Stati Uniti
La fortuna di Machiavelli negli Stati Uniti. – La ricezione di M. prima nelle colonie e poi nell’America indipendente non è una vicenda lineare. Se, a una prima analisi, appaiono ben pochi gli americani che si sono occupati delle sue dottrine, o che hanno fatto esplicito riferimento al suo nome, prima del Novecento, la figura dell’autore del Principe è stata, invece, al centro di una rivisitazione storiografica dell’intera Rivoluzione americana e delle sue radici ideologiche, che negli ultimi quarant’anni ha profondamente innovato questo campo di studi. Quindi la figura di M. si insinua nel dibattito sulla natura della Rivoluzione americana, assumendo un ruolo che va ben al di là delle citazioni testuali da parte dei padri fondatori.
In particolare, si deve al volume di John Greville Agard Pocock (→), The Machiavellian moment pubblicato nel 1975, un’interpretazione che ha posto il Segretario fiorentino al centro del movimento rivoluzionario americano. La tesi di Pocock è che «un gruppo organico di idee e di valutazioni sulla Grecia e su Roma si [...] [sia] acclimatato a Firenze [e sia passato] [...] poi in Inghilterra e in America dove fu di aiuto ad organizzare i rispettivi ordinamenti politici» (1975; trad. it. 1981, p. 68).
M. diventa per Pocock e la tradizione di studi che si rifà alla sua interpretazione, il campione di una riproposizione dell’aristotelismo politico che avrebbe condizionato anche il Nuovo mondo. La Rivoluzione americana non sarebbe quindi un’opera ideologicamente ascrivibile al ‘liberalismo classico’ e al suo padre nobile, John Locke. Al centro della scena intellettuale vi sarebbe la ricerca del bene comune, della virtù, di quel ‘vivere civile’, o ‘umanesimo civico’ che hanno in M. un interprete d’eccezione. Il che starebbe a significare che svariati «assunti machiavelliani» – come li chiama Pocock – sarebbero stati moneta ideologica corrente in America a prescindere dal numero (assai esiguo) di riferimenti diretti a M. nel periodo rivoluzionario.
Benché gli scritti di M. si concentrino sulla formazione di nuovi Stati, sulla riforma di Stati ‘corrotti’, ossia sulla fondazione o rifondazione di una comunità politica, all’interno del discorso politico dei founding fathers degli S. U. la sua presenza è a malapena percettibile.
Donald Lutz ha analizzato il numero di citazioni esplicite nei più importanti opuscoli politici del periodo rivoluzionario e costituente americano (dal 1760 al 1805). Gli autori più citati sono Locke e Montesquieu, mentre M. non è che al ventottesimo posto fra gli scrittori politici europei (Lutz 1984). Un volume collettaneo del 2006, Machiavelli’s liberal republican legacy, ha tuttavia acceso nuova luce sulla reale frequentazione dell’opera di M. da parte dei padri fondatori. Sei fra i più rilevanti di questi (Benjamin Franklin, George Washington, Thomas Jefferson, John Adams, James Madison e Alexander Hamilton) vengono esaminati proprio per vedere se e che cosa essi avessero appreso da M., o anche se si possano solo considerare ‘machiavelliani in incognito’.
È quasi un luogo comune considerare ‘machiavellica’ la vocazione di Franklin a una politica estera spregiudicata e realista, ma, di fatto, non vi è alcuna prova di una sua lettura del Fiorentino. Seppure Washington potrebbe ambire al titolo di ‘principe’ nel contesto americano, non vi sono espliciti richiami a M. nei suoi scritti. Lo stesso si può dire nel caso di tre grandissime figure quali Jefferson, Madison e Hamilton (anche se per quest’ultimo si possono rinvenire un paio di generici richiami). Seppure una biografia di Hamilton, dovuta a John Lamberton Harper, sia intitolata American Machiavelli (2004), l’accostamento si giustifica nei fatti e non come incontro intellettuale.
