Suicidio
Nella cultura occidentale, dall'antichità fino a tutto il Settecento, il suicidio è stato oggetto prevalentemente di valutazioni giuridiche, morali e religiose. La circostanza è da mettere in relazione alla condanna ufficiale da parte della Chiesa e alla (conseguente, di solito) illiceità giuridica dell'atto sancita dalle consuetudini medievali. Con la Rivoluzione francese, tali prescrizioni sono tacitamente abrogate (Code pénal del 1791), anche in conseguenza dei molti e autorevoli interventi (Hume, Montesquieu, Rousseau, Beccaria) a favore della depenalizzazione della morte volontaria.
Ma appena esauritosi il controllo millenario del diritto repressivo, la vigilanza sul suicidio si perpetua, in un certo senso, con le investigazioni d'una folta schiera di scienziati sociali: statistici, psichiatri, medici legali, sociologi, criminologi. Ognuno di questi amministra il sapere relativo a determinate aree della patologia sociale o biologica, e nella morte volontaria tende a riconoscere uno o più segni delle malattie con cui è più direttamente in contatto. Anche in assenza d'una reazione istituzionale si conserva dunque, pur trasformata, l'opinione tradizionale sul disvalore sociale dell'atto.Intorno al 1830 appaiono le opere di André-Michel Guerry e Adolphe Quételet, che sanciscono la nascita ufficiale della statistica sociale e che, soprattutto, attribuiscono al suicidio un rilievo particolare. Nell'opera del primo è già formulata chiaramente l'idea che definisce a un tempo lo statuto epistemologico e gli obiettivi della nuova disciplina, vale a dire la legittimità dell'impiego del principio di causalità nell'analisi dei fatti sociali. "La maggior parte dei fatti dell'ordine morale, considerati nei gruppi e non negli individui, sono determinati da cause regolari, le cui variazioni sono racchiuse entro limiti modesti, e [dunque] possono essere sottoposti, come quelli dell'ordine materiale, all'osservazione diretta e quantitativa" (v. Guerry, 1833, p. 69).
Per quanto riguarda in particolar modo il suicidio, Guerry ritiene che la statistica morale debba occuparsene come di un importante indicatore del livello morale d'una nazione. Anche se ormai depenalizzato, esso rimane tuttavia un fatto "estremamente grave", e pertanto meritevole d'una attenta considerazione al pari dell'omicidio e degli altri comportamenti devianti. E proprio in rapporto all'omicidio, Guerry ritiene di individuare una regolarità statistica, sulla quale continueranno a interrogarsi negli anni a venire i criminologi positivisti, e poi Durkheim e i suoi continuatori. Dall'analisi dei dati francesi sembrerebbe emergere infatti che nei dipartimenti in cui è più elevato il tasso di suicidi sia più basso quello degli omicidi, e viceversa.Con Quételet si rafforza innanzitutto l'orientamento verso una considerazione unitaria del suicidio e delle condotte criminali. Anche il suicidio, come l'omicidio o il furto, tende ad avere tassi precisi e relativamente costanti in ogni paese; ciò dimostra che l'individuo, anche quando rinuncia alla vita, agisce "sotto l'influenza di cause determinate e poste al di fuori del suo libero arbitrio" (v. Quételet, 1869², vol. II, p. 247). Su questo punto sono ancora più privilegiati, rispetto a Guerry, i fattori fisici (età, stagioni, ecc.).
In Quételet si precisa poi l'obiettivo pratico di questo tipo di indagini. La misurazione statistica dell'immoralità consente di giudicare la bontà dell'organizzazione sociale, individua le cause dei comportamenti devianti, fornisce al legislatore indicazioni sui possibili correttivi. In questo programma di ricerca sono anticipate le formulazioni più mature della criminologia positivista (ricerca sulle cause della devianza, ideologia della difesa sociale fondata su queste premesse eziologiche, sostitutivi penali).
Con Étienne Esquirol, uno degli alienisti più celebri di quei tempi, si aprono nuove prospettive all'analisi comparata del suicidio, destinate ad avere altrettanta fortuna di quella dei raffronti con i fenomeni criminali. Per il medico francese la morte volontaria è un sintomo d'alienazione mentale, così che, di conseguenza, è alle cure e agli interventi più idonei per ciascuna varietà di follia che occorre far ricorso per il trattamento degli individui che manifestino tendenze autodistruttive. Numerosi rilievi conducono a queste conclusioni: i fenomeni che accompagnano o fanno seguito al suicidio sono simili a quelli delle malattie mentali; la maggior parte dei suicidi appartiene a famiglie nelle quali si sono verificati casi di alienazione mentale; le stagioni e l'età sembrano avere la medesima influenza sul verificarsi dei suicidi e sulle prime manifestazioni di follia. Esquirol è noto anche per essersi occupato diffusamente delle epidemie dei suicidi che parrebbero colpire in determinati periodi alcune nazioni o città. Tali fenomeni devono essere imputati a una sorta di esaltazione generale degli spiriti (favorita dal contagio imitativo e dall'affievolimento dell'educazione e delle idee religiose), per cui si moltiplicano i bisogni e i desideri si fanno più imperiosi. Nella descrizione durkheimiana del suicidio anomico, così come nella teoria del suicidio per imitazione di Gabriel Tarde, si avvertono distintamente gli echi di questa analisi. Del resto nella discussione sulle cause sociali del suicidio gran parte di queste riflessioni converge verso un'attribuzione di responsabilità allo sviluppo della civiltà industriale. Come scrive un medico legale e penitenziarista, Jean-Baptiste Cazauvieilh (v., 1840, p. 254), lo spirito moderno "di indipendenza religiosa, morale e materiale" porta alla dissoluzione dei costumi tradizionali, e dunque a una crescita incontrollata dei desideri e dei bisogni che turba e inquieta le coscienze.
