taylorismo
Un sistema scientifico di produzione
Il taylorismo è un sistema di pianificazione scientifica del lavoro in fabbrica che prende il nome dal suo ideatore, l’ingegnere statunitense Frederick Taylor. Elaborata all’inizio del Novecento, la teoria di Taylor parte dalle considerazioni esposte dall’economista Adam Smith sugli enormi benefici economici derivanti dalla frammentazione in singole operazioni dei processi di produzione industriale
Frederick Taylor – nato a Germantown, Pennsylvania, nel 1856 e morto a Filadelfia nel 1915 – fu il primo a ipotizzare un’organizzazione scientifica del lavoro (OSL). Forte dell’esperienza diretta, maturata come operaio durante la prima gioventù, ebbe la possibilità di applicare sul campo le sue idee negli stabilimenti meccanici della Midvale steel company e della Bethlehem steel, dove era impiegato come dirigente responsabile della produzione aziendale.
Alla base di questi studi sperimentali c’era la convinzione che la produzione industriale dovesse puntare al massimo della resa con sforzo e spreco di tempo minimi. Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro (1911), Taylor parte dal presupposto che qualsiasi operazione del ciclo produttivo industriale può essere scomposta e studiata nei minimi particolari: è questo il compito dei manager che, sulla base delle verifiche empiriche, devono assegnare a ogni operaio una specifica mansione e stabilire in quanto tempo e come egli debba svolgerla.
Immaginiamo per esempio di essere un manager di un’officina meccanica, incaricato di applicare il modello taylorista. Prendiamo come campione un gruppo di 15÷20 operai – tutti con le stesse mansioni – e osserviamoli al lavoro. Di ogni operaio studiamo attentamente i movimenti che compie in successione, cronometrandone la durata. Pur svolgendo lo stesso lavoro, ognuno si muove in maniera diversa dagli altri. Il nostro compito sarà quello di eliminare tutti i movimenti che implicano una perdita di tempo e quelli inutili. Alla fine dell’analisi, abbiamo un modello del modo più rapido ed efficiente di eseguire quel lavoro.
Il principio tayloriano era one best way: di fronte a un problema c’è «un’unica soluzione valida». Questa soluzione costituisce lo standard che possiamo prescrivere agli operai. Prima di assegnare il lavoro, analizzeremo carattere, inclinazioni, indole e preferenze di ogni operaio, per affidare a ognuno il compito per il quale è più portato. Il personale dovrà essere spronato a impegnarsi e stimolato a migliorare sempre, soprattutto con incentivi economici.
Il primo a intuire le potenzialità del taylorismo fu lo statunitense Henry Ford che, nel 1913, introdusse nei suoi stabilimenti di automobili la catena di montaggio, in base alla quale, durante tutta la giornata lavorativa, gli operai dovevano ripetere all’infinito sempre gli stessi gesti. Ai lavoratori specializzati – figure ancora molto simili agli artigiani di bottega – subentrava in tal modo manodopera generica, impiegata in singoli passaggi della produzione industriale. Questa situazione era favorita dalla forte immigrazione e dalla conseguente abbondante disponibilità di manodopera.
Il taylorismo risultò essere altamente funzionale ai cambiamenti imposti dalla nascente società di massa, che chiedeva beni di consumo durevoli, in gran quantità e che costassero poco. Ma il prezzo da pagare in termini umani fu molto elevato: la ripetitività del lavoro provocava forti disturbi, sia fisici sia mentali. In certi periodi l’assenteismo per malattia toccava il 25% della forza-lavoro. Gli operai utilizzavano sempre e solo gli stessi muscoli – che sovraccaricavano eccessivamente–, mentre ne lasciavano altri inutilizzati – che si atrofizzavano. La ripetitività dei gesti provocava, inoltre, anche un senso di alienazione.
Gli scioperi contro l’applicazione del metodo scientifico nelle fabbriche furono numerosi e contribuirono alla nascita di un forte sindacato operaio. Oggi le mansioni ripetitive sono sempre più affidate a robot meccanici computerizzati e la manodopera è tornata, almeno in parte, a essere specializzata.