A ben vedere, l’unico dei padri fondatori al quale può essere ricondotto un genuino interesse per l’opera di M. è Adams, che leggeva M. nella traduzione di Ellis Farneworth del 1775. In una nota lettera, Adams si dichiara addirittura «allievo di Machiavelli» anche se confessa di non aver mai compreso se M. «celiasse o parlasse sul serio» (Machiavelli’s liberal republican legacy, cit., p. 190). Nella sua A defense of the constitutions of government of the United States, del 1778, M. è citato più volte. La sua autorità gli serve a difendere l’unicità della Rivoluzione americana e a minimizzare il ruolo giocato dalla violenza nella secessione delle tredici colonie. M. viene parimenti utilizzato contro l’idea di un parlamento monocamerale privo di contrappesi istituzionali. Adams rende apertamente omaggio a M. quale primo teorico moderno della politica, che avrebbe un enorme debito, non sempre esplicitamente riconosciuto, nei confronti degli antichi. In sintesi, secondo Adams, tutto ciò che c’è di buono nei grandi pensatori politici viene utilizzato da M., tanto che questi è per lui «the great restorer of true politics», esattamente come lo considerava James Harrington (→).
Al di fuori di questa ristretta cerchia, non sono molti i riferimenti a Machiavelli. Fra gli antifederalisti, avversari del progetto costituzionale approvato a Filadelfia, il nome di M. ricorre solamente in cinque occasioni e tutte piuttosto convenzionali. Centinel lo considera un «politico profondo, ma corrotto» e lo cita per biasimare l’ipocrisia politica dei costituzionalisti di Filadelfia (Letters of Centinel, in The complete Anti-federalist, ed. H. Storing, 2° vol., 1981,
p. 157) mentre A Columbian patriot (pseudonimo di Mercy Otis Warren) ne invoca l’autorità in uno scritto del 1788 a favore di un bill of rights da approvare insieme alla Costituzione (Observations on the new Constitutions and on the federal and State conventions, in The complete Anti-federalist, ed. H. Storing, 4° vol., 1981, p. 279).
Nel 19° sec., M. non scomparve del tutto dall’orizzonte politico americano. Le maggiori riviste pubblicarono commenti alle nuove traduzioni delle sue opere, e ampie recensioni a un’opera importante come quella di Pasquale Villari (→). Nel 1817 sulla «North American review» comparve una lunga recensione, che è anche una rassegna di storiografia, dell’edizione milanese in dieci volumi delle Opere di Niccolo Machiavelli, Cittadino e Segretario fiorentino. Nel 1845 «The American Whig review» ospita un saggio che riassume alcuni temi dei Discorsi. Un paio di anni dopo, Gian Francesco Secchi de Casali, un piacentino emigrato a New York e fondatore del primo giornale d’America in lingua italiana, «L’eco d’Italia», pubblica un articolo divulgativo su M. sulla «United States democratic review». Nel 1850 George Washington Greene dedica un ampio studio, ancorché piuttosto convenzionale, a M. nei suoi Historical studies.
Solo nel 1894 un autore eclettico, cantore dell’industrialismo e delle sue conseguenze, David McGregor Means, sotto lo pseudonimo di Henry Champernowne, pubblica un saggio che utilizza M. con una certa acutezza. «Sebbene io non contraddica mai Machiavelli – scrive Means – [...] ho sentito il bisogno di estendere e adattare il suo schema per renderlo applicabile ai tempi presenti» (Means 1894, p. 3). Dopo aver affermato la piena compatibilità delle dottrine del Fiorentino e di quelle di Aristotele, l’autore sviluppa un parallelismo fra la coppia machiavelliana popolo-grandi (→ grandi e popolo) e la realtà delle città americane del suo tempo, con i politici al posto dei nobili.
Negli anni Ottanta del secolo, Woodrow Wilson, allora professore di storia ad Harvard, utilizzava M. nei suoi corsi, mentre Louis Dyer, docente di storia nella medesima Università, nel 1899 dedicava tre lezioni a M. presso la Royal Institution di Londra, poi pubblicate nel 1904 con il titolo Machiavelli and the modern state.
Lo storico Frank Preston Stearns nel 1903 pubblicò uno studio piuttosto bizzarro, Napoleon and Machiavelli; dodici anni dopo il commediografo Franklin P. Norton diede alle stampe Machiavelli, a drama. Se in Inghilterra, nel 1911, Herbert George Wells pubblica The new Machiavelli, una satira su sesso e politica ispirata alla vicenda dei coniugi Webb, la femminista americana Charlotte Perkins Gilman, in risposta a Wells, pubblica nel 1914 Benigna Machiavelli. Si tratta di un romanzo nel quale l’autore del Principe funge da ispiratore delle manovre di una giovane donna che utilizza le sue massime per emanciparsi.