La criminologia positivista di fine Ottocento, e in particolare la scuola italiana, prosegue nel solco tracciato dalla statistica morale, sia per quanto riguarda la conferma della natura deviante del suicidio, sia nella ricerca dei fattori fisici (età, sesso, ereditarietà, carattere, patologie mentali) e sociali (educazione, industrializzazione, cultura, religione) che influiscono sulla condotta. Si aggiunge peraltro la palese influenza delle teorie dell'evoluzione, soprattutto nella ripresa e nell'approfondimento della tesi di Guerry circa il presunto antagonismo tra il suicidio e i delitti contro la persona (Lombroso, Ferri, Morselli, Masaryk). Sia la morte volontaria che l'omicidio sarebbero delle conseguenze della lotta per l'esistenza, conducendo entrambi all'eliminazione del soggetto che presenta delle patologie nella conformazione psicologica e morale. "Il risultato finale è il medesimo: ambedue [l'omicida e il suicida] sono inetti, sono deformi, ed usciranno dal combattimento per una via diversa, ma identica nell'effetto: questi col suicidio, quegli col bagno o colla guigliottina" (v. Morselli, 1879, p. 496).
Inoltre, pur senza contestare le conclusioni degli statistici morali sugli effetti perturbanti della civiltà industriale, il suicidio è presentato adesso come una sorta di male minore delle società moderne; con esso infatti le tendenze antisociali del soggetto sono deviate dal più grave esito omicida. Nei suoi contenuti psicologici il suicidio sembrerebbe riflettere, insomma, il progresso e l'educazione di un'epoca che si emancipa dalle passioni e dalla violenza proprie delle organizzazioni collettive tradizionali (v. Masaryk, 1881, pp. 142-143).
Nelle scienze sociali Le suicide di Émile Durkheim, del 1897, costituisce indubbiamente l'opera classica sull'argomento. In essa confluiscono i risultati delle indagini e delle riflessioni degli statistici morali e dei positivisti, soprattutto per quanto riguarda le presunte relazioni tra la morte volontaria e i comportamenti devianti, e al contempo viene sviluppata un'elaborata e compiuta teoria sulla genesi sociale dei suicidi, che ha rappresentato la base di partenza e il riferimento obbligato di tutte le ricerche successive.
L'orientamento fondamentale di quest'opera si esprime nel postulare l'irrilevanza dei motivi individuali dell'agente per spiegare la "produzione sociale" dei suicidi, che viene imputata, per contro, a certe condizioni dell'ambiente collettivo. È la costituzione morale della società a stabilire con precisione il contingente delle morti volontarie; più precisamente si tratta di rappresentazioni collettive le quali, penetrando nelle sensibilità individuali, inducono al suicidio una determinata quota di soggetti. Oltre un certo limite il tasso di suicidi in una determinata società va considerato patologico, e pertanto un simile giudizio deve essere esteso ai fattori sociali di produzione. Come afferma Parsons (v., 1937; tr. it., p. 409), questa idea delle "correnti suicidogene" è il momento più alto dell'"oggettivismo sociologico" di Durkheim, vale a dire della teoria (sviluppata soprattutto nelle Règles de la méthode sociologique del 1895) sulla esteriorità e coercitività dei fatti sociali nei confronti delle coscienze individuali.
Per Durkheim sono fondamentalmente tre gli stati d'animo collettivi potenzialmente generatori di suicidio:
a) in una società contraddistinta da un difetto di integrazione (egoismo) - come può essere l'organizzazione sociale delle comunità protestanti, fondate sulla valorizzazione del principio di libertà religiosa, e nelle quali dunque l'autorità del gruppo sull'individuo è relativamente modesta - si afferma generalmente una forte corrente di individualismo intellettuale: un'opinione morale che esalta la libertà degli individui ed eleva la dignità della persona a un culto quasi religioso (v. Durkheim, 1897; tr. it., pp. 192-265);
b) a una società caratterizzata dall'assenza o dall'indebolimento della disciplina sociale, che si trovi cioè in una situazione detta di 'anomia oggettiva', corrisponde un orientamento collettivo che approva incondizionatamente la civiltà e il progresso (per il sociologo francese è una situazione sempre più frequente nelle organizzazioni collettive moderne: v. Durkheim, 1897; tr. it., pp. 293-334); le passioni, i desideri, le ambizioni, liberati da ogni freno normativo, rimuovono gli obiettivi di promozione sociale assegnati a ciascuno, tendono a modificare gli equilibri tra le classi, ma espongono anche l'individuo a una condizione di malessere e di inquietudine (anomia soggettiva);
c) a una società caratterizzata infine da un eccesso di integrazione (altruismo) corrisponde un'etica del sacrificio e dell'obbedienza passiva all'autorità: il gruppo s'impone all'individuo, l'adempimento dei doveri sociali viene prima di qualsiasi altra motivazione dell'agire; è quanto avviene, per Durkheim (v., 1897; tr. it., pp. 266-292), nelle società primitive, o in situazioni particolari, come nella disciplina caratteristica della vita militare.
