kunsten); l'Andata al Calvario, a Parigi (Louvre); il Seppellimento di Cristo, il cui fondo è stato ridipinto in epoca moderna, a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.) - il c.d. polittico Orsini, dall'arme di famiglia dipinta sul retro dell'Andata al Calvario, costituiva in origine un altarolo portatile del quale si legge ancora la firma: "Pinxit Symon". Spesso annoverato fra le opere avignonesi (Brink, 1976; 1977; Martindale, 1988b) e talvolta fra quelle giovanili (Caleca, 1976-1977) - interpretando i ricordi ducceschi come fresche memorie di bottega, mentre sembrano al contrario anticipare Barna -, il complesso pare invece appartenere agli anni immediatamente successivi all'Annunciazione, prima della partenza di M. da Siena, anche se non sembra priva di fondamento la proposta di retrodatazione al 1326-1327 di D'Urso (1991), sulla base di argomentazioni di carattere storico relative al committente, Matteo Orsini e non Napoleone come si ritiene abitualmente. Se l'Annunciazione si presenta come una variante, solo un poco più 'terrena', di quella del 1333, le scene della Passione introducono un inedito patetismo e un'accentuazione marcata dell'espressione dei sentimenti e del dinamismo, nervoso e inquieto, delle figure. Estremamente efficaci in questo senso si rivelano gli affollati gruppi che, serrandosi sempre più in prossimità della figura del Cristo, partecipano degli eventi con manifesta commozione. Assai discussa è la collocazione cronologica del S. Giovanni Evangelista dolente di Birmingham (Barber Inst. of Fine Arts), unico frammento conservato di un piccolo trittico portatile recante la data 1320, probabilmente spuria. Se pure la tavoletta presenta innegabili affinità tipologiche con gli affreschi di Assisi, in particolare con il volto del s. Martino che rinuncia alle armi (Colasanti, 1932; Hueck, 1988), è però con il c.d polittico Orsini che il confronto si fa più stringente, nell'intenso patetismo del santo, nel bordo operato del fondo oro e nel forte effetto spaziale e al tempo stesso sottilmente grafico del mantello, come si riscontra in quello del S. Giuseppe della Sacra Famiglia di Liverpool (Walker Art Gall.) di pochi anni più tardo; si giustifica così pienamente una datazione nella seconda metà del quarto decennio, che pone l'esecuzione della tavoletta nello scorcio dell'attività di M. in Italia o, forse, nel primo periodo avignonese (Leone de Castris, 1989).La prima opera sicuramente realizzata alla corte papale di Avignone - perduto il ritratto della Laura petrarchesca - è ancora da collegare a Petrarca, che, rientrato in possesso nel 1338 di un codice delle opere di Virgilio commentate da Servio (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.10.27, già A.49 inf.), sottrattogli anni addietro, decideva di farne miniare il frontespizio dall'amico pittore con un'allegoria virgiliana. La qualità della pagina è sostenutissima anche dal punto di vista della tecnica esecutiva (Tosatti, 1988), le pose di Servio che rivela Virgilio e di Enea ancorato alla lunga lancia, energicamente definite da un elegante linearismo, gli accenti naturalistici del prato, la resa delle figure del contadino e del pastore, il latte appena munto dalle capre appaiono in notevole anticipo sui tempi, preludendo ai risultati più raffinati del Gotico cortese. Ai primi degli anni quaranta, sul timpano e sulla lunetta del portale della cattedrale avignonese di Notre-Dame des Doms, M. affrescò, rispettivamente, un Cristo benedicente e angeli e, secondo un'iconografia nuova elaborata probabilmente dallo stesso M. (Meiss, 1936; 1951), una Madonna dell'Umiltà. Il ciclo comprendeva sulla parete meridionale anche l'episodio di S. Giorgio e il drago, che aveva goduto di una grande fama poiché si era creduto di riconoscere i tratti di Laura in quelli della principessa dipinta e la mano di Petrarca - ed era invece quella del committente Jacopo Stefaneschi - nella quartina latina che vi era inscritta. Di questo affresco, distrutto completamente nel 1828, resta la copia in un disegno del sec. 17° reso noto da De Nicola (1906), mentre si ignora se il ciclo fosse così compiuto o se altri affreschi siano andati perduti. Poche tracce restano dei due affreschi superstiti, ma