suicidio
Togliersi intenzionalmente la vita
Il suicidio è un atto praticato dagli esseri umani di tutti i tempi e di tutte le culture, ma che ha significati molto diversi a seconda delle circostanze e delle caratteristiche psicologiche individuali di chi lo pratica. Talora è considerato un gesto di nobile coraggio, talora invece un crimine, un peccato, un sintomo di patologia psichica
In ogni tempo e in ogni cultura esiste il fenomeno del suicidio; però di volta in volta esso assume significati molto diversi. Nell’antica Roma o nell’antica Grecia era considerato un gesto nobile e degno di ammirazione togliersi la vita per non subire un destino umiliante, come arrendersi al nemico. Il suicidio in carcere del filosofo Socrate, che beve un veleno circondato dai suoi allievi, è considerato addirittura un esempio di coraggio e dignità.
In tempi a noi più vicini, fino all’inizio del Novecento, in tutta Europa si praticava con una certa accettazione sociale il cosiddetto suicidio d’onore nel caso in cui qualcuno si fosse macchiato di qualche colpa infamante, come un tradimento o un grosso debito. Assurdamente, si considerava che la morte pareggiasse i conti.
Dal punto di vista di alcune religioni, come quella cristiana, il suicidio invece è sempre un grave peccato. In alcuni paesi il suicidio è considerato addirittura un reato: in Italia, per esempio, fino a pochi anni fa chi tentava il suicidio poteva essere incriminato. L’idea di fondo è che la vita non sia un nostro possesso esclusivo, ma che appartenga o a Dio o allo Stato.
In epoca moderna l’atteggiamento culturale verso il suicidio è molto diverso: non è considerato né un reato, né un peccato, né tantomeno un segno di eroismo, ma piuttosto l’esito di un disturbo psicologico.
I dati statistici sui suicidi danno informazioni molto contraddittorie e discutibili. Alcune ricerche riferiscono che sarebbero gli uomini adulti coloro che più frequentemente praticano il suicidio, altre invece sostengono che siano le donne; ci sono studi secondo i quali le vittime sarebbero gli anziani di entrambi i sessi; altri ancora – all’opposto – indicano come categoria maggiormente a rischio quella degli adolescenti. Il motivo di tante divergenze è l’oggettiva difficoltà a raccogliere dati su un tema così delicato e inquietante. A volte – in paesi poveri e tormentati da conflitti – i singoli casi sfuggono alla registrazione, per disattenzione o incuria; in altri luoghi spesso i casi di suicidio sono tenuti segreti dalla famiglia, che vuole evitare lo scandalo o la vergogna.
Ancora più sfuggenti sono le cause del suicidio. Spesso risultano troppo generiche e sbrigative le spiegazioni di tipo psichiatrico, come la depressione, o di tipo sociologico, come la noia dei giovani nelle culture occidentali. Tanto più che oltre alle motivazioni oggettive – una delusione amorosa, la solitudine, una grave malattia, e via dicendo – bisogna cogliere quelle profonde inconsce, assai più misteriose. Di difficile interpretazione sono i casi di tentato suicidio. Talora il gesto fallisce perché chi lo pratica non conosce bene l’efficacia dei mezzi impiegati per darsi la morte: per esempio, la tossicità o il dosaggio necessario dei farmaci. In altri casi, invece, si cerca in questo modo clamoroso di mandare agli altri un messaggio, tentando di far capire la propria disperazione, la propria infelicità o magari la propria rabbia, in un distorto desiderio di vendetta: fare del male a sé stessi, infatti, può essere un modo per aggredire gli altri.
Moltissimi sono i modi in cui ci si può togliere la vita; sceglierne uno anziché un altro dipende soprattutto (ma non solo) da ciò che si ha a disposizione. Si possono forse considerare forme mascherate di suicidio certi comportamenti a rischio, come gli sport estremi, l’eccesso di velocità alla guida, l’abuso di droghe o il rifiuto del cibo in caso di anoressia. Purtroppo la cronaca attuale ci mette di fronte a un tipo molto particolare di suicidio: quello dei terroristi che, per annientare i loro supposti nemici, fanno saltare in aria anche sé stessi con l’esplosivo. Tali suicidi vengono chiamati comunemente kamikaze dal nome degli aviatori giapponesi che durante la Seconda guerra mondiale si schiantavano volontariamente sull’obiettivo nemico per distruggerlo.