Queste diverse opinioni morali rappresentano gli intermediari tra una certa costituzione collettiva e i caratteri e le disposizioni dei singoli, sono il modo specifico della comunicazione tra la società e l'individuo, il veicolo del passaggio da una determinata condizione sociale (egoismo, anomia, altruismo) al corrispondente stato d'animo dell'agente individuale (individualismo: apatia e disincanto; anomia soggettiva: inquietudine e insofferenza; spersonalizzazione: energia passionale e abnegazione).Tuttavia tali rappresentazioni collettive negli individui non portano di per sé al suicidio. Affinché una di queste correnti d'opinione divenga suicidogena occorre che essa si imponga alle altre due, le superi cioè in intensità. Per contro, là dove le tre correnti suicidogene si contengono a vicenda, si produce una situazione d'equilibrio che pone il singolo al riparo da ogni idea di autodistruzione (v. Durkheim, 1897; tr. it., p. 383).Senonché tale equilibrio è una condizione soltanto ideale. In ogni società è in realtà normale che in determinati contesti temporali e/o geografici una corrente prenda il sopravvento sulle altre, e porti dunque al suicidio (egoistico, anomico o altruistico) una certa quota di individui. E anzi tale fenomeno (come la devianza, del resto) non è solo normale, ma anche utile.
È necessario infatti che in ogni organizzazione collettiva tutte e tre queste correnti continuino a vivere, pur in forma latente, per tornare a farsi sentire e imporsi quando ciò occorra. "Una società dove l'individualismo intellettuale non potesse esagerarsi, sarebbe incapace di scrollare il giogo delle tradizioni e di rinnovare le sue credenze [...]. Viceversa, là dove questo stato d'animo non potesse, all'occasione, diminuire abbastanza da consentire alla corrente avversa di svilupparsi, cosa accadrebbe in tempo di guerra quando l'obbedienza passiva è il primo dei doveri?" (p. 431).Allo stesso tempo è però indispensabile che questa preponderanza non sia eccessiva, esagerata. Se ciò avviene, il suicidio tende a trasformarsi in un fenomeno patologico, come è sicuramente il caso, a giudizio di Durkheim, delle società di fine Ottocento. In queste le morti volontarie in meno di cinquant'anni si sono almeno triplicate, e in particolare i suicidi egoistici (il tipo più generale e diffuso) e i suicidi anomici.La costruzione durkheimiana fa dunque riferimento a due soglie, a due momenti decisivi nell'andamento e nella crescita delle correnti. Il primo è il punto di trasformazione d'una corrente d'opinione in corrente suicidogena, in uno stato d'animo che porta a una produzione 'normale' di suicidi. L'altro è il momento d'avvio d'una proliferazione patologica da parte di ciascuna rappresentazione collettiva. Ma quando una tendenza collettiva genera suicidio? e da quale punto in poi tale produzione diviene anormale? Su tali questioni le risposte di Durkheim sono invero vaghe e talvolta contraddittorie.
Un altro problema, ancor più serio, è rappresentato dalla configurazione delle relazioni reciproche tra le rappresentazioni collettive. Il modello durkheimiano dell'equilibrio prevede una relazione fra tre stati d'animo sociali, e non fra due coppie di forze opposte. Durkheim esclude infatti che il suicidio cosiddetto 'fatalista', determinato da un eccesso di regolamentazione, possa essere considerato come un fenomeno significativo. Nel suo libro non si parla mai d'una corrente di dispotismo o di autoritarismo contrapposta all'anomia, alla tensione verso il progresso, e insofferente di vincoli e disciplina. Solo l'egoismo e l'altruismo, come abbiamo visto con l'esempio addotto da Durkheim, sono palesemente destinati a contenersi reciprocamente, data la simmetrica opposizione delle loro nature. Per l'anomia invece non v'è alcuna forza destinata a contenerla e a determinarne per contrasto la natura. E dunque, immessa in quel modello di equilibrio tra correnti, essa fatica a trovare una collocazione coerente, presentando ora affinità ora differenze con gli altri stati d'animo collettivi. Le ultime pagine di Le suicide sono dedicate all'analisi dei possibili rimedi per contenere l'incremento patologico dei suicidi. Per Durkheim uno dei grandi problemi della modernità è la scomparsa dei gruppi intermedi tra l'individuo e lo Stato, con la conseguenza di privare ampi settori della vita sociale di orientamento e disciplina morali.
È dunque necessario che si creino di nuovo dei centri di solidarietà, così che tra gli uomini possano tornare a stabilirsi relazioni solide e durature. A tal fine Durkheim propone la rivitalizzazione delle antiche corporazioni professionali come personalità riconosciute e garantite dallo Stato. Le conseguenze della rinascita corporativa sarebbero di due tipi: una regolamentazione della vita professionale sensibile alla cultura e alle attività concrete di ciascun gruppo; un controllo continuo sulla formazione e sui comportamenti dell'individuo, così da assolvere a quella funzione di integrazione e di educazione morale un tempo assicurata (soprattutto) dalla famiglia. In tal modo, secondo Durkheim (p. 450), si potrebbe combattere sia il suicidio egoistico che il suicidio anomico, vale a dire i fenomeni autodistruttivi più caratteristici della modernità, risultato l'uno della disgregazione e l'altro della indisciplina sociali.
Nelle analisi e nelle ricerche sul suicidio realizzate nel Novecento il modello esplicativo del libro durkheimiano (soprattutto dopo la traduzione inglese dell'opera nel 1951) ha goduto di un lungo e incontrastato primato.In questo tipo di studi è possibile distinguere tre filoni principali. Il primo è rappresentato dalla folta schiera degli studiosi di Durkheim, e de Le suicide in particolare. Questi, con poche eccezioni (va segnalato in particolare un libro di Steve Taylor del 1982), o hanno trascurato le premesse fondamentali della teoria sulla genesi del suicidio come fenomeno sociale (a vantaggio dell'analisi di singoli aspetti: le differenze tra integrazione e regolamentazione, la tipologia dei suicidi), ovvero se ne sono occupati anche a lungo, ma senza dedicarvi una riflessione critica (v., al riguardo, l'ottima rassegna di Besnard, 1984).