lo stacco - tardivo - del 1960 ha permesso di recuperare le bellissime sinopie, ora esposte con i lacerti di pittura nel palazzo dei Papi di Avignone.Forse l'ultima opera che si conosca di M. è la tavoletta di Liverpool (Walker Art Gall.), recante l'iscrizione "Symon de Senis me pinxit sub a(nno) D(omini) MCCCXLII", che rappresenta il Rientro di Gesù in famiglia dopo la disputa nel Tempio. Al di là della rarità e della singolarità del soggetto, interpretato di volta in volta secondo le chiavi più diverse (Denny, 1967; Martindale, 1988a), il dipinto manifesta un'estrema evoluzione in senso gotico di M., la cui scelta di amplificare gli aspetti narrativi e di espressione psicologica - il broncio orgoglioso di Gesù, il disappunto di Giuseppe - godette di grande fortuna nell'imminente stagione del Gotico internazionale, a partire dagli affreschi di Matteo Giovannetti nel palazzo dei Papi. Completano l'esiguo corpus delle opere avignonesi il Crocifisso di Cambridge (MA, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.), assai simile a quello del c.d. polittico Orsini, e il piccolo dittico con l'Annunciazione, di cui l'Annunciata è a San Pietroburgo (Ermitage) e l'Angelo a Washington (Nat. Gall. of Art), spesso considerato prodotto in larga parte di bottega e nel quale si è voluta riconoscere la mano di Matteo Giovannetti (Volpe, 1955) o meglio del fratello Donato Martini (De Benedictis, 1976).Celebratissimo in vita e imitato dai pittori senesi anche a un secolo dalla sua morte - "tengono e' pictori senesi fosse il migliore" ricorda Ghiberti (Commentari, II, 13), che però gli preferiva Ambrogio Lorenzetti - M. subì, almeno fino alla metà del sec. 19°, il giudizio poco favorevole espresso da Vasari, secondo il quale l'aver realizzato il ritratto di Laura e l'essere stato nominato da Petrarca in una delle sue lettere (Le Familiari, 5,17) "hanno dato più fama alla povera vita di maestro Simone che non hanno fatto né faranno mai tutte l'opere sue" (Le Vite, II, 1967, p. 192). Fedeli all'auctoritas vasariana, anche Baldinucci (1681) e Lanzi (1795-1796) continuarono la tradizione del pittore più fortunato - per avere conosciuto Petrarca - che valente, insistendo pure nel ricordarlo come Simone Memmi. La reale statura del pittore emerse solo nel sec. 19° - e in particolare grazie al lavoro di Crowe e Cavalcaselle (1864; 1885) - con il riconoscimento delle maggiori opere del suo catalogo e l'espunzione di altre, a torto inseritevi, come gli affreschi del Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella a Firenze, opera del più tardo e modesto Andrea di Bonaiuto, ma da Vasari (Le Vite, II, 1967, pp. 195-196) - e prima ancora da Gelli (1549) - fino a Ruskin (1887) considerati capolavori di Simone Martini. La prima delle numerose monografie sull'artista si deve a Gosche (1899). Fra i compagni di M. - di molti dei quali non si hanno notizie e opere sufficienti per ricostruirne adeguatamente la biografia e la personalità artistica - si ricordano in primo luogo il fratello Donato Martini e i suoi due cognati Lippo e Tederico (Federico) Memmi. Se Lippo Memmi, che fu il più fedele collaboratore e seguace dell'arte di M., appare in una luce un po' più chiara e definita, assai poco si conosce del fratello, con il quale Simone firmò una tavola del 1347 a Carpentras (dip. Vaucluse), oggi perduta. La critica più recente, dopo l'intervento di Moran (1977) - ma non mancano voci discordi (Carli, 1981) -, ha proposto di riconoscere in Tederico l'autore degli affreschi della parete destra della collegiata di San Gimignano, da Ghiberti (Commentari, II, 13) e Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 255) assegnati a Barna, della cui esistenza oggi in molti dubitano; per Caleca (1976-1977) nella figura di Barna è invece da riconoscere lo stesso Lippo Memmi. A Donato Martini si è proposto di accostare il corpus di dipinti raccolto sotto il nome del Maestro della Madonna Straus (De Benedictis, 1976; 1979), mentre appare ancora impossibile formulare ipotesi attendibili sull'identità di due altri grandi collaboratori di M.: il raffinato Maestro della Madonna di Palazzo Venezia e il geniale Maestro degli Angeli ribelli.
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