Nel corso del Novecento l’interesse americano per M. crebbe costantemente, sia dal punto di vista della ricerca scientifica sia a livello popolare. E nulla fu più rilevante per la diffusione delle opere del Segretario dell’episodio Burnham. La vicenda nasce da un vero equivoco sulla collocazione dottrinaria di Gaetano Mosca (→), il maestro della scuola dell’elitismo. Arthur Livingston, infatti, curatore della traduzione inglese dell’opera del teorico siciliano, lo collocava senza indugi nell’«Italian Machiavellian thought» (A. Livingston, introduction a G. Mosca, The ruling class, 1939). Il machiavellismo dichiarato di Vilfredo Pareto venne quindi attribuito fin da subito anche all’altro grande esponente dell’elitismo (che pure si professava semmai guicciardiniano). Si inaugurò così una tradizione americana che collegava M. prima all’intera scuola dell’elitismo e poi a gran parte del pensiero politico delle aree italiche. Infatti, pochi anni dopo, James Burnham, nel suo notissimo lavoro del 1943, The Machiavellians. Defenders of freedom, alla ricerca di una connotazione unitaria per una tradizione di pensiero, scelse proprio il Fiorentino quale autore ‘amalgamante’. L’intento del sociologo americano era di mostrare la scientificità di un modo di concepire la politica che egli faceva risalire proprio a Machiavelli. Il presentare questa tradizione, inoltre, come una ‘difesa della libertà’, favorì enormemente la fama di M. stesso.
Negli anni Cinquanta negli S. U. vi fu una sorta di rinascita intellettuale della cosiddetta interpretazione obliqua del Principe, quella che considerava il libro non sincero, ma piuttosto un modo di svelare al mondo «di che lacrime grondi e di che sangue» il trono, secondo i celebri versi di Ugo Foscolo (I Sepolcri, v. 159). Tale interpretazione, condivisa da Baruch Spinoza, ripresa da Jean-Jacques Rousseau e poi da Vittorio Alfieri, fu rinverdita (anche se forse scherzosamente) prima da Garrett Mattingly e poi da Mary G. Dietz, rispettivamente nel 1958 e nel 1986. Per Mattingly il Principe sarebbe una farsa diabolica, di natura più letteraria che politica, scritta per scioccare e divertire, un po’ come la Mandragola (Mattingly 1958). Mentre per Dietz si tratterebbe di una ricetta per portare il principe al disastro, una sorta di imboscata ai Medici destinata a trascinarli verso il tracollo, favorendo quindi la rinascita della libertà repubblicana (Dietz 1986).
Ma il centro nevralgico dell’interpretazione repubblicana di M. dev’essere rinvenuto prima negli studi di Hans Baron (→) degli anni Cinquanta e Sessanta e poi nell’opera, già menzionata, di Pocock del 1975. Per Baron, in estrema sintesi, M. ha scritto un manifesto del repubblicanesimo classico, i Discorsi, prodotto interamente dopo aver scritto il Principe. Cronologicamente successivi, i Discorsi appartengono a una fase più matura e dunque più salda del suo pensiero politico. Ad avviso di Pocock, M. è un grande esponente dell’aristotelismo politico, ma la virtù starebbe non tanto nella partecipazione politica ‘semplice’, quanto in quella militare:
La repubblica è il bene comune; il cittadino, indirizzando tutte le proprie azioni verso quel bene, può essere considerato come uno che dedica la propria vita alla repubblica; il patriota guerriero vi dedica la propria morte, e i due sono uguali nel condurre a compimento la propria natura umana sacrificando beni particolari al fine del perseguimento del bene universale (Pocock 1975, trad. it. 1981, p. 201).
Parallelamente, fin dagli anni Trenta del Novecento, in America nasceva un genuino interesse accademico per la figura e il pensiero di M., frutto di una nuova ondata di studi sul Rinascimento. Lo spostamento del centro mondiale degli studi sul Rinascimento italiano dalla Germania agli S. U. avvenne come conseguenza dell’espatrio di studiosi perseguitati dal nazismo: da Paul Oskar Kristeller a Felix Gilbert (→) e Baron. Le migrazioni tedesche dagli anni Trenta in poi hanno generalmente garantito un’attenzione filologica che gli studiosi non possono non apprezzare, tanto che ormai gran parte dei machiavellisti americani è versata nella lingua italiana.