La conferma dell'oggettivismo sociologico durkheimiano è ancora più diretta, sebbene non sempre esplicita, nelle ricerche empiriche che si limitano a mettere alla prova talune relazioni o risultati de Le suicide, trasferendoli in periodi e in contesti nazionali particolari. Gli esiti sono ovviamente molto vari: talvolta gli autori credono di ricavare dalle loro indagini conferme di certi assunti durkheimiani, talaltra invece questi sono respinti o accettati solo in parte. Ma il postulato per cui i suicidi dipendono da precise condizioni sociali non è mai messo in discussione.Va subito aggiunto che in queste analisi la volgarizzazione delle tesi de Le suicide raggiunge probabilmente il punto più alto. Inutile cercarvi le tracce dell'elaborata e complessa successione indicata da Durkheim (del tipo: una condizione sociale particolare, ad esempio l'assenza o un difetto di regolamentazione, produce un certo stato d'animo collettivo, il quale, se prevale sulle altre correnti sociali, riesce a penetrare nelle sensibilità individuali, sino a che il soggetto non è indotto a togliersi la vita). Gli epigoni di Durkheim fanno funzionare il suo modello nella maniera più semplice, eliminando i passaggi intermedi, trascurando le varianti di percorso più significative, rinunziando a ogni ambizione sistematica. Da una parte, ora lo sviluppo della divisione del lavoro, un'altra volta le crisi economiche, o le guerre, o l'aumento della disoccupazione o dei divorzi; dall'altra parte, il tasso dei suicidi, sismografo infallibile nel segnalare le perturbazioni della struttura sociale e nel misurarne la forza distruttrice.Infine, anche la maggior parte delle ricerche sul suicidio con dichiarati propositi di originalità di fatto non si è allontanata molto dal solco durkheimiano. Al riguardo l'opera più significativa, Status integration and suicide di Jack Gibbs e Walter Martin del 1964, conferma come, al di là d'una imperfetta corrispondenza delle categorie concettuali adoperate, l'approccio allo studio sociale della morte volontaria sia restato sostanzialmente immutato.
La tesi degli autori è apparentemente semplice e lineare: il tasso dei suicidi varia inversamente al grado di integrazione di status (v. Gibbs e Martin, 1964, p. 27). Pertanto, società con un elevato livello di integrazione evidenziano una bassa incidenza di suicidi, mentre vale il contrario per società scarsamente integrate. Il livello di integrazione di status è indicato dal grado di compatibilità (non conflittualità) tra i ruoli previsti per ciascuno dei diversi status (religione, razza, stato civile, professione, ecc.) dell'individuo (ibid., pp. 34-46).È evidente come una simile teoria non possa essere letta solo come uno sviluppo dell'analisi di Durkheim sull'integrazione sociale, e che il suicidio generato dal conflitto di ruoli tra status differenti di cui parlano Gibbs e Martin non è dunque una mera riformulazione del concetto di suicidio egoistico. Ma è indubbio che la fondamentale ispirazione durkheimiana non è disattesa nella misura in cui il tasso dei suicidi è collegato a una condizione collettiva, e contestualmente le sue oscillazioni verso l'alto sono imputate a una particolare congiuntura negativa (in questo caso, il difetto di integrazione della società nel suo complesso) se la frequenza dei suicidi è troppo elevata. In questa direzione Le suicide ha certamente influenzato, oltre a Gibbs e Martin, gran parte della letteratura affrancatasi formalmente da etichette durkheimiane (per una rassegna delle principali teorie sociologico-statistiche sul suicidio v. Martin, 1968, e, più recentemente, v. Lester, 1989).
In definitiva, nello studio del suicidio come indicatore d'uno stato di crisi, il vero obiettivo dei ricercatori è quello di cercare conferme alle più diverse percezioni di 'problema sociale': che sia questo uno sviluppo economico troppo lento o troppo veloce, la crisi della famiglia o dei valori religiosi, un'integrazione sociale debole o troppo forte, si troverà sempre in qualche paese, in qualche frangente della sua storia, una propizia oscillazione nel tasso dei suicidi da esibire come prova. Il problema dunque, diversamente da quanto ritenuto da Bernice Pescosolido e Robert Mendelsohn (v., 1986), non è tanto l'attendibilità delle statistiche ufficiali. Anche se fosse effettivamente accertato che le rilevazioni ufficiali dei suicidi sono affidabili (o più affidabili rispetto al passato), non si sarebbero fatti passi decisivi in avanti per affermare il valore scientifico dell'approccio sociologico-statistico. E questo per il fatto che il suo schema di funzionamento prescinde in gran parte da una simile prova. Il nucleo centrale del modello è infatti altrove: è nel confronto dell'andamento dei suicidi con quello di altri fenomeni sociali. E qui è anche il vero aspetto controverso di questo approccio, vale a dire l'incondizionata libertà di comparazione che i ricercatori si sono tacitamente e reciprocamente riconosciuta.
La scelta preliminare dei fenomeni sociali candidati a divenire causa di produzione del suicidio è al di fuori di ogni controllo e affidata completamente agli orientamenti soggettivi di ciascun autore. L'unico esito certo di operazioni di questo tipo è, di fatto, una riconferma acritica del tradizionale pregiudizio negativo contro la morte volontaria: rinunciare alla vita è una condotta patologica, e proprio per questo la frequenza con cui è scelta può servire per segnalare un processo degenerativo in atto, più o meno grave e più o meno vicino alla persona del suicida.Considerazioni in parte simili valgono anche per un fortunato libro di Andrew Henry e James Short (v., 1954), dichiaratamente durkheimiano nell'apparato concettuale adoperato (indebolimento delle costrizioni esterne, integrazione sociale insufficiente), ma di fatto vicino soprattutto alle analisi, risalenti ancor più indietro nel tempo, degli statistici morali e dei criminologi positivisti sui rapporti tra omicidio e suicidio. Questi autori mettono in relazione i cicli economici con le variazioni del tasso dei suicidi e degli omicidi di alcune classi della popolazione americana in un periodo compreso tra l'inizio del secolo e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Sulla base di queste rilevazioni Henry e Short (v., 1954, p. 15) credono di poter affermare che tanto il suicidio quanto l'omicidio siano delle risposte aggressive a uno stato di frustrazione generato dall'andamento della situazione economica.
La natura della reazione, auto-aggressiva o etero-aggressiva, dipende da un lato dalla posizione di status dell'individuo, e dall'altro dalla forza del sistema di relazioni in cui questi è inserito. In particolare: il suicidio varia positivamente con il livello della posizione sociale e negativamente invece con la forza del sistema di relazione; per l'omicidio vale l'inverso (relazione negativa con lo status e positiva invece con la forza del sistema di relazione). Questi due rapporti sono successivamente riunificati in una variabile definita come "forza di costrizione esterna sul comportamento": più le scelte di comportamento devono essere conformi alle richieste degli altri (sistema di relazione) e meno elevato è lo status sociale, tanto più forte sarà nel complesso la costrizione sul comportamento. Gli autori concludono pertanto che "il suicidio varia negativamente e l'omicidio positivamente con la forza di costrizione esterna sul comportamento" (p. 17).
Una tale relazione spiega come mai il suicidio aumenti nei periodi di depressione e diminuisca in tempi di prosperità, e il contrario avvenga invece per l'omicidio. Infatti, un ciclo economico favorevole genera di sovente nella popolazione a basso status la sensazione di non poter condividere nella stessa misura delle classi privilegiate l'aumento della prosperità collettiva; è questa una situazione di frustrazione che ha un'alta probabilità di generare una reazione omicida. Al contrario, le crisi economiche hanno contraccolpi negativi soprattutto per le classi medio-alte che sentono in pericolo le posizioni di status precedentemente occupate; la reazione aggressiva in questo caso comporterà soprattutto un incremento dei suicidi (pp. 24-25).In sostanza, non diversamente dagli assunti caratteristici dei positivisti, suicidio e omicidio sono considerati atti equivalenti da un punto di vista psicologico (entrambi costituiscono reazioni aggressive generate da uno stato di frustrazione) e soltanto certe condizioni sociali decidono alla fine la prevalenza di uno rispetto all'altro.
Proprio negli anni cinquanta, quando cioè si consolida la grande fortuna del modello durkheimiano, inizia a delinearsi in alcuni studi di medici legali e psichiatri (i più significativi sono quelli dell'austriaco Erwin Ringel) un orientamento alternativo. Ma è dai sociologi, in particolare da Jack Douglas (v., 1967) e da Jean Baechler (v., 1975), che esso riceve le indicazioni di metodo più coerenti e sistematiche e assume dunque, più distintamente, i connotati d'una consapevole reazione all'approccio sociologico-statistico.Gli assunti di fondo di questo indirizzo possono essere sintetizzati in questo modo:
a) la morte volontaria è un fenomeno relativamente raro in tutte le organizzazioni collettive, così che rispetto a essa lo strumento d'indagine più adeguato non può essere un'analisi macrosociologica, bensì lo studio dei casi singoli; la prospettiva eziologica tradizionale va dunque abbandonata o fortemente ridimensionata;
b) il suicidio è una soluzione a un problema esistenziale, reale o immaginario (v. Douglas, 1967, pp. 271-283; v. Baechler, 1975, pp. 74-87; v. Gores, 1981, pp. 225-226);
c) non esiste dunque il suicidio, ma una pluralità di suicidi singoli in quanto i problemi affrontati e le risposte cercate sono molteplici; non si tratta più di ricercare le cause sociali del suicidio, ma di effettuare un'indagine sulla scelta compiuta da individui sempre diversi, con la loro personalità, il loro ambiente famigliare e sociale, le loro peculiari strategie esistenziali;
d) lo studio della morte volontaria come 'progetto' mira a enucleare il senso della condotta (nell'accezione di Weber), vale a dire il fine in vista del quale essa si organizza; si tratta perciò di comprendere il significato del suicidio dal punto di vista del soggetto e della percezione che questi ha avuto della propria condizione di vita (v. Douglas, 1967, pp. 235-246; v. Baechler, 1975, pp. 118-121; v. Taylor, 1982; v. Maniscalco, 1986);
e) il senso del suicidio può essere ricostruito esclusivamente attraverso un'indagine sulla personalità dell'agente e sull'ambiente nel quale questi è vissuto (v. Ringel, 1953, pp. 10-14); f) il metodo adottato è quello del tipo ideale (sempre in accordo con Weber), come criterio di selezione dei tratti essenziali della condotta (v. Baechler, 1975, pp. 125-128); g) in una fase ulteriore, 'eziologica' in senso proprio, si cerca di individuare i fattori individuali e ambientali che possono aver avuto un'influenza sulla genesi del progetto suicida (ibid., pp. 271-280).