Nel 1938 Allan H. Gilbert, professore alla Duke University, pubblicò un fortunato studio, Machiavelli’s Prince and its forerunners, nel quale l’intuizione fondamentale, poi ripresa da schiere di studiosi, è che il Principe sia il capolavoro di un genere già sperimentato, una trattatistica sul ‘principato’ che affonderebbe le proprie radici nel Medioevo. Ma si deve a un altro Gilbert, Felix (→; già allievo in Germania di Friedrich Meinecke), che aveva iniziato a lavorare su M. fin dagli anni Trenta, un’analisi significativa del posto di M. all’interno della politica fiorentina del suo tempo. Infaticabile indagatore del pensiero machiavelliano, Gilbert fornisce per oltre un quarantennio contributi importantissimi, molti dei quali sono raccolti nel suo volume del 1977, Machiavelli e il suo tempo. Negli S. U. il suo lavoro più influente è senza dubbio Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in Sixteenth century Florence, del 1965.
Il filosofo Leo Strauss (→), che esercitò un’enorme influenza nella cultura politica americana del dopoguerra, con i suoi Thoughts on Machiavelli, del 1957 presenta il Segretario come un autore la cui sicura malvagità deriva dal fatto che egli proclama «apertamente e trionfalmente una dottrina corruttrice, che antichi scrittori hanno insegnato segretamente oppure con chiari segni di dissenso» (Strauss 1957, trad. it. 1970, p. 2). M. è comunque responsabile dello scisma fra politica antica e politica moderna, il quale si celebra quando viene garantita alla salvaguardia della patria la preminenza rispetto alla salvezza spirituale. Strauss biasima il tentativo del Fiorentino di costruire una religione civile. Si tratta di un’operazione intellettuale di segno opposto rispetto a quella che Pocock porterà a termine meno di vent’anni dopo.
Nel 1983, nel suo Citizen Machiavelli, Mark Hulliung propone invece una lettura profondamente unitaria del pensiero di M. e offre anche una critica di molte interpretazioni. A suo avviso, la questione del repubblicanesimo di M. è stata molto esagerata, giacché
il fine è la grandezza e l’unità italiana è solo un possibile sottoprodotto delle opere gloriose, violente e di conquista che sono portate a termine in maniera ottimale da cittadini di una repubblica, piuttosto che sudditi di una monarchia (Hulliung 1983, p. 220).
Sebastian de Grazia, nel volume Machiavelli in hell, del 1989, si proponeva in realtà di liberare Niccolò dall’inferno, mostrando quanto ingannatrice sia l’idea della sua irreligiosità. Il volume, non privo di lacune ed errori, ebbe grande risonanza popolare, tanto da vincere il premio Pulitzer. In Between friends del 1993, John Michael Najemy (→) ricostruisce la visione politica di M. attraverso il carteggio con Francesco Vettori.
Tuttavia il Segretario non appartiene solo al mondo degli studi: politici, manager, femministe ne hanno utilizzato le massime negli S. U. nel corso degli ultimi decenni con grande libertà.
Il 1999, in particolare, è stato l’annus mirabilis del M. dei politici. Dick Morris, potentissimo consulente di Bill Clinton, e Michael A. Ledeen, consigliere dei repubblicani, pubblicarono due volumi che rendevano omaggio a Machiavelli. Il primo, The New Prince, parla in effetti solo di Clinton, mentre il secondo si interroga su grandi questioni politiche che M. aveva indubbiamente a cuore. Il volume Machiavelli on modern leadership ha nella ricerca della religione utile al potere ‘imperiale’ americano il proprio centro ispiratore. Ledeen si mostra convinto che «il cristianesimo americano evangelico sia il tipo di ‘buona religione’ che M. auspicava» (Ledeen 1999, trad. it. 2004, p. 159), ma deve riconoscere che gli evangelici, al di là di un generico appoggio ai repubblicani, rifiutano tale ruolo. In generale, intorno all’American enterprise institute si riunisce un gruppo di neoconservatori, Karl Rove, Paul Wolfowitz, Donald Rumsfeld e lo stesso Ledeen, che hanno avuto una funzione non irrilevante nella politica estera americana durante le presidenze di George W. Bush. Curiosamente, questi intellettuali si presentano come ammiratori di M., e insieme eredi intellettuali di Strauss, il suo maggior detrattore.
Non mancano analisi femministe del pensiero di Machiavelli. Una delle più note è quella di Hanna Fenichel Pitkin che argomenta come il mondo razionale della legge e dell’ordine sia maschile, e a questo si contrapponga, per M., un disordine rappresentato da natura, donne e animali: un universo che il maschio è chiamato a dominare (Pitkin 1984).