Le storie raccolte da questi autori restituiscono effettivamente un'immagine del suicidio più articolata e complessa rispetto a quelle proprie degli studi sociologico-statistici. Da esse emerge come la personalità dell'agente, la sua formazione, i suoi modi di convivere con la sofferenza diano a ciascuna condotta suicidaria una fisionomia particolare e irripetibile. I motivi di suicidio sono i più vari, diversissime le circostanze in cui matura la decisione, molto differenti infine la determinazione e la risolutezza mostrate dal soggetto al momento del suicidio.Tuttavia anche in un approccio di questo tipo non è del tutto assente la tentazione di spiegazioni unitarie e coerenti, soprattutto quando la morte volontaria è interpretata come una risposta a un problema esistenziale. La situazione di crisi che scatena il suicidio consisterebbe nella percezione di una grave difficoltà, dinanzi alla quale il soggetto non riesce a vedere altra via d'uscita che quella di rinunciare alla vita. Il suicidio tende così a configurarsi come un evento quasi inevitabile, colpendo individui che non sono in grado di trovare una soluzione diversa dei propri problemi. Ma in tal modo sembra riproporsi l'immagine positivista del suicida come di un soggetto biologicamente debole, fatalmente destinato a soccombere. E in effetti tra questi autori Baechler (v., 1975, p. 594) postula apertamente l'esistenza d'un fattore d'ordine genetico, una sorta di coefficiente di fragilità, una propensione congenita a opporre ai problemi dell'esistenza un progetto suicida. L'incapacità innata di alcuni soggetti di sopportare le difficoltà medie implicate dall'esistenza farebbe sì che in ogni società una certa quota di soggetti abbandoni spontaneamente la lotta per la vita. E anzi, proprio in questa circostanza risiederebbe la dimensione universale del suicidio, il fatto che esso sia diffuso in tutte le epoche, in tutti i gruppi, in tutte le società.
Senonché proprio le storie dei suicidi ricostruite da questi autori sembrano smentire un'ipotesi di questo tipo. Prevalgono indubbiamente le vicende nelle quali è riconoscibile una sofferenza grave: una solitudine intollerabile, una malattia, una situazione d'indigenza, e così di seguito. Ma non mancano certo i casi nei quali non pare affatto che il soggetto abbia avuto la percezione di problemi insormontabili; vi sono suicidi scaturiti da un intoppo banale, da atteggiamenti di sfida, di provocazione, per sottolineare un punto di vista, la fedeltà a persone o idee. Il suicidio è qualcosa di più d'un semplice modo di morire, analogo alla malattia o alla vecchiaia, un evento cioè contro il quale l'individuo non può sostanzialmente nulla. La sua particolarità è proprio quella di essere una morte anticipata e liberamente scelta: l'alternativa tra una vita penosa e la morte volontaria continua pur sempre a restare tale, anche nelle condizioni più difficili.Consapevolmente a metà strada tra lo studio dei casi e la ricerca sociologico-statistica di ispirazione durkheimiana è l'approccio comportamentistico dei suicidologi più prolifici degli ultimi anni, vale a dire medici e psichiatri. I comportamentisti cercano di individuare le condizioni che inducono certi soggetti al suicidio; l'idea di fondo è che, modificandole, sia possibile inibire o attenuare le inclinazioni autodistruttive (v. Wilmotte e altri, 1986, pp. 41-42; v. Pöhls, 1987, pp. 98-100). Il presupposto di questo orientamento è che in condizioni 'normali' (o anche: per persone 'normali') il suicidio non figuri tra le alternative di comportamento; ciò vuol dire che quando esso è messo in atto la decisione del soggetto non è stata in realtà libera, ma è maturata a seguito di condizionamenti di varia natura (v. Schmidtke, 1988, pp. 358-359).
L'assunzione metodologica è quella del "polideterminismo delle condotte autolesive", l'idea cioè che il suicidio dipenda tanto da fattori soggettivi (tipo di personalità, età, sesso, stato civile, ecc.) che da fattori extrasoggettivi (ambiente famigliare, condizioni di lavoro, ecc.: v. Cazzullo e altri, 1987, pp. 18, 109, 149; v. Holist, 1986, pp. 227-229). Occorre di conseguenza ricostruire l'ambiente sociale tipico dei soggetti a rischio, allo scopo di individuare quelle condizioni (interne o esterne) che sono state i fattori più probabili della condotta. Questi autori sono pertanto impegnati tanto nella ricostruzione dei casi con esito suicidario, quanto nelle indagini sull'influenza delle condizioni ambientali e sociali; non manca dunque l'analisi comparata del suicidio con altri fenomeni sociali, ma essa è circoscritta in genere alle situazioni ambientali proprie dei suicidi e dei soggetti considerati a rischio.Pur senza atteggiamenti polemici nei confronti del durkheimismo, e anzi con espliciti riconoscimenti nei confronti di talune analisi de Le suicide, è ugualmente palese la distanza dalla eziologia semplificata dell'approccio sociologico-statistico; anche quando sono richiamati dei fattori causali, l'indagine si arresta appunto all'analisi dei casi clinici e del loro specifico orizzonte sociale.
Tuttavia, con il sostanziale rifiuto di considerare 'normale' la scelta di chi rinuncia alla vita, queste ricerche mostrano a loro volta una continuità con quelle analisi psichiatriche che, a partire dagli studi di Esquirol ai primi dell'Ottocento, hanno visto nel suicidio l'esito di un disturbo mentale, attribuendo alla condotta un generalizzato, e dunque discutibile, marchio patologico. Così il suicidio è l'"espressione di un processo psicopatologico" (v. Tatarelli, 1992, p. 111), la "manifestazione di una personalità disturbata" (v. Cazzullo e altri, 1987, p. 18), dipendente da gravi problemi psichiatrici. Del resto solo con simili definizioni lo psichiatra intravede per sé una possibilità d'intervento; il suicidio-insania è infatti il suicidio pronosticabile, un evento che si può prevedere e impedire.Nemmeno in questo approccio la libertà del soggetto trova riconoscimento; essa è assente o quasi nel processo di formazione della condotta suicidaria, e dunque quest'ultima non può essere considerata un'azione normale, né il medico è autorizzato ad avere nei confronti della morte volontaria un'attenzione diversa da quella che l'etica professionale gli impone dinanzi alle malattie. Molti i problemi, di conseguenza. Il primo riguarda la definizione del suicidio: si tratta davvero d'una morte non voluta, tragicamente generata da un qualche disturbo mentale e quindi del tutto al di fuori del controllo della persona? Viene poi, appunto, la delicata questione degli interventi di natura medico-sanitaria sui soggetti considerati a rischio, sulla misura di questi e sugli eventuali pericoli d'una costruzione sociale di una identità malata. E ancor prima vi è la domanda di fondo su suicidio e libertà, sul senso che la libertà di non esserci conferisce alla condizione umana e sulle garanzie che essa deve (o non deve: dipende naturalmente dai punti di vista) ricevere.
Un problema comune a molte delle analisi considerate fin qui consiste sicuramente nella difficoltà di misurare la diffusione del suicidio nello spazio e nel tempo.Vi sono, come vedremo, differenze abbastanza significative tra i vari paesi, ma non si può escludere che qualche scostamento dipenda anche (o soprattutto) dall'accuratezza e/o dalla diversità dei metodi di registrazione e classificazione delle condotte suicidarie. Inoltre è ragionevole ritenere che tutti i dati attualmente disponibili siano generalmente sottostimati (per vari motivi: la cifra oscura sottratta alla conoscenza delle autorità pubbliche, le diverse classificazioni operate da queste ultime in conseguenza di errori, pressioni esterne, motivi di carattere legale o religioso, ecc.).
L'attendibilità è naturalmente ancora inferiore per il tentato suicidio (il cosiddetto para-suicidio), giacché in questi casi è più facile occultare il comportamento autolesivo. Ad ogni modo secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità per ogni suicidio vi sarebbero circa 10 tentativi; ma per alcuni autori il rapporto sarebbe ancora superiore.Adottando la proposta di classificazione di Cazzullo e altri (v., 1987, p. 23; per i dati si sono considerate anche le tabelle di Crepet e altri: v., 1992, pp. 1619), possiamo ripartire i paesi in tre grandi gruppi: a) paesi con un elevato tasso di suicidio (più di 25 suicidi per 100.000 abitanti): Ungheria (circa 45), Germania (43), Austria e Danimarca (28), Finlandia (27); b) paesi a tasso medio: Svizzera e Francia (23), Svezia (19), Stati Uniti e Canada (12), Olanda (11); c) paesi a tasso basso (meno di 10 per 100.000 abitanti): Irlanda (8), Italia (7/8), Spagna (5).Nel secondo dopoguerra, e in particolare nell'ultimo quarto di secolo, il fenomeno appare in aumento in quasi tutti i paesi (ma qui si ripropone, questa volta in positivo per così dire, il problema della registrazione del fenomeno: può essere infatti che la maggiore accuratezza delle statistiche sia in qualche misura responsabile della crescita del trend). Le variazioni più significative (confrontando i dati del 1960 e quelli del 1986: ibid., p. 20) riguardano l'Irlanda (+160%), la Norvegia (+120%), la Bulgaria (+87%), l'Ungheria (+81%), il Belgio (+63%), la Francia (+44%), la stessa Italia (+25%). Se si disaggregano questi dati per fasce d'età risulta che gli incrementi maggiori riguardano il suicidio giovanile (dai 15 ai 24 anni), con variazioni percentuali che in qualche caso (l'Irlanda, ad esempio) superano il 200% (v. Crepet e Florenzano, 1989, p. 54).
Per quanto riguarda il nostro paese, il tasso di suicidio dalla seconda metà dell'Ottocento risulta nel complesso abbastanza stabile intorno a valori, come detto, piuttosto bassi (circa 5 suicidi per 100.000 abitanti). Si possono riscontrare tuttavia due periodi caratterizzati da aumenti significativi: il primo tra l'inizio della prima guerra mondiale e l'inizio della seconda, e l'altro, come appena visto, negli anni a noi più vicini, in particolare dalla metà degli anni settanta sino a oggi (ibid., pp. 18-27). In entrambi i casi il tasso si è innalzato sino a sfiorare il valore 8/100.000. Su questi dati va osservato che l'ISTAT si serve di due diversi flussi informativi (rapporti di polizia/carabinieri, certificati di morte); il primo di questi, per sua natura meno accurato dell'altro, tende quasi certamente a sottostimare il fenomeno (v. Pavan e De Leo, 1988, pp. 4 e 10). Le regioni settentrionali sono quelle con il tasso più elevato (Val d'Aosta 20/100.000; Trentino Alto-Adige quasi 13), le regioni centrali e meridionali hanno valori più bassi (Lazio 2,5; Sicilia 3,5; Campania 3,6; Puglia 4,7: v. Crepet e Florenzano, 1989, pp. 28-29).