Negli ultimi decenni, negli S. U. la figura di M. si staglia su di un settore, quello del mondo delle grandi società per azioni che, ad avviso di molti, potrebbe essere analizzato come un’arena di potere. In generale, i libri su M. nei giochi di potere nell’economia e nell’alta finanza non presentano analisi penetranti del Segretario, ma un risultato certo è che non poche business schools americane ormai offrono corsi su Machiavelli. L’assunto fondamentale non è solo la scottante attualità di M., ma anche la possibilità che le sue ‘massime’ migrino dalla politica al mondo degli affari. Come affermava molti anni fa, nel suo pionieristico lavoro Anthony Jay: «Il management può essere studiato correttamente solo come una branca del governo» (Jay 1967, p. 10).
Bibliografia: The works of Nicholas Machiavelli, translated by Ellis Farneworth, 4 voll., London 1775; Opere di Niccolo Machiavelli, Cittadino e Segretario fiorentino, Milano, vol. 10, pp. 4083, «The North American review», 1817, 15, pp. 344-65; Opinions of Nich olas Machiavel concerning popular government, «The American Whig review», 1845, 6, pp. 643-48; G.F. Secchi de Casali, The times and life of Machiavelli, «The United States democratic review», 1847, 107, pp. 401-06; G.W. Greene, Historical studies, New York 1850, pp. 42-81; Villari’s Machiavelli, «The North American review», 1878, 264, pp. 337-39; H. Champernowne (pseud. di D.M. Means), The boss. An essay upon the art of gov erning American cities, New York 1894; L. Dyer, Machiavelli and the modern State, Boston 1904; A.H. Gilbert, Machiavelli’s Prince and its forerunners. The Prince as a typical book De regimine principum, Durham 1938; J. Burnham, The Machiavellians. Defenders of freedom, New York 1943; L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Chicago 1957 (trad. it. Milano 1970); G. Mattingly, Machiavelli’s Prince. Political science or political satire?, «American scholar», 1958, 27, pp. 482-91; F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in Sixteenth century Florence, Princeton 1965 (trad. it. Torino 1970); A. Jay, Management and Machiavelli, New York 1967; E. Cochrane, Machiavelli in America, in Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Atti del Convegno internazionale, Sancasciano-Firenze 28-29 sett. 1969, Firenze 1972, pp. 133-50; J.G.A. Pocock, The Machiavellian moment. Florentine political thought and the Atlantic republican tradition, Princeton 1975 (trad. it. Bologna 1981); F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977; M. Hulliung, Citizen Machiavelli, Princeton 1983; M. McCanles, The discourse of Il Principe, Malibu 1983; D.S. Lutz, The relative influence of European writers on late Eighteenth-century American political thought, «The American political science review», 1984, 78, 1, pp. 189-97; H.F. Pitkin, Fortune is a woman. Gender and politics in the thought of Niccolò Machiavelli, Chicago 1984; M.G. Dietz, Trapping the Prince: Machiavelli and the politics of deception, «The American political science review», 1986, 80, 3, pp. 777-99; S. de Grazia, Machiavelli in hell, Princeton 1989 (trad. it. Roma-Bari 1990); G.R. Griffin, Machiavelli on management. Playing and winning the corporate power game, New York 1991; V.A. Kahn, Machiavellian rhetoric. From the Counter-reformation to Milton, Princeton 1994; A. McAlpine, The new Machiavelli. The art of politics in business, New York 1998; M.A. Ledeen, Machiavelli on modern leadership. Why Machiavelli’s iron rules are as timely and important today as five centuries ago, New York 1999 (trad. it. Il Principe dei neocons. Un Machiavelli per il XXI secolo, Roma 2004); D. Morris, The new Prince, Los Angeles 1999; H. Borger, The corporate Prince: Machiavelli’s timeless wisdom adapted for the modern CEO, Bloomington 2002; J.L. Harper, American Machiavelli. Alexander Hamilton and the origins of U.S. foreign policy, Cambridge 2004; L.M. Bassani, Bürgerhumanismus e repubblicanesimo. Il Machiavelli di Hans Baron e John Pocock, in Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno, Milano 16-17 maggio 2003, a cura di L.M. Bassani, C. Vivanti, Milano 2006, pp. 299-327; Machiavelli’s liberal republican legacy, ed. P.A. Rahe, Cambridge-New York 2006; L.M. Bassani, Machiavelli and revolutionary America. Beyond the republican par adigm, in Anglo-American faces of Machiavelli. Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana (secoli XVI-XX), a cura di A. Arienzo, G. Borrelli, Monza 2009, pp. 379-402; E. Benner, Machiavelli’s ethics, Princeton 2009; J.S. Maloy, The first Machiavellian moment in America, «American journal of political science», 2011, 2, pp. 450-62.