Ritornando alle statistiche internazionali, la frequenza del suicidio è quasi sempre direttamente proporzionale all'età; in particolare i valori più elevati si riscontrano dopo i 55 anni di età per gli uomini, e i 45 anni per le donne.
È prevalente comunque il suicidio degli uomini, sia pure secondo rapporti molto variabili con la frequenza della condotta nell'altro sesso: in Danimarca è di 1,7 a 1, in Italia di 2,5 a 1, in Finlandia di 3,8 a 1, in Polonia di 5 a 1 (v. Crepet e altri, 1992, p. 17). I tentativi di suicidio, per contro, sono di gran lunga più diffusi tra i più giovani (tra i 15 e i 24 anni). In questa fascia d'età i tentativi sfiorano in qualche caso il 40% del totale. Altro dato significativo è la prevalenza dei tentativi delle donne, a differenza di quanto avviene nei suicidi consumati.Per quanto riguarda i motivi di suicidio, le ricerche, e in particolare le indagini mirate sui soggetti che hanno sperimentato condotte autolesive, hanno rivelato, come abbiamo detto (v. il cap. precedente), una gamma praticamente infinita di condizioni esistenziali, caratterizzate da sofferenze più o meno gravi, malattie, difficoltà economiche, situazioni di disagio o di vergogna, ma anche convinzioni religiose, legami di comunità o di setta, pulsioni aggressive. E questa circostanza, la riconferma in definitiva della morte volontaria come espressione della libertà dell'individuo in tutti i suoi aspetti, dai più intensi ai più futili, dai più dolorosi ai più meschini, impone una valutazione dell'atto soprattutto da un punto di vista etico-normativo, quello cioè del rispetto dovuto alle decisioni dei singoli sulla loro vita e la loro morte. Al riguardo si sono già anticipate alcune considerazioni; dovremo riprenderle e approfondirle nel prossimo capitolo.
Purtuttavia nella spiegazione del fenomeno un dato importante emerge senz'altro dalle principali ricerche del dopoguerra: vale a dire l'esistenza d'una non trascurabile relazione tra suicidio e depressione. Ma anche in questo caso non sarà inutile sottolineare come non vi sia affatto accordo tra gli studiosi quanto alla concreta quantificazione dell'incidenza della depressione nei casi di suicidio: le ricerche imputano ai disturbi più gravi dell'umore percentuali molto diverse, da un minimo del 20% a un massimo dell'80%, del dato complessivo delle condotte suicidarie (v. Cazzullo e altri, 1987, pp. 93-99).
Normalità/negatività del suicidio, libertà/costrizione sono le questioni fondamentali sollevate dalle analisi sulla morte volontaria considerate in questo articolo. Il primo punto è propriamente quello della normalità 'sociologica' del suicidio, affermata in realtà dallo stesso Durkheim, ma poi, come s'è visto, immediatamente rimessa in discussione dallo stesso autore. Il fatto è che per l'approccio sociologico-statistico la negatività sociale della morte volontaria, la sua dimensione quasi deviante in quanto condotta generata da precise alterazioni dell'ambiente sociale, è un postulato irrinunciabile per poter adoperare il tasso dei suicidi come indicatore d'una situazione problematica. Se invece, come è in realtà ragionevole, la si considera un fenomeno normale di ogni organizzazione collettiva, è davvero incongruo vedervi il sintomo di precise patologie sociali.Con la questione della libertà è in discussione soprattutto la normalità biologica e psicologica dell'agente. Il problema è in parte indipendente dal primo, come affermato sempre da Durkheim. Senonché, nella storia dei rapporti tra scienze sociali e suicidio, è più che probabile che la definizione della morte volontaria come manifestazione d'una libertà alterata, diffusa soprattutto tra criminologi, medici e psichiatri, sia stata in qualche misura agevolata dalla difficile normalizzazione dell'atto come condotta socialmente legittima. (D'altra parte l'immagine del suicidio provocato da cause sociali ha comunque la conseguenza di escludere nell'atto la configurazione d'una volontà libera).
Non si tratta ovviamente di negare un legame con una qualche malattia mentale, e in particolare con quella situazione di sofferenza, vale a dire la depressione, che, come detto, emerge in molte vicende esistenziali con un esito suicidario. E tuttavia, sulla base della percezione più immediata della morte volontaria, del suo presentarsi come una morte anticipata e liberamente scelta dall'individuo, è doveroso chiedersi se, prima di accostarsi più da vicino al fenomeno, non sia intanto preliminarmente necessaria un'inversione della presunzione tradizionale che attribuisce al suicida un'alterazione delle inclinazioni naturali o delle normali facoltà intellettuali (la diagnosi probabilmente più rassicurante dinanzi alla morte che più inquieta e sconcerta). La comprensione e la valutazione del suicidio non possono prescindere insomma dalla questione, fondamentale nelle nostre società, del rispetto della libertà dell'individuo in tutte le sue manifestazioni. Se nelle dichiarazioni dei diritti la libertà della persona è considerata inviolabile o intangibile, il suicidio allora, come espressione estrema, ma proprio per questo particolarmente significativa, di questa libertà, non può non essere ricompreso tra le condotte protette da una simile garanzia.Parlare di un diritto al suicidio o di un diritto alla morte non ha solo il significato, pure importante, di una petizione di principio. Può servire anche (e forse soprattutto) a orientare la scienza e la medicina nella chiarificazione degli interventi possibili, dei doveri e dei limiti dinanzi al problema, grave e delicato, della prevenzione del suicidio, così come a quelli contigui dell'assistenza ai morenti e dell'eutanasia.
(V. anche Anomia; Controllo sociale; Devianza; Morte: bioetica).
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